Incentivi economici
La teoria economica assume che i soggetti siano razionali e che le loro azioni siano sensibili agli stimoli economici. Ne consegue che per indurre un determinato comportamento occorre offrire un adeguato incentivo economico. Compito della teoria economica è individuare quei meccanismi che inducono gli agenti a realizzare gli obiettivi desiderati sia dalla società, quale l'allocazione efficiente delle risorse, sia dal privato, quale la realizzazione di un determinato progetto al minimo costo. In alcuni casi le regole che i vari agenti devono seguire per realizzare certi obiettivi sono abbastanza semplici. La regola dell'uguaglianza tra prezzo e costo marginale consente, in particolari circostanze, alle imprese che massimizzano il proprio profitto di realizzare anche un'efficiente allocazione delle risorse. In altri casi le regole sono più complesse o più difficili da individuare. I singoli agenti, seguendo comportamenti volti alla massimizzazione della propria utilità, possono infatti entrare in contrasto con gli obiettivi e gli interessi delle organizzazioni cui appartengono (ad esempio l'impresa), o della controparte interessata a quella specifica transazione (come nel rapporto fra assicurato e compagnia di assicurazione o nel rapporto fra subfornitore e committente), o più in generale della società nel suo complesso. In tutti questi casi si pone il problema di individuare schemi di incentivi tali che gli agenti, nel perseguire il proprio interesse, raggiungano gli obiettivi desiderati dall'organizzazione, dalla controparte, dallo Stato.
La scelta dello schema di incentivi ottimale dipende dal contesto considerato. I principali elementi che influiscono sulle caratteristiche di tale schema sono: l'osservabilità dell'azione dell'agente da parte della controparte; l'esistenza di asimmetria delle informazioni fra le parti; la presenza di incertezza.Il caso più semplice è quello in cui la funzione comportamentale dell'agente è conosciuta perfettamente e inoltre l'azione dell'agente è perfettamente osservabile. È questo il contesto cui si riferisce gran parte della letteratura sugli incentivi concessi dallo Stato ai privati.
Nella prima parte di questo articolo (capp. 2-8) si esaminerà anzitutto la tipologia degli incentivi utilizzati in vari paesi dalla Comunità Europea e successivamente, con maggior dettaglio, gli incentivi finalizzati a promuovere gli investimenti, lo sviluppo regionale e l'occupazione.
Nella seconda parte (capp. 9-12) si analizzeranno gli schemi di incentivi che si adottano in situazioni di asimmetria informativa e di non perfetta osservabilità dell'azione degli agenti. In particolare sarà considerato il caso in cui lo Stato vuole ottenere la realizzazione di un progetto con determinati standard qualitativi al minimo costo.
Nei paesi industrializzati viene offerta una vasta gamma di incentivi, spesso con l'obiettivo di migliorare l'allocazione delle risorse rispetto a quella determinata dal libero funzionamento del mercato. In altri casi gli incentivi sono concessi per promuovere le produzioni di un paese rispetto a quelle dei paesi concorrenti. I trattati internazionali definiscono le regole da osservare per evitare guerre commerciali scatenate da sistemi di incentivi sempre più favorevoli. Gli articoli 92 e 93 del Trattato CEE disciplinano la normativa comunitaria in materia di aiuti dello Stato. Il principio cui si ispira questa regolamentazione è che il regime di aiuti deve avvenire nel rispetto delle regole comunitarie in materia di libera concorrenza. Il paragrafo 1 dell'articolo 92 del Trattato CEE stabilisce che "sono incompatibili con il mercato comune, nella misura in cui incidono sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma, che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza".
Il concetto di aiuto è più ampio di quello di incentivo, in quanto comprende tutte le misure atte ad avvantaggiare certe imprese nel gioco della concorrenza (ad esempio incentivi reali, riserva di fornitura). Il principio di incompatibilità degli aiuti statali non è assoluto e il paragrafo 3 dell'art. 92 individua quattro categorie di aiuti compatibili con il mercato comune: gli aiuti destinati a favorire lo sviluppo economico delle regioni dove il tenore di vita sia anormalmente basso, oppure si registri una grave forma di sottoccupazione; gli aiuti destinati a promuovere la realizzazione di un importante progetto europeo oppure a porre rimedio a un grave turbamento dell'economia; gli aiuti destinati ad agevolare lo sviluppo di talune attività o di talune regioni economiche, sempre che non alterino le condizioni degli scambi in misura contraria al comune interesse; altre categorie di aiuti, determinate con decisione del Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata su proposta della Commissione. La gamma degli incentivi economici che possono essere concessi dallo Stato è abbastanza ampia. Il problema è quello di riuscire a distinguere i casi in cui questi servono a migliorare l'allocazione delle risorse dai casi in cui essi sono solo una misura protezionistica. Descriviamo brevemente la tipologia degli incentivi economici concessi dallo Stato.
Gli incentivi possono essere raggruppati innanzitutto in relazione alle finalità. Man mano che nelle moderne economie si è ampliato l'intervento dello Stato, gli incentivi sono stati utilizzati per favorire il raggiungimento di una gamma sempre maggiore di finalità. Gli incentivi volti a stimolare gli investimenti, l'occupazione, la ricerca e lo sviluppo sono indirizzati essenzialmente alle imprese. Essi possono venire utilizzati non solo per stimolare ma anche per ridurre l'attività produttiva, come è accaduto nel settore dell'acciaio o in agricoltura in presenza di un eccesso di capacità produttiva. In tal caso l'incentivo deve essere erogato in proporzione alla riduzione della capacità produttiva richiesta alle imprese. Infine vi sono incentivi concessi per finalità quali mobilità del lavoro, risparmio energetico, difesa ambientale, ecc.
Nell'ambito di queste finalità occorre poi distinguere gli incentivi generali, cioè riguardanti le imprese appartenenti a tutti i settori o regioni, e gli incentivi specifici, che interessano gruppi ristretti di settori e aree territoriali; si possono avere quindi incentivi a finalità settoriale, per certi settori produttivi o categorie di imprese, e incentivi a carattere regionale.
Oltre che in base alle finalità, gli incentivi si possono distinguere in incentivi a particolari fattori (ad esempio capitale e lavoro) e incentivi alla produzione. I primi poi si possono suddividere in due categorie a seconda che comportino un esborso di denaro da parte del governo (incentivi finanziari) o la rinuncia del governo a futuri pagamenti da parte dell'impresa (incentivi fiscali). Della prima categoria fanno parte gli incentivi in conto capitale, i finanziamenti a tassi agevolati, i premi per unità di lavoro occupata. Alla seconda categoria invece appartengono il credito di imposta, l'ammortamento accelerato, la fiscalizzazione degli oneri sociali e particolari agevolazioni tariffarie concernenti i trasporti, l'elettricità, ecc.
Nella tab. I si è indicata, con riferimento ai paesi della CEE, la distribuzione dell'ammontare degli incentivi in base agli strumenti utilizzati; nella tab. II è riportata la distribuzione dell'ammontare degli incentivi in base alle finalità. Dalla tab. II risulta che gli aiuti al settore manifatturiero con obiettivi orizzontali (vale a dire non finalizzati a specifici settori o regioni) presentano, a livello comunitario, il maggior peso, raggiungendo la quota del 41%. Questa percentuale è in Belgio del 70% e nei Paesi Bassi dell'81%; in Danimarca del 91%, in Francia del 52%, in Portogallo del 71%, del 34% in Italia.
Tra gli obiettivi orizzontali di maggior rilievo a livello comunitario sono l'attività di ricerca e sviluppo (11%), le piccole e medie imprese (9%), il commercio/esportazione (11%) e gli investimenti di carattere generale (5%). Gli aiuti destinati all'ambiente (1%) e al risparmio di energia (1%) sono invece poco significativi.
Gli aiuti regionali hanno il peso maggiore in Germania (61%), Lussemburgo (56%), Italia (55%).
La maggior parte degli incentivi utilizzati dallo Stato si basa su funzioni di comportamento dell'agente riconducibili alla teoria dell'impresa o del consumatore. Ipotizzando la perfetta osservabilità del comportamento dell'agente rappresentativo e dei risultati della sua azione, si individuano schemi di incentivi volti a indurre gli agenti a comportamenti che siano coerenti con gli obiettivi che lo Stato si prefigge. La scelta della tipologia di incentivi ottimali può, idealmente, essere divisa in due stadi. Nel primo stadio si costruisce la funzione di comportamento dell'agente rappresentativo, in funzione degli incentivi. Nel caso siano soddisfatte particolari condizioni, sarà possibile determinare la relazione fra il valore ottimale di y, cioè la variabile (investimenti, occupazione, ricerca e sviluppo) alla quale lo Stato è interessato, e gli strumenti di incentivazione fiscale e finanziaria.
Nel secondo stadio, noto il comportamento dell'agente rappresentativo, lo Stato, dato il proprio vincolo di bilancio, cercherà di scegliere la combinazione di incentivi che massimizza la propria funzione obiettivo M=M(y).
Non sempre la scelta degli incentivi avviene seguendo questa logica; molto spesso ci si limita a quello che abbiamo indicato come primo stadio, e la scelta della combinazione degli incentivi viene fatta in base a considerazioni più generali. È questo il caso che andremo a esaminare, discutendo degli incentivi agli investimenti.
Gli incentivi agli investimenti costituiscono un'interessante applicazione del metodo appena descritto. Il modello di riferimento per l'analisi degli effetti della politica degli incentivi sugli investimenti è il modello neoclassico di Jorgenson del 1963. Tale analisi è limitata a quello che abbiamo chiamato primo stadio. Dalla teoria neoclassica dell'impresa sappiamo che una diminuzione del prezzo del capitale rispetto a quello del lavoro incentiva l'utilizzo di tecniche più capitalistiche, aumentando la quantità desiderata di capitale. Una politica che voglia stimolare gli investimenti deve quindi ridurre il prezzo del capitale o, come viene chiamato, il 'costo per l'uso del capitale'. Consideriamo un'impresa rappresentativa i cui profitti siano espressi da:
π=pF(K, L)-wL-cK, (1)
dove w è il salario; c è il costo dei servizi del capitale; L è il lavoro; K è il capitale; F (K, L) è la funzione di produzione.
Dalla condizione di massimizzazione della (1), se le funzioni rispettano le normali proprietà, si ricava la relazione tra lo stock di capitale desiderato, K*, il costo dei servizi del capitale, c, e il livello della produzione, Y:
K*=g(c, Y) (2)
Al diminuire del costo del servizio del capitale aumenta il livello desiderato di capitale. Una politica che voglia stimolare gli investimenti deve quindi ridurre il valore di c.
Per conoscere l'espressione del costo del servizio del capitale, ipotizziamo che l'impresa acquisti una unità di capitale al prezzo q indebitandosi a un tasso di interesse r. Ogni anno l'impresa dovrà pagare interessi pari a rq. Assumendo un tasso di ammortamento fisico pari a d, avremo che il capitale si riduce annualmente di una quantità pari a d. Per ricostituire l'unità di capitale ogni anno dovrà essere spesa una somma pari a qd. Il costo relativo all'acquisizione e alla ricostituzione di una unità di capitale sarà annualmente pari a q(r+d). Il ricavo marginale derivante dall'avere in esercizio una unità in più di capitale è dato dal prodotto della produttività marginale del capitale, cioè della quantità addizionale di prodotto che si può ottenere usando una unità aggiuntiva di capitale, per il prezzo p del prodotto. L'impresa acquisterà ulteriori unità di capitale fino a che il prodotto marginale eguaglia il valore del costo per l'unità addizionale. La condizione di equilibrio può dunque scriversi:
formula (3)
Il secondo membro della (3) esprime il costo derivante dall'uso di una unità di capitale addizionale ed è noto come 'costo per l'uso del capitale'. Vediamo come si modifica questa espressione in un mondo in cui lo Stato influenza l'attività economica attraverso strumenti fiscali e finanziari.
Assumiamo che: a) sul reddito imponibile gravi un'imposta proporzionale secondo un'aliquota u; b) una quota z dell'ammortamento fisico e una quota s delle spese in conto interesse siano deducibili dal reddito imponibile; c) sia possibile dedurre dalle imposte una quota α della spesa in conto capitale sostenuta in ciascun anno, cioè αqd (credito d'imposta) e/o che lo Stato contribuisca con una sovvenzione proporzionale, secondo un coefficiente k, alla spesa di investimento sostenuta (contributo in conto capitale); queste due voci si aggiungono al ricavo annuale ottenuto dall'impresa; d) lo Stato rimborsi annualmente una quota m degli interessi pagati; anche tale somma è una voce che aumenta il ricavo annuale dell'impresa.
Dalla condizione secondo cui all'impresa converrà investire fino a che l'incremento del ricavo eguaglia il costo dell'investimento addizionale si ottiene la seguente espressione del costo per l'uso del capitale:
formula. (4)
L'aspetto interessante della relazione (4) è che essa indica che un certo valore di c può essere ottenuto attraverso combinazioni alternative dei parametri u, z, k, d, s, che corrispondono ai vari strumenti fiscali e finanziari. In un mondo caratterizzato da perfetto funzionamento dei mercati (così come ipotizzato dalla teoria standard dell'impresa), a parità di valore c, l'impresa sarà indifferente alla particolare combinazione di strumenti. Per quanto riguarda lo Stato il problema sarà scegliere quella combinazione che consenta di ottenere il dato livello di c con la minor distorsione delle risorse. Se i mercati non sono perfetti, l'equazione (2) non fornisce una corretta descrizione del comportamento dell'impresa rappresentativa e quindi le diverse combinazioni degli incentivi potranno avere un'efficacia differente nello stimolare gli investimenti. Una breve discussione dei vari strumenti considerati ci permetterà di approfondire questo aspetto.
Secondo la teoria economica un'imposta sui profitti 'puri', cioè su quei profitti che derivano dalla pura attività imprenditoriale, non influenza il costo del capitale né il livello degli investimenti. Questo risulta chiaramente dalla (4) allorché si ipotizza: a) assenza di credito di imposta e di contributo in conto capitale; b) deducibilità fiscale del totale degli interessi; c) coincidenza dell'ammortamento fiscale con quello fisico. Quando α=0, s=1, z=1 e m=0, l'aliquota sui profitti scompare dall'espressione (4); si ottengono risultati diversi se gli interessi non sono totalmente deducibili dalla base imponibile, o se le varie fonti di finanziamento (autofinanziamento, emissioni azionarie e obbligazionarie) sono soggette a differenti forme di tassazione. Numerosi lavori empirici indicano, d'altro canto, che variabili come il cash flow, il cui livello è influenzato dall'aliquota dei profitti, hanno una rilevanza molto maggiore del costo del capitale nel determinare il livello degli investimenti (v. Clark, 1979). Per imprese che fronteggiano mercati imperfetti dei capitali, vi potrà essere una divergenza fra costo dei finanziamenti esterni e interni, ad esempio per problemi di asimmetria informativa (v. Greenwald e Stiglitz, 1986). In tal caso diviene rilevante valutare gli effetti dell'aliquota media di imposta sul cash flow delle imprese (v. Fazzari e altri, 1988; v. Chamberlain e Gordon, 1989).
Vi è un ulteriore problema che nasce dall'esistenza dei mercati imperfetti. Se consideriamo imprese eterogenee, gli effetti degli incentivi sulla variabile desiderata potranno essere diversi a seconda del tipo di impresa considerata, e questo ha importanti implicazioni per una efficiente politica economica. Una riduzione dell'aliquota di imposta ha effetti differenti a seconda che l'impresa appartenga a un settore in crescita, dove i fondi interni tendono a eccedere i profitti, o a un settore maturo, dove i profitti eccedono gli investimenti. Essa stimolerà gli investimenti di imprese che sono soggette a vincoli finanziari, mentre attribuirà una rendita alle imprese già presenti sul mercato con un proprio stock di capitale, e avrà limitati effetti indiretti sulle imprese che operano in un mercato perfetto dei capitali. Questo problema è rilevante allorché si ricorre a una riduzione dell'aliquota dei profitti per favorire il processo di accumulazione nelle regioni meno sviluppate. In questo caso l'efficacia di tale strumento è limitata alle imprese che godono di livelli di profitto sufficientemente elevati. In quanto condizionato al raggiungimento di alti tassi di profitto, questo incentivo non si presta a essere utilizzato da imprese che hanno profitti modesti o addirittura negativi. Nei primi anni di vita del progetto, alcune imprese realizzano profitti bassi, se non negativi, a causa delle difficoltà di ambientamento. Tali imprese non beneficerebbero di alcun aiuto proprio negli anni di maggior bisogno. È probabile dunque che questo tipo di incentivo abbia effetti positivi su imprese di grandi dimensioni; saranno invece minime le possibilità di influenzare progetti di investimenti in nuove attività che presentino un alto coefficiente di rischio, o progetti di piccole e medie imprese per le quali la probabilità di ottenere elevati tassi di profitto nei primi anni di vita sia bassa.
Uno dei vantaggi di una riduzione dell'imposta sui profitti è che essa è più neutrale di altri incentivi finanziari per quanto riguarda l'agevolazione di un particolare fattore.
La possibilità di dedurre fiscalmente le spese per macchinari e impianti in misura più elevata delle quote di ammortamento, relative al deterioramento fisico delle attività, dà vita all'ammortamento accelerato. Il vantaggio di questo incentivo è che esso permette di posporre il pagamento di imposte rispetto a quanto previsto dalle normali procedure di ammortamento. La differenza fra il valore attuale dei pagamenti futuri di imposte, previsti dalla procedura normale, e quello consentito dall'ammortamento accelerato fornisce la misura del risparmio connesso a questo tipo di agevolazione. In altre parole il valore dell'incentivo dipende dai guadagni che si possono realizzare con i fondi il cui pagamento è stato posposto. La possibilità di fruire di tale incentivo dipende dalla capacità dell'impresa di ottenere nei primi anni di vita dell'investimento profitti sufficientemente elevati. L'ammortamento accelerato viene utilizzato per finalità di carattere sia generale che specifico come aiuti settoriali e regionali. I limiti di tale incentivo sono analoghi a quelli evidenziati nella disamina sulla riduzione dell'aliquota d'imposta.
Per ragioni espositive l'ammortamento accelerato non è stato incorporato nella formula (4); si dimostra tuttavia facilmente che al crescere del valore di questa agevolazione si riduce il costo per l'uso del capitale c.
Una particolare forma di ammortamento accelerato per fini di sviluppo regionale è quella che prevede la deducibilità delle spese di investimento effettuate nelle aree depresse dai profitti realizzati nelle aree avanzate. Ad esempio un'impresa che realizza un profitto pari a 100 nelle aree avanzate e investe 50 in quelle depresse potrà ridurre la base imponibile di 50. Assumendo un'aliquota fiscale del 47%, il valore di questo incentivo sarà pari a 23,5. Per un'impresa che realizza profitti esso sarà equivalente a un contributo di 23,5. Ovviamente l'effetto di questo incentivo sarà quello di ridurre il costo del servizio del capitale.
Il credito d'imposta sugli investimenti permette alle imprese di detrarre ogni anno dalle imposte dovute una certa frazione degli investimenti. Se il credito d'imposta è il 15% e gli investimenti effettuati nell'anno sono pari a 100 milioni, l'impresa potrà dedurre dalle imposte 15 milioni.
Per un'impresa che gode di profitti tassabili il credito d'imposta è equivalente a un contributo in conto capitale di 15 lire su 100. Così come l'ammortamento accelerato, il credito d'imposta riduce il costo per l'uso del capitale e stimola gli investimenti. Come strumento di politica regionale il credito d'imposta viene spesso utilizzato per indurre le imprese localizzate nelle aree sviluppate a investire nelle aree depresse. Un credito d'imposta pari al 100% dell'investimento realizzato nelle aree depresse implica che, se l'impresa investe in quest'ultima 50, potrà dedurre dalle imposte un eguale ammontare.
I finanziamenti a tasso agevolato costituiscono uno dei principali strumenti utilizzati dai governi per perseguire finalità specifiche quali aiuti ai settori industriali, alle piccole imprese, aiuti regionali e aiuti per l'attività di ricerca e sviluppo. Il finanziamento agevolato riduce il costo per l'uso del capitale e quindi, sostengono alcuni, incentiva l'utilizzo di tecniche ad alta intensità di capitale.
Questo incentivo è stato rilevante nelle politiche di sviluppo regionale. Nelle regioni depresse, dove il mercato dei capitali è meno sviluppato, alcune categorie di imprese, appartenenti a determinati settori o a particolari classi dimensionali, risultano infatti svantaggiate sia rispetto alle imprese di grandi dimensioni sia rispetto a imprese analoghe, ma localizzate nelle regioni sviluppate del paese. Il finanziamento agevolato risulta essere, specie per le piccole e medie imprese, un modo per correggere la distorsione presente nel mercato dei capitali.
I tassi più elevati di interesse praticati nelle aree meno sviluppate sono stati imputati principalmente alla scarsità di capitale che caratterizza tali aree. Quest'ultima è attribuibile sia a un insufficiente livello di risparmio e di autofinanziamento, sia alla maggiore incertezza e al più elevato rischio dei progetti di investimento intrapresi in tali aree. Queste difficoltà giustificavano un attivo intervento pubblico nel mercato del credito, attraverso l'offerta a basso costo di crediti a lungo termine. Tuttavia la letteratura recente sui mercati del credito (v. Stiglitz e Weiss, 1981, 1983 e 1986; v. Greenwald e altri, 1984) ha sottolineato che è piuttosto la presenza di informazione imperfetta, e non la scarsità di capitale, la causa principale del razionamento del credito e degli elevati tassi di interesse nelle aree meno sviluppate. D'altra parte il governo non si trova in una situazione migliore dei privati nell'affrontare i problemi di informazione asimmetrica (selezione avversa, azzardo morale: v. capp. 9-12) e quindi non è capace di distinguere i progetti buoni da quelli cattivi, né di controllare le azioni del debitore, riducendo in tal modo il grado di rischio per il creditore (v. Stiglitz, 1988). Inoltre le autorità governative non hanno alcun incentivo a scegliere il debitore migliore e a predisporre regole volte a massimizzare la redditività delle risorse utilizzate. L'offerta di capitale a basso costo alle imprese, quindi, non solo non risolverebbe i problemi dello sviluppo regionale, ma anzi potrebbe contribuire a un peggioramento nell'allocazione delle risorse.
Questa analisi ha trovato conferma in una recente ricerca di Faini, Galli e Giannini (v., 1993) sul sistema finanziario meridionale. In tal caso si è verificato che le inefficienze del mercato del credito derivano prevalentemente dalla presenza di mercati imperfetti che riducono la competitività fra le banche. Esse sono, inoltre, causate dal sistema degli incentivi finanziari, che ha contribuito a ridurre la competitività fra gli intermediari creditizi meridionali e ha deresponsabilizzato gli stessi nella valutazione dei progetti.A nostro avviso, giacché la divergenza fra tasso sociale e tasso privato di rendimento dei progetti di investimento nelle aree depresse non dipende solo dalla presenza di imperfezioni nel mercato del credito, l'eliminazione di tali imperfezioni non giustifica la soppressione delle agevolazioni finanziarie.
Il contributo in conto capitale, cioè il contributo concesso per ogni lira di investimento effettuato dalle imprese, viene generalmente utilizzato per finalità specifiche, quali lo sviluppo regionale, l'aiuto alle piccole e medie imprese, il finanziamento dell'attività di ricerca e sviluppo. Nei paesi della Comunità Europea si è ricorso al contributo in conto capitale per favorire lo sviluppo delle aree depresse. Rispetto alle altre forme di sussidio esso presenta il vantaggio di essere corrisposto prima che il nuovo impianto entri in esercizio e in ogni caso entro il primo anno di attività, cioè quando le esigenze di liquidità dell'impresa sono maggiori. Rispetto al finanziamento a tasso agevolato, il contributo in conto capitale consente di non appesantire la struttura finanziaria dell'impresa. In tal modo viene mantenuta inalterata la capacità dell'impresa di prendere a prestito. L'effetto di tale incentivo è però significativamente ridotto allorché il valore del contributo viene detratto dalla spesa su cui calcolare le quote di ammortamento fiscale.
In Italia le critiche al contributo in conto capitale come strumento di politica regionale sono state particolarmente vivaci. Queste critiche hanno riguardato il fatto che in un'area come il Mezzogiorno, malgrado l'eccesso di manodopera, la presenza di incentivi in conto capitale ha comportato la sovracapitalizzazione delle imprese e ha favorito settori e metodi ad alta intensità di capitale con notevole spreco di risorse. Tuttavia tali distorsioni non sono facilmente eliminabili se i rapporti fra lo Stato e le singole imprese sono caratterizzati da asimmetria informativa.
Un incentivo è un trasferimento a un'impresa affinché realizzi un dato progetto in un'area arretrata. Il trasferimento è concesso in proporzione ai costi dell'investimento (incentivo in conto capitale) o ai costi del lavoro. Assumiamo che questi costi siano osservabili ma non lo sia l'impegno che le imprese profondono nella realizzazione dell'iniziativa. Questo comporta che le imprese si impegnano meno a cercare soluzioni più economiche e risparmiatrici di risorse, in quanto possono contare sui trasferimenti governativi. Giacché le imprese non sono tutte egualmente efficienti, un incentivo proporzionale alle spese in conto capitale o in conto lavoro consente a quelle potenzialmente più efficienti di godere di rendite e/o di utilizzare una maggior quantità di risorse, rese più economiche dalla presenza di incentivi. In caso di informazione completa e osservabilità del comportamento dell'impresa si potrebbero erogare incentivi differenziati che impediscano di guadagnare rendite. Ciò permetterebbe di finanziare un maggior numero di progetti in quanto si potrebbe massimizzare il surplus della collettività, date le risorse finanziarie che si vogliono utilizzare per gli incentivi.
Una parziale soluzione di tale problema è offerta dalla nuova teoria degli incentivi (v. Laffont e Tirole, 1993): in presenza di informazione incompleta e sotto determinate condizioni, può essere ottimale per lo Stato offrire alle imprese un pacchetto di misure di incentivazione fra le quali scegliere, piuttosto che un solo tipo di incentivi.
L'obiettivo principale degli incentivi al lavoro è favorire l'occupazione, influendo sia sulla domanda che sull'offerta di lavoro. Per quanto riguarda gli incentivi rivolti alla domanda, essi riducono il costo del lavoro attraverso una sovvenzione (in genere di natura temporanea) per ogni unità addizionale occupata, o attraverso la fiscalizzazione degli oneri sociali. Questi incentivi spostano verso l'alto la curva di domanda di lavoro e introducono un divario fra il salario percepito dal lavoratore e il costo del lavoro sostenuto dall'impresa. Essi sono stati utilizzati in numerosi paesi, come l'Italia, la Francia, la Germania, l'Inghilterra, e indirizzati a specifiche fasce sociali, quali giovani, disabili, lavoratori appartenenti a particolari settori produttivi o aree territoriali (esempi in tal senso sono il Regional Employment Premium, operante fino al 1976 nelle aree depresse dell'Inghilterra, o la fiscalizzazione degli oneri sociali nelle regioni meridionali).
Negli anni più recenti, a causa del costo elevato di tali incentivi rispetto ai risultati conseguiti, gli incentivi al lavoro si sono spostati sull'offerta di lavoro. Essi sono finalizzati a ridurre le rigidità nel mercato del lavoro, favorendo la mobilità verso altre aree o regioni, o incentivando la riqualificazione di lavoratori espulsi. In questa tipologia di incentivi rientrano quelli predisposti dalle leggi per la formazione di nuove imprese, presenti in numerosi paesi europei, o dalle leggi per l'imprenditorialità giovanile, come la legge n. 44 del 1986 per il Mezzogiorno d'Italia. Tuttavia quest'ultima utilizza incentivi in conto capitale e in conto funzionamento, e non può quindi tecnicamente rientrare nell'ambito degli incentivi al lavoro.
Il punto di partenza dell'analisi teorica sugli incentivi all'offerta di lavoro è la curva di offerta dell'agente rappresentativo. Essa indica come varia l'impegno e la quantità di lavoro offerta in seguito a variazioni del salario. La necessità di incentivi sorge in quanto gli individui amano il tempo libero e per indurli a un maggiore impegno o maggiore sforzo è necessario fornire loro una forma di compenso monetario. Assumendo che l'obiettivo del consumatore rappresentativo sia espresso dalle funzioni U(L, X), dove L è la quantità di lavoro e X la quantità acquistata del bene, o U(e, w), dove e è il livello dell'impegno e w il livello del salario, dati i vincoli di bilancio, si possono costruire appropriate curve di offerta di lavoro. Questo apparato analitico permette di mostrare che un sistema fiscale molto progressivo produce effetti disincentivanti sull'offerta di lavoro. Mentre negli anni settanta la letteratura economica propendeva per l'idea che questi effetti fossero modesti, le riforme fiscali degli anni ottanta, in particolare negli Stati Uniti, sembrano basate sull'idea che l'offerta di lavoro sia influenzata in modo sostanziale dal sistema fiscale progressivo, con elevata perdita di benessere. Emerge in conseguenza una tendenza a un accorpamento delle aliquote verso il basso. La letteratura econometrica sull'argomento non è giunta a risultati conclusivi: secondo Pencavel (v., 1986) gli effetti disincentivanti sono modesti; Hausman (v., 1985) sostiene invece che l'aumento delle aliquote marginali nelle fasce alte di reddito ha avuto effetti elevati sull'offerta di lavoro e negativi dal punto di vista del benessere.
Per quanto riguarda i trasferimenti alle famiglie, l'analisi teorica indica che, dal punto di vista dell'efficienza, un programma ottimale è quello secondo il quale occorre lavorare un minimo numero di ore per settimana per usufruire del sussidio. Coloro che lavorano al di sotto del minimo non hanno diritto ad alcun sussidio. Questa tesi gode di un adeguato riscontro empirico.
Nell'analizzare le caratteristiche delle politiche di intervento nelle aree depresse, la teoria neoclassica mette l'accento sull'abbondanza relativa di lavoro rispetto al capitale e sulla non opportunità di concedere incentivi in conto capitale che favorirebbero l'utilizzo di tecniche risparmiatrici di lavoro. Si sostiene che bisognerebbe ridurre il prezzo del lavoro al fine di stimolare la crescita di settori ad alta intensità di lavoro, contribuendo in questo modo alla soluzione del problema della disoccupazione. Le tecniche ad alta intensità di lavoro, divenute obsolete nelle aree sviluppate, dati i rapporti tra i prezzi dei fattori prevalenti, non solo possono essere acquistate a prezzi relativamente bassi, ma, grazie a un effetto di apprendimento, determinano uno spostamento verso l'alto della funzione di produzione e un aumento di efficienza nell'utilizzazione delle risorse. Un'altra argomentazione a sostegno di un premio per unità addizionale occupata nelle aree a elevata disoccupazione (v. Department of Economic Affairs, 1967) è che esso riduce i costi variabili delle imprese e quindi favorisce il mantenimento di prezzi bassi e la competitività dei prodotti, incentivando in tal modo le esportazioni e il miglioramento della bilancia dei pagamenti a livello nazionale. Esso permette infine una più equa distribuzione della domanda di lavoro fra aree avanzate e depresse, riducendo le pressioni inflazionistiche causate dagli elevati livelli di domanda nelle aree più prospere.
In queste analisi il parametro teorico di riferimento per il calcolo di un sussidio per unità occupata è il costo opportunità del lavoro. L'ammontare di tale sussidio nel settore manifatturiero dipenderà quindi dalla differenza fra il costo del lavoro nel settore avanzato dell'area depressa e il costo opportunità. Nell'analisi tradizionale dei paesi in via di sviluppo (v. Little e Mirrlees, 1969) il costo opportunità del lavoro è considerato pari a zero a causa della presenza di disoccupazione o pari alla produttività marginale del settore rurale. Nei modelli che considerano l'emigrazione dal settore urbano al settore rurale come funzione del differenziale atteso fra i salari nei due settori, il costo opportunità del lavoro è pari alla produttività marginale nel settore rurale aumentata dal maggior consumo che deriva dal fatto di lavorare nel settore avanzato (v. Harris e Todaro, 1970; v. Todaro, 1969). In entrambi i casi si sostiene l'efficacia di una politica di sussidi al lavoro.
Secondo le analisi più recenti (v. Sah e Stiglitz, 1985) dell'efficiency wage (dove si ipotizza una relazione fra impegno effettivo e salario percepito) il costo opportunità considerato nella teoria tradizionale è sottostimato. Si sostiene che il costo opportunità del lavoro da considerare sia il salario prevalente nel settore urbano. L'effetto di un sussidio al lavoro non sarà solo quello di aumentare l'occupazione nel settore urbano, come sostiene l'analisi tradizionale, ma anche quello di aumentare il salario. Nella moderna analisi neoclassica, quindi, le politiche per l'occupazione sono più orientate a ridurre le imperfezioni del mercato del lavoro derivanti da asimmetrie informative che a istituire un sistema di sussidi al lavoro.
Se da un'analisi statica si passa a un'analisi dinamica, emergono ulteriori dubbi sull'efficacia di un sussidio al lavoro nel settore avanzato delle aree depresse. È possibile che un sussidio al lavoro si traduca solamente in un aumento dei salari e dei profitti. Una ulteriore critica riguarda il fatto che i settori avvantaggiati saranno quelli tradizionali a più alta intensità di lavoro o imprese poco efficienti che usano molta manodopera e impianti antiquati. Inoltre la presenza di un premio per unità di lavoro sarà un deterrente all'introduzione del progresso tecnico e in generale non spingerà all'uso più efficiente della manodopera.
Bisogna inoltre sottolineare che non è facile individuare uno schema di incentivi al lavoro che funzioni solo per l'occupazione aggiuntiva. Se applicati in modo generalizzato, come è avvenuto nel caso della fiscalizzazione degli oneri sociali, gli incentivi al lavoro risultano molto costosi in termini di aggravio della finanza pubblica. La spesa nel Mezzogiorno relativa alla fiscalizzazione degli oneri sociali è stata, a partire dal 1976, di molto superiore all'ammontare erogato per incentivi in conto capitale - contributi in conto capitale e finanziamenti a tasso agevolato (v. Del Monte e Giannola, 1989; v. Del Monte e Vittoria, 1993) -, raggiungendo in alcuni anni un valore triplo rispetto a questi ultimi.
Alcuni recenti lavori empirici mostrano inoltre che: a) in Inghilterra il costo di creazione di una unità addizionale di lavoro nelle aree depresse è stato maggiore per un incentivo al lavoro quale il Regional Employment Premium che per il contributo in conto capitale (v. Moore e altri, 1978 e 1983). Analoghi risultati si sono avuti per l'Italia (v. Del Monte e Vittoria, 1993); b) secondo un recente studio (1991), basato su interviste a imprese dei 12 paesi della CEE, le imprese non ritengono gli incentivi in conto lavoro efficaci per l'attuazione di nuove iniziative.
Oltre alla tipologia di incentivi fiscali e finanziari in precedenza esaminata, a partire dagli anni settanta in numerosi paesi si è consolidata una politica diretta a fornire un sostegno pubblico alle piccole e medie imprese attraverso l'erogazione di incentivi reali, cioè di servizi connessi all'attività di insediamento e gestione. Tale politica nasce dal riconoscimento che gli ostacoli alla crescita delle imprese non sono solo di natura finanziaria, ma molto spesso derivano dal fatto che queste, specie nelle aree depresse, non hanno la disponibilità di servizi reali adeguati, sia per motivi finanziari sia per carenza di offerta.
Gli incentivi reali comprendono una vasta gamma di servizi quali: a) assistenza organizzativa manageriale; b) assistenza tecnologica (ad esempio attraverso l'acquisizione e il trasferimento di tecnologie e sistemi di lavorazione); c) assistenza alla commercializzazione (marketing e informazione sui principali mercati, ecc.); d) assistenza finanziaria e amministrativa.I modelli adottati nell'attuazione delle politiche degli incentivi reali sono di due tipi, e ricalcano l'esperienza dell'Inghilterra e della Germania.
Il modello tedesco si serve delle organizzazioni imprenditoriali preesistenti e delle Camere di commercio, le quali gestiscono le risorse fornite dallo Stato e dalle Regioni per l'erogazione dei servizi reali. Pur essendovi in taluni Länder un'organizzazione regionale che fornisce informazioni, sviluppa e finanzia corsi di management e offre incentivi per quanto riguarda le attività di consulenza, le agenzie pubbliche non forniscono in genere assistenza diretta per quanto riguarda i servizi reali. Esistono invece numerosi provvedimenti legislativi che consentono un parziale finanziamento delle spese che le imprese sostengono sul libero mercato per fornirsi di tali servizi. In particolare è possibile il finanziamento di attività di consulenza da parte di società che rientrano in appositi albi. Il modello tedesco è facilitato dall'efficienza delle varie organizzazioni di categoria e permette certamente un'aderenza dei servizi richiesti alle necessità degli utilizzatori.
Il modello inglese è invece basato su agenzie pubbliche il cui scopo è assistere sia le piccole che le medie imprese nel momento della nascita e dello sviluppo. Tali agenzie forniscono servizi sia in prima persona sia provvedendo al pagamento dei consulenti necessari alle piccole imprese. Alcune ricerche relative al Regno Unito rilevano un alto livello di insoddisfazione delle imprese che hanno utilizzato i servizi di tali agenzie. Molti dirigenti di impresa hanno formulato un giudizio negativo sulla capacità di queste ultime di aiutare le piccole e medie imprese. Queste agenzie sono state considerate burocratiche, lente, con uno staff con una insufficiente conoscenza delle problematiche aziendali.
Oltre che in base alla natura - pubblica o privata -, i centri di servizi possono essere distinti in base alle funzioni che svolgono. Ad esempio, per i servizi all'innovazione è possibile individuare almeno tre categorie di centri: a) i parchi scientifici; b) gli incubatori di imprese innovative; c) i centri per gli affari.I parchi scientifici. I parchi scientifici sono insediamenti di imprese (rivolte alla tecnologia) in un'area delimitata, collegate a università e/o ad altri istituti di ricerca. Nei parchi scientifici non vengono forniti alle imprese ivi localizzate servizi centralizzati; viene, invece, spesso offerta a prezzi relativamente modesti l'area per la costruzione della sede.
Gli incubatori di imprese innovative. - I centri per l'innovazione sono finalizzati a promuovere la creazione di imprese tecnologicamente innovative. I servizi offerti comprendono l'assistenza nella fase iniziale (business plans), la consulenza (finanziaria, di marketing, tecnologica), così come il sostegno in servizi tecnici e di segreteria. In numerosi casi essi offrono anche spazio fisico per la localizzazione di attività produttive. Centri di tale tipo, chiamati anche BIC (Business and Innovation Centers), sono stati promossi e finanziati, con l'aiuto della Comunità Europea, in diversi paesi negli anni ottanta e novanta.
I centri per gli affari. I centri per l'industria o per gli affari sono finalizzati al sostegno dello sviluppo economico di una città o di una regione. In tali centri è possibile trovare tutti i tipi di imprese - manifatturiere, artigiane, di servizi - a elevato contenuto innovativo. Nella maggior parte dei casi l'area d'azione dei centri di questo tipo è limitata alla zona limitrofa ad essi.Il giudizio sull'efficacia della politica degli incentivi reali non è unanime. Sono state avanzate alcune critiche nei confronti delle attività svolte dalle agenzie pubbliche. In particolare è stata messa in dubbio la loro capacità di risolvere i problemi incontrati dalle imprese localizzate nelle aree depresse.
Anche nel campo dei servizi reali la filosofia che dovrebbe ispirare l'intervento, a nostro avviso, è quella di utilizzare, per quanto possibile, il mercato anziché ricorrere a forme di assistenza diretta da parte di agenzie. L'esperienza tedesca piuttosto che quella inglese dovrebbe quindi costituire il modello di riferimento. Il ruolo delle agenzie dovrebbe essere quello di indirizzare le imprese che facciano richiesta di servizi reali verso esperti e società in grado di soddisfare i loro bisogni e il cui costo, almeno parzialmente, dovrebbe essere coperto con risorse pubbliche.
La letteratura sugli incentivi esaminata fino a questo punto ha come riferimento il modello di concorrenza perfetta e i teoremi dell'economia del benessere. La semplice indicazione della teoria economica è che, date certe condizioni per un efficiente funzionamento dei mercati, gli agenti, perseguendo il proprio interesse individuale, realizzano anche gli interessi della società nel suo complesso. L'intervento dello Stato nell'economia si giustifica se, per una qualsiasi ragione, i mercati non sono concorrenziali, cioè se vi sono 'fallimenti del mercato'. Gli incentivi possono essere quindi visti come strumenti utilizzati dallo Stato per ristabilire le condizioni dell'economia concorrenziale. Anche in assenza di fallimenti del mercato lo Stato può intervenire per realizzare obiettivi redistributivi individuati in base a una funzione di benessere sociale. In tal caso il sistema degli incentivi fiscali e finanziari è utilizzato per passare da un punto sulla frontiera delle utilità, corrispondente all'equilibrio del mercato, a un altro che soddisfa obiettivi redistributivi, in modo da non distorcere l'allocazione delle risorse o almeno da ridurre al minimo la distorsione.
Da un lato quindi vi è lo Stato che persegue obiettivi di equità e di efficienza, e dall'altro un numero elevato di agenti il cui comportamento può essere descritto dalle teorie dell'impresa o del consumatore rappresentativo. In questo contesto non si pongono né problemi di non osservabilità dei comportamenti degli agenti, né problemi di asimmetria delle informazioni (situazioni in cui gli agenti siano in possesso di informazioni non conosciute dallo Stato).
La nuova teoria degli incentivi mette invece l'accento su quegli schemi di contratto che si sviluppano in un contesto caratterizzato da asimmetria informativa. Al centro della nuova teoria degli incentivi vi è il rapporto principale-agente, cioè una situazione nella quale un soggetto (agente) agisce per conto di un altro (principale). Se l'agente persegue obiettivi in contrasto con quelli del principale e quest'ultimo non può, in modo perfetto e a costo zero, sorvegliarne le azioni e controllare le informazioni da esso fornite, sorge il problema principale-agente. Gli schemi di incentivi che possono essere utilizzati per affrontare tale problema sono stati discussi da Ross (v., 1973), Mirrlees (v., 1976), Calvo e Wellisz (v., 1978) e Becker e Stigler (v., 1974), e si riferiscono alle diverse situazioni di informazione asimmetrica: l'azzardo morale e la selezione avversa.
Un caso di informazione asimmetrica (azzardo morale con azione nascosta) è quello in cui la probabilità di un risultato favorevole per il principale aumenta al crescere dell'impegno con cui l'agente esegue la propria prestazione e il principale non è in grado di osservare l'impegno dell'agente e non può distinguere se il risultato finale dipende dal comportamento dell'agente o da fattori casuali.Consideriamo il caso di un proprietario terriero, il principale, che utilizza un salariato agricolo, l'agente. La funzione obiettivo dell'agente sia U=U(w, e), dove l'azione è e (che noi possiamo interpretare come impegno) e w è il salario. Come risultato dell'impegno il principale ottiene una quantità q dalla quale deve dedurre un ammontare pari a w per pagare l'agente.
La funzione obiettivo del principale potrà essere espressa come π=V(q-w).
Per essere incentivato ad accettare il contratto, l'agente deve ottenere un valore atteso dell'utilità maggiore o uguale a quello che potrebbe realizzare in altre attività. Il livello di utilità ottenibile in attività alternative si chiama 'utilità di riserva' e determina il vincolo della partecipazione. Questo vincolo impone che la struttura del salario sia tale che il valore atteso dell'utilità dell'agente sia maggiore dell'utilità di riserva. Il problema per il principale sarà dunque quello di trovare la struttura ottima del salario, e cioè una funzione w(q) che massimizzi i suoi profitti attesi e nel contempo induca l'agente a realizzare il livello di impegno desiderato e*; tale struttura del salario dovrà permettere all'agente di ottenere un livello atteso dell'utilità, in corrispondenza di e*, maggiore o uguale rispetto all'utilità di riserva.
Nel caso in cui la relazione fra q ed e fosse deterministica, q=f(e), anche se lo sforzo e non fosse osservabile, esso si potrebbe dedurre dall'osservazione del livello di q. In questo caso il principale potrebbe ottenere il livello di sforzo desiderato e il livello di produzione efficiente, q*, attraverso un'opportuna scelta della funzione w(q).
Il problema della scelta del contratto ottimo diviene più complesso quando π è una variabile casuale che dipende, oltre che dall'impegno dell'agente, anche dallo stato del mondo θ{R, la cui probabilità di accadimento è espressa dalla funzione di densità f(θ), cioè quando q=q(e, θ). In tal caso il principale non può scegliere il livello q da realizzare e imporlo all'agente, poiché non è possibile dedurre il livello di impegno e solo guardando q, giacché il livello di q può dipendere sia dal livello dell'impegno dell'agente che dallo stato del mondo.
Nel caso in cui sia il principale che l'agente siano neutrali rispetto al rischio, è possibile individuare uno schema di contratto che permette di giungere alla medesima soluzione del caso di perfetta osservabilità. In base a tale schema l'agente deve pagare al principale una somma fissa, pari alla differenza fra il valore stesso della performance dell'agente e il costo derivante dallo sforzo dell'agente - incluso il costo opportunità dell'utilità di riserva U -, e avrà diritto alla parte di prodotto residua. Questo significa che l'agente sopporta l'intero rischio del contratto (v. Shavell, 1979).
Se l'agente non è neutrale rispetto al rischio, non sarà possibile, come nel caso del precedente contratto, addossargli l'intero rischio associato alle probabilità di accadimento dei diversi possibili stati del mondo (per esempio la quantità di pioggia caduta). Nel caso in cui l'agente sia avverso al rischio, soddisfare il vincolo della partecipazione sarà più costoso per il principale che nel caso in cui l'agente sia neutrale. Occorre quindi prevedere uno schema di contratto che permetta una divisione del rischio. La retribuzione dovrà essere una funzione della quantità, cioè w=w(q). Lo schema di contratto ottimale non permetterà in tal caso di raggiungere il livello di efficienza che sarebbe stato possibile qualora l'impegno dell'agente fosse stato perfettamente osservabile (informazione perfetta).
La difficoltà di amministrare contratti troppo complessi nella vita reale restringe la scelta delle possibili funzioni w(π) a relazioni di tipo lineare w=a+bπ o del tipo
formula (5).
L'asimmetria informativa con informazione nascosta comprende due distinte situazioni. Nel primo caso (azzardo morale con informazione nascosta) al momento della stipula del contratto non vi è asimmetria informativa; quest'ultima insorge con l'attuazione del contratto stesso, allorché l'agente viene in possesso di informazioni che non sono note al principale. Consideriamo il caso di un manager e di un venditore la cui retribuzione è legata alla quantità venduta. Il mercato in cui opera il venditore può essere un mercato facile o difficile, tuttavia tale informazione non è nota a priori a nessuna delle parti. È nota invece la probabilità che il mercato sia facile o difficile. Ovviamente l'impegno richiesto al venditore affinché venda una determinata quantità sarà maggiore o minore a seconda del tipo di mercato in cui opera. Anche la retribuzione del venditore dovrà tenere conto di questo diverso impegno e quindi dipenderà non solo dalla quantità venduta ma anche dal tipo di mercato. Il venditore, non appena inizia a operare, si accorge delle caratteristiche del mercato, ma tale informazione rimane ignota al manager: infatti, giacché, a parità di quantità venduta, è presumibile che il venditore eserciti uno sforzo maggiore se il mercato è difficile, e quindi riceva una retribuzione maggiore, egli ha interesse a mentire nel caso il mercato sia facile. Comunicando al manager che il mercato è difficile, egli potrebbe godere di una rendita rispetto a una situazione di informazione perfetta, percependo una retribuzione ed esercitando uno sforzo che gli permettono di ottenere un valore dell'utilità maggiore dell'utilità di riserva. L'interesse del principale è quello di individuare uno schema di contratto che induca l'agente a dire sempre la verità o che tenga conto della possibilità che l'agente menta. Nella maggior parte dei casi questo contratto permetterà di ottenere una soluzione di second best per il manager rispetto a quella possibile in situazione di informazione perfetta.
Una seconda situazione di asimmetria informativa con informazione nascosta - la selezione avversa - è quella in cui l'agente ha informazioni che non sono in possesso del principale al momento della stipula del contratto. Ad esempio, mentre l'agente conosce la qualità della prestazione che egli è in grado di fornire, il principale ha un'informazione incompleta su tale qualità. Nel caso di selezione avversa, a differenza che nell'azzardo morale, gli agenti sono eterogenei e il principale non è in grado di distinguere le caratteristiche dello specifico agente.
Un esempio di contratto in cui i problemi di selezione avversa sono rilevanti è quello di assicurazione. Se il premio associato al contratto riflette la qualità media dei potenziali acquirenti la polizza, i clienti migliori tenderanno ad autoescludersi dal mercato, in quanto la perdita attesa dei soggetti a basso rischio è inferiore al premio che essi dovrebbero pagare; ciò farà sì che sul mercato restino solo gli individui di qualità peggiore e quindi il premio richiesto non riuscirà a coprire i costi dei sinistri delle imprese di assicurazione e questo gruppo resterà senza copertura assicurativa. Nel caso di selezione avversa vi è quindi un incentivo per la compagnia di assicurazione a separare i differenti tipi di contraenti. L'assicurazione offrirà un contratto che distingue fra i vari tipi di contraenti. Può convenire offrire contratti che sfruttino il fatto che gli individui che appartengono a una classe di minore rischio (più sani) sono più disposti ad accettare un contratto di assicurazione con franchigia (che prevede una ovvia riduzione del premio). Supponendo che vi siano due sole classi di rischio, la compagnia di assicurazione sottoscriverà polizze con franchigia con gli individui che si trovano nelle classe di rischio più bassa, polizze con copertura assoluta con quelli a più alto rischio. Un problema di selezione avversa può sorgere anche nei rapporti di lavoro. Nel caso di azione nascosta il datore di lavoro conosce la capacità del lavoratore, ma non è in grado di osservare il livello di impegno che il lavoratore profonde nell'azione. Nel caso di selezione avversa, il lavoratore conosce la propria capacità nell'espletare la prestazione richiesta dal contratto, ma tale capacità non è nota al datore di lavoro.
L'esistenza di differenti tipi di lavoratori e il fatto che il datore di lavoro non è in grado di distinguere a quale tipo appartenga l'agente hanno implicazioni rilevanti per l'individuazione dei contratti ottimali. In una situazione di certezza, in cui il principale conosce le caratteristiche dell'agente, egli offrirà a quest'ultimo un tipo di contratto per cui la retribuzione dipende dal valore della prestazione. In una situazione di incertezza, in cui l'imprenditore non conosce le caratteristiche dell'agente, converrà offrire differenti tipi di contratto tra i quali l'agente sceglierà in base alle proprie caratteristiche. Ad esempio un contratto a salario fisso sarà scelto dai lavoratori che presentano bassi livelli di abilità e un contratto legato ai risultati ottenuti dai lavoratori con più elevati livelli di abilità. È ovvio che questi contratti dovranno soddisfare il vincolo che il lavoratore con il più elevato livello di abilità non abbia convenienza a comportarsi come il lavoratore meno abile e a scegliere quindi il contratto previsto per quest'ultimo. Lo stesso vale per il lavoratore con basso livello di abilità, che non deve avere convenienza a scegliere il contratto previsto per il lavoratore più abile. Questi vincoli si chiamano 'vincoli degli incentivi'. I contratti ottimali sono quelli fatti in modo che gli agenti, attraverso la scelta di un particolare contratto, rivelino ex post a quale tipo essi appartengano.
Problemi di selezione avversa e azzardo morale si riscontrano in moltissimi rapporti che si instaurano fra lo Stato e le imprese, sia quelle che devono realizzare beni e servizi per conto dello Stato (costruzione di opere pubbliche, fornitura di beni e servizi, ecc.) sia quelle che operano in settori dei pubblici servizi (trasporti, elettricità, ecc.) in cui i costi non sono interamente coperti dai proventi derivanti dalle vendite. La presenza di asimmetria informativa limita l'efficacia con cui gli organismi pubblici controllano l'attività delle imprese. Sono problemi di azzardo morale lo scarso impegno nel lavoro dei managers pubblici, l'acquisto a prezzi eccessivi di macchinari e beni o l'utilizzo di uomini e mezzi non strettamente necessari per la realizzazione dei contratti in essere, ecc. Problemi di selezione avversa riguardano invece le caratteristiche delle imprese fornitrici e la loro capacità di soddisfare a costi contenuti e rispettando adeguati standard qualitativi le prestazioni richieste. Il problema che si pongono le agenzie governative è quindi quello di individuare schemi di contratti che riducano gli svantaggi derivanti dalla presenza di asimmetria informativa.
I principali tipi di contratti utilizzati si basano sui costi sostenuti. Un possibile contratto di incentivazione (proposto da Cross: v., 1970) è quello in cui si chiede all'agente una stima del costo atteso CT e si offre al medesimo un compenso che è funzione dei costi attesi e dei costi effettivi. L'impresa ottiene un rimborso pari al costo effettivo sostenuto più un compenso t dato da
t=ACT+S(Ct-C) (6)
dove CT è la stima iniziale del costo, C è il costo finale, A e S sono due parametri: A è una sorta di bonus e S è un termine che indica come viene ripartita la differenza del costo tra agente e principale. Nel caso in cui sia S>0, allorché il costo effettivo è inferiore al costo stimato, l'impresa (l'agente) riceve un compenso maggiore; tale beneficio è diviso con il governo (principale) allorché è S⟨1. Si dimostra (v. Laffont e Tirole, 1993) che, anche nel caso di un'impresa neutrale rispetto al rischio, il valore ottimale di S è inferiore a 1 e diminuisce al crescere della quantità, e che il valore ottimale di A cresce con la quantità prodotta, ma è più basso allorché CT è più elevato.
Una formulazione più generale per analizzare i vari tipi di contratti di incentivazione è stata proposta da Laffont e Tirole (v., 1993). Si assume che all'impresa venga offerto, oltre al rimborso dei costi, un sussidio del tipo t=a-bC>0, dove a è la quota fissa, b è la quota di spese a carico delle imprese con b{ [0, 1] e C è il costo osservato. La somma pagata all'impresa sarà F=a+(1-b) C. A seconda del valore di b si fanno diversi tipi di contratto. Se è b=1, il contratto è 'a prezzo chiuso': l'impresa sostiene tutte le spese e percepisce solo la parte fissa a; ovviamente è essa a godere dei possibili risparmi di costo. Se è b=0, il contratto è del tipo 'cost plus': esso implica che lo Stato rimborsi tutti i costi sostenuti, oltre alla quota fissa; rispetto al precedente, questo tipo di incentivo non induce l'impresa a risparmiare sui costi. Vi sono poi situazioni intermedie nelle quali b è compreso fra 0 e 1 e lo Stato rimborsa una frazione dei costi sostenuti, oltre alla quota fissa.
Il punto successivo nella formulazione del contratto di incentivazione è l'individuazione dei valori ottimali di a e b. I problemi che sorgono nella determinazione di tali valori e nella scelta del contratto ottimo risultano chiaramente dalla seguente formulazione di Laffont e Tirole (v., 1993).
Si ipotizza che lo Stato, per realizzare un progetto, utilizzi un'impresa che può presentare differenti livelli di efficienza (in termini di costo) a seconda del tipo a cui appartiene. L'eterogeneità dei tipi e il fatto che lo Stato non conosca a quale tipo appartenga l'impresa indica che ci troviamo in una situazione di selezione avversa. Assumiamo inoltre che il costo sia anche influenzato dal livello dell'impegno dell'impresa e dallo stato del mondo: ci troviamo quindi in una situazione di azzardo morale. Se l'autorità non sa a che tipo appartenga l'impresa e vuole che il progetto sia realizzato anche se l'impresa è inefficiente, essa sarà disposta a coprire i costi dell'impresa meno efficiente. Il problema dello Stato è quello di individuare schemi di contratto differenti per il tipo efficiente e per quello inefficiente, così da ridurre l'ammontare della spesa.
Assumiamo che la funzione di costo dell'impresa sia C=(β-e), dove β è un parametro di efficienza ed e rappresenta il livello dello sforzo: β può essere interpretato come il parametro della selezione avversa. Al crescere dello sforzo del manager dell'impresa si riduce il costo monetario C. L'autorità può osservare solo il livello del costo, ma non lo sforzo, né il valore effettivo di β. Quest'ultimo è noto solo all'impresa.
Sia Φ(e) la disutilità dello sforzo del manager dell'impresa, espressa in termini monetari; inoltre siano Φ′>0 e Φ″>0 (il costo dello sforzo è convesso) e la funzione sia tale che Φ(0)=0 e che, per e che tende a β, essa tenda a più infinito.
Assumiamo che l'impresa sia neutrale rispetto al rischio. La funzione di utilità dell'impresa può essere scritta U(t, e)=t-Φ(e). Al crescere dello sforzo aumenta la disutilità del manager, mentre l'utilità cresce all'aumentare del compenso. Il vincolo di partecipazione deve essere tale che l'utilità che l'impresa ottiene realizzando il progetto sia maggiore o eguale alla utilità di riserva U*, conseguibile in una attività alternativa. Ovviamente l'autorità desidera che si realizzi il progetto al minimo costo e quindi vuole evitare di pagare una rendita all'impresa, il che accade se U(t, e)>U*. Nel caso di informazione perfetta (si conosce β), l'autorità può concedere un compenso pari a t=Φ (e*) e chiedere all'impresa di esercitare uno sforzo e* (o in alternativa porre un obiettivo di costo C=β-e*). Il livello ottimale dello sforzo, e*, è determinato in base all'uguaglianza tra utilità marginale dello sforzo e il risparmio nel costo marginale dovuto al maggior impegno. Nel caso che l'impresa accetti il contratto ed eserciti uno sforzo inferiore a e*, dovrà pagare una penalità elevata. In alternativa l'autorità può offrire un contratto del tipo
t(C)=a-(C-C*), (7)
dove a= Φ(e*) e C*=β-e*. In tal caso l'impresa beneficia dei risparmi di costo e quindi sceglierà e, così da massimizzare a-(β-e-C*)-Φ (e); avremo e=e* e l'utilità ottenuta sarà eguale a quella di riserva.
Un tale contratto offre all'impresa un perfetto incentivo per una riduzione dei costi; inoltre la parte costante del compenso può essere fissata a un livello tale da impedire che l'impresa realizzi una rendita. In questo tipo di contratto non è necessario che l'autorità osservi lo sforzo: finché conosce β, può dedurre il valore dello sforzo dall'osservazione del costo. Nel caso in cui l'informazione non sia perfetta, cioè l'autorità non conosca a quale tipologia appartenga l'impresa, tale deduzione non è più possibile, in quanto lo stesso livello di costo può essere ottenuto da un'impresa non efficiente - alto livello di β e alto livello di impegno - e da un'impresa efficiente - basso livello di β e basso livello di impegno. Si dimostra che, se l'autorità vuole che il progetto sia realizzato quale che sia la tipologia d'impresa, il contratto ottimale, nel caso di informazione incompleta, comporta che vi sarà: a) un impegno pari a quello efficiente e una rendita positiva per l'impresa a basso livello di β; b) un impegno inferiore a quello efficiente e nessuna rendita per l'impresa a elevato livello di β.
Obiettivo dell'autorità è che il progetto sia realizzato minimizzando l'entità della spesa. Si dimostra che questo obiettivo è ottenuto attraverso un menu di contratti lineari del tipo
t=a-bC>0, 0<b≤1, (8)
dove b è la quota di costi a carico dell'impresa e a è una costante.
L'autorità fissa una serie di coppie di valori (a, b) fra i quali l'impresa potrà scegliere. La relazione fra a e b deve essere tale che la quota fissa (a) sia una funzione crescente concava di b. L'impresa sceglierà un valore elevato di b se è convinta di produrre a un basso costo e viceversa. Quanto maggiore è il valore di b, tanto maggiore è il livello di a. La relazione è tale che per l'impresa più efficiente è b=1, cioè il contratto è del tipo 'a prezzo chiuso'; alle altre tipologie di imprese verranno offerti contratti con valore di b intermedio fra 0 e 1.
La breve rassegna svolta non esaurisce la vasta problematica della teoria degli incentivi. Anzitutto non sono stati analizzati gli schemi di incentivi utilizzabili per affrontare i problemi relativi alla difesa ambientale, al risparmio energetico, all'attività di ricerca e sviluppo, ecc., dove la presenza di economie e diseconomie esterne determina fallimenti del mercato. Tanto meno è stato affrontato il problema del rapporto principale-agente con riferimento alle numerose situazioni dove esso si presenta particolarmente rilevante.
Il mercato in numerosi casi ha elaborato schemi di incentivi complessi, che comportano non solo schemi retributivi, ma anche meccanismi di promozioni future, sicurezza del posto di lavoro, meccanismi basati sulla reputazione, ecc., che hanno permesso di superare, almeno come second best, il problema del rapporto principale-agente. In altri casi questi meccanismi non sono stati creati e appare necessario un intervento dello Stato. A questo proposito il recente volume di Laffont e Tirole, A theory of incentives, procurement and regulation, contiene un'interessante discussione degli schemi di incentivi utilizzabili nell'attività di regolamentazione dello Stato, in situazioni molto più complesse di quelle da noi considerate, con riferimento a imprese multiprodotto, a una pluralità di agenti e al funzionamento delle istituzioni.
(V. anche Investimenti; Meridionale, questione; Squilibri regionali; Sviluppo economico).
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