Vedi Iran dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
La Repubblica islamica d’Iran è un’entità politica complessa e unica nel suo genere. Nata nel 1979 a conclusione di un processo rivoluzionario guidato dall’ayatollah Khomeini in opposizione allo shah Mohammed Reza Pahlavi, essa rappresenta una sintesi di elementi repubblicani e di governo religioso. Questa particolare conformazione politica, unita alla caratteristica di essere un paese di cultura persiana incastonato nel vasto mondo arabo - oltre che il maggiore paese sciita in un contesto dominato dall’islam sunnita - contribuiscono a definire le specificità dell’Iran.
A più di trent’anni dalla rivoluzione, l’Iran si trova oggi a fare i conti con la pesante eredità del khomeinismo, tanto dal punto di vista della politica interna quanto da quello della politica estera. Per quanto riguarda la divisione interna, la classe di ex rivoluzionari che ha partecipato al processo costitutivo della Repubblica islamica domina ancora la vita politica del paese. Qualsiasi ruolo di comando, tanto negli organi politici quanto in quelli della pubblica amministrazione, è precluso a chi non possa vantare solide credenziali di partecipazione alla rivoluzione. Dal punto di vista della politica estera, permangono le difficoltà tanto con i vicini regionali, quanto con gli Stati Uniti. Nonostante le recenti aperture dell’attuale presidente Hassan Rouhani, in carica dal giugno 2013, e il raggiungimento di un accordo con la comunità internazionale sul dossier nucleare, l’Iran è ancora considerato con diffidenza, se non con aperta ostilità, dai principali concorrenti al ruolo di egemone nell’area mediorientale, in primis l’Arabia Saudita. Non è stata ancora sanata, inoltre, la ferita inferta ai rapporti con Washington in seguito all’assalto all’ambasciata statunitense a Teheran nei giorni della rivoluzione. Proprio sull’opposizione al ‘grande Satana’, come sono stati ribattezzati gli Stati Uniti durante la rivoluzione, si è fondata e si fonda tuttora buona parte della retorica di regime. Sebbene questa retorica fatichi sempre più a trovare seguito tra la popolazione, essa rappresenta la principale fonte di autolegittimazione – insieme all’ostilità verso Israele – della Repubblica islamica.
Nemmeno l’accordo sul programma nucleare raggiunto nel luglio 2015 con le potenze del gruppo P5+1 (Francia, Regno Unito, Stati Uniti, Russia, Cina e Germania) e mediato dall’Eu, sembra aver sopito per ora le rivalità tra i due paesi. Tuttavia, gli effetti dell’accordo, che fissa un rigido programma di sollevamento delle sanzioni in cambio di uno stop alle attività di arricchimento dell’uranio, potranno essere valutati solamente nel lungo periodo.
In seguito alla rivoluzione del 1979, l’Iran è diventato una repubblica islamica, realizzando, di fatto, un sistema duale di potere basato sulla compresenza di organi a legittimazione religiosa e organi a legittimazione popolare. Il sistema del Velāyat-e faqīh (‘governo del giurisperito’) progettato dall’ayatollah Khomeini nei giorni della rivoluzione, è basato sull’attribuzione della leadership politica a un faqīh (‘giurista’), incaricato di garantire il rispetto dell’islam da parte del popolo, in qualità di vicario del dodicesimo imam (secondo lo sciismo duodecimano, Muhammad al-Mahdī, appunto il dodicesimo imam, non sarebbe morto ma sarebbe entrato in occultamento [ghaybat] nel 941 e se ne attenderebbe tuttora il ritorno). Il faqīh è incarnato politicamente nella guida suprema, che rappresenta la carica più importante dello stato: a sceglierlo è l’Assemblea degli esperti.
La seconda carica dello stato è il presidente, detentore del potere esecutivo: è eletto ogni quattro anni, per un massimo di due volte consecutive, con suffragio universale. Il presidente sceglie i ministri del governo, il parlamento (Majlis) li conferma e ne può chiedere la rimozione. Al Majlis è affidato il potere legislativo: ha struttura unicamerale ed è composto da 290 membri eletti ogni quattro anni. Per potersi candidare alle elezioni parlamentari e presidenziali è indispensabile avere il beneplacito del Consiglio dei guardiani, formato da sei esperti religiosi nominati dalla guida suprema e da sei giuristi, nominati dal Majlis dietro indicazione del capo del sistema giudiziario, anch’egli nominato dalla guida. Oltre che per il potere di preselezione dei candidati, il Consiglio è uno degli organi più potenti del sistema politico per due motivi: può bloccare l’iter legislativo delle proposte parlamentari e giudica la conformità della legge alla Costituzione e ai precetti islamici. Data la complessità dell’assetto istituzionale, risulta evidente il ruolo prioritario del Consiglio, che agisce sotto lo stretto controllo della guida suprema.
Dal 1979 a oggi, solo due uomini hanno ricoperto la carica di guida suprema: l’ayatollah Khomeini, che, dopo avere ideato la posizione, ha ricoperto tale ruolo fino alla morte, nel 1989, e l’ayatollah Khamenei, tuttora in carica. Il titolo religioso di ayatollah non deve ingannare circa la natura della carica. Soprattutto durante l’era Khamenei, infatti, tale carica è andata accumulando sempre più potere politico a dispetto dell’aspetto più squisitamente religioso.
Alla carica di presidente della Repubblica si sono invece alternati negli anni, con mandati limitati nel tempo, i grandi nomi del panorama rivoluzionario iraniano. Se dal 1979 al 1989, nel decennio khomeinista, tale ufficio rappresentava una carica prettamente onorifica, la modifica costituzionale del 1989, che ha eliminato il ruolo di primo ministro e aperto la strada all’ascesa dell’ex presidente Khamenei al rango di guida suprema, ha dato nuova linfa anche al ruolo di presidente. Dal 1989 al 1997 sullo scranno presidenziale si è seduto Hashemi Rafsanjani, a capo della corrente dei cosiddetti ‘tecnocrati’ che, pur muovendosi all’interno dell’orizzonte islamico, chiedevano un rilassamento dell’ideologia rivoluzionaria in favore di un maggiore pragmatismo che potesse risollevare le sorti – soprattutto economiche – del paese. Dal 1997 al 2005 è stata la volta del riformista Mohammad Khatami, i cui tentativi di cambiamento del sistema dall’interno sono falliti, preparando di fatto la strada all’ascesa, nel 2005, del radicale Mahmoud Ahmadinejad. Proprio la rielezione di quest’ultimo, avvenuta nel 2009 tra sospetti di brogli e manipolazioni, ha dato vita a un movimento di protesta noto con il nome di ‘Movimento verde’ che ha messo in evidenza la profonda crisi di consenso e legittimità attraversata dalla Repubblica islamica. A sanare in parte tale crisi è stata, nel giugno 2013, l’elezione di Hassan Rouhani, religioso considerato un moderato all’interno del vasto panorama politico iraniano, e ritenuto vicino alla fazione politica guidata da Hashemi Rafsanjani.
Gli abitanti dell’Iran sono più di 78 milioni. La popolazione include importanti minoranze religiose, etniche e linguistiche. La lingua ufficiale è il farsi (persiano) e la religione maggioritaria è l’islam sciita. Sebbene la religione più diffusa sia quella islamica, la Costituzione tutela formalmente le minoranze ebraica, cristiana e zoroastriana, riservando loro seggi in parlamento, seppur con valore del tutto simbolico.
Tra le minoranze etniche quella più consistente è quella azera (circa il 16% della popolazione). La seconda comunità numericamente più rilevante è quella curda, pari a circa il 10% della popolazione, concentrata nella parte occidentale e settentrionale dell’Iran, al confine con Turchia e Armenia. La terza comunità è quella dei luri, quattro milioni di persone che vivono nella parte settentrionale e meridionale del paese. Inoltre, vi sono arabi (2%), beluci (2%), turkmeni (2%) e gruppi nomadici turchi, come i qashqai (1%). L’Iran accoglie circa 950.000 afghani (dicembre 2015), che costituiscono una delle più ampie comunità di rifugiati all’estero.
Le misure del governo a favore delle minoranze etnico-linguistiche sono considerate sotto molti aspetti insufficienti dal Comitato per l’eliminazione delle discriminazioni razziali delle Nazioni Unite. Particolarmente forte è la discriminazione nei confronti della minoranza bahá’í, giudicata eretica dal regime iraniano. Inoltre, la diseguale distribuzione del potere, delle risorse socioeconomiche e dello status socioculturale tra centro e periferia hanno con il tempo inasprito le istanze di autonomia di alcune minoranze etniche. Particolarmente forte è il movimento indipendentista dei beluci, la cui espressione militare, il ‘Movimento Jundullah’, si rende periodicamente responsabile di attentati ai danni delle forze di sicurezza iraniane.
La popolazione è mediamente molto giovane: l’età mediana è di soli 27 anni e nella fascia che va dai 15 ai 24 anni è compreso circa il 20% della popolazione. Tuttavia il tasso di crescita della popolazione (1,3%) è oggi tra i più bassi della regione, mentre in epoca pre-rivoluzionaria sfiorava il 3%. Questa contrazione è dovuta a diversi fattori, tra i quali l’innalzamento del livello di istruzione delle donne. Il tasso di alfabetizzazione supera l’84% per gli adulti e raggiunge quasi il 99% per i giovani (15-24 anni), maschi e femmine. La percentuale di ragazze che frequentano la scuola primaria è quasi pari a quella dei ragazzi e le donne rappresentano circa il 60% dei laureati nel paese.
Ciononostante, le donne riscontrano più difficoltà nella ricerca di un impiego: la disoccupazione femminile, al 20,1%, è sensibilmente più alta di quella maschile, ufficialmente all’11,6%. Le donne restano inoltre escluse dalle professioni più importanti, hanno stipendi più bassi e risultano sottorappresentate nelle posizioni dirigenziali. L’Iran si presenta dunque come un paese dall’enorme potenziale umano, ma con scarse possibilità di mettere a frutto un simile patrimonio. Il risultato è una fuga di cervelli di proporzioni allarmanti, che allontana le possibilità di riscatto economico della nazione.
Nel novembre 2013 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione che esprime profonda preoccupazione per la situazione dei diritti umani in Iran, mettendo in evidenza il persistere, nonostante le promesse del presidente Rouhani, di gravi violazioni, quali tortura, esecuzioni arbitrarie, esecuzioni per mezzo di lapidazione, discriminazioni contro le donne e contro le minoranze etniche e religiose e gravi restrizioni della libertà di opinione e di assemblea. L’Iran è il secondo paese al mondo per numero di esecuzioni capitali. Nel 2014 le esecuzioni ufficialmente conteggiate sono state 289, facendo guadagnare all’Iran il poco prestigioso titolo di secondo paese al mondo, dopo la Cina, per numero di condanne a morte.
Nel marzo 2014 il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha approvato il rinnovo del mandato dello Special rapporteur sugli abusi dei diritti umani in Iran, posizione creata nel 1988, tenuta in vita fino al 2002 e successivamente riesumata nel 2011, a testimoniare il ciclico ritorno della preoccupazione circa gli abusi e la mancata risoluzione della questione negli anni. Nell’agosto 2015 il Consiglio ha rivolto un appello al governo iraniano affinché rilasci il giornalista del Washington Post Jason Rezaian, arrestato a Teheran nel luglio 2014: l’appello è rimasto finora inascoltato.
La libertà di espressione è limitata. Gli studenti universitari sono spesso arrestati e minacciati se esprimono opinioni critiche nei confronti del governo. In momenti politici delicati il governo controlla capillarmente i mass media. Il caso delle elezioni presidenziali del giugno 2009 è stato esemplare: la libertà di stampa ha registrato un brusco peggioramento, molte pagine internet sono state oscurate, i servizi di telefonia mobile sono stati interrotti e gli arresti sono stati numerosi. Hassan Rouhani ha suscitato molte speranze: in più occasioni avrebbe dichiarato di voler prendere provvedimenti per migliorare la situazione dei diritti umani nel paese e di voler procedere alla liberazione dei prigionieri politici. Nel settembre 2013 il governo iraniano ha reso noto di aver liberato 11 prigionieri politici, tra i quali l’avvocato e attivista per i diritti umani Nasrin Sotoudeh, in carcere dal 2010. La liberazione, avvenuta alla vigilia del viaggio di Rouhani a New York per partecipare ai lavori dell’Assemblea generale Un, è stata però interpretata dagli osservatori come un gesto di pura propaganda. D’altro canto, è da sottolineare che l’apparato giudiziario, responsabile degli arresti e delle reclusioni, non è posto sotto il controllo del presidente Rouhani, bensì delle fazioni più radicali e ostili alla politica del compromesso che il presidente sembra aver voluto inaugurare.
Molti osservatori, in questo senso, hanno interpretato il giro di vite nei confronti di giornalisti e attivisti come un tentativo da parte della fazione radicale di indebolire la fazione pragmatica – facente capo a Hashemi Rafsanjani – di cui è espressione il presidente Rouhani.
A tre anni dall’elezione di Hassan Rouhani, eletto con il chiaro mandato politico di risollevare le sorti economiche del paese, è possibile intravedere i primi timidi segnali positivi dopo anni di crisi drammatica. Il calo del tasso di inflazione, il rafforzamento del rial, l’aumento delle esportazioni di petrolio e la ritrovata vitalità di due settori chiave dell’economia iraniana, quello automobilistico e quello petrolchimico, rappresentano aspetti positivi che lasciano ben sperare circa l’effettiva ripresa. Il governo di Hassan Rouhani ha arrestato la drastica spirale negativa che ha avuto il suo apice nel 2012, definito l’annus horribilis dell’economia iraniana. Il periodo finale della controversa era Ahmadinejad ha infatti fatto registrare indicatori economici decisamente negativi, rivelatori di una crisi profonda e della necessità di seri provvedimenti per risollevare l’economia e allontanare lo spettro delle tensioni sociali, che metterebbero ulteriormente in crisi un sistema che può contare su un consenso ormai limitato.
Se è ancora troppo presto per valutare gli effetti dell’accordo sul nucleare raggiunto nel luglio 2015, è senz’altro da riconoscere il fatto che, se le sanzioni verranno sollevate secondo lo schema previsto, per l’economia iraniana potranno derivare importanti benefici. Si prevede infatti un aumento degli investimenti esteri in ingresso, soprattutto nei settori energetico, automobilistico e delle infrastrutture.
Saranno tuttavia necessarie riforme ampie per superare in via definitiva le debolezze strutturali dell’economia iraniana e gli effetti negativi di anni di gestione economica dissennata. A favorire la svolta in positivo potrà essere solamente il pieno reintegro dell’Iran nei circuiti commerciali internazionali e il ristabilirsi di un clima positivo per gli investimenti e per la ripresa dei consumi privati.
L’isolamento economico causato dalle sanzioni si è tradotto negli ultimi anni nella drammatica crescita dell’economia sommersa, che secondo la Banca centrale iraniana si attesta attorno al 21% del pil, ma anche nel riorientamento delle rotte commerciali a favore dei paesi asiatici come Cina, Giappone, India e Corea del Sud, come pure della Russia e, per ciò che concerne le transazioni finanziarie, degli Emirati Arabi Uniti. Oltre 7000 imprese iraniane sono registrate a Dubai, divenuta la cassaforte off-shore degli ayatollah e dei pasdaran (i guardiani della rivoluzione islamica), che ricoprono sempre più ruoli decisivi nei diversi settori economici, affiancandoli alla loro funzione tradizionale nelle forze paramilitari.
Infine, una delle caratteristiche più originali del sistema economico iraniano è quella delle bonyad, le ‘fondazioni caritatevoli’. Questi enti, nazionalizzati dopo la rivoluzione del 1979, dominano l’80% dell’economia e hanno come scopo ufficiale quello di ridistribuire le risorse a vantaggio delle fasce più deboli. Le bonyad hanno facile accesso alle risorse statali, sono favorite dall’esenzione fiscale e rispondono del loro operato unicamente alla guida suprema.
La questione delle risorse energetiche iraniane è complessa e sfaccettata. Esse costituiscono la prima fonte di reddito del paese e restano un punto nodale di alcune delle più importanti controversie con i vicini regionali e con attori internazionali, in primis gli Stati Uniti. L’Iran è il quarto paese al mondo per riserve petrolifere stimate (157 miliardi di barili, dietro al Venezuela, all’Arabia Saudita e al Canada) ed è al settimo posto nella produzione giornaliera (3,3 milioni di barili al giorno, dopo Usa, Arabia Saudita, Russia, Cina, Canada e Uae).
Si stima che il sottosuolo iraniano contenga ingenti riserve di gas naturale: nella produzione il paese è oggi al terzo posto mondiale, dietro Stati Uniti e Russia. A causa delle rigidità strutturali del mercato del gas, dovute al fatto che risulta più conveniente trasportarlo attraverso condutture piuttosto che liquefarlo e imbarcarlo via nave, le riserve gassifere iraniane, potrebbero ricoprire un ruolo fondamentale nelle aree caucasica, centroasiatica e mediorientale. Anche in questo caso, si attende l’implementazione dell’accordo sul nucleare e l’alleviamento delle sanzioni che dovrebbe permettere al paese di attrarre investimenti per mettere i propri impianti -ormai segnati da una gravosa obsolescenza - nelle condizioni di funzionare al massimo della loro potenzialità. Nell’agosto 2015, Iran e Oman hanno firmato un accordo di finalizzazione dell’antico progetto di creazione di un gasdotto lungo 400 km tra i due paesi. Un progetto che, a prezzi correnti, promette di valere circa 60 miliardi di dollari.
Per ora, tuttavia, il paese resta un importatore netto di gas dall’estero (in prevalenza dal Turkmenistan), a causa dei grandi consumi interni di metano. Neppure il recente aumento della produzione è riuscito a colmare il gap generato dalla crescita della domanda interna. Nonostante la posizione di importante esportatore petrolifero (Teheran vende all’estero circa il 60% della sua produzione), l’Iran dipende dagli approvvigionamenti esteri anche per quanto riguarda i prodotti derivati dal petrolio. Il suo potenziale di raffinazione è modesto e di poco superiore alla domanda interna: il paese è perciò costretto a esportare greggio – soprattutto verso Cina, Giappone e India – e a importare i suoi derivati più leggeri, come la benzina.
Da una prospettiva regionale, la disponibilità di idrocarburi ha generato e genera tuttora tensioni con alcuni paesi confinanti. In particolare, parte del giacimento di South Pars – al largo delle coste del Golfo Persico – è conteso tra l’Iran e il Bahrain. Al tempo stesso, Teheran invoca da decenni la revisione degli accordi internazionali di sfruttamento del bacino del Caspio, in una vertenza che coinvolge l’Azerbaigian e il Turkmenistan, anche se di recente i rapporti con Aşgabat sembrano meno tesi. Rimangono in sospeso, infine, i lavori di costruzione del gasdotto Iran-Pakistan-India (Ipi), il ‘gasdotto della pace’, la cui progettazione risale agli anni Cinquanta. Mentre l’India è nel frattempo uscita dal progetto, nel 2011 l’Iran ha completato la costruzione del tratto di gasdotto di sua competenza. La positiva conclusione della controversia sul nucleare ha riacceso le speranze per il completamento del progetto. A rallentare però è ora il Pakistan, stretto tra il bisogno di energia e le pesanti pressioni dell’Arabia Saudita affinché non faccia affari con Teheran.
La politica di difesa e sicurezza di Teheran è dettata da un innato senso di ‘solitudine strategica’, dovuto al fatto di essere circondato perlopiù da regimi ostili. Inoltre, negli scorsi anni la presenza diretta o indiretta degli Stati Uniti ai suoi confini orientali e occidentali, rispettivamente in Afghanistan e in Iraq, non ha fatto che amplificare questa sensazione. Negli ultimi due anni, la pericolosa avanzata dello Stato islamico (Is), profondamente ostile all’Iran, ha contribuito ad alimentare la sensazione di accerchiamento.
Per questa ragione e per il permanere dell’ostilità con Israele, mai sopita ma accentuatasi ulteriormente in seguito alla conclusione dell’accordo nucleare, è fondamentale per l’Iran mantenere in vita l’‘asse della resistenza’ che da Teheran attraversa l’Iraq e la Siria per congiungersi con il movimento sciita libanese Hezbollah. Proprio l’instabilità delle regioni siriana e irachena, nelle quali i governi amici di Teheran – rispettivamente quello di Bashar al Assad e di Haydar al Abadi – sono severamente minacciati dal dilagare dei guerriglieri integralisti sunniti dell’Is, hanno spinto Teheran a mettere in atto un serio sforzo bellico, dislocando in queste regioni tanto unità della Forza Quds, responsabili delle missioni estere, quanto milizie sciite addestrate in Iran.
Negli ultimi anni, inoltre, Teheran ha varato una serie di programmi di ammodernamento delle forze armate. In particolare, l’ostilità verso l’Arabia Saudita ha suggerito lo sviluppo della marina, considerata la componente più importante delle forze armate iraniane, vista anche l’importanza vitale della sicurezza delle coste che si affacciano sul Golfo Persico. Le difficili relazioni con Israele impongono all’Iran di adottare una seconda strategia basata principalmente sulla componente aerea: grazie anche ai contatti con Russia, Cina e Corea del Nord, il paese ha sviluppato un notevole arsenale missilistico di breve e media gittata e sta compiendo progressi nella costruzione di missili a lunga gittata. L’ostilità verso Israele spinge inoltre l’Iran a sostenere i movimenti che combattono lo stato ebraico, come Hezbollah e Hamas, anche se i rapporti con quest’ultimo sembrano essersi parzialmente incrinati a seguito della crisi siriana.
Accanto all’esercito regolare (Artesh), opera il corpo delle guardie della rivoluzione (Sepah-e Pasdaran-e Engelab-e Islami), che integra al suo interno unità speciali come le milizie Basij o la Forza Quds. Al corpo delle guardie della rivoluzione, creato da Khomeini nel 1979 al fine soprattutto di controbilanciare le forze armate regolari che avevano combattuto per lo shah, è affidato il compito di vigilare sul rispetto dei principi alla base della Repubblica islamica. Alla Forza Quds sono invece affidate le operazioni all’esterno del paese, come quella in corso in Siria e in Iraq.
Le minacce alla stabilità interna arrivano dalla minoranza beluci nel sud-est e da quella curda nel nord-ovest. Attraverso l’organizzazione Jundullah (‘l’esercito di Dio’), i beluci hanno lanciato diversi attacchi contro obiettivi governativi, diretti in particolar modo verso i pasdaran. In funzione anticurda il governo iraniano coopera con la Turchia nella lotta al Pjak, organizzazione ritenuta il braccio iraniano del Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan in Turchia. L’Iran sostiene però la formazione curda dell’Ypg, le Unità di difesa popolare, che lottano contro Is in Siria.
Il coinvolgimento dei pasdaran iraniani nell’economia del paese ha avuto inizio nel 1989, all’indomani della morte dell’ayatollah Khomeini e dell’avvio della presidenza Rafsanjani. Quest’ultimo, esponente di spicco della fazione dei cosiddetti ‘conservatori tecnocrati’, ha impostato il proprio mandato sulla necessità di risollevare l’economia iraniana, che usciva distrutta dagli otto anni di guerra con l’Iraq (1980-88). Allo scopo ulteriore di cooptare gli alti ufficiali e assicurarsi così la loro fedeltà, ai pasdaran venne affidato un ruolo chiave nell’economia del paese, soprattutto nel settore delle costruzioni. Nei vent’anni successivi, tuttavia, il loro ruolo è cresciuto fino ad arrivare a costituire la prima forza economica del paese. Attualmente i pasdaran controllano la maggioranza dei settori, dall’energia alle infrastrutture, passando per il settore automobilistico e per quello finanziario. Grazie alla vicinanza alle istituzioni centrali dello stato, le imprese controllate da pasdaran risultano spesso vincitrici di appalti per la costruzione delle grandi opere pubbliche. Ha fatto scalpore, per esempio, la vittoria di un’impresa di costruzioni di proprietà di un veterano su una compagnia turca per l’ammodernamento dell’aeroporto internazionale Imam Khomeini nel 2004. Paradossalmente, inoltre, le imprese controllate dai pasdaran hanno tratto vantaggio dall’inasprimento delle sanzioni internazionali, che hanno garantito loro una posizione di monopolio di fatto, tenendo lontani dal paese i potenziali competitor internazionali.
Dopo un negoziato durato anni, ed entrato nel vivo negli ultimi mesi del 2013, Iran e paesi del gruppo P5+1 (Cina, Francia, Regno Unito, Russia, Stati Uniti e Germania) hanno raggiunto a Vienna un accordo definitivo sull’annosa questione del programma nucleare. Il negoziato aveva preso avvio nel 2003 nella formula Eu3 (Francia, Germania, Regno Unito), alla quale si sono uniti nel 2006 Cina, Russia e Stati Uniti in quanto membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Dopo numerose false partenze, il negoziato ha ricevuto nuovo impulso nel 2013, in seguito all’apertura di un backchannel diplomatico tra Usa e Iran favorito dalla mediazione dell’Oman. L’elezione, in Iran, del presidente moderato Hassan Rouhani nel giugno dello stesso anno e la creazione di una nuova squadra di negoziatori più in linea con la politica di apertura varata dal presidente hanno assicurato continuità alle trattative, che tuttavia non sarebbero mai arrivate al risultato finale se l’accordo non avesse avuto la benedizione della Guida suprema, Ali Khamenei.
L’accordo assicura la progressiva eliminazione delle sanzioni relative al programma nucleare imposte da Usa, Eu e Un in questi anni, in cambio della limitazione da parte di Teheran del proprio programma nucleare e della disponibilità a garantire all’Iaea (Agenzia internazionale per l’energia atomica) l’accesso ai propri impianti. Soprattutto, l’accordo garantisce all’Iran il riconoscimento del proprio diritto all’arricchimento dell’uranio, condizione sulla quale si erano ripetutamente infrante le trattative precedenti.
L’intesa introduce un sistema di eliminazione delle sanzioni diluito nel tempo: nel corso del 2016 verranno sollevate le prime sanzioni, quelle sugli scambi di gas e petrolio, sulle transazioni finanziarie e sugli scambi di merci, mentre per l’embargo sulle armi imposto dalle Un occorrerà aspettare 5 anni, che diventeranno 8 nel caso l’acquisto di armi sia rivolto allo sviluppo del programma missilistico. Rimangono invece in vigore le sanzioni legate alle attività di supporto al terrorismo internazionale.
Approfondimento
di Annalisa Perteghella