Kant, Immanuel
Filosofo (Königsberg, Prussia Orientale, od. Kaliningrad, 1724 - ivi 1804).
Di genitori pietisti, K. ricevette, specie dalla madre, una severa educazione etico-religiosa: frequentò il Collegium Fridericianum, diretto dal pastore F. A. Schultz, dove compì gli studi medi, e si iscrisse quindi all’università. Seguace dapprima del wolffiano Knutzen, critico della dottrina dell’armonia prestabilita e interessato a problemi scientifici, K. esordì con lo scritto Gedanken von der wahren Schätzung der lebendigen Kräfte (1747), tentando un accordo tra le posizioni della fisica cartesiana e il dinamismo leibniziano. Fino al 1754 i suoi studi vertono principalmente su questioni di geofisica ed è del 1755 l’opera maggiore sull’argomento, la Allgemeine Naturgeschichte und Theorie des Himmels (trad. it. Storia universale della natura e teoria del cielo) in cui è formulata, prima di Laplace, un’ipotesi analoga sull’origine del sistema solare. Dello stesso anno è anche lo scritto minore De igne, sui problemi della combustione e del calore. Andava intanto svolgendo un’attività didattica intensissima nei campi più disparati, tenendo corsi di matematica, fisica, logica, morale, geografia fisica e successivamente di antropologia, pedagogia, ecc. La sua attività speculativa si traduce in una serie di scritti che inquadrano il problema metafisico del rapporto tra le sostanze (Principiorum primorum cognitionis metaphysicae nova dilucidatio, 1755) e le sue conseguenze per le scienze fisiche (Monadologia physica, 1756; Neuer Lehrbegriff der Bewegung und Ruhe, 1758). Dopo il 1760, pur muovendosi ancora nell’ambito del wolffismo, gli spunti critici contro le teorie di Leibniz si infittiscono e i dubbi e le perplessità aumentano: sia che si cerchi di salvare l’argomento ontologico, pur negando all’esistenza il carattere di predicato (Der einzig mögliche Beweisgrund zu einer Demonstration des Daseins Gottes, 1763; trad. it. L’unico argomento possibile per una dimostrazione dell’esistenza di Dio) o si noti l’insufficienza della logica tradizionale (Die falsche Spitzfindigkeit der vier syllogistischen Figuren, 1762; trad. it. La falsa sottigliezza delle quattro figure sillogistiche) o si tenti di introdurre in filosofia strumenti di origine matematica (Versuch, den Begriff der negativen Grössen in die Weltweisheit einzuführen, 1763); sia che si indaghi sui fondamenti della teologia naturale e della morale, sottolineando il diverso modo di procedere della filosofia rispetto a una scienza tradizionalmente certa come la matematica (Untersuchung über die Deutlichkeit der Grundsätze der natürlichen Theologie und der Moral, 1764). Lo scetticismo kantiano si rivela infine chiaramente nel saggio del 1766 Träume eines Geistersehers erläutert durch Träume der Metaphysik (trad. it. I sogni di un visionario spiegati coi sogni della metafisica), in cui l’arbitrarietà del visionarismo di Swedenborg viene paragonata alle fantasticherie senza base dei metafisici contemporanei. Il breve scritto Vom ersten Grunde des Unterschiedes der Gegenden im Raume (1768) è una presa di posizione definitiva contro le teorie leibniziane sullo spazio, aprendo così la via a un’impostazione nuova del problema.
Nel 1770 K. inaugura il suo ordinariato all’univ. di Königsberg con la famosa dissertazione De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis (trad. it. La forma e i principi del mondo sensibile e del mondo intelligibile: dissertazione del 1770), che chiude il cosiddetto periodo precritico. Vi si trovano infatti espresse alcune delle tesi che verranno successivamente inglobate nella filosofia critica. Si è a lungo discusso sui motivi di questa svolta decisiva che spinge K. a incamminarsi sulla via del criticismo; sembra tuttavia problematico fornire una singola causa dell’evoluzione di K., data la complessa interazione dei vari fattori (le dottrine empiriste di Locke e, in special modo, di Hume; le posizioni critiche dei filosofi tedeschi contemporanei nei confronti della tradizione – Crusius, Johann Heinrich Lambert, Tetens; la consapevolezza delle antinomie in cui si era impigliato fino allora il suo pensiero, ecc.). Secondo la Dissertatio spazio e tempo rappresentano gli unici due principi del mondo sensibile, e vanno considerati non come dati reali, ma come intuizioni pure. Essi costituiscono al tempo stesso condizioni universali e necessarie, dunque a priori, della nostra esperienza sensibile. Qualsiasi esperienza quindi, in quanto possibile, dovrà disporsi in un contesto spazio-temporale; le sue caratteristiche formali saranno cioè predeterminate. Questo significa l’abbandono della tesi di Hume secondo la quale una conoscenza, per essere valida, deve essere fondata sull’esperienza e non può quindi in nessun caso rivestire carattere di necessità, carattere che discenderebbe esclusivamente da principi normativi che l’esperienza stessa non ci fornisce. Sulla base di questa concezione kantiana, appare immediatamente possibile la giustificazione della geometria come scienza pura; non altrettanto agevole si presenta invece la fondazione della fisica. Se spazio e tempo infatti sono le condizioni a priori del nostro modo di ‘ricevere’ gli oggetti, e in questo senso li condizionano, è problematico ammettere che anche il nostro modo di pensarli, che non è certo una creazione degli oggetti stessi, possa analogamente condizionarli. Viene così introdotta, con estrema nettezza, quella separazione, che sarà poi definitivamente sancita nella Kritik der reinen Vernunft (1781; trad. it. Critica della ragion pura ➔), tra una facoltà ricettiva, dunque passiva (la sensibilità), e una facoltà spontanea e attiva (l’intelletto). Affiora inoltre un’altra fondamentale posizione del pensiero kantiano: la distinzione tra ciò che è oggetto della nostra esperienza (fenomeno) e ciò che è per sé, indipendentemente da essa (cosa in sé), distinzione che giocherà un ruolo determinante nel sistema di K. e che può essere considerata una caratteristica ineliminabile del kantismo. L’indagine del ‘mondo intelligibile’ si avvolge dunque in gravi difficoltà. L’uso ‘reale’ dell’intelletto che K. sostiene, conduce infatti a elencare una serie di concetti con cui pensiamo i rapporti tra oggetti: possibilità, esistenza, necessità, sostanza, causa. Ma questi concetti non ci consentono di affermare nulla sull’effettiva esistenza degli oggetti; ‘pensiero’ qui non equivale a ‘conoscenza’ e spazio e tempo sono soltanto principi soggettivi. Nella chiusa della Dissertatio pare ritornare come unica soluzione il concetto, così discusso, di armonia prestabilita. Il problema della fondazione della fisica rimaneva in effetti irrisolto. Il decennio successivo, fino alla pubblicazione della prima edizione della prima Critica, vede K. impegnato in questa direzione. È un decennio in cui compaiono pochissimi scritti, ma gli inediti (Duisburger Nachlass e Lose Blätter) attestano un continuo lavorio di riflessione. Scompare il concetto di unità del mondo su cui K. si era soffermato nella Dissertatio e al suo posto compare la questione di un’unità dell’oggetto. I concetti puri già emersi in quest’opera diventano il punto di partenza per approntare quella tavola delle categorie (derivata da manuali di logica e di psicologia dell’epoca), come funzioni di unificazione dell’intelletto, che sarà alla base della nuova logica trascendentale. Il problema gnoseologico, dopo vari tentativi e oscillazioni, assume la sua forma definitiva e rigorosamente logica: «come sono possibili giudizi sintetici a priori?» (➔ analitico/sintetico, giudizio).
La Critica della ragion pura introduce questo nuovo concetto, accantonando la tradizionale opposizione di analitico e sintetico. Il piano su cui si muove l’indagine critica è quello trascendentale, cioè quello dell’indagine non sull’oggetto ma sul nostro modo di conoscerlo. L’Estetica trascendentale (➔) svolge la teoria delle forme pure dell’intuizione, già sistematizzata nello scritto del 1770: la parte originale è peraltro la Logica trascendentale, suddivisa a sua volta in Analitica e Dialettica. Nella prima parte dell’Analitica si delinea la struttura dell’intelletto, prendendo come base la logica tradizionale e la sua classificazione dei giudizi; il collegamento necessario istituito tra tavola dei giudizi (fondata sulla logica tradizionale) e tavola delle categorie permette a K. di elencare in maniera esaustiva le forme con cui l’intelletto unifica il molteplice sensibile. Esiste un unico ‘filo conduttore’ di ogni possibile forma di giudizio; l’unione della copula e del predicato effettuata nel giudizio corrisponde infatti alla funzione di unificazione rappresentata dalla categoria; è proprio questa corrispondenza che permette il passaggio tra le due tavole. Le categorie, secondo questa impostazione, possono essere soltanto le dodici seguenti, suddivise in quattro gruppi; quantità: unità, pluralità, totalità; qualità: realtà, negazione, limitazione; relazione: sostanza-accidente, causa-effetto, azione reciproca; modalità: possibilità, esistenza, necessità. Questa struttura dell’intelletto, stabilita una volta per tutte, sarà il fondamento di quella metafisica ‘immanente’ cui K. ha continuamente aspirato. Questa metafisica dovrebbe, nelle intenzioni di K., soddisfare due esigenze basilari: essere al tempo stesso una scienza, contrapponendosi all’arbitrio delle sistemazioni tradizionali, e fondare quella fisica newtoniana che per K. è il paradigma della scientificità e il punto di riferimento costante dei suoi interessi scientifici (alcuni studiosi hanno visto peraltro nella tavola delle categorie una chiara attestazione della circolarità del procedimento kantiano, inteso a modellare la struttura dell’intelletto secondo le esigenze di fondazione della fisica newtoniana). La metafisica dovrebbe porsi cioè come una scienza dell’intelletto e del suo necessario correlato, una natura possibile in generale (per il tentativo compiuto da K. di giungere a una sistematica in tal senso si vedano i Metaphysische Anfangsgründe der Naturwissenschaft, 1786; trad. it. Primi principi metafisici della scienza della natura). Rimane peraltro da risolvere, una volta fissata la tavola delle categorie, il problema della Dissertatio. In che senso la struttura dell’intelletto sarà anche la struttura della natura? È il punto centrale della cosiddetta deduzione trascendentale (➔), su cui K. si arrovellò a lungo e che risulta cronologicamente l’ultima parte della Critica (nella 2ª ed., pubblicata nel 1787, K. rimaneggiò ampiamente la deduzione, sopprimendone tutti quegli aspetti che potessero indurre a confondere la dimensione oggettiva del suo discorso sull’intelletto con quella psicologica). Il materiale offertoci dai sensi non può essere unificato in una unità meramente psicologica, puro accostamento di rappresentazioni (per associazione); questa unità di tipo empirico avrebbe infatti una semplice validità soggettiva. Ma l’oggetto, inteso come oggetto di conoscenza in senso rigoroso, non può certo coincidere con un materiale oggettivamente strutturato. L’unificazione deve dunque avvenire secondo le categorie, funzioni dell’intelletto, elementi di una struttura universalmente e oggettivamente valida. Ma la funzione unificatrice delle varie categorie si fonda a sua volta sull’attività unificatrice o sintetica dell’intelletto. Se l’esperienza deve, in quanto tale, essere esperienza per una coscienza, è necessario che essa si adegui a quella forma pura (perché assolutamente priva di contenuto) che rende possibile la coscienza o meglio la sua unità trascendentale. L’unità dell’oggetto rimanda quindi a questa attività originaria dell’intelletto («Io penso», o «unità sintetica originaria dell’appercezione»). Resta da determinare quali aspetti assuma il processo di unificazione in relazione alle varie categorie. Le unificazioni avvengono secondo regole che l’intelletto stesso determina (l’immaginazione, introdotta dapprima nella 1ª ed. come una terza facoltà accanto alla sensibilità e all’intelletto, svolge ora un ruolo subordinato). Si introduce qui la nozione di schema trascendentale: esso è una regola per cui il senso interno (il tempo) viene a determinarsi a seconda delle categorie. Se le categorie si applicano direttamente al tempo, esse si applicheranno dunque indirettamente a tutta l’esperienza, proprio perché l’esperienza non può non porsi nella forma del senso interno (anche le impressioni sensibili, che vengono condizionate dal senso esterno e collocate spazialmente, sono poi colte nella forma del senso interno). L’esperienza si costituisce quindi indirettamente con modalità determinate dalla struttura dell’intelletto che assume in conseguenza una funzione di legislatore («legislatore della natura»). K. passa poi a individuare le varie schematizzazioni delle categorie. Quantità e qualità si schematizzano nel numero e nel grado, mentre le categorie di relazione si schematizzano distintamente nella permanenza, successione e simultaneità; a quelle modali corrispondono gli schemi delle rappresentazioni della cosa in qualsiasi tempo, in un determinato tempo, in ogni tempo. Gli schemi mediano quindi tra intuizioni e categorie, permettendone l’applicazione all’esperienza; ne deriva la possibilità di stabilire alcuni «principi sintetici dell’intelletto puro» che sono rispettivamente gli assiomi dell’intuizione, le anticipazioni della percezione, le analogie dell’esperienza e i postulati del pensiero empirico in generale. Le analogie dell’esperienza, derivate dalla schematizzazione della categoria di relazione, enunciano i principi di permanenza della sostanza, di causalità e di eguaglianza tra azione e reazione, che sono i concetti base della scienza fisica del tempo. Nella Dialettica trascendentale K. si propone di giustificare il continuo riproporsi dell’esigenza metafisica e di esaminare la legittimità della metafisica stessa (intesa nel senso tradizionale, cioè come metafisica trascendente) in quanto fonte di conoscenza. Il fatto che le categorie valgano come strumenti conoscitivi nell’ambito di qualsiasi esperienza (che siano cioè applicabili alle intuizioni, sia pure, sia sensibili) ingenera inevitabilmente l’illusione che la loro sfera di applicazione possa indefinitamente estendersi, anche al di là dell’esperienza. Ne consegue l’affermarsi di discipline come la psicologia razionale, la cosmologia razionale e la teologia razionale. Proprio partendo dalle antinomie cui dà luogo la cosmologia razionale K. era dapprima approdato alla filosofia critica. Ora egli dimostra l’infondatezza delle pretese di queste discipline (pretese di dimostrare rispettivamente la sostanzialità, la semplicità, la personalità e l’immortalità dell’anima; di dimostrare proposizioni intorno all’Universo come totalità; di dimostrare l’esistenza di Dio). La ragione, come produttrice di idee, cioè di concetti cui non corrisponde un’intuizione, fallisce nei suoi scopi conoscitivi, ma se non può darsi un uso costitutivo di esse (che serva cioè a far conoscere l’oggetto), si darà peraltro un uso ‘regolativo’. Le idee della ragione serviranno cioè per indirizzare l’intelletto nelle sue conoscenze, ampliando sempre più l’ambito dei fenomeni sottoposti alla sua indagine.
La Critica della ragion pura, nel suo complesso, aveva affrontato e impostato in una prospettiva radicalmente nuova il problema gnoseologico. Alcune conclusioni della Dialettica trascendentale risultavano però di fondamentale importanza anche per quelle questioni morali di cui K. si era andato occupando già nel periodo precritico (si vedano le Beobachtungen über das Gefühl des Schönen und Erhabenen, 1764, trad. it. Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, e la scoperta della morale del sentimento di Rousseau e dei pensatori inglesi). Nella Grundlegung zur Metaphysik der Sitten (1785; trad. it. Fondamenti della metafisica dei costumi) K. delinea uno dei concetti base della sua etica, distinguendo tra due tipi di imperativi, l’imperativo categorico e l’imperativo ipotetico. L’imperativo categorico ha validità incondizionata e si distingue proprio per questo da un normale imperativo ipotetico, che acquista efficacia solo a certe condizioni (se cioè colui che vi si assoggetta è intenzionato a perseguire certi scopi). Si pone ora il problema di una fondazione dell’imperativo categorico; come tale l’imperativo categorico non rimanda peraltro ad alcun precedente fondamento da cui ricavi la sua validità. Esso costituisce per noi un dato immediato, anche se non si tratta in questo caso di un dato della sensibilità; esso è un ‘fatto della ragione’. Qualsiasi morale che tenti di fondare l’imperativo su una caratteristica particolare della natura umana non potrà quindi che ricadere nell’ambito dell’etica tradizionale, senza attingere mai un imperativo incondizionatamente valido. È necessario ora determinare le condizioni in cui la volontà individuale si assoggetta alla legge morale; il presupposto essenziale è la libertà di questa volontà, libertà che le permette di non sottostare necessariamente a quelle inclinazioni sensibili che la natura umana comporta e di sottrarsi quindi a quelle leggi che valgono nell’ambito di una esperienza concepita da un punto di vista esclusivamente teoretico. Se la volontà deve determinarsi secondo un imperativo categorico, cadrà la possibilità di fare riferimento a qualsivoglia contenuto come fonte di determinazione e rimarrà dunque da prendere in considerazione solo la forma della legge nella sua universalità, cioè nella sua incondizionata validità per qualunque soggetto. La volontà morale dovrà quindi essere pienamente autonoma, perseguendo il bene di per sé, prescindendo da qualsiasi sollecitazione contenutistica; è l’intenzione buona che qualifica l’agire morale, non il fine che esso realizza. L’unico valore morale diventa dunque il ‘dovere per il dovere’. Se l’imperativo morale, in quanto puramente formale, non prescrive contenuti specifici all’azione, ciò non toglie che determinati fini non risultino compatibili con una legge morale che pretende a universale validità. Nella Metaphysik der Sitten (1797; trad. it. Metafisica dei costumi) K. cercherà di individuare quei fini che il soggetto deve volere perché in accordo con la forma della legge morale. Si tratta sostanzialmente di quei fini che riguardano la propria perfezione e nello stesso tempo la felicità degli altri. Nel mondo dell’esperienza, dove vige il determinismo, il merito spesso non corrisponde alla felicità; da un’azione morale, cioè, e come tale meritoria, può di fatto non derivare alcuna felicità. Se la legge morale deve peraltro valere, è necessaria un’adeguazione tra merito e felicità; ne segue la postulazione dell’esistenza di un essere onnipotente (Dio), che possa, proprio perché non sottoposto a limitazioni, effettuare questa adeguazione; ne segue inoltre, come ulteriore postulato, al fine di consentire un’indefinita perfettibilità, l’immortalità dell’anima. Sono questi i cosiddetti postulati della ragion pratica già articolatamente trattati da K. nella sua seconda critica (Kritik der praktischen Vernunft, 1786; trad. it. Critica della ragion pratica) (➔). È proprio infatti della natura finita dell’uomo il dover continuamente ostacolare le inclinazioni sensibili per permettere l’affermazione della volontà morale; compiere spontaneamente il bene non è possibile per nessuna volontà finita (impossibilitata quindi a raggiungere quella santità che è propria solo della divinità). Quei concetti della metafisica tradizionale che K. aveva bandito sul piano teoretico (libertà, immortalità dell’anima, esistenza di Dio) vengono recuperati sul piano della ragione pratica. L’esistenza di Dio può essere provata dunque solo moralmente. In stretta connessione con le sue concezioni etiche K. ha successivamente svolto una filosofia della storia (Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Ansicht, 1784, trad. it. Idee di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico; Was ist Aufklärung?, 1784, trad. it. Che cos’è l’Illuminismo?; Zum ewigen Frieden, 1795, trad. it. Per una pace perpetua), dove si assume come presupposto interpretativo la possibilità di un progresso che abbia come sua caratteristica principale il massimo potenziamento della libertà individuale; una pedagogia (Über Pädagogik, a cura di F. Th. Rink, 1803; trad. it. La pedagogia) e un’antropologia (Anthropologie in pragmatischer Hinsicht, 1798; trad. it. Antropologia pragmatica). Che la sua dottrina morale sussuma qualunque esigenza religiosa appare chiaro dalle tesi sostenute da K. nella celebre opera, dapprima vietata sotto Federico Guglielmo II, Die Religion innerhalb der Grenzen der blossen Vernunft (1793; trad. it. La religione entro i limiti della sola ragione); in questa prospettiva la religione diviene semplice strumento per il raggiungimento dei principi morali e il culto è svalutato come inadeguato a quella religiosità strettamente razionale che K. assume come ideale.
Rimanevano esclusi dalla considerazione critica di K. una serie di problemi che la terza e ultima critica, la Kritik der Urteilskraft (1790; trad. it. Critica del giudizio) (➔), si propone di affrontare (opera, per i suoi temi speculativi, particolarmente cara ai romantici). Una ‘natura possibile in generale’ era il necessario correlato di quella struttura dell’intelletto che K. aveva indagato nell’Analitica trascendentale; risultava peraltro difficoltoso individuare i rapporti di singole scienze, nelle loro caratteristiche particolari e nel loro specifico modo di operare, con quella scienza tutta a priori che K. era andato delineando. L’unità dell’organismo appariva, nell’ambito dei corpi organici, un principio reale di strutturazione, contrapposto a quei principi formali con cui l’intelletto pretenderebbe di organizzare il dato. Analogamente nel caso dell’opera d’arte, il suo configurarsi unitario sembrava dovuto a un principio immanente piuttosto che a un’operazione intellettuale, apparentemente estrinseca. K. cerca di risolvere i peculiari problemi relativi alla natura e all’arte introducendo la distinzione tra giudizio determinante e giudizio riflettente. Nel primo caso è data esplicitamente una regola mediante la quale il particolare viene sussunto sotto l’universale; nel secondo, l’assenza di una regola esplicita permette invece la ‘riflessione’ sul particolare. Non esiste, per es., criterio alcuno, intersoggettivamente valido, che valga a distinguere il bello dal brutto. Il giudizio estetico non rimane tuttavia puramente soggettivo, dato che può essere fondato sul senso di piacere o dispiacere che deriva dall’oggetto (piacere o dispiacere particolare, provato cioè in presenza non di una qualsiasi sollecitazione di origine empirica, ma in presenza della forma sensibile dell’oggetto, adeguata alle esigenze a priori dell’intelletto). In questi casi l’oggetto dovrà piacere, e il giudizio pretenderà quindi a una sua universalità e necessità, pur non obbedendo l’opera d’arte ad alcuna finalità prestabilita. La facoltà del giudizio così qualificato è il gusto, mentre la facoltà di produrre oggetti conformi alle esigenze del giudizio estetico è il genio. Al sentimento del bello (‘bello’ come esibizione di un ‘concetto indefinito dell’intelletto’) è connesso il sentimento del sublime (‘sublime’ come ‘concetto indefinito della ragione’), che rimanda alla sfera morale, di cui, d’altra parte, anche la bellezza è un simbolo. Per quanto riguarda l’organismo, K. sottolinea l’esigenza di una considerazione finalistica dell’oggetto, per cui ogni elemento è reciprocamente scopo e mezzo e il tutto non equivale a una semplice somma delle parti, ma, al contrario, ne determina l’esistenza secondo una finalità interna (contrapposta a quella finalità presupposta o esterna che caratterizza una struttura meccanica). K. aveva così tentato di riportare alle leggi dell’intelletto anche quelle leggi particolari che non venivano direttamente determinate dalle leggi generali della natura, oggetto di considerazione nell’ambito della problematica della prima critica. La fondazione risultava ora peraltro nient’affatto oggettiva, pur spiegando l’esigenza insopprimibile, ma soggettiva, di ridurre la natura a unità. L’esistenza di una prima introduzione alla Critica del giudizio, poi sostituita, rivela la difficoltà del problema. K. si adoperò negli ultimi anni della sua vita a tentarne la soluzione, come risulta dai fascicoli dell’Opus postumum (pubblicato in edizione definitiva soltanto nel 1938; trad. it.); assumendo come principio direttivo l’idea di un’unità dell’esperienza, K. pretende di classificare a priori anche quelle forze che si possono cogliere solo empiricamente, costruendo così, in anticipo sull’esperienza, anche la fisica vera e propria. Negli ultimi anni della vita di K. uscirono, oltre alla già citata Über Pädagogik, anche altre opere tratte dalle sue lezioni (Logik, a cura di G. B. Jäsche, 1800, trad. it. Logica; Physische Geographie, a cura di F. Th. Rink, 1801-05). Postume uscirono la Philosophische Religionslehre (trad. it. Lezioni di filosofia della religione) e le Vorlesungen über die Metaphysik (a cura di K. H. L. Pölitz, rispettivamente nel 1817 e nel 1821).
Superato un periodo di violenti contrasti (si veda la recensione sfavorevole di Ch. Garve alla 1ª ed. della Critica della ragion pura: K. ritenne necessario chiarire gli equivoci che l’opera aveva suscitato nello scritto Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik, die als Wissenschaft wird auftreten können, 1783; trad. it. Prolegomeni ad ogni metafisica futura che vorrà presentarsi come scienza) il pensiero di K. si era andato decisamente imponendo nell’ambiente filosofico tedesco. Se tuttavia gli riuscì abbastanza agevole difendersi dai reiterati attacchi dei pensatori ancorati alla tradizione, più difficile riuscì a K. fronteggiare con uguale successo le numerose critiche che assumevano come punto di partenza il suo stesso sistema. Già la polemica di Jacobi contro il concetto di cosa in sé apriva le porte alle tesi idealistiche, colpendo il sistema in un punto vitale; e i tentativi dei vari filosofi post-kantiani (per es., di Reinhold, Beck, Schulze, Solomon Maimon, ecc.) di riesporlo coerentemente o di riformularlo non riuscivano che a individuarne ancor più chiaramente le difficoltà o ad aprire nuove prospettive teoriche. La filosofia di K., a parte gli esiti idealistici, fu comunque il punto di riferimento costante dei pensatori successivi (Herbart, Schopenhauer, Fries, Beneke, ecc.) e le sue implicazioni epistemologiche influenzarono a fondo gli ambienti scientifici tedeschi (si pensi alle suggestioni ‘kantiane’ dell’epistemologia di Helmholtz). In sede filosofica, nella seconda metà dell’Ottocento l’esigenza di un deciso ritorno a K., al di là delle unilaterali interpretazioni idealistiche, si faceva più viva, fino a dare vita a quella corrente di pensiero, detta appunto neokantismo (➔), che ebbe i suoi maggiori esponenti in Cohen, Natorp e Cassirer (ma subì nettamente l’influenza di K. anche la ‘filosofia dei valori’ di Windelband e Rickert). Parallelamente a questi esiti teoretico-speculativi si sviluppò in Germania una tradizione di studi kantiani, che tendeva a fornire una spiegazione critica del testo; sorgeva una vera e propria Kantsphilologie (i cui principali rappresentanti furono B. Erdmann, Adickes e Vaihinger e il cui organo ufficiale fu la rivista Kantstudien, fondata nel 1896) e si moltiplicavano anche all’estero (Gran Bretagna, Francia, Italia) i saggi e i contributi, a riprova di un sempre crescente interesse storico e teorico-storico.
Nel citato trattatello Storia universale della natura e teoria del cielo, K. tentò di spiegare per mezzo della legge di gravitazione i successivi stadi di evoluzione dell’intero Universo, e in partic. del sistema solare, supponendolo derivato da una grande massa caotica di gas e polvere cosmica priva di moto, nella quale le parti più condensate dovettero pian piano attrarre le particelle meno dense e cagionare con ciò un primo movimento. Questi moti in direzioni diversissime avrebbero originato frequenti collisioni, le quali avrebbero causato moti rotatori dei centri più condensati. Dal centro di attrazione – già in moto sufficientemente rapido – si sarebbero staccate alcune masse di gas (i pianeti), e da queste, ancora allo stato gassoso, alcune masse che avrebbero dato origine ai satelliti. Di tale meccanismo fu formulata una teoria matematica a opera di Laplace, onde l’ipotesi anzidetta è anche nota come ipotesi di K.-Laplace.
Biografia