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L’Islanda è uno stato insulare nordeuropeo. Dal 1944, anno dell’indipendenza dalla Danimarca, la scena politica è stata dominata dal Partito indipendentista di centro-destra. Tale continuità è stata interrotta soltanto negli ultimi anni, quando, a seguito del crollo finanziario che nel 2008 ha travolto il sistema islandese, il partito ha perso il suo tradizionale consenso popolare a vantaggio dell’opposizione di centro-sinistra, che si è aggiudicata la vittoria alle elezioni del 2009. La coalizione costituita dall’Alleanza socialdemocratica e da Sinistra movimento verde non è però riuscita a strappare un secondo mandato al consolidato Partito indipendentista che, coalizzandosi con il Partito progressista, ha conquistato 38 dei 63 seggi parlamentari alle elezioni del 27 aprile 2013. Nell’anno precedente si sono invece tenute le elezioni presidenziali che hanno assegnato la carica, per la quinta volta consecutiva, a Ólafur Ragnar Grímsson, ex esponente dell’ala politica di sinistra.
Nel contesto europeo, l’Islanda ha una delle più piccole economie in termini assoluti. Nel ventennio scorso, tuttavia, è stata protagonista di una stupefacente crescita economica sostenuta da ingenti investimenti internazionali, che l’ha portata a raggiungere uno dei PIL pro capite più alti al mondo. Il sogno islandese è però durato poco: dalla fine del 2008, sia per la vulnerabilità dell’isola alla tempesta finanziaria internazionale, sia per la forte esposizione del sistema bancario nazionale, il paese è entrato in una crisi economica senza precedenti. I tre maggiori istituti di credito islandesi – tra i quali Landsbanki, responsabile di una controversia diplomatica nota col nome Icesave dispute, che ha visto l’Islanda contrapposta a Regno Unito e Paesi Bassi – avevano adottato una politica espansionistica senza coperture e avviato l’acquisto di ingenti asset esteri. Ne è risultato l’accumulo di un debito complessivo stimato tra sei e dieci volte l’ammontare del PIL islandese del 2008.
La crisi economica ha influito anche sui rapporti internazionali, rendendoli più complessi. La disputa con Regno Unito e Paesi Bassi è giunta a un punto di svolta solo nel gennaio 2013, quando una sentenza della corte dell’Associazione europea di libero scambio (EFTA) ha decretato che l’Islanda deve pagare ai depositanti Icesave indennizzi pari soltanto alla soglia di assicurazione sui depositi, che vigeva nei due paesi al momento del crack. Non verrebbe quindi applicata la direttiva comunitaria, emessa l’anno successivo e invocata dalle parti lese, secondo la quale in caso di default di una banca, i depositanti vengono indennizzati fino all’importo massimo di 100.000 euro. Stando a queste nuove disposizioni dell’EFTA, l’Islanda risulta avere già pagato il 90% del suo debito.
L’effetto della crisi ha spinto Reykjavík a richiedere formalmente l’accesso all’Unione Europea (luglio 2009), ma il progetto ha incontrato il dissenso di gran parte dell’elettorato e a maggio 2013 i negoziati sono stati sospesi in attesa di un referendum popolare.
Per quanto riguarda le risorse naturali, l’Islanda ha una produzione d’avanguardia di energia geotermica. L’isola utilizza questa fonte per riscaldare l’85% delle sue case ed è dunque la nazione che copre la più alta quota di fabbisogno energetico interno con il geotermico.
L’Islanda è l’unico membro della NATO a non avere un esercito permanente. Dopo più di 50 anni durante i quali sono stati gli Stati Uniti a provvedere alla difesa dello stato mantenendovi una base, l’Islanda si è fatta carico della propria sicurezza soltanto dal 2006.