Vedi Israele dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
La nascita di Israele portò a compimento il sogno del movimento sionista, ossia il progetto nazionale ebraico a cui aveva dato vita il movimento politico di Theodor Herzl, nel 1898, a Basilea. La sua creazione è stata proclamata da David Ben Gurion (primo premier) il 14 maggio 1948, alla scadenza del mandato britannico sulla Palestina. In precedenza gli esponenti del movimento sionista avevano accettato il progetto di spartizione territoriale proposto dalle Nazioni Unite, rifiutato invece dagli stati arabi e dai palestinesi. La serie di guerre con i paesi arabi e il conflitto ‘a bassa intensità’ con i palestinesi, nelle loro diverse organizzazioni, hanno determinato una situazione di perenne instabilità nella regione, che ha catalizzato non solo l’attenzione ma, a tratti, anche gli sforzi diplomatici dell’intera comunità internazionale.
Il territorio generalmente riconosciuto a livello internazionale come israeliano, ossia quello contenuto entro le linee del cessate il fuoco del 1949 (la ‘linea verde’), ha due nuclei più consistenti a nord (la Galilea e la costa) e a sud (la Giudea meridionale e il deserto del Negev), collegati da una fascia costiera che si restringe nella zona a nord di Tel Aviv fino a circa 20 km, e si spinge con un cuneo a Gerusalemme.
Dal punto di vista istituzionale, è una repubblica parlamentare con un’unica camera di 120 seggi, la Knesset, che ogni sette anni elegge il presidente della repubblica. La legge elettorale è di tipo proporzionale. La forma che assume la rappresentanza proporzionale dà ai partiti un particolare diritto di scelta: in Israele l’elezione avviene su di un unico collegio nazionale a lista bloccata, con una soglia elettorale del 2%. L’ordine di lista viene determinato da ciascun partito o alleanza mediante una procedura interna; se una lista ottiene un certo numero di posti alla Knesset, i candidati sono eletti nell’assemblea sulla base dell’ordine in cui apparivano nella lista stessa. La forma di governo è parlamentare, il primo ministro ottiene l’incarico dal presidente della repubblica e deve ottenere la fiducia della Knesset.
Dal governo di unità nazionale del 1984-88 in poi, nessuna amministrazione israeliana è riuscita a completare il proprio mandato. A causa della mutevolezza del panorama dei partiti israeliani, a sua volta riflesso delle divisioni sociali, alleanze, fusioni, scissioni e cambiamenti di nome si susseguono con una certa frequenza, provocando instabilità politica. Anche l’ultimo governo, formatosi in seguito alle elezioni anticipate di gennaio 2013 e retto da Benyamin Netanyahu, affronta una situazione piuttosto incerta, determinata sia dall’ingresso nell’arena politica di nuovi partiti e alleanze, sia dallo scandalo che ha travolto il braccio destro di Netanyahu, Avigdor Lieberman, accusato di corruzione.
Il gruppo di centro-destra sorto dalla fusione dei partiti guidati da Netanyahu e dall’ex ministro degli esteri Lieberman, rispettivamente Likud e Yisra’el Beitenu, ha dovuto, infatti, ampliare le sue alleanze. Ai 31 seggi di Likud-Beitenu, si sono aggiunti i 12 seggi controllati dal partito religioso di destra, Habeyit hayehudi, e quelli dei due partiti centristi di Yesh atid (19 seggi) e Hatnua (sei seggi). Per mantenere salda la maggioranza alla Knesset, Netanyahu deve quindi destreggiarsi tra i suoi diversi partner, poiché ciascuno pare esprimere opinioni diverse sui più scottanti temi di politica estera e interna, come: riduzione dei privilegi per gli ultraortodossi, insediamenti e processo di pace con i palestinesi.
Il fattore demografico è stato per Israele decisivo sin dall’origine. Gli incentivi introdotti dalla fine dell’Ottocento (e in parte mantenuti tuttora) per stimolare l’arrivo nei territori palestinesi di ebrei provenienti da tutto il mondo (soprattutto Russia e Stati Uniti) erano finalizzati a legittimare l’esistenza di uno stato ebraico e ad accantonare le rivendicazioni territoriali da parte degli arabi palestinesi. Israele si è quindi sempre preoccupato di assicurare all’interno dei propri confini una maggioranza ebraica, avviando misure che mantenessero un tasso di incremento demografico abbastanza alto, tale da poter far fronte al tasso di fecondità palestinese, tra i più elevati al mondo. Israele conta oggi quasi 8 milioni di abitanti, per il 75% ebrei e per il 20% arabi. Più del 4% della popolazione vive in comunità in Cisgiordania (Giudea e Samaria nei documenti ufficiali israeliani), dove la costruzione di insediamenti israeliani, in progressivo aumento, provoca crescenti tensioni con i palestinesi.
La più grande città del paese è la capitale, Gerusalemme, che ha 890.428 abitanti. La popolazione israeliana è divisa da molteplici linee di frattura. La principale faglia si apre tra popolazione ebraica e quella araba. A sua volta la popolazione di origine ebraica è separata sia dall’origine, sia dall’atteggiamento rispetto al rapporto tra politica e religione. La prima differenza è tra ebrei di origine europea e quelli di origine nordafricana e mediorientale. Questa frattura è stata soltanto in parte sanata da matrimoni ‘misti’. A questi due gruppi si aggiungono i Falascià, ebrei di origine etiope (conosciuti anche come Beta Israel), e gli ebrei russi, immigrati a partire dagli anni Ottanta, considerati Ashkenaziti. La seconda divisione vede da una parte gli ebrei ‘ultraortodossi’, che sostengono un sionismo di stampo religioso e godono di molti benefici statali. Sono esenti dal servizio militare, ricevono sussidi scolastici e familiari in virtù del gran numero di figli, e buona parte di loro si astiene dal lavoro per dedicare il proprio tempo allo studio dei testi sacri.
Gli arabi israeliani cristiani sono inoltre frazionati tra greco-ortodossi, melchiti, membri della chiesa siriaca, cattolici latini, appartenenti alle chiese protestanti. A Gerusalemme vive una consistente comunità armena, che ha un suo quartiere nella città vecchia. Molte chiese orientali sono divise in una chiesa ortodossa e una cattolica, che mantiene i riti originari ma ha giurato obbedienza al Papa di Roma e ha aderito alla dottrina latina. La comunità drusa, concentrata nella zona del Monte Carmelo, è più integrata nella vita istituzionale israeliana: per i drusi è prevista la leva obbligatoria e molti sono arruolati, in particolare nella polizia di frontiera. La chiusura di Gaza e la difficoltà di entrare in Israele per i palestinesi, anche per quelli residenti in Cisgiordania, hanno provocato una penuria di manodopera che ha a sua volta causato una crescente immigrazione, soprattutto dall’Asia orientale.
Ufficialmente i cittadini israeliani godono di uguali diritti, indipendentemente dalla loro religione e lingua, ma le comunità arabe ricevono servizi e istruzione di qualità inferiore di quelle delle comunità ebraiche. Inoltre le comunità beduine spesso non ricevono servizi essenziali e sono soggette, in base alle denunce di associazioni per i diritti umani israeliane e internazionali, a discriminazioni nel possesso della terra e nel diritto a costruire.
La stampa è libera e il diritto di associazione è rispettato, anche grazie all’indipendenza della Corte suprema, che si è rifiutata di mettere fuori legge i partiti arabi. Nel paese non esiste il matrimonio civile.
Dall’estate del 2011, sull’onda delle proteste nei vicini stati arabi, anche nelle piazze israeliane hanno avuto luogo grandi manifestazioni. Sono state l’espressione di un diffuso malcontento popolare a causa delle crescenti differenze socio-economiche. Le politiche liberiste del governo, unite a una rigida separazione tra i vari gruppi sociali, hanno favorito alcuni gruppi a danno di altri, il cui tenore di vita si è abbassato.
Israele ha un’economia di mercato tecnologicamente avanzata. Mentre le principali importazioni comprendono petrolio greggio, cereali e materie prime, tra i prodotti più esportati si trovano attrezzature di alta tecnologia, prodotti farmaceutici e diamanti lavorati. L’high tech ha trainato le esportazioni israeliane dal 2003 in poi e ha contribuito in modo decisivo allo sviluppo dell’industria della difesa: Israele è il sesto paese al mondo per esportazioni di prodotti bellici e il primo per quota di vendite rispetto al volume di esportazioni totale. Il primo consumatore di armi israeliane è l’India, ma anche l’Europa sta diventando un importante acquirente.
L’economia è dominata comunque dal settore dei servizi, che contribuisce al pil per circa il 66% del totale, mentre l’industria rappresenta il 31,4% e l’agricoltura il 2,5%. Quest’ultimo settore, un tempo di fondamentale importanza , è oggi in lento declino, sebbene nei primi anni Cinquanta abbia favorito la creazione del paese. Per ciò che concerne i servizi, invece, il settore più importante, assieme a quello bancario, è il turismo. Sebbene l’economia turistica soffra della scarsa sicurezza del paese, i visitatori sono in crescita: nel 2012 sono stati registrati 3,5 milioni di turisti, provenienti soprattutto da Stati Uniti e Russia. Altro settore strategico dell’economia israeliana è rappresentato dall’industria diamantifera: Israele è uno dei paesi più importanti al mondo per il commercio di diamanti tagliati, assieme a Belgio e India. Il principale partner commerciale di Israele, sia per importazioni sia per esportazioni, continuano a essere gliStati Uniti.
Anni di politica di bilancio prudente e un settore bancario flessibile hanno permesso a Israele di recuperare velocemente le perdite scaturite dalla crisi globale. L’economia israeliana ha anche resistito alla tempesta scatenata dalle ‘Primavere arabe’, grazie ai forti legami commerciali al di fuori del Medio Oriente che l’hanno resa immune agli effetti di spillone riversatisi sull’intera regione.
Israele è un paese tradizionalmente dipendente dalle importazioni energetiche, che coprono quasi l’80% del fabbisogno nazionale annuo. Tale dipendenza si è dimostrata un fattore di vulnerabilità, specie nel settore del gas naturale, quando, in seguito al trionfo dei Fratelli musulmani, l’Egitto (unico fornitore di gas) decise, nell’aprile 2012, di sospendere il contratto di fornitura in vigore con Tel Aviv.
Tuttavia, la scoperta di ingenti giacimenti di gas naturale nel Mediterraneo, avvenuta nel 2010 al largo della costa israeliana, ha rivitalizzato il panorama della sicurezza energetica del paese e modificato la geopolitica regionale del gas. La riserva Leviathan costituisce il più grande giacimento di gas naturale off-shore scoperto in questo decennio, e la sua operatività (imminente) assicurerebbe a Israele non solo l’autosufficienza ma anche la possibilità di esportare la risorsa. Un controverso piano governativo annunciato a giugno 2013 prevede però di destinare alle esportazioni solo il 40% del totale estratto. Lo sfruttamento dei giacimenti è stato ostacolato dalle rivendicazioni avanzate dal Libano su parte dei giacimenti, conseguenza della più ampia e spinosa questione della mancata definizione dei confini marittimi tra i due paesi.
Oltre a quella energetica, un’altra questione di grande importanza strategica per Israele e il suo futuro è quella idrica. Il paese ha nel Lago di Tiberiade la maggiore fonte di approvvigionamento d’acqua e ciò ha provocato gravi conflitti con la confinante Siria, poiché il lago si trova in parte sul territorio delle Alture del Golan, occupate e annesse da Israele, ma rivendicate da Damasco. Il problema legato alla gestione delle risorse idriche, del resto, si ripercuote anche nei rapporti con il Libano e con l’Autorità nazionale palestinese. Per sopperire alla carenza di acqua dolce, Israele ha lanciato un ambizioso piano di costruzione di impianti di desalinizzazione che dovrebbe portare a 600 milioni di metri cubi la produzione annua entro il 2015, come primo passo per raggiungere, entro il 2050, 1,7 miliardi di metri cubi, circa la metà del consumo annuo israeliano.
Le forze armate israeliane (Tzahal, acronimo di TzvaHaHaganahLeYisra’el, Forze di difesa di Israele) si basano sul sistema della coscrizione del richiamo periodico delle riserve. Le forze attive comprendono 176.500 soldati, uomini e donne, cui possono aggiungersi fino a 565.000 unità della riserva: complessivamente, oltre il 10% della popolazione. Il servizio militare è obbligatorio per ebrei e drusi; cristiani e musulmani possono fare un servizio volontario. Chi non ha servito sotto le armi non si può avvalere dei vantaggi che ne derivano, per esempio in termini di borse di studio e di mutui per la casa. Tzahal mantiene un apparato militare tecnologicamente avanzato. Per esempio, l’aviazione è dotata di F-15, F-16 e F-161 Sofah, mentre l’esercito ha in dotazione il carro Merkava Mark 4, migliorato rispetto ai modelli precedenti nei sistemi di controllo del tiro, di difesa attiva e di strumentazione elettronica. Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), Israele avrebbe anche sperimentato il missile balistico Jericho 3, con una gittata di oltre 4000 km.
Quanto alle minacce alla sicurezza, la situazione di Israele è paradossale. È di gran lunga lo stato militarmente più forte dell’area, anche dal punto di vista della motivazione e dell’addestramento delle forze armate, ed è tuttavia quello più in allerta, non soltanto per i rischi connessi al terrorismo, ma per la persistente ostilità verso l’esistenza stessa dello stato e del popolo di Israele.
Tuttavia, le prove di forza in Libano, contro Hezbollah, e nella striscia di Gaza, contro Hamas, hanno confermato la forza militare di Israele e la sua relativa efficienza. Sia l’operazione ‘Piombo fuso’ sia ‘Pilastro di difesa’ hanno inflitto perdite assai pesanti alla struttura militare di Hamas, tanto che successivamente il lancio di missili contro Israele è cessato, salvo qualche sporadico episodio.
Per prevenire ogni attacco, il governo israeliano ha costruito un muro di separazione dai territori palestinesi, avviato nel 2003 e più volte riveduto; in realtà si tratta non solo di un muro, ma di una barriera a più strati, tecnologicamente sofisticata. La barriera, criticata per varie ragioni sia dai palestinesi (perché ingloba territori al di là della ‘linea verde’, isola o spacca in due interi abitati, rende problematico il movimento), sia da parte del movimento dei coloni (perché implica la rinuncia al possesso di tutti i territori dal Giordano al mare), ha ridotto quasi a zero gli attacchi terroristici dentro Israele.
A novembre 2013, Netanyahu ha segnalato un nuovo obiettivo strategico di sicurezza, che rappresenterà una linea rossa per i futuri accordi con i palestinesi: il controllo israeliano della Valle del Giordano. Giustificandoli con il timore di un’infiltrazione in Israele dei profughi siriani che ora vivono in Giordania, il premier ha annunciato i piani di costruzione di una nuova recinzione lungo il Giordano, che comincerà immediatamente dopo il completamento del muro di separazione con l’Egitto. Accanto a Hamas e Hezbollah, l’altro storico nemico di Israele è l’Iran. Il paese sciita che ha sempre condannato l’esistenza stessa dello stato di Israele, è oltremodo pericoloso in quanto potenza nucleare che potrebbe togliere a Israele l’esclusività nell’area mediorientale della dissuasione nucleare come ultima risorsa.
Il maggiore problema di sicurezza di Israele rimane la pace con i vicini, principalmente i palestinesi e la Siria. A tale situazione, si sono aggiunte nel 2011 le preoccupazioni derivanti dalla diffusa instabilità ai propri confini, come conseguenza delle ‘Primavere arabe’. Anzitutto, gli stravolgimenti avvenuti in Egitto hanno aperto nuovi scenari nelle relazioni tra i due paesi, dovuti soprattutto al fatto che l’Egitto, con la Giordania, è l’unico stato arabo che abbia riconosciuto Israele. Un primo segnale d’allarme è arrivato con la temporanea decisione della giunta militare egiziana di riaprire il valico di Rafah, che collega la Striscia di Gaza al territorio egiziano, permettendo così agli abitanti di uscire dalla Striscia per la prima volta in quattro anni. La percezione di crescente insicurezza si è approfondita poi con la guerra civile in Siria.
Il nodo dello sfruttamento delle risorse energetiche del Mediterraneo orientale ha aggiunto un rilevante focolaio di tensione, con una crescente polarizzazione degli schieramenti che vede Israele allinearsi progressivamente alla Grecia e a Cipro, intenzionata a sfruttare le proprie risorse nonostante la dura opposizione della Turchia. Oltre ad aver siglato, nel 2010, un accordo per la demarcazione delle rispettive zone economiche esclusive marittime, Tel Aviv e Nicosia hanno firmato, nel febbraio 2012 – in occasione della prima visita di un capo di governo israeliano a Cipro – un accordo di cooperazione militare.
La fase iniziale del movimento sionista, segnata dalle prime due ondate di immigrazione ebraica in Palestina (1882 e 1904) fu alimentata dai pogrom in Russia. A sua volta, le violenze contro gli ebrei si erano incongruamente scatenate dopo l’assassinio di Alessandro II a opera dei terroristi di Narodnaya Volya e si protrassero, in Russia, fino al 1921.
Nel 1917, dopo la Dichiarazione Balfour sulla spartizione dell’Impero ottomano e l’occupazione inglese della Palestina, si verificò una più consistente ondata di immigrazione ebraica e, contemporaneamente, una più decisa presa di coscienza dei palestinesi arabi. Il risultato furono gli scontri del 1929. Dopo la grande rivolta araba del 1936-1939 e una serie di attentati sionisti, il conflitto arabo-ebraico in Palestina proseguì nella sua escalation con la prima guerra arabo-israeliana (1948-1949), scoppiata dopo il rifiuto arabo di riconoscere il piano delle Nazioni Unite di divisione della Palestina in due stati e la nascita-blitz di Israele. Tra il 1949 e il 1967, nonostante la rapida guerra del 1956, vinta ancora una volta da Israele, il paese riuscì a consolidare le sue posizioni, mentre il panorama del mondo arabo si faceva più variegato. In questa fase il conflitto araboisraeliano si svolse soprattutto tra stati, mentre la società araba e i palestinesi dovettero gestire lo choc della naqba, la ‘catastrofe’ provocata dalla sconfitta del 1948.
Tra il 5 e il 10 giugno 1967 la cosiddetta Guerra dei sei giorni sconvolse gli equilibri del Medio Oriente: Israele occupò il Sinai, la Cisgiordania e il Golan. Fu uno spartiacque storico per diversi motivi: segnò la sconfitta del panarabismo nasseriano; il disastro militare e politico dei regimi arabi portò alla fine della loro tutela sull’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP); alimentò il successo dei movimenti ‘fondamentalisti’: in Israele per dare un senso alla vittoria, nei paesi arabi per reagire alla sconfitta.
Nel 1973 la Guerra del Kippur frustrò ancora una volta le speranze arabe: Siria ed Egitto, con un attacco a sorpresa contro Israele, avevano cercato di annullare le conseguenze della guerra del 1967. Ancora una volta le forze israeliane si imposero sul campo, ma la loro vittoria pose un più serio problema di soluzione diplomatica del conflitto. Ci si arrivò parzialmente con la Pace di Camp David, tra Egitto e Israele, nel 1979. Dal 1979 al 1987 l’evento saliente è costituito dalla guerra in Libano, con il quale il governo Begin-Sharon cerca di eliminare l’OLP come attore militare e politico, e di mettere la Siria fuori dei giochi libanesi. Il primo obiettivo viene centrato, il secondo no. L’OLP si trasferisce a Tunisi e il governo israeliano è indebolito prima dallo scandalo delle stragi nei campi palestinesi di Sabra e Shatila, poi dalla crescita della guerriglia contro le forze israeliane, che porta, nel 1985, al graduale ritiro di queste fino a una fascia di sicurezza nel sud del Libano, abbandonata nel 2000. Nel 2013, dopo cinque anni di stallo, sono ripresi i negoziati tra Israele e Palestina, grazie alla mediazione di USA e Giordania.
Dal 1987 al 2000 si è svolta la fase diplomaticamente più dinamica dei rapporti arabo-israeliani. Dopo l’inizio della prima Intifada (dicembre 1987) si è posto il problema di una soluzione politica che non escludesse l’OLP. Le condizioni sono maturate dopo la Guerra del Golfo (1991), con il processo di pace avviato a Madrid l’ottobre dello stesso anno, da cui, però, l’OLP è stato escluso. I tavoli di trattativa di Madrid hanno portato nel 1994 al trattato di pace tra Israele e Giordania. Trattative segrete parallele condotte tra Israele e l’OLP hanno condotto prima alla Dichiarazione di princìpi (1993) con cui Israele e OLP si sono riconosciute mutuamente, poi alla divisione dei territori occupati in tre zone: le città palestinesi, sotto controllo di una nuova Autorità nazionale palestinese (ANP) (zona A), una seconda zona di controllo amministrativo palestinese, la cui sicurezza è stata posta sotto controllo israeliano (zona B), una terza zona (zona C, che comprendeva gli insediamenti) sotto controllo totale israeliano.
L’assassinio del leader che aveva raggiunto gli accordi di Oslo, Yitzhak Rabin, e una campagna di attentati suicidi da parte di Hamas hanno causato la caduta del premier Shimon Peres e la vittoria, nel 1996, di Benjamin Netanyahu, che ha subito espresso diffidenza nei confronti di Yasser Arafat e ha bloccato il processo. I problemi sul tavolo restavano i confini, e quindi la sorte degli insediamenti israeliani nei territori occupati, le risorse idriche, Gerusalemme e il problema dei rifugiati. Proprio su quest’ultima questione le posizioni sono sempre rimaste lontane. Il governo di centro-sinistra presieduto da Ehud Barak non è riuscito a sbloccare le trattative, e dopo una nuova tornata di negoziati senza esito esplose la seconda intifada o al-Aqsa Intifada. Una serie di attentati suicidi, a opera soprattutto di Hamas, spinsero il governo di Ariel Sharon a riprendere il controllo dei territori palestinesi (2003) e, poi, ad abbandonare Gaza senza coinvolgere l’ANP (2005). Il risultato fu un nuovo stallo diplomatico. Per uscire dall’impasse è stata definita una Road Map, cioè un percorso politico e diplomatico, la cui mediazione è stata affidata a USA, Russia, Unione Europea e Nazioni Unite. Spesso, però, il compito più duro della mediazione è stato affidato alla presidenza e al dipartimento di stato americani. Infine, la divisione palestinese tra Hamas, più forte a Gaza, e l’ANP, più forte in Cisgiordania, è stata irrigidita da una breve e sanguinosa guerra civile.
Nell’estate del 2006 le forze armate israeliane hanno invaso il Libano meridionale per cercare di sradicare la forza politico-militare di Hezbollah. Le milizie sciite libanesi, pur subendo pesanti perdite, hanno resistito. Hezbollah, pur ridimensionata, ha rafforzato il suo prestigio politico in Libano. Nel contempo, nel Libano meridionale alle milizie sciite si è sostituito un contingente delle Nazioni Unite (UNIFIL). Tra il 2008 e il 2009 si è svolta l’operazione contro Gaza. Le pesanti perdite inflitte alle forze paramilitari di Hamas e la cessazione degli attacchi missilistici non sembrano aver prodotto risultati politici definitivi, mentre i report internazionali hanno espresso forti dubbi sulla condotta dell’esercito israeliano. Infine, l’operazione condotta nel novembre 2012 e denominata ‘Pilastro di difesa’ ha avuto esiti controversi. Lanciata alla vigilia delle elezioni del 2013 dal governo Netanyahu, si è trasformata in un successo politico per Hamas, che è riuscito, attraverso la mediazione del nuovo presidente egiziano Mohammed Mursi, a ottenere condizioni assai favorevoli per il ‘cessate il fuoco’. Fra queste la più importante è stata l’autorizzazione alla riapertura dei valichi per Gaza. Questa mossa ha permesso alla leadership di Hamas di affermare di aver ottenuto la fine del blocco della Striscia che durava dal 2007.
La fase più recente di dialogo si è aperta a fine ottobre 2013 ma, visti i primi passi, è improbabile che si raggiungano risultati entro la data di chiusura, fissata ad aprile 2014. Dopo aver ottenuto il rilascio di 26 prigionieri palestinesi, la squadra negoziale dell’ANP ha deciso di rassegnare le dimissioni in segno di protesta contro i piani di Israele di costruire oltre 20.000 nuove abitazioni di coloni in Cisgiordania.
Caratterizzato da un’inedita organizzazione sociale (basata sul kibbutz) e ostracizzato dall’intero mondo arabo, Israele ha per molto tempo offerto di sé l’immagine di uno stato costretto in una condizione di isolamento diplomatico. Ciò è stato vero, in particolare, negli anni Settanta, quando le visite ufficiali avevano più che altro un valore simbolico. Negli ultimi decenni, però, la percezione di Israele a livello internazionale si è capovolta, e il paese è giunto a essere considerato l’alleato numero uno dello stato più potente al mondo, gli Stati Uniti. Le varie amministrazioni che si sono passate il testimone alla Casa Bianca erano concordi nel ritenere che la linea cruciale della politica estera americana passasse per Tel Aviv e Gerusalemme. Dello stesso parere sembra oggi il presidente Barack Obama. Sebbene il suo rapporto con Netanyahu non abbia assunto i connotati della vera amicizia, com’era accaduto in passato con altri presidenti, le numerose visite del segretario di stato John Kerry e il forte segnale mandato dallo stesso Obama, che ha compiuto il primo viaggio del secondo mandato in Terra Santa, avevano lasciato intuire un riavvicinamento tra Washington e Tel Aviv.
I più recenti sviluppi nella politica mondiale e in quella interna a Israele, suggeriscono tuttavia che la lealtà tra i due alleati stia venendo meno su due fronti: gli insediamenti israeliani in Cisgiordania e la questione del nucleare iraniano. La linea assunta dall’esecutivo Netanyahu sul primo punto e l’autonomia con la quale gli USA hanno definito l’accordo con Teheran nel novembre 2013 hanno riaperto qualche contrasto.
Sugli insediamenti di Cisgiordania e Gerusalemme Est, i numeri spiegano la freddezza di Washington: ignorando del tutto la richiesta di congelamento delle colonie avanzata nel 2009 dalla presidenza statunitense, l’amministrazione Netanyahu ha emesso nel 2012 un numero di autorizzazioni statali per la costruzione di case al di là della Linea verde, superiore del 300% rispetto a quello del precedente biennio.
L’atteggiamento intransigente adottato dal premier israeliano rispetto alla questione del nucleare iraniano - punto centrale della campagna elettorale 2012-13 del Likud - ha portato, invece, alla marginalizzazione del ruolo del suo paese e impedito il coinvolgimento di Tel Aviv al tavolo delle negoziazioni. Netanyahu aveva espresso quattro condizioni, senza le quali un’intesa con Teheran sarebbe stata per Israele impossibile: fermare del tutto l’arricchimento dell’uranio, rimuovere dal territorio iraniano l’uranio già potenziato, chiudere l’impianto di Qom e arrestare la pista di arricchimento del plutonio. I leader delle potenze del gruppo P5+1 (i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite più la Germania) hanno ignorato la posizione del primo ministro di Israele e rallentato la pressione sull’Iran in cambio di condizioni più favorevoli a Teheran. Netanyahu, le cui posizioni ignorano il ruolo internazionale dell’Iran del presidente Hassan Rouhani, ha manifestato una netta opposizione all’accordo che rischia di confinare Israele nello stesso isolamento dal quale l’Iran è appena uscito.
Eppure ora come non mai, vista l’incerta situazione di molti paesi mediorientali, Israele avrebbe bisogno di solidi alleati. In Egitto, la fine dell’ambiguo rapporto che si era creato tra Tel Aviv e la Fratellanza musulmana, ha lasciato spazio a una situazione ancora incerta sul fronte sicurezza.
Anche con il ben disposto stato confinante giordano le relazioni si stanno incrinando. La necessità di fondi per gestire il copioso afflusso di immigrati siriani e le cattive condizioni economiche del regno, costringono re Abdullah II a rafforzare i rapporti con le ricche monarchie del Golfo e l’annuncio della costruzione di un muro israeliano sulla valle del Giordano alimenta le tensioni.
L’incognita più inquietante proviene comunque dalla Siria, dove la guerra civile ha favorito lo sviluppo di cellule jihadiste e sul cui territorio si scontrano da ormai più di due anni i big dell’islam regionale (Arabia Saudita e Iran), sostenuti da un consistente gruppo di alleati internazionali animati da contrastanti interessi geostrategici.
In un tale scenario, lo stato di freddezza con gli USA, unita all’isolazionismo regionale, potrebbe avere gravi conseguenze soprattutto sul fronte sicurezza per il popolo israeliano e sul processo di pace con i palestinesi. Se da un lato l’allontanamento degli USA potrebbe indurre Israele a posporre ulteriormente la ricerca di una soluzione, dall’altro potrebbe produrre l’effetto opposto. Tel Aviv, in allerta per il timore di ritrovarsi sola contro tutti, potrebbe, in sede di negoziazione, scendere a compromessi finora inediti pur di beneficiare di nuovo del sostegno di Washington.