Vedi Iran dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
La Repubblica islamica d’Iran è un’entità politica complessa e unica nel suo genere. Nata nel 1979 a conclusione di un processo rivoluzionario guidato dall’ayatollah Khomeini in opposizione allo shah Mohammed Reza Pahlavi, rappresenta una sintesi di elementi repubblicani e di governo religioso. Questa particolare conformazione politica, unita alla caratteristica di essere un paese persiano incastonato nel mondo arabo, oltre che il maggiore paese sciita in un contesto dominato dall’islam sunnita, contribuiscono a definire le specificità dell’Iran e a dettarne l’orientamento.
A più di trent’anni dalla rivoluzione, l’Iran si trova pero a fare i conti con la pesante eredità del khomeinismo, tanto dal punto di vista della politica interna quanto da quello della politica estera. Dal punto di vista interno, la classe di ex rivoluzionari che ha partecipato al processo costitutivo della Repubblica islamica domina ancora la vita politica del paese. Qualsiasi ruolo di comando, tanto negli organi politici quanto in quelli della pubblica amministrazione, è precluso a chi non possa vantare solide credenziali di rivoluzionario. Un paese che vanta uno dei tassi di popolazione più giovane e più istruita nell’area si trova così a scontare una massiccia fuga di cervelli, dettata dall’impossibilità di farsi spazio in un contesto che si regge ancora in maniera preponderante su logiche clientelari e assistenziali. Dal punto di vista della politica estera, permangono le difficoltà tanto con i vicini regionali, quanto con gli Stati Uniti. Nonostante le recenti aperture del neoeletto presidente Hassan Rouhani, ufficialmente in carica dall’agosto 2013, l’Iran è ancora considerato con diffidenza, se non con aperta ostilità, dai principali concorrenti al ruolo di egemone nell’area mediorientale, in primis l’Arabia Saudita. Non è stata ancora sanata, inoltre, la ferita inferta ai rapporti con Washington in seguito all’assalto all’ambasciata statunitense a Teheran nei giorni della rivoluzione. Proprio sull’opposizione al ‘grande Satana’, come sono stati ribattezzati gli Stati Uniti durante la rivoluzione, si è fondata e si fonda tuttora buona parte della retorica di regime. Sebbene questa retorica fatichi sempre più a trovare seguito tra la popolazione, rappresenta la principale fonte di autolegittimazione della Repubblica islamica.
Dal 2003, inoltre, l’Iran è sotto i riflettori internazionali per il suo controverso programma nucleare. Avviato nel lontano 1957 dall’allora shah Muhammad Reza Pahlavi con la collaborazione dell’amministrazione statunitense guidata da Dwight Eisenhower, il dossier nucleare iraniano è entrato nell’agenda internazionale per i suoi possibili risvolti militari. Benché il governo abbia insistito sulla natura civile del programma, ripetuti controlli dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) hanno messo in luce diverse ambiguità, che hanno portato i paesi del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a varare diverse risoluzioni di condanna e a implementare successivi round di sanzioni.
In seguito alla rivoluzione del 1979 l’Iran è diventato una repubblica islamica, realizzando, di fatto, un sistema duale di potere basato sulla compresenza di organi a legittimazione religiosa e organi a legittimazione popolare. Il sistema del Velāyate faqīh (governo del giurisperito) progettato dall’ayatollah Khomeini nei giorni della rivoluzione, è basato sull’attribuzione della leadership politica a un faqīh (giurista), incaricato di garantire il rispetto dell’islam da parte del popolo, in qualità di vicario del dodicesimo imam (secondo lo sciismo duodecimano, Muhammad al-Mahdī, appunto il dodicesimo imam, non sarebbe morto ma si sarebbe nascosto nel 9° secolo a.C. e se ne attenderebbe il ritorno). Il faqīh è incarnato politicamente dalla guida suprema, che rappresenta la carica più importante dello stato: a sceglierlo è l’Assemblea degli esperti. Di seguito viene il presidente, detentore del potere esecutivo: è eletto ogni quattro anni, per un massimo di due volte consecutive, con suffragio universale. Il presidente sceglie i ministri del governo, il parlamento (Majlis) li conferma e ne può anche chiedere la rimozione. Al Majlis è affidato il potere legislativo: ha struttura unicamerale ed è composto da 290 membri eletti ogni quattro anni. Per potersi candidare alle elezioni parlamentari e presidenziali è indispensabile ricevere il beneplacito del Consiglio dei guardiani, formato da sei esperti religiosi nominati dalla guida suprema e da sei giuristi, nominati dal Majlis dietro indicazione del capo della giustizia, anch’egli nominato dalla guida. Oltre che per il potere di preselezione dei candidati, il Consiglio è uno degli organi più potenti del sistema politico per due motivi: può bloccare l’iter legislativo delle proposte parlamentari e giudica la conformità della legge alla Costituzione e ai precetti islamici. Data la complessità dell’assetto istituzionale, risulta evidente il ruolo prioritario del Consiglio, che agisce sotto lo stretto controllo della guida suprema.
Dal 1979 a oggi, solo due uomini hanno ricoperto la carica di Guida suprema. L’ayatollah Khomeini, che, dopo averlo creato, ha ricoperto tale ruolo fino alla morte, nel 1989, e l’ayatollah Khamenei, tutt’ora in carica. Il titolo religioso di ayatollah non deve ingannare circa la natura della carica. Soprattutto durante l’era Khamenei, infatti, tale carica è andata accumulando sempre più potere politico a dispetto dell’aspetto religioso.
Alla carica di presidente della repubblica si sono invece alternati negli anni, con mandati limitati nel tempo, i grandi nomi del panorama rivoluzionario iraniano. Se dal 1979 al 1989, nel decennio khomeinista, tale ufficio rappresentava una carica prettamente onorifica, la modifica costituzionale del 1989, che ha eliminato il ruolo di primo ministro e aperto la strada all’ascesa dell’ex presidente Khamenei al rango di Guida Suprema, ha dato nuova linfa anche al ruolo di presidente. Dal 1989 al 1997 sullo scranno presidenziale si è seduto Hashemi Rafsanjani, a capo della corrente dei cosiddetti ‘tecnocrati’ che, pur muovendosi all’interno dell’orizzonte islamico, chiedevano un rilassamento dell’ideologia rivoluzionaria in favore di un maggiore pragmatismo che potesse risollevare le sorti del paese. Dal 1997 al 2005 è stata la volta del riformista Mohammad Khatami, i cui tentativi di cambiamento del sistema dall’interno sono falliti, preparando di fatto la strada all’ascesa, nel 2005, del radicale Mahmoud Ahmadinejad. Proprio la rielezione di quest’ultimo, avvenuta nel 2009 tra sospetti di brogli e manipolazioni, ha dato vita a un movimento di protesta noto con il nome di ‘Movimento verde’ che ha messo in evidenza la profonda crisi di consenso e legittimità attraversata dalla Repubblica islamica. A sanare in parte tale crisi è avvenuta, nel giugno 2013, l’elezione di Hassan Rouhani, religioso con una lunga carriera di governo alle spalle, considerato un moderato all’interno del vasto panorama politico iraniano.
Gli iraniani sono più di 75 milioni. La popolazione include importanti minoranze religiose, etniche e linguistiche. La lingua ufficiale è il farsi (persiano) e la religione maggioritaria è l’islam sciita. Sebbene la religione più diffusa sia quella islamica, la Costituzione tutela formalmente le minoranze ebraica, cristiana e zoroastriana, riservando loro seggi in parlamento, seppur con valore del tutto simbolico.
Tra le minoranze etniche molti sono gli Azeri (circa il 16% della popolazione). La seconda comunità numericamente più rilevante è quella curda, pari a circa il 10% della popolazione, concentrata nella parte occidentale e settentrionale dell’Iran, al confine con Turchia e Armenia. La terza comunità è quella dei Luri, quattro milioni di abitanti che vivono nella parte settentrionale e meridionale del paese. Inoltre, vi sono arabi (2%), beluci (2%), turkmeni (2%) e gruppi tribali turchi, i Qashqai (1%). In più l’Iran accoglie una della più ampie comunità di rifugiati dall’estero, divenuta col tempo stanziale: gli Afghani, che, al dicembre 2013, risultavano 800.000.
Le misure del governo a favore delle minoranze etnico-linguistiche sono considerate sotto molti aspetti insufficienti dal Comitato per l’eliminazione delle discriminazioni razziali delle Nazioni Unite. Particolarmente forte è la discriminazione nei confronti della minoranza bahá’í, giudicata eretica dal regime iraniano. Inoltre, la diseguale distribuzione del potere, delle risorse socioeconomiche e dello status socioculturale tra centro e periferia hanno con il tempo inasprito le istanze di autonomia di alcune minoranze etniche. Particolarmente forte è il movimento indipendentista dei beluci, che periodicamente compiono attentati ai danni delle forze di sicurezza iraniane.
La popolazione è mediamente molto giovane: l’età mediana è di soli 27 anni e nella fascia che va dai 15 ai 24 anni è compreso circa il 20% della popolazione. Tuttavia il tasso di crescita della popolazione (1,3%) è oggi tra i più bassi della regione, mentre in epoca prerivoluzionaria sfiorava il 3%. Questa contrazione è dovuta a diversi fattori, tra i quali l’innalzamento del livello di istruzione delle donne. Il tasso di alfabetizzazione supera l’85% per gli adulti e raggiunge quasi il 99% per i giovani (15-24 anni), maschi e femmine. La percentuale di ragazze che frequentano la scuola primaria è quasi pari a quella dei ragazzi e le donne rappresentano circa il 60% dei laureati nel paese. Ciononostante, le donne hanno più difficoltà a trovare un impiego (la disoccupazione femminile, al 26,8%, è sensibilmente più alta di quella maschile, ufficialmente al 14,2%), sono escluse dalle professioni più importanti, hanno stipendi più bassi e sono sottorappresentate nelle posizioni dirigenziali. L’Iran si presenta dunque come un paese dall’enorme potenziale umano, ma con scarse possibilità di mettere a frutto tale patrimonio. Il risultato è la fuga dei cervelli, che allontana le possibilità di riscatto economico del paese.
Nel novembre 2013 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione che esprime profonda preoccupazione per la situazione dei diritti umani in Iran, mettendo in evidenza il persistere, nonostante le promesse del neoletto Rouhani, di gravi violazioni, quali tortura, esecuzioni arbitrarie, esecuzioni per mezzo di lapidazione, discriminazione contro le donne e contro le minoranze etniche e religiose, gravi restrizioni della libertà di opinione e di assemblea. L’Iran è il secondo paese al mondo per numero di esecuzioni capitali. Nel 2012 le esecuzioni sono state 522: il 44% è avvenuto in segreto, senza alcuna comunicazione da parte delle autorità.
Da segnalare la persistente violenza contro le donne. Nonostante l’uguaglianza di genere sia formalmente garantita dalla Costituzione iraniana e il paese abbia firmato i principali accordi internazionali in materia di diritti umani, nel codice civile e in quello penale si conservano misure discriminatorie. Per quanto concerne la possibilità delle donne di accedere a posizioni governative, l’art. 155 della Costituzione prevede che le donne non possano diventare Guida Suprema o essere elette alla presidenza (tuttavia il paese ha visto l’avvicendamento di alcune vicepresidenti donna, l’ultima delle quali nominata dallo stesso Rouhani); nessuna donna è stata nominata membro del Consiglio dei guardiani e solo il 3,1% dei seggi in parlamento è oggi occupato da deputati di sesso femminile. Nel mese di settembre 2012 è stata inoltre varata una legge che restringe alle donne l’accesso ai corsi universitari.
La libertà di espressione è limitata. Gli studenti universitari sono spesso arrestati e minacciati se esprimono opinioni critiche nei confronti del governo. In momenti politici delicati, il governo controlla capillarmente i mass media. Il caso delle elezioni presidenziali del giugno 2009 è esemplare: la libertà di stampa ha registrato un brusco peggioramento, molte pagine Internet sono state oscurate, i servizi di telefonia mobile sono stati interrotti e gli arresti sono stati numerosi. Secondo le dichiarazioni ufficiali, in una sola giornata, il 13 giugno 2009, subito dopo le elezioni, circa 5000 persone sono state arrestate. Non vi sono statistiche certe su quanto siano durate le detenzioni.
Hassan Rouhani ha suscitato molte speranze: in più occasioni avrebbe dichiarato di voler prendere provvedimenti per migliorare la situazione dei diritti umani nel paese e di voler procedere alla liberazione dei prigionieri politici. Nel settembre 2013 il governo iraniano ha reso noto di aver liberato 11 prigionieri politici, tra i quali l’avvocato e attivista per i diritti umani Nasrin Sotoudeh, in carcere dal 2010. La liberazione, avvenuta alla vigilia del viaggio di Rouhani a New York per partecipare ai lavori dell’Assemblea generale Un, è stata però interpretata dagli osservatori come
un gesto di pura propaganda.
Il 2012 è stato definito l’annus horribilis dell’economia iraniana. Il periodo finale della controversa era Ahmadinejad ha registrato indicatori economici decisamente negativi, che segnalano come il paese stia attraversando una crisi profonda e abbia bisogno di seri provvedimenti per risollevare l’economia e allontanare lo spettro delle tensioni sociali, che metterebbero ulteriormente in crisi un sistema che può contare su un consenso ormai limitato. Agli effetti negativi causati dall’eccessiva svalutazione del rial, che ha perso il 40% del suo valore, e dalla vertiginosa crescita dell’inflazione, stimata attorno al 30%, si sono aggiunti i danni dell’inasprimento delle sanzioni internazionali. L’entrata in vigore, il 1° luglio 2012, dell’embargo Eu sulle importazioni di petrolio iraniano, ha provocato una drastica caduta delle esportazioni di petrolio, passate da 2,5 milioni di barili al giorno, nel 2011, a 1,5 milioni di barili al giorno nel 2012.
Ciò rappresenta un problema notevole per un paese in cui il 60% delle entrate fiscali proviene dall’esportazione di idrocarburi, necessarie a finanziare il welfare. L’architettura dei servizi sociali ha subìto un duro colpo nel 2010 con l’eliminazione dei sussidi: istituiti per sostenere il reddito delle famiglie più bisognose, hanno fatto lievitare la spesa pubblica, fino a renderla insostenibile per le disastrate casse di Teheran. L’aumento vertiginoso dei prezzi, seguito all’eliminazione dei sussidi, ha provocato una nuova ondata inflazionistica, oltre che un ulteriore deprezzamento del rial. A tutto ciò si somma un tasso di disoccupazione strutturalmente alto, attorno al 15%.
L’isolamento economico causato dalle sanzioni si traduce nella drammatica crescita dell’economia sommersa, che secondo la Banca centrale iraniana si attesta attorno al 21% del pil, ma anche nel riorientamento delle rotte commerciali a favore dei paesi asiatici come Cina, Giappone, India e Corea del Sud, come pure della Russia e, per ciò che concerne le transazioni finanziarie, degli Emirati Arabi Uniti. Oltre 7000 imprese iraniane sono registrate a Dubai, divenuta la cassaforte off-shore degli ayatollah e dei pasdaran (i guardiani della rivoluzione islamica), che ricoprono sempre più ruoli decisivi nei diversi settori economici, affiancandoli alla loro funzione tradizionale nelle forze paramilitari.
Infine, una delle caratteristiche più originali del sistema economico iraniano è quella delle bonyad, le ‘fondazioni caritatevoli’. Questi enti, nazionalizzati dopo la rivoluzione del 1979, dominano l’80% dell’economia e hanno come scopo ufficiale quello di ridistribuire le risorse a vantaggio delle fasce più deboli. Le bonyad hanno facile accesso alle risorse statali, sono favorite dall’esenzione fiscale e rispondono del loro operato unicamente alla Guida Suprema.
La questione delle risorse energetiche iraniane è complessa e sfaccettata. Costituiscono la prima fonte di reddito del paese e restano un punto nodale di alcune tra le più importanti controversie con i vicini regionali e con attori internazionali, in primis gli Stati Uniti. L’Iran è il quarto paese al mondo per riserve petrolifere stimate (157 miliardi di barili, dietro al Venezuela, all’Arabia Saudita e al Canada) ed è al sesto posto nella produzione giornaliera (4,1 milioni di barili al giorno, dopo Arabia Saudita, Russia, Stati Uniti, Canada e Cina). Si stima che il sottosuolo iraniano contenga ingenti riserve di gas naturale: nella produzione il paese è oggi al terzo posto mondiale, dietro Stati Uniti e Russia. A causa delle rigidità strutturali del mercato del gas, dovute alla convenienza di trasportarlo attraverso condutture piuttosto che liquefarlo e imbarcarlo via nave, le riserve gassifere iraniane hanno un ruolo potenzialmente fondamentale nelle aree caucasica, centroasiatica e mediorientale. Tuttavia, il paese resta un importatore netto di gas dall’estero (in prevalenza dal Turkmenistan), a causa dei grandi consumi interni di metano. Neppure il recente aumento della produzione è riuscito a colmare il gap generato dalla crescita della domanda interna. Nonostante la posizione di importante esportatore petrolifero (Teheran vende all’estero circa il 60% della sua produzione), l’Iran dipende dagli approvvigionamenti esteri anche per quanto riguarda i prodotti derivati dal petrolio. Il suo potenziale di raffinazione è modesto e di poco superiore alla domanda interna: il paese è perciò costretto a esportare greggio – soprattutto verso Cina e Giappone – e a importare i suoi derivati più leggeri, come la benzina. Da una prospettiva regionale, la disponibilità di idrocarburi ha generato e genera tuttora tensioni con alcuni paesi confinanti. In particolare, parte del giacimento di South Pars – al largo delle coste del Golfo Persico – è conteso tra l’Iran e il Bahrain. Al tempo stesso, Teheran rivendica da decenni la revisione degli accordi internazionali di sfruttamento del bacino del Caspio, in una vertenza che coinvolge l’Azerbaigian e il Turkmenistan, anche se di recente i rapporti con Aşgabat sembrano meno tesi. Rimangono in sospeso, infine, i lavori di costruzione del gasdotto Iran-Pakistan-India (Ipi), il ‘gasdotto della pace’ la cui progettazione risale agli anni Cinquanta. Mentre l’India è nel frattempo uscita dal progetto, nel 2011
l’Iran ha completato la costruzione del tratto di gasdotto di sua competenza. A rallentare però è ora il Pakistan, stretto tra il bisogno di energia e le pesanti pressioni statunitensi affinché non faccia affari con Teheran.
Prosegue inoltre, tra i sospetti della comunità internazionale, il programma di ricerca sullo sfruttamento dell’energia atomica. Avviato nel lontano 1957 dallo shah Muhammad Reza Pahlavi con il beneplacito e il sostegno dell’allora alleato statunitense, è stato più volte accantonato e ripreso negli anni, per poi subire una brusca accelerazione a partire dal 2003. Il governo iraniano sostiene che sia in linea con le necessità di diversificazione imposte dal forte aumento della domanda energetica interna (+25% negli ultimi cinque anni), ma il sospetto della comunità internazionale è che celi non tanto propositi energetici quanto ambizioni militari che sconvolgerebbero i precari equilibri nell’area. Nel novembre 2013 l’Iran e i paesi del gruppo P5+1, riuniti a Ginevra, hanno raggiunto un accordo ad interim, della validità di sei mesi, per la temporanea sospensione del programma nucleare.
L’Iran sperimenta un senso di ‘solitudine strategica’, dovuta al fatto di essere l’unico paese persiano e sciita in una regione a prevalenza araba e sunnita. Inoltre, la presenza diretta o indiretta degli Stati Uniti ai suoi confini orientale e occidentale, rispettivamente in Afghanistan e – fino al 2011 – in Iraq, ha amplificato questa sensazione. Per questo, Teheran ha varato una serie di programmi di ammodernamento delle forze armate. In particolare, l’ostilità verso l’Arabia Saudita ha suggerito un particolare sviluppo della marina, considerata la componente più importante delle forze armate iraniane, vista anche l’importanza vitale della sicurezza delle coste che si affacciano sul Golfo Persico. L’Iran ha relazioni molto tese anche con Israele, e ciò gli impone di adottare una seconda strategia basata principalmente sulla componente aerea: grazie anche ai contatti con Russia, Cina e Corea del Nord, il paese ha sviluppato un notevole arsenale missilistico di breve e media gittata e sta compiendo progressi nella costruzione di missili di lunga gittata. L’ostilità verso Israele spinge inoltre l’Iran a sostenere i movimenti che combattono lo stato ebraico, come Hezbollah e Hamas. La necessità di tenere aperto un canale per rifornire di armi Hezbollah è una delle ragioni del costante supporto iraniano al regime di Bashar al-Assad in Siria.
Accanto all’esercito regolare (Artesh), opera il corpo delle guardie della rivoluzione (Sepah-e Pasdaran-e Engelab-e Islami), che integra al suo interno unità speciali come le milizie Basij o la forza Quds. Al corpo delle guardie della rivoluzione, creato da Khomeini nel 1979 al fine soprattutto di controbilanciare le forze armate regolari, ancora in larga parte fedeli allo shah, è affidato il compito di vigilare sul rispetto dei principi alla base della Repubblica islamica. Alla forza Quds sono invece affidate le operazioni all’esterno del paese, come quella in corso in Siria.
Le minacce alla stabilità interna arrivano dalla minoranza beluci nel sud-est e da quella curda nel nord-ovest. Attraverso l’organizzazione Jundullah (‘l’esercito di Dio’), i Beluci hanno lanciato diversi attacchi contro obiettivi governativi, diretti in particolar modo verso i pasdaran. In funzione anticurda il governo iraniano coopera con la Turchia nella lotta al Pjak, organizzazione ritenuta il braccio iraniano del Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan in Turchia. Un altro fronte di lotta è quello contro il narcotraffico proveniente dall’Afghanistan, per combattere il quale negli ultimi vent’anni sono morti circa 3000 poliziotti e soldati iraniani.
Il coinvolgimento dei pasdaran iraniani nell’economia del paese ha avuto inizio nel 1989, all’indomani della morte dell’ayatollah Khomeini e dell’avvio della presidenza Rafsanjani. Quest’ultimo, esponente di spicco della fazione dei tecnocrati, ha impostato il proprio mandato sulla necessità di risollevare l’economia iraniana, che usciva distrutta dagli otto anni di guerra con l’Iraq (1980-88). Allo scopo di cooptare gli alti ufficiali e assicurarsi così la loro fedeltà, ai pasdaran venne affidato un ruolo chiave soprattutto nel settore delle costruzioni. Nei vent’anni successivi, tuttavia, il loro ruolo è cresciuto fino a costituire la prima forza economica del paese. Attualmente i pasdaran controllano la maggioranza dei settori dell’economia del paese, dall’energia alle infrastrutture, passando per il settore automobilistico e per quello finanziario. Grazie alla vicinanza alle istituzioni centrali dello stato, le imprese controllare da pasdaran risultano spesso vincitrici di appalti per la costruzione delle grandi opere pubbliche. Ha fatto scalpore, per esempio, la vittoria di un’impresa di costruzioni di proprietà di un veterano su una compagnia turca per la costruzione dell’aeroporto internazionale Imam Khomeini nel 2004. Paradossalmente, inoltre, le imprese controllate dai pasdaran hanno tratto vantaggio dall’inasprimento delle sanzioni internazionali, che hanno garantito loro una posizione di monopolio di fatto, tenendo lontani dal paese i potenziali competitor internazionali.
Nella notte tra il 23 e il 24 novembre 2013 l’Iran e i paesi del gruppo P5+1 (Stati Uniti, Russia, Cina, Regno Unito, Francia e Germania) riuniti a Ginevra hanno raggiunto un accordo ad interim che ha sospeso il programma nucleare iraniano. L’accordo raggiunto ha una validità di sei mesi, e rappresenta una prima misura di confidence building tra Iran e comunità internazionale.
In base all’accordo, l’Iran si impegna a bloccare il processo di arricchimento dell’uranio al 5%, a smaltire le riserve di uranio arricchito al 20%, che dovrà essere diluito oppure convertito in ossido, e a non installare nuove centrifughe. Teheran ha inoltre dato il proprio assenso all’intensificazione dei controlli da parte degli ispettori dell’Autorità internazionale per l’energia atomica (AIEA) nei propri impianti. In cambio, i paesi intervenuti nel negoziato si sono impegnati a non varare nuovi round di sanzioni nei confronti dell’Iran per i sei mesi successivi all’accordo e ad alleggerire l’impianto sanzionatorio attualmente vigente, liberando risorse per circa 7 miliardi di dollari. Di questi, 4,2 miliardi sarebbero rappresentati dai proventi della vendita del petrolio attualmente congelati in banche estere, dei quali Teheran acquisirebbe la disponibilità. Una somma pari a 1,5 miliardi di dollari deriverebbe invece dalla ripresa delle esportazioni di beni come oro, metalli preziosi, componenti automobilistici e prodotti petrolchimici.
La firma dell’accordo è stata accolta a livello internazionale da un moderato entusiasmo e molta cautela. La sospensione del programma nucleare è solo temporanea e dovrà essere rinegoziata, allo scadere dell’accordo. Particolarmente critica è stata la reazione di Israele, fermo oppositore del compromesso con Teheran, che ha definito l’accordo ‘un errore storico’. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha messo in guardia da quelle che giudica le reali intenzioni dell’Iran: proseguire la corsa verso l’atomica approfittando del momentaneo alleggerimento delle sanzioni.
Un’ondata di entusiasmo e ottimismo ha salutato l’elezione a presidente di Hassan Rouhani, avvenuta nel giugno 2013. Da una competizione elettorale la cui vittoria era stata da molti già assegnata agli uomini forti della Guida suprema Khamenei, è infatti emerso vincitore uno dei candidati apparentemente meno allineati all’establishment conservatore. Ma chi è Hassan Rouhani? Non di certo un outsider. Esattamente come i suoi predecessori alla carica di presidente della repubblica, Rouhani può vantare solide credenziali rivoluzionarie, che gli hanno assicurato fin dai primi giorni di vita della Repubblica islamica l’accesso alle più alte cariche del complesso sistema istituzionale iraniano. Membro del Consiglio supremo per la sicurezza nazionale dal 1989, del Consiglio per il discernimento dal 1991, dell’Assemblea degli esperti dal 1999, Rouhani si è seduto sulle poltrone dei principali centri decisionali iraniani. È proprio durante il suo mandato come segretario del Consiglio supremo per la sicurezza nazionale, carica mantenuta per sedici anni, dal 1989 al 2005, che Rouhani si è guadagnato l’appellativo con il quale è noto tutt’oggi: ‘the Diplomat
Sheikh’, lo sceicco della diplomazia. Per due anni, dall’ottobre 2003 all’agosto 2005, ‘lo sceicco della diplomazia’ ha ricoperto il ruolo di capo negoziatore per il dossier nucleare, guidando la delegazione iraniana nei negoziati con il gruppo P5+1. Nel 2005, con l’apertura dell’era Ahmadinejad, Rouhani ha abbandonato l’incarico di segretario del Consiglio supremo per la sicurezza nazionale, e con esso l’incarico di capo negoziatore per il dossier nucleare, uscendo dalla scena pubblica e mantenendo solamente la carica di direttore del Centro di studi strategici di Teheran, uno dei più influenti think tank iraniani. Rouhani riassume inoltre in sè un’educazione religiosa di prim’ordine, ricevuta in uno dei principali centri dello sciismo, il seminario di Qom, ma anche una solida formazione in campo giuridico, acquisita tra l’Università di Teheran e la Glasgow Caledonian University in Scozia. Nelle elezioni presidenziali del giugno 2013, quasi a sorpresa, Rouhani si è imposto già al primo turno, ottenendo il 50,9% dei consensi. Fondamentale per la sua vittoria è stato il ‘momentum’ guadagnato negli ultimi giorni della campagna elettorale, quando la partecipazione al corteo funebre per l’ayatollah dissidente Taheri e le promesse di liberazione dei prigionieri politici l’hanno fatto emergere dal grigio gruppo di candidati, conferendogli un’aura di diversità e moderazione che gli è valsa, in ultima analisi, il voto ‘di protesta’ della maggioranza degli iraniani. Ad aiutare, certo, anche il ritiro dell’unico candidato riformista ammesso, Mohammed Reza Aref, e l’endorsement ricevuto dall’ex presidente riformista Mohammad Khatami. Ma è possibile parlare di un ‘nuovo Iran’ sotto la guida del neopresidente ‘moderato’? Rouhani si trova stretto tra due opposte pressioni. Una pressione dal basso, che coincide con l’investitura popolare ottenuta tramite l’elezione, e che chiede e si aspetta da lui un cambiamento. E una pressione dall’alto, costante per tutti i presidenti, che viene dalla Guida e dall’establishment conservatore, e che stabilisce che cosa si può o non si può fare, fino a che punto le aperture, necessarie per dare fiato al sistema, sono concesse e oltre quale punto invece non si può andare per non rischiare di mettere in crisi il sistema stesso. Precisamente in mezzo a queste due opposte pressioni sta lo spazio di azione di Hassan Rouhani. Mentre sotto il suo operato l’Iran si apre e sperimenta ad esempio tattiche comunicative e di public diplomacy del tutto inedite, la domanda che incombe sembra essere: fino a quando i falchi della politica iraniana staranno a guardare?
Un precedente illustre è stato fornito dall’ex presidente Mohammad Khatami, i cui tentativi di riforma del sistema dall’interno sono rimasti frustrati dopo la controffensiva lanciata in parlamento dalla fazione conservatrice, che lo sottopose a un fuoco incrociato di critiche e minacce finanche da parte dei generali dei pasdaran, portandolo di fatto alla ritirata e all’abbandono di qualsiasi proposito riformatore. Rouhani, che non è Khatami, sembra puntare per il momento più che alla riforma del sistema alla rilegittimazione dell’immagine dell’Iran a livello internazionale, allo scopo di riportare nel paese i flussi di investimento necessari per risollevare un’economia fortemente provata dall’effetto combinato di sanzioni e politica economica avventurista dell’epoca Ahmadinejad, e tenere lontano così lo spettro delle tensioni sociali che potrebbero presto ritrasformarsi in protesta e innescare una ulteriore crisi di legittimità. È in quest’ottica che si collocano i tentativi di riavvicinamento agli Stati Uniti, culminati nella storica telefonata del settembre 2013, ma soprattutto nella firma del Joint Plan of Action sul dossier nucleare concordato a Ginevra con i paesi del P5+1. Parlare dell’Iran di Hassan Rouhani come del ‘nuovo Iran’ richiede pertanto una certa cautela. Soprattutto, occorre tenere ben presente che, se delle vere svolte ci saranno, esse avverranno più che nel ‘nuovo Iran’ di Hassan Rouhani, nel ‘vecchio Iran’ di Ali Khamenei.