Squilibri regionali
Il fenomeno del dualismo, o anche 'problema Nord-Sud', è caratteristico del processo di crescita sia nei paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo, e da molto tempo è stato riconosciuto da politici ed economisti come uno dei più importanti problemi che le moderne economie devono affrontare, non solo in relazione a obiettivi egualitari ma anche perché esso mette in discussione la stessa coesione degli Stati nazionali.Per formulare politiche adeguate è opportuno rispondere a una serie di interrogativi, i più importanti dei quali sono: a) perché esistono gli squilibri regionali? b) perché persistono gli squilibri regionali? c) gli squilibri regionali possono essere automaticamente risolti dalle forze di mercato? La risposta a tali quesiti è di grande importanza per la formulazione delle politiche regionali dei singoli paesi e, più recentemente, lo è divenuta per le politiche regionali a livello dell'Unione Europea (UE). È interessante notare che dopo un periodo, in particolare gli anni sessanta e settanta, in cui il pensiero economico è stato influenzato dalle teorie della polarizzazione (v. Perroux, 1955; v. Myrdal, 1957; v. Hirschmann, 1958; v. Kaldor, 1970), per cui i governanti erano profondamente convinti della necessità di intervenire con forti politiche regionali per superare gli squilibri, a partire dalla fine degli anni settanta l'orientamento del pensiero economico e dei politici è mutato. Le critiche all'efficacia della politica regionale e una serie di studi sulla convergenza, come quelli di Barro e Sala i Martin (v., 1992 e 1995), hanno rafforzato l'opinione secondo cui il problema degli squilibri regionali, almeno nei paesi industrializzati, è destinato a essere, anche se lentamente, superato. Le politiche nei confronti delle regioni più povere devono quindi, secondo tali studi, essere dirette più alla rimozione degli ostacoli alla mobilità dei fattori che alla concessione di trasferimenti per favorire l'industrializzazione.In questo lavoro cercheremo di mostrare, come l'evidenza empirica indica, che il problema degli squilibri regionali, pur ponendosi in modo diverso nei vari stadi dello sviluppo economico di un paese, non è risolvibile attraverso il solo ricorso alle forze di mercato.
Secondo la teoria neoclassica, assumendo eguali funzioni di produzione e rendimenti di scala costanti nelle varie regioni, le differenze nel prodotto pro capite sono principalmente il risultato di un diverso rapporto capitale-lavoro. Le regioni più povere sono quelle caratterizzate da un'abbondanza relativa del fattore lavoro, un più basso livello della produttività del lavoro stesso e un più alto livello della produttività del capitale. L'ipotesi della flessibilità dei prezzi dei fattori assicura che nelle aree a più elevata abbondanza di lavoro vi saranno salari più bassi e rendimenti dei capitali più elevati. In assenza di ostacoli al flusso interregionale dei fattori, ciò comporterà un flusso di lavoro dalle regioni più povere a quelle più ricche, mentre il flusso di capitali opererà in senso inverso. In tal modo il rapporto capitale-lavoro tenderà a eguagliarsi nelle due aree, e vi sarà una tendenza all'eguaglianza dei prezzi dei fattori. Questa ipotesi che l'emigrazione comporti una riduzione degli squilibri regionali non viene però confermata da recenti lavori come quello di Barro e Sala i Martin (v., 1995) relativamente a Giappone, Stati Uniti, Germania, Francia, Regno Unito, Spagna. Per nessuno di questi paesi viene evidenziato un effetto significativo positivo dell'emigrazione sulla velocità della convergenza fra le regioni.
In modo analogo l'assenza di ostacoli alla libera circolazione delle merci spingerà le imprese delle aree più povere a specializzarsi nei settori a più alta intensità di lavoro. Certamente differenze nel clima e nelle risorse naturali e altri fattori non permetteranno un'eguaglianza perfetta ma, secondo questa teoria, la tendenza alla convergenza dei prezzi e del reddito pro capite sarà molto forte.Anche in presenza di ostacoli al flusso dei fattori il modello neoclassico evidenzia un forte meccanismo di convergenza. La tendenza alla convergenza in un modello neoclassico alla Swan-Solow deriva dai rendimenti decrescenti del capitale. Il tasso di rendimento del capitale più elevato genera nelle economie lontane dai livelli di steady state (stato di stabilità), che sono anche le economie più povere, una più rapida crescita del capitale e del reddito pro capite rispetto alle economie più ricche. Le regioni più povere, caratterizzate da un più basso rapporto capitale-lavoro e quindi da un più basso livello del reddito pro capite, cresceranno più rapidamente di quelle più ricche e di conseguenza vi sarà un processo di superamento degli squilibri regionali. In presenza di ostacoli al flusso dei fattori il processo di convergenza sarà molto più lento e non determinerà necessariamente l'eliminazione assoluta degli squilibri regionali, dal momento che le singole regioni possono divergere per i valori di steady state, e quindi la convergenza non riguarderà necessariamente un unico valore di steady state. Inoltre la velocità di convergenza sarà maggiore o minore a seconda che le regioni più povere risparmino una proporzione maggiore o minore del loro reddito. Anche in tal caso, modeste differenze nei livelli del reddito pro capite delle regioni non sono incompatibili con il modello.Il modello neoclassico, quindi, individua due meccanismi grazie ai quali le forze di mercato dovrebbero portare al superamento degli squilibri regionali: un meccanismo più rapido, basato sul movimento dei fattori, e un altro più lento, basato sul fatto che la dinamica di transizione verso lo steady state implica tassi di crescita più elevati nelle regioni più povere, in quanto più distanti dallo steady state. In realtà la teoria neoclassica non spiega perché esistono gli squilibri regionali, in quanto dire che il reddito pro capite di due regioni differisce perché è diverso il rapporto capitale-lavoro non fa che rimandare la spiegazione al perché differisce il rapporto capitale-lavoro.
È proprio nelle fasi iniziali del processo di industrializzazione di un paese che le ipotesi del modello neoclassico - funzioni di produzione eguali per le regioni e a rendimenti costanti, flessibilità dei prezzi dei fattori, ecc. - sono più difficili da realizzarsi. Sembrano avere un maggior potere esplicativo le cosiddette teorie della 'polarizzazione', le quali assumono che il processo di crescita sia integrato e cumulativo. Allorché una data regione, per la sua particolare localizzazione, o perché possiede risorse naturali appropriate o è caratterizzata da un ambiente culturale idoneo, o perché vi è stato un aumento esterno della domanda dei suoi prodotti, inizia a crescere può scattare in essa una espansione cumulativa della produzione.
La teoria dei poli di sviluppo di Perroux evidenzia come la presenza, in una data area, di un'attività chiave che faccia da 'unità propulsiva' possa rappresentare la forza conduttrice per tutte le altre attività. Attraverso effetti indotti nello spazio e sulle altre attività si può determinare una concentrazione sempre maggiore di attività in quello spazio: ciò, a sua volta, crea economie di agglomerazione che attirano risorse dall'esterno dando vita a un ulteriore processo di concentrazione. Tale processo cumulativo, se da un lato determina un rapido sviluppo di alcune regioni, dall'altro può avere, come sostiene Myrdal, effetti negativi sulle altre regioni rafforzando gli squilibri regionali. In particolare, in questa fase il flusso dei fattori può avere effetti diversi da quelli ipotizzati dal modello neoclassico. Il flusso del lavoro dalle regioni povere a quelle prospere, se da un lato può aumentare il rapporto capitale-lavoro nelle prime contribuendo ad aumentare la produttività, dall'altro a causa della natura selettiva del processo di emigrazione della forza lavoro potrebbe, nel lungo periodo, peggiorare la qualità media dei servizi di lavoro offerti nella regione povera rendendo meno conveniente l'insediamento di imprese esterne. L'esistenza di differenti tipi di lavoro e il fatto che il vantaggio dell'emigrazione è maggiore proprio per i lavori di qualità migliore possono far sì che la mobilità del lavoro peggiori la qualità dei servizi di lavoro offerti nell'area depressa.In modo analogo i rendimenti dell'investimento non sono necessariamente più alti nelle regioni povere, se non con l'eccezione di alcuni settori produttivi ad alta intensità di lavoro non qualificato. La presenza di esternalità e i benefici derivanti dalle economie di agglomerazione dei progetti localizzati nelle regioni più ricche può determinare tassi di rendimento del capitale più elevati nelle regioni ricche rispetto a quelle povere e ciò scoraggerà il flusso di capitali verso queste ultime. La teoria della polarizzazione in sostanza evidenzia la presenza di rendimenti crescenti che rafforzano la regioni ricche rispetto a quelle povere. Vi sono poi da considerare anche altri fattori che penalizzano le regioni povere: il più elevato fattore di rischio, la mancanza di capacità imprenditoriale, l'assenza di adeguati mercati di capitali possono ostacolare nelle aree depresse il processo di accumulazione. Tutto ciò riduce il tasso di rendimento nelle regioni povere e favorisce il flusso di capitali verso quelle più ricche. Questi elementi tendono a rafforzarsi nelle fasi iniziali del processo di industrializzazione, allorché come effetto della crescita di un paese si determina l'unificazione dei mercati regionali. L'unificazione del mercato fra regioni che presentano strutture industriali differenti rende non competitive molte delle merci prodotte nelle regioni povere in mercati in precedenza protetti. L'effetto di breve periodo sarà certamente quello di estromettere dal mercato molte produzioni di tali regioni deprimendo, attraverso il meccanismo del moltiplicatore, l'attività economica e rafforzando il movimento perverso dei fattori di produzione. Anche per questa via, come evidenzia Krugman (v., 1991), si accentueranno gli squilibri regionali.
Vi è infine un ultimo punto da sottolineare, e riguarda l'attività del governo centrale le cui scelte di politica economica tendono a rafforzare le aree più ricche del paese. La costruzione di infrastrutture di comunicazione - scuole, porti e ferrovie, ecc. - è funzionale allo sviluppo delle regioni ricche in quanto favorisce gli scambi sia all'interno che con l'estero, introducendo così ulteriori elementi di differenziazione nei confronti delle regioni più povere. In presenza di rendimenti crescenti delle infrastrutture appare naturale che esse si concentrino nelle zone urbanizzate di un paese. In tal modo aumenta la produttività del capitale privato e del lavoro e si riduce la quantità di capitale sociale utilizzata per unità di lavoro. Esiste cioè un trade off fra l'efficienza aggregata dell'economia e la riduzione degli squilibri regionali realizzata attraverso una politica delle infrastrutture a favore delle aree rurali (v. Mera, 1975). Appare quindi ovvio che nelle fasi iniziali del processo di crescita, allorché il reddito pro capite è basso, il governo non può attuare una politica di riequilibrio basata sulle infrastrutture e quindi le regioni più urbanizzate, privilegiate nella distribuzione delle infrastrutture, crescono più di quelle rurali, che sono generalmente anche le più povere. Allorché il paese avrà superato la fase iniziale del processo di industrializzazione, l'obiettivo della riduzione degli squilibri regionali acquisterà maggior peso e la perdita di efficienza per l'intera economia, dovuta a tale politica, sarà minore di quella che sarebbe stata negli anni iniziali in quanto, anche nelle aree più povere, si sarà verificato un primo processo di industrializzazione.
La vera difficoltà è che la capacità previsionale del modello neoclassico è legata alla possibilità di poter trattare le varie regioni come aree sostanzialmente omogenee, nelle quali la principale diversità è costituita dalla differente dotazione di fattori. Ma è proprio nelle fasi iniziali dei processi di industrializzazione che ciò non appare possibile. Il grado di eterogeneità delle varie aree di un paese è molto elevato, e tale eterogeneità non riguarda solo gli aspetti economici ma anche quelli sociali. Diversità culturali e sociali influiscono sulle caratteristiche delle istituzioni nelle varie regioni, cioè su quelle norme di comportamento legali e culturali che, vincolando l'attività dei soggetti economici, influiscono sui costi di transazione facilitando o ostacolando i rapporti di scambio. Le differenze nelle istituzioni appaiono estremamente rilevanti nelle fasi iniziali della costruzione del mercato nazionale e influiscono sulla propensione e capacità dei soggetti delle varie regioni a intraprendere attività economiche e a utilizzare la tecnologia in modo ottimale. Questa diversa capacità dei soggetti di sfruttare le occasioni di investimento non può che rafforzare gli squilibri regionali. Solo gli individui delle regioni ricche riescono a cogliere tali opportunità. Quindi, come sosteneva J. Williamson (v., 1965), le giovani nazioni nei primi decenni della loro formazione vedono crescere gli squilibri regionali. Il caso italiano è un chiaro esempio di tale dinamica: dopo l'unificazione i divari Nord-Sud si accentuarono e solo nel secondo dopoguerra, a partire dalla metà degli anni cinquanta, iniziò un processo di convergenza.
Fra i paesi industrializzati solo gli Stati Uniti sembrano sfuggire a tale tendenza. I lavori di Barro e Sala i Martin (v., 1995) mostrano che il processo di convergenza è in atto a partire dal 1880 (anche se un problema Nord-Sud è stato presente per lungo tempo), anzi secondo questi stessi autori tale processo sarebbe iniziato fin dal 1840, se non prima. D'altronde il modo in cui si sono formati gli Stati Uniti, con popolazioni provenienti dalle regioni più sviluppate e dai paesi più industrializzati come Inghilterra e Germania, ha fatto sì che le differenze istituzionali fra i vari Stati, con l'eccezione degli Stati agricoli e schiavisti del Sud, fossero modeste. In questo senso il caso degli Stati Uniti rafforza tale ipotesi.
D'altronde le differenze interregionali nel reddito pro capite non necessariamente persistono nel tempo. Allorché l'economia di un paese raggiunge gli stadi della maturità si possono sviluppare forze diffusive che operano in modo da ridurre gli squilibri. Le economie di agglomerazione di cui hanno beneficiato i progetti di investimento nelle regioni più ricche possono ridursi al margine man mano che procede il processo di industrializzazione, mentre si possono sviluppare diseconomie esterne dovute alla congestione, il che riduce il livello dei tassi di rendimento marginale in tali regioni. Possono svilupparsi invece economie di agglomerazione grazie all'industrializzazione, anche se lenta, nelle aree più povere. In tal modo le differenze nei tassi di rendimento del capitale si riducono, e in molti settori, grazie al più basso costo del lavoro, possono addirittura andare a vantaggio delle aree più povere. Si arresta e si inverte la direzione del flusso di capitali e le regioni più povere diventano importatrici nette di capitali.
In modo analogo la selettività nel flusso del lavoro si riduce e molti lavori di elevata qualità, grazie alle nuove opportunità di investimento, rimangono nelle regioni povere. Più in generale, man mano che progredisce il processo di unificazione del mercato nazionale, si riducono le eterogeneità fra le regioni e l'accentuarsi dell'omogeneità, in presenza di flessibilità dei prezzi dei fattori, permette che si esplichi con maggior forza il meccanismo di riequilibrio previsto dal modello neoclassico. Come sostiene G. Myrdal (v., 1957; tr. it., p. 150), "a un alto o medio livello di sviluppo si accompagnano un miglioramento dei trasporti e delle comunicazioni, più alti livelli di istruzione e una più dinamica comunione di idee e valori, tutti fattori che tendono a consolidare le forze per una spinta centrifuga di espansione economica o a rimuovere gli ostacoli che si frappongono alla sua crescita".
Un fattore che può avere un ruolo cruciale nell'accentuare o indebolire questa spinta centrifuga all'espansione, come appare dalle formalizzazioni della nuova teoria della crescita, è il progresso tecnico. Nei nuovi modelli di crescita gli investimenti in ricerca e sviluppo (R&D) sono endogenizzati e se vi sono rendimenti di scala costanti è possibile una crescita di lungo periodo (v. Lucas, 1988; v. Romer, 1987 e 1990). Il progresso tecnico, inoltre, influisce sugli squilibri fra regioni (o, in maniera analoga, fra paesi) in due modi, attraverso i processi imitativi e innovativi. L'innovazione determina un più elevato tasso di crescita nella regione che spende di più in R&D, e ciò avviene generalmente nelle regioni più ricche. D'altronde quelle più povere possono imitare, sia attraverso l'acquisizione di nuovi prodotti e processi, sia attraverso lievi modifiche degli stessi, la tecnologia delle regioni più avanzate. In assenza di rendimenti decrescenti dell'imitazione, ma assumendo che vi sia un costo nell'imitazione e nel miglioramento dei prodotti (il progresso tecnico non è un bene pubblico), la regione (o, come già detto, il paese) più povera tenderà a crescere più rapidamente di quella ricca (v. Grossmann e Helpmann, 1991; v. Barro e Sala i Martin, 1995), a meno che i parametri delle funzioni di produzione delle due regioni non differiscano molto all'inizio del periodo considerato.In realtà l'ipotesi di rendimenti costanti nell'imitazione può difficilmente essere accettata. Se infatti il numero dei prodotti da imitare è limitato e si assume che vi sia eterogeneità fra i paesi, alcune delle innovazioni realizzate nei paesi leaders saranno più facilmente adattabili e più produttive per i paesi followers. Tanto maggiore è l'insieme di nuove tecnologie da imitare, cioè tanto maggiore è il gap fra il paese leader e i followers, tanto maggiore sarà il rendimento del progetto più promettente da imitare. Nel caso vi siano rendimenti decrescenti nell'imitazione, a meno che le funzioni di produzione siano le stesse per le due regioni, l'endogenizzazione del progresso tecnico farà sì che la regione più povera non crescerà più rapidamente di quella più ricca e quindi non si realizzerà un processo di convergenza.
Un altro fattore di squilibrio esaminato dalla nuova teoria della crescita è rappresentato dalle economie dinamiche di scala associate al processo di learning by doing (apprendimento attraverso l'esperienza). Nel modello di Krugman del 1987 gli effetti dell'apprendimento (derivanti dall'esperienza passata e misurati dalla quantità di prodotto cumulato in un'industria) ampliano le differenze dei vantaggi comparati nei vari settori, per cui la regione ricca continuerà a produrre la fascia di beni di alta qualità (v. Stokey, 1991). Se il capitale umano si forma e si sviluppa attraverso la produzione di beni di alta qualità, non solo non si verificherà un processo di convergenza, ma la rimozione totale degli ostacoli alla circolazione dei beni (free trade) accentuerà l'accumulazione di capitale umano al Nord e lo ridurrà nel Sud. Date queste premesse, la forza più importante che si manifesta superata la fase iniziale del processo di industrializzazione è quella del governo centrale, che si assume l'onere del riequilibrio fra le regioni.
Uno dei principali modi per ridurre le disuguaglianze regionali, allorché un paese ha raggiunto un medio livello di sviluppo, è costituito dalle politiche di trasferimento di risorse dalle regioni ricche a quelle più povere. Esse possono essere il risultato sia di politiche regionali dirette, sia di politiche egualitarie del moderno Stato sociale.
Un comune sistema di tassazione e di Welfare e una politica di standard comune per i servizi pubblici determinano un trasferimento di risorse a favore delle regioni povere. I sistemi di Welfare hanno un intento perequativo nei confronti degli strati più disagiati della popolazione e quindi tendono a favorire le regioni più povere, ove più alta è la quota di popolazione che beneficia dello Stato sociale. In tutti i paesi industrializzati le regioni povere pagano in tasse meno di quanto ricevono in servizi e benefici, e l'opposto avviene per le aree ricche. Il valore di tali trasferimenti oscilla fra il 3% del prodotto lordo regionale, nei paesi a bassi squilibri regionali, e il 20% e oltre nei paesi ad alti squilibri regionali come l'Italia. Il vantaggio di questi trasferimenti è che essi sono automatici, e agiscono in modo da compensare gli squilibri qualora questi si aggravino.
Vi sono poi le politiche regionali (incentivi agli investimenti, aiuti diretti alle imprese, politiche delle infrastrutture, ecc.) il cui peso è molto inferiore a quello dei trasferimenti automatici. L'effetto di tali politiche è stato positivo, ai fini del riequilibrio regionale, secondo numerosi studi econometrici (per una rassegna di tali lavori v. Nicol e Yuill, 1981). Per l'Italia alcuni autori hanno verificato un effetto positivo della politica degli incentivi per quanto riguarda l'occupazione e il valore aggiunto manifatturiero nel Mezzogiorno (v. del Monte, 1977; v. del Monte e Vittoria, 1993), gli insediamenti esterni e la nascita di nuove imprese (v. del Monte, 1989), mentre altri autori hanno trovato effetti non significativi per quanto riguarda, sempre con riferimento alle regioni meridionali, gli investimenti (v. Faini, 1982) e l'occupazione (v. Bodo e Sestito, 1991).
Il meccanismo di convergenza non è ovviamente influenzato solo dall'ammontare dei trasferimenti, ma anche dalla loro composizione. Le opinioni su questo punto possono divergere molto in base alle ipotesi che vengono fatte sulla produttività delle risorse nelle due aree. Alcuni autori (v. ad esempio Mera, 1975, a proposito del caso giapponese) sostengono che, essendo diverse le funzioni di produzione nelle due aree, le politiche a favore degli investimenti nelle aree depresse (politiche di incentivi agli investimenti, politiche delle infrastrutture) riducono l'efficienza aggregata dell'intera economia. Invece le politiche dei trasferimenti alle famiglie, sia in forma diretta che in forma di servizi, raggiungono lo stesso obiettivo di ridurre l'equilibrio interregionale senza avere effetti negativi sull'efficienza aggregata dell'economia. Si deve però notare che questo tipo di politica può aumentare le differenze fra i tassi di crescita delle regioni ricche e delle regioni povere, anche se, grazie a trasferimenti crescenti nel tempo, può ridurre i divari nelle risorse per abitante. Invece, anche se la produttività delle risorse è inferiore nelle regioni povere, una politica volta a favorire una riallocazione degli investimenti dalle regioni ricche a quelle povere potrebbe determinare un più elevato tasso di crescita nelle regioni povere, sebbene a scapito di quello nazionale, e una riduzione nei divari del livello di reddito pro capite. Nel caso in cui le funzioni di produzioni siano eguali nelle due aree e l'attività del governo abbia esternalità positive particolarmente nelle regioni povere, il finanziamento degli investimenti nelle regioni povere attraverso la tassazione di quelle ricche non solo riduce il divario nei tassi di crescita, ma potrà anche avere effetti positivi sul processo di sviluppo a livello nazionale.
La letteratura empirica sugli squilibri regionali ha seguito due distinti orientamenti. Il primo si rifà alla letteratura sulla polarizzazione e al lavoro di J. Williamson (v., 1965); l'altro, più recente, si rifà alla letteratura sulla crescita endogena e ha come punto di riferimento i lavori di Barro e Sala i Martin (v., 1992 e 1995). Il primo filone è interessato all'analisi dei rapporti fra squilibri regionali e sviluppo economico, e principalmente a cogliere la dinamica degli squilibri regionali in relazione agli stadi di sviluppo di un paese. Il secondo filone è invece interessato al problema della convergenza, vista come la tendenza delle regioni di un paese ad avvicinarsi, in media, fra loro, in termini di reddito pro capite o di altre variabili. Questa definizione implica che, in media, la dispersione nei livelli del reddito pro capite delle regioni e dei paesi in questione può ridursi, ma è possibile che, mentre le differenze fra regioni ricche diminuiscono, aumenti la differenza in termini assoluti o relativi delle regioni più povere rispetto a quelle più ricche. O invece può accadere che diminuiscano le differenze fra le regioni nelle classi basse e medie ma non le differenze rispetto alle regioni leaders. Un diverso problema è quello del catch up (raggiungimento) che implica che le regioni più arretrate diminuiscano le loro distanze rispetto a un gruppo di regioni sviluppate. Se la regione o il gruppo di regioni in oggetto cresce in termini di reddito pro capite più rapidamente dell'area di riferimento, in un intervallo di tempo più o meno lungo tenderà a raggiungere il reddito pro capite di quest'ultima. In tal caso occorre far riferimento al tasso di crescita per valutare se è in atto un processo di catch up. Ovviamente la convergenza come sopra definita non è una condizione necessaria né sufficiente per il catch up.
I due filoni sopra considerati hanno utilizzato differenti indici di squilibrio regionale. Il primo filone ha generalmente utilizzato l'indice di Williamson, che è un coefficiente di variazione ponderato. Esso misura la dispersione del reddito regionale pro capite relativamente alla media nazionale e ogni deviazione è ponderata con il peso della popolazione della regione rispetto al totale nazionale. Chiamiamo yi il reddito pro capite della regione i; fi la popolazione della regione i; N il livello di popolazione della nazione; y* il reddito pro capite della nazione; n il numero di regioni. L'indice di Williamson è dato da:
formula (1)
ove
formula (2)
è lo scarto quadratico della variabile (yi, fi) per i=1,...,n.
Ciò permette di utilizzare questo indice per confrontare il livello degli squilibri regionali in paesi che presentano valori differenti del reddito pro capite. Allorché il reddito pro capite delle regioni di un paese cresce allo stesso tasso, il coefficiente di variazione resta costante. Allorché il tasso di crescita del reddito pro capite è maggiore nella regione povera rispetto a quella ricca, il valore di tale indice diminuisce.
La recente letteratura sulla convergenza ha invece posto l'accento, come indicatore di disuguaglianza, sullo scarto quadratico medio della variabile log yi; la differenza della variabile log yi rispetto alla media non è ponderata con la percentuale di popolazione fi/N di una regione sul totale nazionale. Per cui si scrive:
formula (3)
ove xi è il logaritmo del reddito pro capite yi, e x è la media semplice della variabile xi. Una diminuzione nel tempo di tale indice viene interpretata come indicazione che è in atto un processo di convergenza σ. Un altro criterio utilizzato per verificare se vi è una tendenza verso una riduzione dell'intensità degli squilibri regionali è la convergenza β. Se consideriamo un insieme di regioni e troviamo una relazione inversa fra tasso di crescita e livello iniziale del reddito pro capite, siamo portati a dire che esiste un processo di convergenza. Questo tipo di convergenza è appunto chiamato convergenza β. In questo caso, chiamando yi il reddito pro capite della regione i, e utilizzando come indice 0 e t, a seconda che ci si riferisca all'anno iniziale o finale, il processo di convergenza può essere approssimato nel seguente modo:
formula (4)
o anche:
formula (5)
ove ui,t è una variabile casuale e a e b sono costanti con 0⟨b⟨1. La condizione b>0 implica che per l'insieme delle regioni considerate vi è una tendenza alla riduzione nelle differenze del livello assoluto del reddito pro capite. In tal caso si parla di convergenza β. Il problema è che, allorché si va a stimare la (4), i risultati econometrici possono, come ipotizzato, verificare l'esistenza di una relazione inversa, ma ciò non significa che per alcune regioni, ad esempio le più povere, non aumenti il divario in termini pro capite rispetto alle più ricche. Quindi una valutazione dell'ipotesi di convergenza basata sul valore di β può nascondere il fatto che aumenta lo squilibrio fra le regioni più arretrate e le altre.
Gli indici utilizzati nei due approcci sopramenzionati sono stati sottoposti a numerose critiche. Una prima critica che può essere fatta all'indice di Williamson è il modo in cui vengono valutate le variazioni del prodotto regionale. Consideriamo anzitutto il trasferimento da una regione ricca a una regione povera per cui diminuisce il reddito pro capite della prima e aumenta quello della seconda. L'indice di Williamson attribuisce a tale trasferimento, a parità di valori della popolazione, un egual peso indipendentemente dal fatto che il trasferimento sia da una regione ricca a una un po' meno ricca o da una abbastanza povera a una molto più povera. Cioè il trasferimento di reddito da una regione a reddito y a una con reddito y-d è valutato in modo eguale indipendentemente dal livello di y. Per questo motivo il fatto che le regioni un po' meno ricche tendano a eguagliare quelle più ricche è valutato allo stesso modo di un processo in cui le più povere tendono a eguagliare quelle un po' meno povere. Un'ulteriore critica mossa all'utilizzo del coefficiente di variazione come misura della dispersione è che esso si basa sull'assunto che la distribuzione del reddito pro capite fra regioni segua un andamento normale. Solo in tal caso il coefficiente di variazione è un indice non distorto della simmetria della distribuzione. Tale critica non può, invece, essere fatta all'indice σ. Infatti, per le proprietà dei logaritmi, esso dà maggior peso alle disuguaglianze nei livelli bassi e medi del reddito pro capite che a quelle nei livelli più alti, per cui gli aumenti di reddito ai livelli più bassi pesano di più degli aumenti di reddito ai livelli più alti.
Un primo problema che sorge invece con tale indice è che esso può dare indicazioni differenti sulla dinamica degli squilibri rispetto al caso in cui lo scarto quadratico medio del logaritmo del reddito pro capite è calcolato tenendo conto della popolazione di ciascuna regione. Si potrebbe dire che, giacché gli squilibri regionali hanno come unità di riferimento la regione e non la distribuzione del reddito fra individui, è più appropriato l'uso di σ; d'altro canto si può obiettare che, giacché i movimenti della popolazione sono un elemento importante nei meccanismi che determinano la tendenza nel reddito relativo regionale, un indice che ignora tali movimenti non è molto utile per una interpretazione del fenomeno degli squilibri. Un'altra critica che può essere sollevata riguarda il fatto che tale indice viene a essere molto più sensibile delle altre misure al modo in cui sono individuate le unità amministrative in cui un paese è diviso e alla numerosità delle regioni. Quindi non sarà possibile alcun confronto fra valori di σ di paesi differenti. Inoltre vi è il rischio che nell'ambito di regioni abbastanza simili per il livello di reddito pro capite, che hanno però popolazioni molto differenti tra loro, dinamiche opposte rispetto alla media nel reddito pro capite si compensino tra loro per cui il valore di σ non si modifica. È evidente invece che tali movimenti possono avere effetti molto diversi per la concentrazione di reddito. È chiaro che è ben diverso, per quanto riguarda la distribuzione del reddito, se una regione povera, ma poco popolata, cresce più rapidamente della media, mentre un'altra altrettanto povera, ma molto popolata, cresce meno della media, rispetto a una situazione in cui avviene l'opposto. Nel primo caso si avrà una disuguaglianza nella distribuzione del reddito fra le regioni maggiore che nel secondo.L'esistenza di una chiara relazione fra convergenza σ e convergenza β, evidenziata da Barro e Sala i Martin (v., 1995), fa sì che molte delle critiche rivolte al primo indicatore si possono fare al secondo. Inoltre Barro e Sala i Martin mostrano che, anche se vi è convergenza β, b>0, il grado di dispersione dei livelli pro capite regionali non si annulla necessariamente. Questo indica che una verifica della convergenza β non comporta necessariamente una sostanziale eliminazione del livello di ineguaglianza nel prodotto pro capite di un insieme di regioni. In modo analogo i due autori fanno vedere che il valore di σ può diminuire e tendere verso un valore positivo senza annullarsi mai. Si può avere quindi qualche perplessità nel parlare di convergenza fra due regioni se una che parte da un livello di reddito pro capite pari al 60% di quello dell'altra tende verso un livello pro capite che è il 68% di quello dell'altra. È per questa ragione che sia per la convergenza β che per la convergenza σ si parla di criteri deboli.
Un criterio forte è quello di convergenza asintotica perfetta, che fa riferimento a due economie che nel lungo periodo tendono ad avvicinarsi asintoticamente allo stesso livello della variabile considerata (ad esempio il reddito pro capite). Mentre l'analisi empirica, come vedremo, ha trovato numerosi casi in cui i criteri di convergenza β e σ sono soddisfatti, è molto raro che sia soddisfatto il criterio di convergenza asintotica. I criteri di convergenza β e σ si riferiscono alla convergenza incondizionata, cioè riguardano regioni (o paesi) che hanno mostrato tendenze alla convergenza nella variabile in oggetto senza operare correzioni per tener conto dell'influenza di altre variabili.
La letteratura empirica che si rifà a questo filone teorico basato sui modelli di crescita endogena ha introdotto invece un concetto di convergenza più debole dei precedenti, e cioè quello di convergenza condizionata. In questo caso si tiene conto dell'esistenza di fattori i quali impediscono che il processo di convergenza avvenga alla stessa velocità e tenda verso un egual valore di equilibrio nelle varie regioni (o paesi). Il concetto di convergenza condizionata ha solide radici teoriche nel modello neoclassico, secondo il quale ogni economia converge verso il proprio valore di steady state e il tasso di crescita è inversamente connesso alla distanza dal valore di steady state. Il modello neoclassico prevede convergenza condizionata nel senso che un più basso valore del reddito pro capite tende a generare un più alto tasso di crescita, dopo aver tenuto conto delle variabili che determinano il valore di steady state. Ad esempio, nel modello neoclassico il valore di steady state del capitale pro capite dipende dal risparmio pro capite oltre che dalle variabili che determinano spostamenti nella funzione di produzione. Si deduce che per verificare l'ipotesi di convergenza occorre isolare i fattori che determinano il valore di steady state k*.
In tal caso l'equazione stimata è:
formula (6)
ove X è un insieme di variabili che determinano i valori di equilibrio delle singole regioni. In tal caso l'esistenza di una relazione negativa significativa con il logaritmo del valore iniziale è interpretata come convergenza condizionata. Levine e Renelt (v., 1992), analizzando i lavori empirici sulla convergenza, hanno trovato che sono state utilizzate, complessivamente, dai vari autori più di cinquanta variabili. Queste variabili possono riguardare la quota degli investimenti sul prodotto interno lordo (PIL), la spesa per il capitale umano, l'instabilità politica, il peso della spesa pubblica, il grado di liberalizzazione degli scambi, ecc. Nel caso delle regioni si sono utilizzate anche variabili che tengono conto dei processi di emigrazione, delle politiche di intervento, delle differenze nella struttura industriale; in molti casi si è fatto semplicemente ricorso a dummies (variabili di comodo) regionali. È evidente che l'introduzione di queste variabili addizionali può essere molto interessante per predisporre un'efficace politica regionale. Ad esempio, se il coefficiente del peso della spesa pubblica per consumi collettivi ha un valore negativo, mentre la spesa per infrastrutture ha un ruolo positivo sui processi di crescita, le autorità potranno cercare di spostare risorse dall'uno all'altro uso. D'altro canto, dal punto di vista del benessere quello che conta è la convergenza assoluta, non quella condizionata. Non è di gran sollievo per gli abitanti delle regioni arretrate sapere che, nonostante stiano perdendo terreno nei confronti delle regioni più ricche, esiste un processo di convergenza condizionata.
Analizziamo i problemi interpretativi derivanti dall'uso di un particolare indice portando come esempio un paese diviso in quattro macroregioni. Assumiamo che la regione più ricca non cresca, mentre tutte le altre crescono ma la regione più povera cresce a un tasso inferiore a quello delle altre due. Nella tab. I sono illustrate diverse ipotesi relativamente a possibili dinamiche del reddito al tempo 1 rispetto alla situazione iniziale.Le ipotesi analizzano il caso in cui la regione più povera, la 1, cresce a un tasso inferiore a quello nazionale, mentre le regioni 2 e 3, che inizialmente sono in una situazione intermedia come reddito pro capite, crescono a un tasso maggiore e raggiungono i livelli di reddito pro capite dell'area ricca. Come già detto, quest'ultima non cresce affatto. Ovviamente la regione più povera in tutte le ipotesi considerate vede aumentare le sue distanze in termini sia assoluti che relativi rispetto alla media nazionale ma ciò, come vedremo, non sempre viene evidenziato dagli indici considerati. L'esempio mostra una dinamica delle regioni 1, 2, 3 che porta a una polarizzazione fra le regioni del paese e all'accentuazione del problema Nord-Sud. Abbiamo utilizzato, per illustrare questo caso, oltre all'indice di Williamson Vw e il σ, l'indice di Gini, G e l'indice H che è lo scarto quadratico medio della variabile (log yi). Nel caso dell'indice H la differenza della variabile log yi rispetto alla media è ponderata con la percentuale di popolazione fi/N di una regione sul totale nazionale. Ora, gli indici utilizzati segnalano in modo diverso e disuguale questa polarizzazione. L'indice di Gini segnala una tendenza alla diminuzione delle disuguaglianze in tutti i casi considerati. L'indice della convergenza σ e l'indice H, invece, segnalano una crescita della disuguaglianza nelle due ipotesi in cui si hanno tassi di crescita del reddito pro capite della regione povera nettamente inferiori al valore normale. Solo nell'ultimo caso il valore di σ e di H indicano una diminuzione della disuguaglianza.Il coefficiente di variazione Vw mostra una tendenza all'aumento della disuguaglianza allorché il tasso di crescita del reddito della regione povera è molto basso, ma una tendenza all'aumento della uguaglianza negli altri due casi. In tal caso i due indici H e σ evidenziano una maggiore sensibilità rispetto agli altri due indici nel cogliere la crescita delle disuguaglianze relative. Ma anche H e σ non sempre riescono a individuare fenomeni di polarizzazione nella distribuzione del reddito fra le regioni.In conclusione, si può dire che la misura degli squilibri regionali contiene numerosi aspetti di ambiguità. Nessuno degli indici considerati descrive in maniera adeguata la distribuzione del reddito fra le regioni e quindi nessuno coglie completamente la dinamica degli squilibri regionali. È questo un punto sul quale ha recentemente rivolto la sua attenzione Quath (v., 1993 e 1996), che ha sottolineato che occorre studiare la dinamica della distribuzione del reddito fra le regioni per comprendere se è in atto o meno un processo di convergenza.
L'analisi empirica dei rapporti fra disuguaglianza dei redditi e sviluppo economico risale a Kuznets (v., 1955), il quale avanzò l'ipotesi che nel corso del processo di crescita di un paese la disuguaglianza dei redditi prima aumenta e poi, dopo aver raggiunto un massimo, inizia a diminuire. Tale relazione è a forma di U rovesciata con una crescente disuguaglianza durante il periodo iniziale di take off e una tendenza all'eguaglianza allorché il paese si avvicina agli stadi più avanzati del processo di industrializzazione.
L'ipotesi di Kuznets è stata estesa da Williamson, nel suo lavoro del 1965, al rapporto fra dinamica degli squilibri regionali e sviluppo economico. Williamson ipotizzò che anche per quanto riguarda il livello degli squilibri regionali esiste una relazione a forma di U rovesciata fra sviluppo economico e intensità di tali squilibri. Vi è un'accentuazione degli squilibri regionali durante il periodo iniziale di take off e una tendenza al superamento degli stessi allorché il paese si avvicina agli stadi più avanzati del processo di industrializzazione. Williamson cercò di verificare tale ipotesi costruendo una tabella relativa a 24 paesi, suddivisi in sette gruppi in ordine decrescente in base al livello del reddito pro capite, e calcolando per ciascun paese l'indice Vw. Nella tab. II riportiamo i valori di Vw calcolati da Williamson, relativi alla media per ciascun gruppo di paesi.
Questi dati mostrano un valore di Vw di 0,139 per i paesi più ricchi del gruppo I, ma le disuguaglianze regionali crescono rapidamente come passiamo dai paesi a più alto reddito a quelli a medio reddito, per toccare un valore medio di 0,46 per i paesi a medio-basso reddito del gruppo IV comprendente Italia, Brasile, Spagna, Colombia e Grecia. È da notare che nel gruppo IV vi sono Italia e Brasile, paesi che negli anni cinquanta erano universalmente noti per i problemi di dualismo, il Brasile con il Nord-Est e l'Italia con il Mezzogiorno. Quando si passa dal gruppo IV al gruppo VII il valore di Vw diminuisce in modo significativo e diviene inferiore a quello dei paesi a reddito medio-basso, a conferma dell'ipotesi che la disuguaglianza regionale è più bassa negli stadi iniziali del processo di crescita. In realtà l'unica eccezione a questa ipotesi è il gruppo VI comprendente le Filippine.
Sulla base di questi dati Williamson sostiene la validità dell'ipotesi che l'ineguaglianza regionale ha una forma a U invertita con il suo massimo nei paesi con redditi medio-bassi. Le principali conclusioni raggiunte da Williamson furono le seguenti: a) il grado di ineguaglianza regionale aumenta con il crescere del grado di sviluppo di un paese fino a che non viene raggiunto il livello di reddito pro capite dei paesi che Kuznets (v., 1955) collocava a un livello intermedio e che includevano Italia, Spagna, Brasile, Colombia; raggiunto tale livello di reddito, l'intensità degli squilibri regionali diminuisce; b) un aumento degli squilibri regionali e un approfondimento del dualismo Nord-Sud è tipico degli stadi iniziali del processo di sviluppo di un paese, mentre negli stadi più maturi della sua crescita si assiste a un processo di convergenza fra le regioni e alla scomparsa del problema Nord-Sud. Questi risultati trovano una parziale conferma nell'analisi empirica della dinamica degli squilibri regionali nei paesi industrializzati fatta da Barro e Sala i Martin.
Nel 1955 un rapporto delle Nazioni Unite sullo sviluppo e sottosviluppo regionale in vari paesi europei traeva le seguenti conclusioni: 1) nell'Europa occidentale le disparità di reddito fra una regione e l'altra sono molto più ampie nei paesi poveri che in quelli ricchi; 2) mentre nei paesi più ricchi dell'Europa occidentale sono diminuite le ineguaglianze regionali, nei paesi più poveri si è avuta una tendenza opposta (v. United Nations, 1955, pp. 136 ss.). Oggi possiamo dire che nessuna delle due conclusioni è più valida. Nell'Europa occidentale vi è stato nel dopoguerra un processo di convergenza fra le regioni per cui l'intensità degli squilibri regionali si è molto ridotta. I lavori di Barro e Sala i Martin mostrano che nel periodo 1950-1990 vi è stata una convergenza β relativamente a 90 regioni europee appartenenti a otto paesi: 11 in Germania, 11 nel Regno Unito, 20 in Italia, 21 in Francia, 4 in Olanda, 3 in Belgio, 3 in Danimarca e 17 in Spagna.
Dalla condizione relativa alla dinamica del modello neoclassico verso lo steady state discende l'espressione utilizzata per la stima della convergenza:
formula (7)
ove Ui₀T è la media dei termini casuali fra 0 e t, e l'intercetta è a=g+[(1 - e-βT) / T] lōg (y*).
Per tener conto del fatto che le regioni possono convergere verso un differente valore di steady state sono state introdotte delle dummies per ciascun paese. L'equazione è stata stimata per quattro sottoperiodi e per l'intero periodo e i risultati sono indicati nella tab. III. Eccetto il sottoperiodo 1980-1990 il valore di β si colloca intorno al 2%.
La stima è stata poi ripetuta permettendo valori di β differenti per ciascun paese e introducendo come variabili esplicative la quota dell'agricoltura e dell'industria sul totale del PIL all'inizio di ciascun periodo. Le stime di β ottenute sono: Germania 0,0224 (0,0067); Regno Unito 0,0277 (0,0104); Italia 0,0155 (0,0037); Francia 0,0121 (0,0061); Spagna 0,0182 (0,0048). Questi risultati mostrano non solo la convergenza fra le regioni europee, ma anche un'elevata costanza nel coefficiente β che esprime la velocità di convergenza. Tenuto conto che i valori intorno al 2% sono stati trovati anche per gli Stati Uniti e il Giappone, non si può negare che questo è un risultato sorprendente. D'altronde, come abbiamo già osservato, non è possibile dire sulla base della convergenza β che è in atto un processo per cui le regioni più povere tendono a raggiungere il reddito pro capite di quelle più ricche. Il punto, come sottolinea Quath (v., 1996), è che le regressioni su basi cross section indicano solo una tendenza media ma non il comportamento dell'intera distribuzione, per cui la convergenza β è assolutamente compatibile con il processo di polarizzazione, che vede alcune regioni più povere accrescere le differenze dei livelli di reddito pro capite nei confronti delle regioni più ricche. D'altronde lo stesso Quath sottolinea come il valore del 2% trovato in molti lavori econometrici può essere spiegato con una invarianza statistica legata alla radice unitaria di processi stocastici.
Le analisi precedenti sembrerebbero confermare l'ipotesi che il problema degli squilibri regionali sia una caratteristica dei paesi in via di sviluppo e che nei paesi industrializzati vi sia una tendenza verso la convergenza regionale. In realtà non condividiamo le conclusioni ottimistiche che possono derivare da questi risultati, e in ogni caso riteniamo che il rapporto fra crescita e squilibri regionali sia più complesso di quel che i risultati empirici indicherebbero.
Analizziamo innanzitutto i risultati di Williamson. L'ipotesi di Williamson implica che un'analisi degli stessi paesi, dopo un certo numero di anni, dovrebbe mostrare per i paesi più ricchi, e cioè quelli dei gruppi I, II, III, IV, una sostanziale diminuzione negli indici di disuguaglianza regionale, mentre dovrebbe registrare un aumento nei paesi più arretrati, dei gruppi V, VI e VII, che si trovano ancora nella fase del take off. Per confermare tale ipotesi abbiamo aggiornato per gli anni novanta la tabella costruita da Williamson per gli anni cinquanta, ricalcolando i valori di Vw per il periodo 1993-1994 (v. tab. IV). Purtroppo la disponibilità dei dati non ci ha permesso di tener conto di tutti i paesi considerati da Williamson. Abbiamo però potuto utilizzare, anche per gli anni cinquanta, il dato sulla Cina, paese non considerato da Williamson. Questo ci ha permesso di effettuare per 16 paesi un confronto tra gli anni cinquanta e il biennio 1993-1994. Il confronto conferma solo in parte l'analisi di Williamson. Con i dati della tab. IV abbiamo realizzato due grafici relativamente a tali paesi. Sulle ascisse abbiamo indicato il valore del reddito di ciascun paese rapportato alla media dei paesi considerati, sulle ordinate vi è invece il valore Vw.
La fig. 1, relativa agli anni cinquanta, utilizza i valori calcolati da Williamson per sedici paesi, ma non evidenzia l'andamento a forma di U rovesciata fra intensità degli squilibri regionali e livello di reddito pro capite. È possibile invece notare una relazione decrescente fra intensità degli squilibri regionali e livelli del reddito pro capite anche se è possibile intravedere una inversione di tendenza allorché si considerano paesi con livelli del reddito pro capite alti. Questo risultato diverso da quello trovato da Williamson dipende dal fatto che nella nostra analisi, per poter effettuare un confronto con gli anni novanta, abbiamo eliminato molti paesi in via di sviluppo. Questa inversione di tendenza è molto più evidente allorché esaminiamo per gli stessi paesi, nel biennio 1993-1994, la relazione fra intensità degli squilibri regionali e livello del reddito pro capite (fig. 2). In tal caso si evidenzia un andamento a U. L'aspetto interessante è l'addensamento, rispetto agli anni cinquanta, di molti paesi nella parte centrale della curva, che evidenzia una diminuzione delle ineguaglianze regionali. D'altronde, giacché molti paesi hanno raggiunto elevati livelli di reddito pro capite, si è fatta più evidente per questi ultimi la relazione positiva fra squilibri regionali e livelli di reddito pro capite. Quindi, mentre negli anni cinquanta la maggior parte dei paesi considerati si trovava nella parte decrescente della curva, nel 1993-1994 essa si trova nella parte terminale del tratto decrescente e in quello crescente. È un risultato assolutamente in contrasto sia con l'ipotesi di Williamson, sia con il modello neoclassico e con le ipotesi sulla convergenza che da esso discendono.
Una conferma di questo andamento a U della relazione fra l'intensità degli squilibri regionali e il livello del reddito pro capite l'abbiamo ottenuta considerando un differente indice di disuguaglianza per il quale avevamo un campione di paesi più vasto. L'indice è V, il rapporto fra i redditi pro capite della regione più ricca e di quella più povera di ciascun paese (v. tab. V). In questo campione vi è una maggiore presenza di paesi in via di sviluppo, circa 10, rispetto al caso precedente. La fig. 3, che ha sulle ordinate questo indice di disuguaglianza V e sulle ascisse il valore del reddito pro capite di ciascun paese rapportato alla media dei paesi, evidenzia in modo molto chiaro questo andamento a U della curva. Anche in questo caso la relazione fra l'intensità degli squilibri regionali e il reddito pro capite cambia segno e diventa positiva per i paesi nella fascia di reddito medio-alta. La scomparsa di un tratto crescente per i paesi a reddito più basso, così come ipotizzato da Williamson, può dipendere dal fatto che negli anni ottanta i paesi del nostro campione hanno ormai iniziato la fase di industrializzazione per cui si trovano già nel lato decrescente della curva. Possiamo ora sintetizzare i principali risultati che derivano dalla nostra analisi: 1) la relazione fra l'intensità degli squilibri regionali e il livello del reddito pro capite non è lineare ma presenta inversioni di tendenza sia a livelli più bassi che a livelli più alti del reddito pro capite; 2) nei paesi industrializzati dell'OECD, nel periodo 1950-1990, vi è stata una tendenza alla riduzione dell'intensità degli squilibri regionali; 3) nei paesi in via di sviluppo non vi è stata una tendenza alla riduzione degli squilibri regionali, ma neppure, come ipotizza Williamson, una tendenza all'aumento; 4) nei paesi in via di sviluppo l'intensità degli squilibri regionali è molto maggiore che nei paesi industrializzati.
Le nostre conclusioni vengono confermate, per quanto riguarda i paesi in via di sviluppo, da una serie di lavori empirici ed econometrici apparsi in questi ultimi anni. Uno studio di H.T. Oshima (v., 1992) evidenzia che in molti paesi dell'Asia il valore massimo dell'ineguaglianza appare nello stadio dello sviluppo molto prima che in Occidente, allorché l'economia è ancora prevalentemente agricola. La ragione è che l'Asia, con l'eccezione del Giappone, non è mai passata attraverso la fase della rivoluzione industriale del XIX secolo. Questo spiegherebbe perché nei nostri grafici non si trovano conferme all'ipotesi di una crescita degli squilibri per i paesi dell'Asia con il procedere del processo di sviluppo. D'altronde in quei paesi non si assiste nemmeno ad una diminuzione degli elevati squilibri regionali, nonostante in molti di essi vi siano state intense politiche regionali. Questa persistenza, d'altro canto, si accompagna a trends differenti in vari sottoperiodi. Ad esempio in India (v. Pathak, 1994) l'indice Vw scende dal 27,5% degli anni cinquanta al 25,3% del periodo 1980-1981, per poi salire al 28,4% del biennio 19881989. In Cina l'indice Vw aumenta dallo 0,3% del 1952-1957 (v. Lyons, 1991) al 41,5 del periodo 1977-1983, per poi ridiscendere al 36,4 del periodo 1983-1987. Un altro studio sulla Cina (v. Chen e Fleisher, 1996) mostra che nel periodo 1978-1993, allorché inizia la politica delle riforme, non risulta convergenza assoluta. Il coefficiente β è negativo ma non significativo e il valore di R² è molto basso. Appare invece una convergenza condizionata, in particolare, allorché si introduce una dummy tra le regioni della costa e quelle dell'interno. Le altre variabili significative sono la quota degli investimenti, l'investimento in capitale umano e l'investimento esterno.
In Indonesia, invece, si assiste (v. Hill, 1992) negli anni 1974-1985, in un periodo di rapida crescita guidata dall'industria petrolifera, a una significativa diminuzione degli squilibri regionali, con l'indice Vw che passa dall'83,6% del 1975 al 50% del 1984. Questa dinamica, che contraddice l'ipotesi di Williamson, può essere spiegata con un intervento del governo centrale che, grazie alle entrate petrolifere, ha potuto finanziare programmi economici e sociali a favore delle regioni più povere. Purtroppo non vi sono dati che permettano di comprendere se, dopo la caduta dei prezzi del petrolio nella metà degli anni ottanta e il conseguente ridimensionamento dei programmi a favore delle regioni più povere, questa tendenza si sia modificata. Un caso opposto al precedente è quello dell'Iran, che (v. Sharbatoghlie, 1991) nel periodo postrivoluzionario 1974-1986 ha visto, nonostante un deterioramento nelle condizioni di vita in 14 province su 24, un miglioramento nelle condizioni delle province più disagiate grazie a una politica che ha puntato, rispetto al passato, allo sviluppo dell'agricoltura e delle aree rurali.
La persistenza di elevati squilibri regionali risulta anche quando si prendono in considerazione i paesi dell'America Latina. Il caso del Brasile è quello più noto per la gravità del problema dello sviluppo economico del Nord-Est. Secondo l'analisi di Williamson il Brasile avrebbe dovuto iniziare la fase in cui diminuiscono le differenze tendenziali nel reddito pro capite. In realtà, la gravità del problema del Nord-Est non pare sia diminuita nel corso del tempo (v. Savedoff, 1995). Ad esempio, l'assenza di ostacoli al flusso dei fattori fra le regioni non ha impedito il persistere di differenze salariali estremamente elevate per lavori eguali fra San Paolo e il Nord-Est (nella misura di 2 a 1). Anche il Messico (v. Juan-Ramon e Rivera-Batiz, 1996), il cui livello di sviluppo dovrebbe permettere di prevedere una riduzione nel grado di disuguaglianza, mostra una sostanziale persistenza delle ineguaglianze regionali, anche se la loro dinamica è diversa nei vari periodi. Nel periodo 1970-1985, allorché il reddito pro capite mostra una sostanziale crescita, risulta un'assoluta convergenza σ (dallo 0,42 del 1970 allo 0,32 del 1985) e un'assoluta convergenza β pari al 2,4% all'anno, mentre nel 1985-1993, un periodo di bassa crescita del reddito pro capite, si assiste a un processo di divergenza σ (dallo 0,32 del 1985 allo 0,42 del 1993) e un valore di β pari a -1,6 all'anno. Per l'intero periodo 1970-1993 il coefficiente di convergenza β è pari allo 0,7%, ben al di sotto del 2% trovato da Barro e Sala i Martin per i paesi industrializzati. Il caso messicano quindi è simile a quello di altri paesi nei quali è possibile verificare un aumento dell'intensità degli squilibri regionali nei periodi di stagnazione o depressione. Tale fenomeno può avere spiegazioni diverse: il fatto che nei periodi di stagnazione si riducono i programmi sociali ed economici a favore delle regioni meno favorite; il fatto che gli effetti diffusivi divengono meno forti; il fatto che le economie delle aree più povere sono meno diversificate; il fatto che la minor crescita riduce le esternalità negative nelle regioni più ricche e quindi l'incentivo per le imprese a trasferirsi nelle aree povere. Il caso del Cile è analogo a quello messicano, con un'ulteriore conferma della persistenza degli squilibri regionali e una diversa dinamica nei vari sottoperiodi. Il Cile evidenzia un peggioramento degli squilibri regionali negli anni sessanta e settanta, quando presenta uno sviluppo poco dinamico e perde posizioni rispetto agli altri paesi. Il valore di Vw passa dallo 0,32 degli anni cinquanta allo 0,41 del 1985, e si riduce a 0,36 nel 1992, allorché lo sviluppo si fa più rapido. Dall'insieme di questi lavori vengono confermate due conclusioni per quanto riguarda gli squilibri regionali nei paesi in via di sviluppo. La prima è che esiste una maggiore intensità nelle disparità di reddito fra regioni rispetto ai paesi industrializzati. La seconda è che per gran parte dei paesi in via di sviluppo non è iniziato il periodo della convergenza e il problema degli squilibri regionali rimane estremamente grave. Inoltre bisogna considerare che la variabile reddito pro capite appare inadeguata a dar conto dei divari fra le varie aree del paese. Indicatori che evidenziano aspetti sociali, culturali, livello di educazione possono meglio indicare le differenze fra le varie regioni di un paese; anzi proprio l'assenza di omogeneizzazione nei fattori culturali e sociali spiega la persistenza nel tempo degli squilibri economici.
Anche quando si considerano i paesi industrializzati, i risultati empirici non sembrano permettere un grande ottimismo. In Europa, a differenza del periodo che va dal 1950 alla fine degli anni settanta, non si evidenzia negli anni ottanta un processo di convergenza. Ciò emerge già dal lavoro di Barro e Sala i Martin relativo alle regioni europee (v. tab. III): per il sottoperiodo 1980-1990 il coefficiente β, pur indicando convergenza, ha un valore decisamente inferiore che negli altri periodi.Per illustrare meglio questo punto, con riferimento al periodo 1980-1994, abbiamo esaminato la convergenza σ fra i seguenti insiemi: 1) regioni di singoli paesi membri dell'Unione Europea (Belgio, Germania, Spagna, Francia, Grecia, Italia, Olanda e Regno Unito); 2) paesi membri dell'Unione Europea; 3) regioni dell'Unione Europea. L'unità di misura utilizzata è stata l'ECU. Utilizzando i dati EUROSTAT abbiamo considerato diverse aggregazioni delle regioni europee, rispettivamente 128, 115, 59 e 55 regioni, che abbiamo indicato con EU128, EU115, EU59, EU55. Per i vari insiemi considerati vi è un chiaro processo di convergenza σ, evidenziato fra l'altro anche da un coefficiente significativo del trend. Allorché invece andiamo a considerare i singoli paesi, solo Spagna e Grecia evidenziano un processo di convergenza. D'altronde, allorché utilizziamo l'indice Vw invece del σ scompare in Spagna nel periodo 1980-1994 ogni tendenza alla convergenza; tale indice passa dallo 0,175 del biennio 1980-1981 allo 0,196 del 1985-1986 e allo 0,202 del 1993-1994.
Allorché esaminiamo la convergenza fra i singoli paesi, e gli insiemi sono rispettivamente indicati da EU10, EU9, EU8 a seconda del numero di paesi che compongono ogni insieme, può risultare o meno un processo di convergenza; esso è evidente per EU8, cioè l'insieme che comprende Belgio, Danimarca, Germania, Spagna, Francia, Olanda, Regno Unito e Italia, ma se includiamo anche la Grecia non vi è invece alcun processo di convergenza. Quello che sembra sia accaduto è che, nell'ambito dei vari Stati, alcune regioni sono cresciute più rapidamente della media europea, in particolare nei paesi come Italia e Spagna, che presentavano un minor livello del reddito pro capite e grazie a ciò sono stati portati a convergere verso la media europea. D'altronde i paesi più ricchi, come Francia, Germania e Olanda, sono cresciuti meno della media europea e hanno visto accentuarsi le differenze al proprio interno. Quindi le regioni più povere di tali Stati, che in ogni caso avevano redditi notevolmente elevati, si vedono raggiungere dalle regioni più ricche degli Stati più poveri, ossia si è determinata una convergenza fra regioni. Si pensi che la regione più povera della Germania, la Renania, che nel 1980 aveva un reddito pro capite superiore alla più ricca delle regioni italiane, la Lombardia, nella misura del 15,2%, nel 1994 lo ha solo del 2,3%.
Si sta dunque formando in Europa un'area con una omogeneizzazione delle regioni più ricche dei vari paesi (a parte la Grecia) su elevati valori del reddito pro capite e un aumento delle differenze con le regioni più povere dei vari Stati nazionali, in particolare Spagna, Italia, Grecia e Portogallo. Le regioni più ricche d'Europa sono fra le più densamente popolate, caratterizzate da tassi di disoccupazione relativamente bassi e da elevati livelli di ricerca e sviluppo. Esse sono anche contigue geograficamente, e sono concentrate nella parte nordoccidentale del continente (l'area comprende gran parte della Germania occidentale e dell'Olanda, il Sud-Est e il Nord-Ovest della Francia, il Nord d'Italia, il Sud-Est dell'Inghilterra). Man mano che aumenta la distanza da queste regioni cresce il tasso di disoccupazione e diminuisce il livello del reddito pro capite.
Dalla tab. VI emerge un dato interessante: il processo di convergenza non si arresta solo in Europa, ma anche in altri paesi industrializzati come Stati Uniti e Giappone. Lo studio già citato di Barro e Sala i Martin (v., 1995) evidenzia l'assenza di convergenza assoluta per Stati Uniti e Giappone nel periodo 1980-1990, a differenza dei periodi precedenti. In Giappone in particolare il valore di Vw, dopo essere diminuito dallo 0,24 degli anni cinquanta allo 0,14 del biennio 1980-1981, risale allo 0,21 nel biennio 1985-1986 e allo 0,29 nel periodo 1993-1994. Solo il Canada (v. Coulombe e Lee, 1995) evidenzia una convergenza assoluta nell'ultimo decennio.
Una prima spiegazione di questi dati è che la divergenza riflette semplicemente l'effetto di temporanei ma rilevanti shocks economici a livello nazionale, quali lo shock energetico, modifiche nelle caratteristiche della tecnologia, variazioni nel settore agricolo, ecc. A questo proposito va ricordato che se le divergenze fra le economie sono rappresentate da serie non stazionarie, brusche variazioni nei livelli del reddito pro capite possono determinare una modifica permanente nella tendenza verso la convergenza (v. Carlino e Mills, 1993; v. Quath, 1993). Secondo alcuni l'attuale inversione di tendenza è il risultato di shocks temporanei in presenza di serie stazionarie, per cui la tendenza alla convergenza riprenderà. Carlino e Mills (v., 1996) sembrano condividere questa ipotesi per quanto riguarda gli Stati Uniti nel periodo 1946-1990, e ritengono che sia ancora in atto un processo di convergenza condizionata.
Secondo una diversa interpretazione questa sarebbe una divergenza permanente che risulta da forze endogene quali le economie di agglomerazione e le caratteristiche della tecnologia. Un'analisi recentemente svolta da Fagerberg, Verspagen e Caniels (v., 1997), relativamente a 64 regioni in Germania, Francia, Italia e Spagna per il periodo 1980-1990, evidenzia un processo di convergenza condizionata con una relazione inversa fra tasso di crescita e valore del prodotto pro capite all'inizio del periodo (effetto catch up) e una relazione diretta con lo sforzo in ricerca e sviluppo. La più elevata concentrazione di R&D nelle regioni più ricche è riuscita negli anni ottanta a compensare l'effetto di catch up delle regioni più povere, per cui si è avuto un processo di divergenza. In realtà questa analisi, pur mettendo in evidenza l'importanza delle spese in R&D nei riguardi dei meccanismi che determinano o accentuano gli squilibri regionali, non spiega il processo di divergenza negli anni ottanta.
Un'altra possibile interpretazione di questo fenomeno di divergenza per gli anni ottanta può essere la seguente. Nel dopoguerra nei paesi europei ha prevalso l'effetto catch up in quanto la leadership tecnologica era degli Stati Uniti e i paesi europei erano degli imitatori. In seguito tali paesi non solo hanno sostanzialmente ridotto le differenze nei livelli di reddito pro capite nei confronti degli Stati Uniti, ma hanno anche visto diminuire l'intensità degli squilibri regionali. Uno dei principali fattori che ha permesso la riduzione di questi squilibri è stato la localizzazione nelle regioni più povere di imprese esterne, attratte dai più bassi costi del lavoro e dalle politiche di incentivazione. Il processo imitativo, tramite investimenti esterni, sia nazionali che internazionali, ha favorito le aree più povere dei paesi europei. Verso la fine degli anni ottanta alcuni di essi (Germania, Francia, ma il discorso vale anche per il Giappone) hanno raggiunto come livello di reddito pro capite gli Stati Uniti o vi si sono molto avvicinati, e ovviamente si è di molto ridotto l'insieme dei prodotti imitabili. Questi paesi per mantenere le proprie posizioni devono divenire innovatori, e ciò si realizza tramite le spese in R&D. Si assiste quindi all'aumento di queste spese che vengono concentrate nelle regioni più ricche, più adatte al processo innovativo, dando quindi inizio a un processo di divergenza. Il discorso è diverso per Spagna e Italia in quanto nessuno dei due paesi è innovatore, almeno per quanto riguarda i settori avanzati.
Un'ulteriore spiegazione è la seguente: a partire dalla metà degli anni settanta, ma in particolare negli anni ottanta, in conseguenza del più basso tasso di crescita di molti paesi industrializzati e dei livelli di disoccupazione più alti, in tutta Europa le politiche regionali dirette hanno perso di intensità e si è ridotto il sostegno a favore delle aree depresse: ciò potrebbe spiegare perché si arresta il processo di convergenza fra le regioni all'interno di ciascun paese europeo e inizia un lento processo di divergenza. Ad esempio, in Gran Bretagna fra il 1975 e il 1985 il valore degli aiuti regionali all'industria si è ridotto di due terzi, mentre in Italia il rapporto fra gli incentivi concessi al Mezzogiorno e quelli al Centro-Nord è passato dal 3,99% del 1974 all'1,34 del 1990. D'altronde i trasferimenti concessi alle famiglie, proprio perché di tipo più automatico, non si sono ridotti sostanzialmente nonostante un clima non più favorevole alle prestazioni dello Stato sociale.
Vi è poi da considerare l'effetto scala dovuto alla sostanziale riduzione delle barriere alla circolazione di uomini, mezzi, capitali. Tale effetto ha operato nel senso di aumentare sostanzialmente le dimensioni del mercato per tutte le regioni più vicine al centro localizzato intorno a Bruxelles, quelle appunto indicate come le core regions. Per le regioni periferiche, più lontane da Bruxelles, in termini relativi il mercato si è ristretto. Questa dinamica relativa dei mercati, interagendo con le economie di scala (v. Krugman e Venables, 1990), ha incoraggiato la concentrazione della produzione nelle località con miglior accesso al mercato, anche se caratterizzate da più elevati costi del lavoro, per cui è iniziato un processo di divergenza.
Alla luce della precedente analisi è possibile fare alcune interessanti considerazioni.Si conferma che la dinamica degli squilibri regionali è più complessa di quella postulata dalle recenti teorie. Particolarmente interessante, a nostro avviso, è l'arresto del processo di convergenza nei paesi industrializzati, con l'indicazione, per alcuni paesi, addirittura di un aumento degli squilibri regionali. Questo implica che i modelli finora proposti sono ancora inadeguati a spiegare nella sua complessità il problema degli squilibri regionali. Occorre, ad esempio, costruire modelli in grado di interpretare sia la convergenza degli anni cinquanta-settanta che l'inversione di tendenza degli anni ottanta, ed elaborare una teorizzazione che spieghi perché il superamento degli squilibri regionali non sia un fenomeno scontato nemmeno nei paesi più industrializzati. Il compito appare particolarmente complesso in quanto tale teorizzazione dovrebbe tener conto dei rapporti fra alcuni elementi della realtà sociale, ad esempio le istituzioni e lo sviluppo economico, interrelazione che determina percorsi diversi, nei vari paesi, nella dinamica degli squilibri regionali. D'altronde uno sforzo in questa direzione appare necessario per formulare politiche che allontanino il rischio che il processo di globalizzazione e la concorrenza fra grandi aree determinino un accrescersi del fenomeno delle divergenze regionali, con effetti destabilizzanti nell'ambito degli Stati nazionali. (V. anche Dualismo economico; Migratori, movimenti; Sottosviluppo; Sviluppo economico).
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