Intelligenza
Il contributo che la scienza, e in particolare le scienze sociali, ha dato alla comprensione del fenomeno dell'intelligenza è difficile da valutare e, in un certo senso, anche solo da descrivere. L'intelligenza che si manifesta nel comportamento degli esseri umani e, in varie forme e gradi, anche in quello di altri organismi diversi dall'uomo è una caratteristica di questo comportamento essenziale per capirne la funzione e gli effetti sul mondo esterno, nonché i cambiamenti che sono avvenuti in tale comportamento nel passato (biologico e culturale) o che potranno avvenire in esso in futuro. Tuttavia, non si può dire che la scienza sia stata in grado finora di offrire una 'teoria dell'intelligenza' o anche soltanto un'analisi unitaria e condivisa di questo fenomeno.
Intanto, non è neppure chiaro quale dovrebbe essere il contributo della scienza in questo campo. 'Intelligenza' e 'intelligente' sono espressioni del linguaggio comune che, come altre espressioni che fanno riferimento al comportamento dei nostri simili, riflettono i valori di una particolare cultura e sono strumenti di valutazione sociale e, quindi, di interazione sociale all'interno di tale cultura. In questa prospettiva i fenomeni che la scienza dovrebbe analizzare e spiegare sarebbero null'altro che questi usi del linguaggio e ciò che questi usi rivelano di quella particolare cultura e società o anche della società umana in generale. Per contro, l'intelligenza può essere vista come un fenomeno a sé stante, una proprietà della mente dell'individuo che esiste al di là degli usi del linguaggio e della loro funzione di regolazione sociale. In questo secondo caso, non solo l'attenzione dello scienziato deve concentrarsi sulla mente dell'individuo piuttosto che sulle interazioni sociali, ma può emergere la richiesta rivolta alla scienza che essa misuri l'intelligenza, come una proprietà oggettiva che può essere posseduta in grado maggiore o minore da individui diversi.
Di fatto, tra tutte le discipline scientifiche è la psicologia, cioè la scienza della mente, che si è occupata in modo prevalente dell'intelligenza. Ma all'interno della psicologia l'intelligenza ha continuato a mostrare quanto sia difficile il suo studio scientifico, sia per quanto riguarda la problematicità di interpretarla come una proprietà obiettiva della mente dell'individuo, sia per quanto riguarda l'identificazione di ciò in cui consiste esattamente la proprietà della mente che chiamiamo intelligenza.
In effetti l'intelligenza costituisce un po' uno 'scandalo' per la disciplina della psicologia. Da un lato una delle tradizioni più antiche di ricerca della psicologia scientifica è quella della misura dell'intelligenza. I test di intelligenza, il quoziente di intelligenza (QI), l'età mentale di una persona sono tutti concetti da sempre familiari agli psicologi, e non solo agli psicologi. Dall'altro la psicologia si è dedicata a chiarire la natura dell'intelligenza e a proporne modelli di vario tipo. Anzi si può dire che, benché il termine 'intelligenza' in quanto tale non sia molto usato in psicologia (a parte la psicologia dei test), l'intelligenza costituisce l'oggetto di studio di gran parte della psicologia, cioè almeno di tutta la psicologia dei processi cognitivi o intellettivi. Lo scandalo consiste nel fatto che, mentre da una disciplina scientifica ci si aspetta che l'analisi della natura di un fenomeno e la sua misura procedano di pari passo e con scambi reciproci, i due filoni di ricerca si sono sempre ignorati a vicenda. La costruzione dei test di intelligenza e l'interpretazione dei risultati che si ottengono usando tali test non riflettono in alcun modo i modelli teorici dei processi intellettivi sviluppati dalle diverse 'scuole' psicologiche e, d'altro canto, questi modelli teorici sono basati su ricerche sperimentali autonome che poco hanno a che fare con i risultati ottenuti con i test. Nel seguito saremo quindi costretti a descrivere separatamente i test di intelligenza, da un lato, e i modelli teorici e sperimentali dell'intelligenza sviluppati dalla psicologia, dall'altro.
I test di intelligenza sono strumenti volti a determinare l'intelligenza posseduta da una persona come sua caratteristica oggettiva e a misurarla quantitativamente. L'esigenza prevalente che ha motivato la costruzione e l'uso dei test di intelligenza è stata fin dall'inizio di natura pratica. Possedendo una misura dell'intelligenza di una persona è possibile fare previsioni riguardanti questa persona (ad esempio, relativamente al suo successo o insuccesso scolastico), prendere decisioni sulla persona (ad esempio, se ammetterla a un determinato corso di formazione o assumerla per un determinato lavoro), spiegarne il comportamento in casi particolari (ad esempio, nel caso di comportamenti criminali), e così via. Solo marginalmente i risultati ottenuti con i test di intelligenza sono serviti anche per arrivare ad alcune conclusioni sul piano puramente conoscitivo riguardanti la natura dell'intelligenza o il modo in cui si sviluppa nel corso della vita dell'individuo.
La storia dei test di intelligenza comincia all'inizio del Novecento, quando lo psicologo francese Alfred Binet definì una serie di domande e di compiti da sottoporre individualmente a bambini in età scolastica; analizzando le risposte fornite, doveva essere possibile determinare una misura quantitativa della loro intelligenza (ad esempio, dal numero di risposte esatte) (v. Binet e Simon, 1908). Binet lavorò per incarico del Ministero della Pubblica Istruzione francese dell'epoca, desideroso di avere uno strumento con il quale prevedere e spiegare il successo e soprattutto l'insuccesso scolastico degli studenti. I test di intelligenza di Binet (noti come test di Binet-Simon, dal nome del collaboratore con cui Binet preparò i test) sono stati successivamente tradotti e adattati in molte lingue e rielaborati in vari modi. Tuttavia essi definiscono una volta per tutte l'impostazione generale che caratterizza la tradizione dei test, riassumibile in tre punti: a) esistenza di esigenze pratiche alla loro origine; b) definizione su base intuitiva di una serie di domande e compiti che costituiranno il test; c) validazione del test sulla base della sua capacità di predire (correlare con) qualche misura esterna ritenuta appropriata (ad esempio il successo scolastico o professionale).
I test di intelligenza tendono a essere differenziati per età, nel senso che per ciascuna età viene definito un diverso insieme di domande e di compiti. Questo consente di determinare l''età mentale' di una persona, che può essere diversa dalla sua età cronologica. Se una persona risponde correttamente a domande a cui normalmente rispondono correttamente soltanto persone più grandi, la sua età mentale sarà superiore alla sua età cronologica. E viceversa nel caso in cui riesca a rispondere correttamente solo a domande a cui sanno rispondere correttamente persone più giovani. Dall'età mentale si ricava il 'quoziente di intelligenza (QI)', definito come il rapporto tra età mentale ed età cronologica (moltiplicato per 100). Se di una persona sappiamo che ha una età mentale di 10 anni, in quanto risponde correttamente a domande appropriate per bambini di 10 anni, non sappiamo ancora nulla della sua intelligenza. Per sapere quanto è intelligente dobbiamo conoscere la sua età cronologica. Se anche la sua età cronologica è di 10 anni, la persona sarà esattamente nella media, cioè avrà un QI di 100 (età mentale diviso per età cronologica=1, moltiplicato per 100=100). Se invece il bambino ha 8 anni di età cronologica, il suo QI sarà di 125 (10 diviso 8 per 100), mentre se ha 12 anni, sarà di 83 (10 diviso 12 per 100).I test di intelligenza hanno subito diverse modifiche rispetto alla formulazione iniziale di Binet e anche rispetto alla rielaborazione più nota dei test di Binet costituita dall'adattamento in lingua inglese messo a punto dallo psicologo statunitense Lewis M. Terman sempre nei primi decenni del secolo (v. Terman e Merrill, 1937). Queste modifiche riguardano principalmente: a) l'estensione delle categorie di persone a cui i test possono essere somministrati; b) l'elaborazione di versioni dei test adatte alla loro somministrazione collettiva e non più solo individuale; c) l'estensione della gamma di età; d) la distinzione tra test verbali e test non verbali; e) la ricerca di test che siano indipendenti dalla cultura della persona a cui sono somministrati.
Per quanto riguarda i primi due punti va osservato che furono le esigenze pratiche che suggerirono di estendere l'uso dei test anche al di fuori delle situazioni scolastiche e di prevederne la somministrazione collettiva e non più individuale. In particolare, negli Stati Uniti i test di intelligenza furono ben presto usati nelle forze armate e poi nel mondo del lavoro. Questo naturalmente portò a delle modifiche nei contenuti delle domande e dei compiti che costituivano i test, che divennero più astratti e generali e meno legati alle particolari materie scolastiche. Altre esigenze pratiche richiesero che i test fossero somministrati collettivamente, cioè a molte persone contemporaneamente, rinunciando così alla guida e alla supervisione diretta di uno psicologo che osservasse il comportamento della persona durante la somministrazione del test. In questo modo fu possibile ottenere dati sui livelli di intelligenza di vaste categorie di persone, in situazioni sia scolastiche che di lavoro o militari, fare confronti tra categorie di persone e osservare tendenze temporali di lungo periodo.Come si è detto, i test originari di Binet erano destinati a bambini in età scolastica. I test successivi furono estesi da un lato a bambini in età prescolastica (a cominciare dai due anni di età) e dall'altro agli adulti. Nel primo caso fu necessario affrontare i problemi specifici relativi alla somministrazione di test a bambini molto piccoli, ad esempio le maggiori difficoltà nell'uso del linguaggio come mezzo di comunicazione (oltre all'impossibilità di usare la lingua scritta) e nell'ottenere dai bambini un comportamento appropriato alla situazione di test. Per quanto riguarda l'uso dei test di intelligenza con adulti, bisognava tener conto del fatto che l'intelligenza si stabilizza dopo il raggiungimento della maturità e che quindi non era più necessario usare l'età cronologica come termine di riferimento, come accade nel concetto originario di quoziente di intelligenza (vedi sopra). In effetti, il più noto test di intelligenza per adulti, quello dello psicologo statunitense David Wechsler, fornisce una misura dell'intelligenza in riferimento alla media ma senza considerare l'età cronologica (v. Wechsler, 1939).Il test di Wechsler, che fu poi esteso dallo stesso autore anche ai bambini, introduce un'altra importante novità: comprende infatti due distinte scale, una formata da test verbali e una formata da test non verbali (o di performance). I test del tipo Binet sono fondamentalmente test verbali. Il compito per chi fa il test è di capire delle domande formulate verbalmente e di fornire delle risposte verbali a tali domande. Quindi il linguaggio gioca in questo tipo di test un ruolo essenziale. Lo sviluppo degli studi portò ben presto a riconoscere che una misura dell'intelligenza che passava esclusivamente attraverso il canale verbale non poteva che essere una misura parziale e fuorviante. L'intelligenza si manifesta attraverso il linguaggio ma anche attraverso abilità che, almeno all'apparenza, non hanno nulla a che vedere con il linguaggio ma riguardano le nostre capacità percettive, di ragionamento spaziale, pratico, le capacità motorie, le capacità matematiche, e così via. Quindi nei test di intelligenza cominciarono a comparire compiti che o non erano formulati verbalmente o non richiedevano risposte verbali da parte della persona che si sottoponeva al test.
Ma il problema della natura verbale dei test di intelligenza ha due aspetti. Da un lato un test che misuri soltanto le abilità verbali risulta essere un test parziale, dato che l'intelligenza non è soltanto linguaggio e non si esprime soltanto attraverso il linguaggio. Dall'altro, un test che usi il linguaggio verbale nel porre i compiti al soggetto e che richieda risposte verbali, rischia di misurare male l'intelligenza del soggetto per ragioni linguistiche e culturali. Questo è evidente quando la lingua usata nel test non è la lingua madre della persona a cui il test è somministrato e quindi può essere conosciuta imperfettamente da tale persona. Ma il problema dei test verbali si presenta in modo più sottile quando la lingua usata nel test veicola valori e abitudini culturali diversi da quelli della persona a cui è somministrato il test, o addirittura la cultura di questa persona tende a essere una cultura complessivamente meno verbale di quella prevista dal test.
D'altro canto la dimensione culturale dei test di intelligenza pone problemi che vanno al di là dell'uso del linguaggio verbale. La stessa situazione sociale di essere sottoposto a un test, il tipo di interazione con chi lo somministra, la natura astratta e avulsa da un contesto concreto dei compiti e delle domande che costituiscono il test, sono tutti fattori che possono risultare estranei alla cultura di chi è sottoposto al test e quindi distorcere i risultati ottenuti. La ricerca ha cercato di chiarire questi fattori e di rendere i test esenti dalle loro conseguenze negative, riuscendovi tuttavia solo in parte. Ad esempio, il test di intelligenza che cerca di risolvere nel modo più radicale il problema del linguaggio verbale e del condizionamento culturale è il test detto delle 'matrici progressive' di J.C. Raven, test che è interamente costituito da problemi non verbali e che non fanno riferimento a nessun elemento concreto della realtà (figure di tipo geometrico). Ma il test rimane inadatto per culture che hanno poca familiarità con le classificazioni astratte, con il tipo di schematismo grafico usato nel test, e con il porsi problemi avulsi da un contesto concreto e pratico.
Nonostante queste limitazioni, alcune importanti indicazioni di carattere conoscitivo emergono dai risultati ottenuti con i test. Ad esempio, si è scoperto che non solo l'intelligenza aumenta nel corso dello sviluppo, si stabilizza alla fine dell'adolescenza e mostra poi un certo declino con l'avanzare dell'età, ma che con l'età cresce la possibilità di prevedere l'intelligenza futura basandosi su quella passata. Questo è del tutto impossibile se si esamina il comportamento del bambino nel primo anno di vita. Sebbene il bambino dalla nascita a un anno sia stato molto studiato dagli psicologi con importanti risultati, non vi è nulla nel suo comportamento da cui si possa dedurre una misura di intelligenza - e in effetti i test di intelligenza cominciano dai due anni in poi. In ogni caso non sembra che sia possibile predire la futura intelligenza di una persona dal suo comportamento nel primo anno di vita. Invece, l'intelligenza misurata negli anni prescolastici consente un certo grado di predizione dell'intelligenza futura e questa possibilità di predizione aumenta con l'età finché diventa molto elevata con l'adolescenza.
Un altro tipo di risultato, più controverso, riguarda le differenze nel livello di intelligenza misurata con i test in differenti gruppi di persone. Tra maschi e femmine emergono limitate differenze che riguardano il tipo di intelligenza piuttosto che il livello complessivo: i maschi riescono meglio nei compiti quantitativi e spaziali e le femmine nei compiti verbali. Differenze di livello complessivo emergono tra persone appartenenti a differenti categorie socioeconomiche e tra persone di razza diversa, tipicamente bianchi e neri negli Stati Uniti. Ma in questi casi è opportuno avere ben chiara in mente la natura dei test di intelligenza e in particolare il carattere relativo di ciò che essi misurano e del modo in cui lo misurano, che tende palesemente a premiare alcune 'scelte' culturali piuttosto che altre.
Una questione diversa è quella delle cause di queste differenze tra gruppi rilevate misurando l'intelligenza con i test. Questa è un'area di perenne controversia tra coloro che sottolineano i fattori genetici dell'intelligenza e coloro che sottolineano i fattori di esperienza e culturali. Anche gli studi esplicitamente rivolti a chiarire questo punto, ad esempio quelli che confrontano l'intelligenza di gemelli identici (stesso patrimonio genetico ereditato) allevati in ambienti diversi, difficilmente riescono a giungere a conclusioni generalmente accettate.Infine, un'ultima questione di carattere generale sollevata dalla ricerca sui test di intelligenza riguarda la natura stessa dell'intelligenza, almeno per quanto concerne il suo carattere unitario o molteplice. I test di intelligenza sono strumenti di misura molto sofisticati dal punto di vista statistico. Un aspetto dell'analisi statistica di questi test è lo studio della correlazione tra diversi test o tra parti diverse di uno stesso test. Se una persona che risponde bene a un test tende a rispondere bene anche a un altro test, i due test sono correlati e si può supporre che essi misurino la stessa cosa. Analisi statistiche più sofisticate (ad esempio l'analisi fattoriale) consentono anche di individuare diversi fattori astratti (dimensioni dell'intelligenza) e di misurare quanto il rispondere bene a un certo test dipende da ciascun fattore.
Il problema generale che queste analisi hanno consentito di affrontare, ma sul quale non si è giunti a conclusioni univoche, è se l'intelligenza sia una proprietà unica (una intelligenza generale) o se invece esistano forme diverse di intelligenza non confrontabili tra loro (v. Gardner, 1983). Una tipica distinzione tra tipi di intelligenza è quella tra intelligenza verbale e intelligenza quantitativa, ma ve ne sono altri tipi, come l'intelligenza spaziale, quella meccanica, quella sociale, e così via. Quando le analisi statistiche mostrano che vi è una generale correlazione tra vari tipi di test, si tende a concludere che esiste una intelligenza generale (detta fattore g), mentre se test diversi danno risultati diversi con la stessa persona, si tende ad assumere l'esistenza di componenti distinte dell'intelligenza o addirittura a negare che esista qualcosa di unitario che si possa chiamare intelligenza.
Anche i test di intelligenza presuppongono o danno luogo a modelli dell'intelligenza. Un test di intelligenza presuppone un modello dell'intelligenza in quanto chi costruisce il test deve necessariamente partire da una qualche idea, definizione, analisi dell'intelligenza come base per poter scegliere le domande e i compiti che dovranno costituire il test. Un modello in questo senso ha il difetto di essere puramente intuitivo, di condizionare la costruzione del test senza che i risultati ottenuti con il test stesso servano a confermarlo o a smentirlo (come ci si aspetta normalmente per i modelli della scienza), e, soprattutto, di non essere un modello dei meccanismi e dei processi che sottostanno ai comportamenti che chiamiamo intelligenti.
Un test di intelligenza dà luogo a un modello dell'intelligenza, se per modello intendiamo una semplice lettura, magari statisticamente sofisticata, dei risultati ottenuti con il test. Una analisi statistica di questi risultati può rivelare quali diversi componenti costituiscano l'intelligenza, quali siano i rapporti tra questi diversi componenti, come i diversi componenti cambino con l'età o siano influenzati da condizioni genetiche o ambientali. Anche questo tipo di modello non è molto soddisfacente, in quanto è soltanto una meccanica conseguenza del test che, come abbiamo appena detto, è costruito su una base sostanzialmente intuitiva.
Per trovare modelli teorici dell'intelligenza più soddisfacenti, e in particolare modelli dei meccanismi e dei processi che sottostanno ai comportamenti intelligenti e quindi li spiegano e ce ne fanno capire la natura, bisogna guardare altrove. Come si è accennato all'inizio, la psicologia ha prodotto molti interessanti modelli dell'intelligenza, ma lo ha fatto nell'ambito di tradizioni di studi che non hanno molto a che fare con i test di intelligenza e anzi molto spesso li rifiutano esplicitamente. È il caso della psicologia sperimentale, della psicologia generale che si occupa dei processi intellettivi o cognitivi, e della psicologia dello sviluppo cognitivo. In questi ambiti sono state studiate le capacità che costituiscono o sono alla base dell'intelligenza (percezione, comportamento motorio, memoria, linguaggio, ragionamento, alcuni aspetti della socialità), anche se il termine 'intelligenza' non identifica in genere (tranne forse che nel caso di Piaget) un campo di ricerca specifico. Il problema in questo caso è la sovrabbondanza di modelli teorici e la difficoltà di scegliere tra essi, considerato che la psicologia è una disciplina ancora organizzata in scuole e ciascuna scuola tende a proporre il suo modello dei processi intellettivi e quindi dell'intelligenza.
Per mettere un qualche ordine tra i diversi modelli dell'intelligenza seguiremo la distinzione proposta da Sternberg (che chiama metafore quelli che noi chiamiamo modelli: v. Sternberg, 1990) tra due modi di concepire l'intelligenza, e cioè un modo che vede nell'intelligenza qualcosa che può essere capito scrutando all'interno dell'organismo, e un altro modo che guarda all'ambiente esterno o almeno all'interazione tra interno ed esterno come passo necessario per capire la natura dell'intelligenza. (Noi seguiremo la distinzione di Sternberg, ma non sempre il modo con cui questo studioso la applica nei casi concreti).
I modelli che guardano verso l'interno cercano di definire e di analizzare l'intelligenza come una proprietà di processi che avvengono dentro l'organismo, pur essendo influenzati dall'ambiente circostante e influenzandolo. Nell'ambito di questa classe di modelli si possono fare ulteriori distinzioni in base a un altro criterio, e cioè quanto un modello si ispiri, nei concetti che usa e nei dati empirici che prende in considerazione, alla struttura e al modo di funzionare del cervello. La questione del rapporto tra mente e cervello si pone inevitabilmente quando ci si chiede cosa sia l'intelligenza. La scienza, e in particolare la psicologia, ha finora oscillato tra posizioni che ritengono che lo studio della mente (dell'intelligenza) debba necessariamente tener conto del cervello e posizioni che invece considerano l'intelligenza come una proprietà di una 'mente' che può e deve essere studiata indipendentemente dal cervello. In genere i modelli della psicologia tengono in scarsa considerazione il cervello e usano come dati empirici esclusivamente i dati del comportamento, o quelli fenomenologici e introspettivi, ma non i dati accumulati dalle neuroscienze sul cervello come macchina fisica. Per vedere quest'ultimo tipo di dati presi nella debita considerazione bisogna rivolgersi o a discipline-ponte come la neuropsicologia o la psicofisiologia oppure direttamente alle neuroscienze.
Alcune scuole tradizionali, oggi considerate a torto o a ragione superate, fanno un qualche riferimento iniziale e molto limitato al cervello, ma poi sviluppano i loro modelli teorici in modo largamente autonomo. Questo vale per due scuole che sono sorte nella prima metà del secolo e che per quasi ogni altro aspetto sono in aperto contrasto tra loro: il comportamentismo (o behaviorismo) e la psicologia della Gestalt.
1. Comportamentismo. - Il comportamentismo (v. Watson, 1924; v. Skinner, 1974) ritiene che il funzionamento mentale sia il frutto di associazioni tra stimoli e risposte, e di apprendimento di nuove associazioni nel corso dell'esperienza. In questa concezione della mente è evidente l'ispirazione neurofisiologica dell'arco riflesso (stimolo-reazione) e del modificarsi della forza delle connessioni sinaptiche tra i neuroni nell'apprendimento. Ma per il resto il comportamentismo ignora ogni altro aspetto della struttura e del funzionamento del sistema nervoso, nonché il modo in cui quest'ultimo si sviluppa durante la vita del singolo organismo o evolve al livello della specie. Da quest'ultimo punto di vista va anzi osservato che il comportamentismo tende esplicitamente ad attribuire un ruolo predominante, per non dire esclusivo, all'esperienza nel determinare il comportamento dell'individuo, e quindi a sminuire il ruolo dei fattori genetici che sono il risultato individuale dell'evoluzione della specie.
Tutto ciò ha come conseguenza che il comportamentismo tende ad avere una concezione 'generale' dell'intelligenza, come qualcosa di identico in tutte le specie animali compreso l'uomo. Infatti sono i diversi patrimoni genetici delle diverse specie animali che per lo più creano le differenze tra le diverse intelligenze e i diversi comportamenti, quindi proprio ciò a cui il comportamentismo non dà molto peso. Al massimo, ciò che viene considerato come ereditato geneticamente è la tendenza ad associare stimoli e risposte e a cambiare queste associazioni con l'esperienza. Ma questa tendenza è appunto universale nel mondo animale.
Un'altra conseguenza è la tendenza del comportamentismo a identificare l'intelligenza con l'apprendimento (si è tanto più intelligenti quanto più si è appreso) o con la capacità di apprendimento (si è tanto più intelligenti quanto più si è capaci di apprendere da un'esperienza data). Meno facilmente si possono analizzare, con i concetti del comportamentismo, altri aspetti dell'intelligenza come la capacità di risolvere un problema nuovo, l'emergere improvviso e intuitivo di una soluzione, la scoperta di analogie tra fatti distanti.
Le altre caratteristiche della concezione dell'intelligenza propria del comportamentismo emergono dalle scelte teoriche generali di questa scuola psicologica. Da un lato lo stesso parlare di 'mente', nel caso del comportamentismo, è errato perché questa scuola psicologica deve il suo nome proprio al fatto di rifiutare la mente come oggetto di studio legittimo della scienza, in quanto inosservabile direttamente, e di restringere la classe dei concetti fondamentali usabili nei modelli teorici ai soli concetti di stimolo e di risposta (comportamento), proprio in quanto essi solo designano fenomeni direttamente osservabili e misurabili. Ne consegue una concezione 'esteriore' dell'intelligenza, secondo cui essa è tutta espressa nel modo in cui si risponde agli stimoli provenienti dal mondo esterno con comportamenti che abbiano effetti sullo stesso mondo esterno. Si tratta tuttavia ancora di una concezione incentrata sull'interno dell'individuo, in quanto l'intelligenza, in fin dei conti, è vista come il risultato delle associazioni e dei cambiamenti in tali associazioni che avvengono 'tra' stimoli e risposte, e quindi 'dentro' l'organismo.
Va infine considerato che il modello stimolo-risposta del comportamentismo tende a essere un modello atomistico, nel senso che ciascun comportamento è visto come il risultato di una singola associazione tra uno stimolo e una risposta e, quindi, l'intera intelligenza è concepita come un semplice elenco di comportamenti/associazioni. (Questa non è una caratteristica inevitabile dei modelli associativi, come vedremo più avanti parlando dei modelli connessionisti). Questa concezione 'a mosaico' della mente rende difficile per il comportamentismo trattare aspetti importanti dell'intelligenza, come riconoscere le relazioni tra elementi dell'esperienza al di là degli elementi isolati, individuare analogie tra elementi non identici, trasferire ciò che si è appreso su X a qualcosa che somiglia a X, ma non è X.
2. Psicologia della Gestalt. - La psicologia della Gestalt (v. Köhler, 1929) è una scuola psicologica sviluppatasi grosso modo contemporaneamente al comportamentismo, ma per quasi ogni aspetto in contrasto con le scelte comportamentiste. Per quanto riguarda la posizione della psicologia della Gestalt nei confronti delle basi biologiche dell'intelligenza, questa scuola trae la sua ispirazione di base dalla natura di sistemi fisici complessi come il cervello, in cui ogni parte ha un effetto sul tutto (Gestalt) in dipendenza dalle altre parti, e in cui l'organizzazione complessiva e i mutamenti in tale organizzazione sono più importanti degli eventi periferici. Inoltre, contrariamente al comportamentismo, la psicologia della Gestalt dà molto rilievo alle componenti innate del comportamento e poco a quelle dell'esperienza, cercando così di tener conto, anche se alla lontana, della biologia evoluzionistica e della genetica. Ma per il resto anche la psicologia della Gestalt si fonda soltanto su dati 'psicologici', come sono i dati fenomenologici e introspettivi, e costruisce un modello dei processi cognitivi basato su principî autonomamente derivati da questi dati, anche se ritiene legittima la ricerca degli equivalenti neurofisiologici di tali principî.
La psicologia della Gestalt è soprattutto una psicologia della percezione e soltanto per estensione i principî sviluppati nello studio della percezione sono stati applicati ai processi cognitivi superiori, quelli che più facilmente identifichiamo con l'intelligenza (v. Wertheimer, 1920). Nell'analizzare la percezione, l'accento degli psicologi della Gestalt è posto sui fattori che governano complessivamente ciò che viene visto (o udito) e quindi sulle relazioni tra i singoli elementi piuttosto che sugli elementi presi isolatamente. La forma (Gestalt) di ciò che viene percepito emerge sulla base di una serie di principî di carattere generale e astratto che sono il risultato non dell'esperienza e dell'apprendimento, ma piuttosto di una maturazione di strutture innate.
Quando questa analisi della percezione viene applicata più generalmente all'intelligenza, sono proprio gli aspetti dell'intelligenza che il comportamentismo riesce ad analizzare con più difficoltà quelli che possono essere illuminati dalle analisi gestaltiche. Così, la scoperta improvvisa e intuitiva della soluzione di un problema può essere ricondotta a un cambiamento nell'organizzazione complessiva del quadro di dati che si hanno a disposizione, dove ogni singolo aspetto viene ora visto diversamente da prima proprio perché è sempre in funzione degli altri, e un singolo cambiamento in uno degli aspetti, di cui possiamo non essere consapevoli, porta con sé automaticamente un cambiamento del quadro totale.
Ugualmente la psicologia della Gestalt riesce a fornire interessanti spiegazioni della capacità di scoprire analogie e di trasferire conoscenze a casi nuovi, perché la sua analisi di ciò che sappiamo mette l'accento sull'organizzazione astratta di ciò che sappiamo piuttosto che sul suo contenuto specifico. In questo modo, al variare della situazione, è possibile trovare la stessa organizzazione con contenuti nuovi.
Non ha invece molto senso chiedere alla psicologia della Gestalt un'analisi del ruolo dell'esperienza nel modificare la nostra intelligenza, cioè una teoria dell'apprendimento. Anche se la teoria comportamentista, secondo cui l'esperienza rafforza o indebolisce le associazioni nella nostra mente e quindi cambia il nostro comportamento, è difettosa e insufficiente, tuttavia essa può essere un punto di partenza per affrontare questo importante aspetto dell'intelligenza, non foss'altro perché tiene conto di alcuni fatti elementari del sistema nervoso. Come vedremo, i modelli connessionisti costituiscono un tentativo di mettere insieme il meglio del comportamentismo e della psicologia della Gestalt, offrendo un'analisi associazionista dell'apprendimento (come rafforzamento o indebolimento di associazioni) e superando nello stesso tempo l'atomismo comportamentista col dare tutto lo spazio necessario ai principî di organizzazione e del 'tutto come qualcosa di più della somma delle parti' che caratterizzano la psicologia della Gestalt.
3. Cognitivismo. - Sia il comportamentismo che la psicologia della Gestalt sono scuole psicologiche della prima metà del XX secolo. Appartiene invece alla seconda metà del secolo la scuola di psicologia che più esplicitamente ha 'preso le distanze dal cervello', ritenendo che il suo oggetto di studio sia una mente da studiare con modelli del tutto indipendenti da quelli utilizzati per lo studio del cervello. Si tratta del cognitivismo, ovvero della concezione della mente e dell'intelligenza come elaborazione dell'informazione (v. Neisser, 1967; v. Fodor, 1983). È con il cognitivismo che si realizza il vecchio sogno della tradizione culturale dell'Occidente di dare una base di legittimità al dualismo tra mente e cervello (o, più generalmente, tra mente e natura). Questo dualismo ha avuto sempre un carattere puramente filosofico, religioso o morale, ma sul piano scientifico, mentre la scienza ha saputo sviluppare strumenti concettuali rigorosi (in particolare quantitativi) per studiare il cervello come sistema fisico, non altrettanto si può dire per lo studio di qualcosa che si vuole essenzialmente diverso dalla materia fisica, come la mente. Mancava quindi fino a ora una base di legittimità scientifica per il dualismo tra mente e cervello. Il cognitivismo, offrendo un sistema di concetti scientificamente rigorosi per parlare della mente senza menzionare in alcun modo il cervello, dà alla mente e al cervello la stessa legittimità come oggetti separati di studio.
Il cognitivismo è stato in grado di compiere questa operazione in quanto ha applicato allo studio della mente gli stessi concetti che l'informatica ha sviluppato per parlare dei calcolatori. Il calcolatore elettronico funziona in base a principî molto diversi da quelli del cervello, eseguendo cioè sequenzialmente una procedura logica disegnata e costruita all'esterno (dal programmatore umano), la quale opera su simboli e strutture di simboli. Il cervello invece opera compiendo in parallelo tante operazioni non logiche ma quantitative, in funzione di un'organizzazione che si è sviluppata da sola nell'interazione con l'ambiente esterno. Il cognitivismo elabora modelli della mente concepiti come strutture di dati e operazioni su tali dati, in pratica come programmi di calcolatore. Ed è proprio l'uso dei concetti e dei metodi precisi e rigorosi dell'informatica, convalidati peraltro dalla loro applicazione alle macchine, che consente a questa scuola psicologica di evitare ogni riferimento al cervello e di rendersi completamente autonoma dalle scienze che lo studiano.Il modello dell'intelligenza che emerge dal cognitivismo è inevitabilmente influenzato dall'analogia con il calcolatore. Quando l'intelligenza si esprime nel ragionamento, nell'affrontare la soluzione di un problema in modo logico e sistematico, nella pianificazione consapevole delle azioni in vista di un certo risultato, il cognitivismo ha fornito analisi plausibili. Nello studio della percezione e del comportamento motorio, del linguaggio e dell'apprendimento, il cognitivismo ha fornito analisi interessanti e strumenti di lavoro utili, ma non è riuscito a sconfiggere l'impressione che la mente operi in base a principî diversi da quelli di un calcolatore.
4. Psicofisiologia e neuropsicologia. - In una prospettiva opposta rispetto alle scuole di cui abbiamo parlato finora, almeno per quel che riguarda i rapporti tra intelligenza e cervello, vi sono altri indirizzi di ricerca molto attivi attualmente. Ciò che accomuna questi indirizzi è l'esigenza esplicita che lo studio dell'intelligenza sia il più vicino possibile allo studio del cervello. Tuttavia vi sono due diverse strade per realizzare questo obiettivo. Una strada è quella di cercare corrispondenze tra i dati comportamentali, e più in generale psicologici, e i dati direttamente riguardanti il cervello, cioè le osservazioni e le misure concernenti la struttura e il funzionamento del sistema nervoso. Il confronto può restare puramente empirico, ma se esso non è solo confronto di dati bensì anche di modelli, allora la tendenza è quella di tenere distinti i modelli e i concetti con cui si cerca di mettere ordine nelle due categorie di dati. Questa è la strada seguita tradizionalmente dalla psicofisiologia, dalla neuropsicologia e, più recentemente, dalla neuroscienza cognitiva.
5. Connessionismo.- La seconda strada per avvicinare lo studio della mente a quello del cervello è più radicale. Essa si basa sul principio che esattamente gli stessi concetti e gli stessi modelli debbano essere usati per dar conto sia dei dati psicologici che dei dati riguardanti il sistema nervoso. Questa è la strada seguita più di recente dal connessionismo e dai modelli 'a rete neurale' (v. Rumelhart e McClelland, 1986; v. Parisi, 1989). Una rete neurale è un modello simulato sul calcolatore, costituito da un insieme di unità, simili ai neuroni, che si influenzano a vicenda e in parallelo attraverso le loro connessioni, che sono simili alle giunzioni sinaptiche tra neuroni. Questa influenza si manifesta nel livello quantitativo di attivazione presentato da ciascuna unità a ogni determinato istante. Il modo in cui una unità influenza un'altra unità con cui è connessa dipende dalla 'forza' della connessione. La forza delle connessioni si modifica, crescendo o diminuendo, nel corso dell'apprendimento. Un modello a rete neurale deve cercare di dar conto, nello stesso tempo, da un lato dei dati comportamentali e dall'altro dei dati neuroanatomici e neurofisiologici. Una rete neurale acquisisce una capacità comportamentale osservata negli organismi reali sviluppando progressivamente un insieme di coefficienti quantitativi per le sue connessioni, tali che la rete fornisca l'output appropriato per ogni input proveniente dall'esterno. D'altro canto, la struttura interna della rete, il suo modo di funzionare, il suo modo di modificarsi nell'apprendimento, debbono rispettare ciò che sappiamo sul sistema nervoso reale.
Poiché il principio elementare di funzionamento di una rete neurale è costituito dal collegamento tra due unità, le reti neurali sono modelli associativi. Tuttavia, essi hanno una caratteristica che li distingue dai modelli associativi classici (comportamentismo) e li fa piuttosto rassomigliare a modelli basati sull'idea che l'organizzazione complessiva sia più importante delle singole parti (psicologia della Gestalt). Questa caratteristica è la natura 'distribuita' delle loro rappresentazioni. Una qualunque entità (un oggetto, una proprietà, un evento, ecc.) rappresentata in una rete neurale - così come tendenzialmente anche nel sistema nervoso reale - non è rappresentata da una singola unità o da una singola connessione, ma corrisponde piuttosto a un intero pattern di livelli di attivazione su un insieme numeroso di unità. Una conseguenza di ciò è che uno stesso insieme di unità può rappresentare entità diverse a seconda del pattern di attivazione attualmente esibito dalle unità che costituiscono l'insieme. Pertanto, nei modelli connessionisti, il significato di ogni singolo elemento (unità, connessione) dipende dall'insieme di altri elementi con cui interagisce. Questo consente ai modelli connessionisti di essere fondamentalmente dei modelli associativi dell'apprendimento e nello stesso tempo di affrontare quelle caratteristiche dell'intelligenza (ristrutturazioni improvvise, scoperta di analogie, trasferimento di conoscenze) che tradizionalmente sono difficili da trattare per i modelli associativi.Vi sono tuttavia altre componenti dell'intelligenza difficili da trattare per il connessionismo, e sono quelle componenti in cui sono in primo piano la manipolazione di simboli, il funzionamento in modo sequenziale piuttosto che parallelo, la pianificazione e l'esecuzione di procedure logiche - cioè gli aspetti dell'intelligenza per i quali, come abbiamo visto, il cognitivismo fornisce le sue analisi più interessanti.
In tutti i modelli descritti finora l'intelligenza è vista come una proprietà del funzionamento interno dell'organismo, dove ciò che è interno all'organismo può essere sia la mente che il cervello. In altri casi, invece, l'attenzione del ricercatore, nel cercare di capire cosa sia l'intelligenza, si è rivolta all'esterno dell'organismo o, quanto meno, alle interazioni tra l'organismo e il suo ambiente. Qui la distinzione che occorre fare, per mettere ordine tra i vari modelli, è quella tra ambiente sociale e ambiente non sociale.
1. Intelligenza e ambiente culturale e sociale. - La distinzione tra ambiente sociale e ambiente non sociale è importante anche per spiegare l'origine biologico-evolutiva dell'intelligenza umana. Esiste infatti un contrasto tra spiegazioni che fanno risalire l'emergere biologico della nostra intelligenza alle pressioni evolutive collegate all'uso di strumenti e altre spiegazioni che cercano invece di attribuire alle pressioni sociali (necessità di prevedere, controllare, manipolare il comportamento dei nostri simili) l'espandersi dell'intelligenza (e delle dimensioni del cervello) nella filogenesi di Homo sapiens. Ma, almeno nell'ambito della psicologia, lo studio dell'intelligenza tende a essere circoscritto al singolo individuo, e quindi anche l'importanza relativa dell'ambiente sociale e di quello non sociale tende a essere vista in relazione allo sviluppo dell'intelligenza nel singolo individuo piuttosto che nell'evoluzione della specie.
Alcune indagini mettono l'accento sul ruolo dell'ambiente culturale nello sviluppo dell'intelligenza e quindi nella forma che essa assume nell'individuo adulto. Tornano qui alcuni dei problemi che si pongono nella costruzione e nell'uso dei test di intelligenza. L'intelligenza e le nostre abilità cognitive sono caratteristiche universali della nostra specie o sono determinate dal particolare ambiente culturale che seleziona le cose alle quali prestare attenzione, i concetti con cui parlare e pensare, i valori e i giudizi sociali, e così via? Le differenze che si osservano nelle abilità cognitive tra una cultura e l'altra sono dovute alla diversa lingua o sono differenze che hanno origine indipendentemente dal linguaggio? Queste differenze sono sostanziali oppure si tratta soltanto di differenze nel ritmo di acquisizione di una identica sequenza di capacità? La ricerca su questi temi ha offerto dati e analisi di notevole interesse, ma non risposte univoche.Altre analisi sono meno interessate alle differenze tra culture e guardano piuttosto all'ambiente sociale all'interno di una singola cultura come fattore che determina lo sviluppo dell'intelligenza. Tra queste analisi la più importante (e anche la prima) è quella dello psicologo russo Lev Vygotskij (v., 1934), secondo il quale l'intelligenza è il frutto di una interiorizzazione di capacità sociali. Il bambino prima sviluppa capacità di interazione, di decentramento, di scambio linguistico con gli altri e poi progressivamente interiorizza queste capacità imparando a svolgere le stesse attività tra sé e sé. Una implicazione di questa teoria è l'interpretazione del pensiero come linguaggio interiore, cioè come un parlare a se stessi.
Questa posizione è spesso messa in contrasto con quella dello psicologo svizzero Jean Piaget, con il quale in effetti Vygotskij ebbe una lunga controversia. Secondo Piaget, il processo postulato da Vygotskij, dal sociale al mentale, va invertito, in quanto è piuttosto la mente individuale che si sviluppa per prima per poi investire, con le abilità intellettuali emerse in questo sviluppo, le capacità sociali dell'individuo. Tuttavia, la posizione di Piaget su tale questione è più complessa, in quanto, almeno per gli stadi più avanzati dello sviluppo intellettivo, egli riconosce l'importanza primaria delle regolazioni sociali; pertanto la teoria dell'intelligenza di Piaget, forse il più importante studioso dell'intelligenza, va esaminata più in dettaglio.
2. Piaget. - Per capire la teoria dell'intelligenza di Piaget occorre tener presente che l'intelligenza per lo psicologo svizzero è una forma di adattamento biologico. In effetti Piaget è forse l'unico psicologo che tenta di collocare lo studio dell'intelligenza umana in un quadro biologico complessivo (v. Piaget, 1967). Egli cerca di fare i conti con l'evoluzione biologica analizzando le relazioni tra processi evolutivi al livello delle popolazioni e processi di sviluppo al livello dell'individuo. È invece meno interessato alle basi neurali dell'intelligenza, anche se non ha difficoltà a cercare, in alcuni casi, le corrispondenze tra il livello cognitivo e quello neurale. Ma l'impostazione biologica della teoria piagetiana dell'intelligenza consiste soprattutto nell'uso di concetti per l'analisi dell'intelligenza che siano appropriati anche per l'analisi di fenomeni biologici. Tra questi concetti i più importanti sono quelli di assimilazione, accomodamento e adattamento, da un lato, e i concetti relativi allo studio dei sistemi organizzati e capaci di autorganizzazione, dall'altro (v. Piaget, 1947).
Per assimilazione Piaget intende l'inserimento di una nuova esperienza negli schemi già disponibili in quanto precedentemente sviluppati in base alle esperienze precedenti. L'accomodamento è invece il processo inverso che modifica gli schemi preesistenti in funzione delle nuove esperienze. Adattamento è l'equilibrio tra i due processi complementari dell'assimilazione e dell'accomodamento. Inoltre, un sistema è organizzato in quanto le sue proprietà sono il frutto dell'interazione e dell'equilibrio tra le sue varie parti, invece che un semplice elenco delle proprietà di queste parti. Ed è capace di autorganizzazione se, interagendo con un ambiente esterno, mantiene la sua organizzazione e la sviluppa in funzione di quest'ultimo, ma soprattutto in funzione del tipo di organizzazione preesistente.
Questi concetti, che sono quelli più generali sui quali Piaget basa la sua analisi dell'intelligenza, sono evidentemente applicabili ai fenomeni biologici a tutti i livelli. La mente e l'intelligenza per Piaget sono soltanto un particolare livello di funzionamento biologico, caratterizzato dal fatto che processi puramente fisici di interazione con l'ambiente esterno, operanti a tutti i livelli biologici, dalle biomolecole in su fino agli organismi, divengono rappresentati all'interno del sistema nervoso e, liberandosi dai vincoli dell'interazione fisica, sviluppano proprietà nuove.
L'altra componente di tipo biologico della teoria piagetiana dell'intelligenza è il suo approccio decisamente genetico. Per Piaget l'intelligenza può essere capita soltanto studiando il modo con cui essa si sviluppa. E lo sviluppo è certamente la caratteristica più rimarchevole di tutti i fenomeni biologici. In effetti, la teoria piagetiana dell'intelligenza non è che uno studio, teoricamente molto serrato, del succedersi di una serie di stadi nello sviluppo dell'intelligenza che vanno dalla nascita all'età adulta. Va ricordato inoltre che, dato il carattere generale e astratto dell'analisi di questo sviluppo, Piaget ha cercato di trovare analogie tra lo sviluppo dell'intelligenza nel bambino e l'evoluzione storica della scienza.
Proprio in quanto biologicamente impostata, la teoria piagetiana dell'intelligenza è rivolta all'esterno o, meglio, si concentra sulle relazioni tra l'interno (l'individuo) e l'esterno (l'ambiente). Infatti, tutta la materia vivente è specificamente caratterizzata proprio dai continui scambi con l'ambiente esterno. È vero che Piaget sembra più interessato all'ambiente costituito dagli oggetti fisici che non a quello sociale; ma in ogni caso l'interazione con l'ambiente è vista in modo molto attivo, in quanto l'organismo 'stimola' con le sue azioni l'ambiente e impara a conoscerlo esaminando come esso reagisca a queste azioni. (Questo è in contrasto con la concezione passiva dell'organismo propria del comportamentismo, secondo la quale è l'ambiente che stimola l'organismo, il quale si limita a reagire).
3. Vita artificiale. - Concludiamo ricordando alcune ricerche molto recenti che vanno sotto il nome di vita artificiale (v. Langton, 1992). La vita artificiale è il tentativo di studiare ogni tipo di fenomeno biologico riproducendolo artificialmente. Se, seguendo Piaget, consideriamo l'intelligenza come un tipo di fenomeno biologico, lo studio dell'intelligenza rientra nella vita artificiale. In effetti, essa comprende i modelli delle reti neurali che, come abbiamo visto, cercano di analizzare contemporaneamente, simulandole sul calcolatore, le capacità comportamentali e il loro sostrato neurale. Ma lo studio delle reti neurali compiuto in un ambito di vita artificiale presenta alcune caratteristiche particolari rispetto ai normali modelli connessionisti. In primo luogo, vengono studiate le reti neurali, ma anche l'ambiente in cui esse (o gli organismi di cui esse costituiscono il sistema nervoso) vivono, e soprattutto le interazioni tra reti e ambiente. Questo giustifica il fatto che queste reti neurali ecologiche vengano considerate come modelli dell'intelligenza rivolti verso l'esterno, e non, come i modelli connessionisti di cui si è parlato in precedenza, come modelli rivolti verso l'interno. In secondo luogo, non si studia soltanto l'apprendimento che avviene all'interno di una singola rete neurale, come nei normali modelli connessionisti, ma anche l'evoluzione biologica per selezione naturale che avviene in popolazioni di reti, mediante l'uso di speciali modelli simulativi chiamati 'algoritmi genetici'. Infine, i modelli di vita artificiale, nonostante il loro riferimento alla biologia, possono essere estesi allo studio della trasmissione e del cambiamento culturale, consentendo così di portare all'interno di un modello unitario un'altra classe di fattori essenziali per la comprensione dell'intelligenza umana.
(V. anche Apprendimento; Cognitivi, processi; Intelligenza artificiale).
Binet, A., Simon, T., Le développement de l'intelligence chez les enfants, in "Année psychologique, 1908, XIV, pp. 1-94.
Fodor, J.A., The modularity of mind, Cambridge, Mass., 1983 (tr. it.: La mente modulare, Bologna 1988).
Gardner, H., Frames of mind: the theory of multiple intelligences, New York 1983 (tr. it.: Formae mentis: saggio sulla pluralità delle intelligenze, Milano 1987).
Köhler, W., Gestalt psychology, New York 1929 (tr. it.: La psicologia della Gestalt, Milano 1961).
Langton, C.G., Artificial life, in 1992 Lectures in complex systems (a cura di L. Nadel e D.S. Stein), Reading, Mass., 1992 (tr. it.: Vita artificiale, in "Sistemi intelligenti", 1993, IV, 3, pp. XX).
Neisser, U., Cognitive psychology, New York 1967 (tr. it.: Psicologia cognitivista, Firenze 1976).
Parisi, D., Intervista sulle reti neurali, Bologna 1989.
Piaget, J., La psychologie de l'intelligence, 1947 (tr. it.: Psicologia dell'intelligenza, Firenze 1967).
Piaget, J., Biologie de l'intelligence, Paris 1967 (tr. it.: Biologia e conoscenza, Torino 1983).
Rumelhart, D.E., McClelland, J.L., Parallel distributed processing: explorations in the microstructure of cognition, 2 voll., Cambridge, Mass., 1986 (tr. it. parziale: PDP: microstruttura dei processi cognitivi, Bologna 1991).
Skinner, B.F., About behaviorism, London 1974.
Sternberg, R.J., Metaphors of mind: conceptions of the nature of intelligence, Cambridge 1990.
Terman, L.M., Merrill, M.A., Measuring intelligence, Boston 1937.
Vygotskij, L.S., Myslenie i rec': psichologiceskie issledovanija, Moskva-Leningrad 1934 (tr. it.: Pensiero e linguaggio, Roma-Bari 1990).
Watson, J.B., Behaviorism, New York 1924.
Wechsler, D., The measurement of adult intelligence, Baltimore 1939.
Wertheimer, M., Über Schlussprozess im produktiven Denken, Berlin 1920.