ISTITUZIONI
di Alessandro Cavalli
Sia nel linguaggio comune che nel lessico delle scienze sociali il concetto di istituzione copre una gamma di fenomeni molto eterogenea. Nel linguaggio comune per istituzione si intende generalmente un apparato preposto allo svolgimento di funzioni e di compiti che hanno a che fare con l'interesse pubblico, comunque inteso, quali l'istruzione (istituzioni scolastiche), la cura della salute (istituzioni sanitarie), l'amministrazione della giustizia (istituzioni giudiziarie), la difesa del territorio (istituzioni militari), ecc.
Nelle scienze sociali per istituzioni si intendono modelli di comportamento che in una determinata società sono dotati di cogenza normativa. Rispetto al linguaggio comune, il concetto sociologico di istituzione assume un significato a un tempo più ampio e più preciso: più ampio perché riguarda in generale tutti i modelli di comportamento e non solo quelli che si manifestano in apparati e organizzazioni (istituzioni sono, ad esempio, anche il tabù dell'incesto, il digiuno rituale, il fidanzamento, il linguaggio, ecc.); più preciso perché sottolinea come, affinché un modello di comportamento possa essere considerato un'istituzione, sia necessaria la presenza di un elemento normativo in qualche misura vincolante. Non basta cioè che in una qualsiasi società si rilevi la presenza di regolarità nei comportamenti dei vari membri perché si possa parlare dell'esistenza di istituzioni; tali regolarità possono infatti derivare da semplici abitudini prive di una forza normativa vincolante. Dire che le istituzioni riguardano norme a carattere vincolante non vuol dire evidentemente che i comportamenti effettivi non si scostino, talvolta in modo anche cospicuo, da tali norme. Ogni istituzione comporta tuttavia la presenza di qualche forma di controllo sociale che assicuri che lo scarto tra comportamenti prescritti e comportamenti effettivi non superi determinati limiti, pena la dissoluzione dell'istituzione stessa.
Una caratteristica importante delle istituzioni da un punto di vista sociologico è la loro durata temporale. Le istituzioni, come ogni prodotto dell'attività umana, sono soggette a nascere e a scomparire, tuttavia il loro ciclo di vita è in genere notevolmente più lungo di quello degli individui che di volta in volta si trovano ad agire nel loro ambito (v. Simmel, 1908). Ogni individuo vive in un mondo popolato da istituzioni che preesistono alla sua nascita e che sono destinate a sopravvivere alla sua morte, e questo dato di fatto elementare, ma importantissimo, spiega come mai gli individui debbano adattarsi (pena la loro stessa sopravvivenza) alle istituzioni della società nella quale è capitato loro di nascere. Questo processo fa parte del più generale processo di socializzazione.
Delle istituzioni, così come degli individui, è quindi possibile scrivere la biografia nell'arco di un ideale ciclo di vita che va dalla nascita allo sviluppo, alla maturità e, infine, alla morte. Tuttavia le origini di molte istituzioni si perdono nella notte dei tempi e la loro scomparsa non è in nessun modo prevedibile. Il matrimonio, ad esempio, come istituzione che sancisce l'unione più o meno stabile tra un uomo e una donna, ha senz'altro origini molto remote, è passato attraverso forme molto variabili in epoche e culture diverse e, anche se alcuni sostengono che sia destinato a estinguersi, nessuno è in grado di dire se e quando ciò possa avvenire.
Nella dinamica delle istituzioni si possono distinguere due tipi fondamentali di processi: da un lato le istituzioni nascono, si sviluppano e muoiono per effetto di eventi e processi spontanei, vale a dire non intenzionalmente voluti e prodotti dalle azioni di individui e gruppi identificabili (v. Boudon, 1979); dall'altro lato, invece, tali eventi e processi sono imputabili alla volontà specifica di qualche attore. È chiaro che questa polarità non distingue soltanto due tipi diversi di processi, ma anche due modi diversi di intendere il fenomeno delle istituzioni. In entrambi i casi la dinamica delle istituzioni è il risultato dell'agire degli uomini, ma mentre nel primo caso il risultato è l'effetto non intenzionale dell'agire (si parla in proposito di effetto di composizione o di effetto emergente), nel secondo caso le istituzioni sono una vera e propria creazione di individui o gruppi concreti. Nel primo caso le istituzioni appaiono come formazioni 'organiche', nate e cresciute (e magari estintesi) spontaneamente e delle quali è quindi possibile scrivere la storia 'naturale', nel secondo caso la storia delle istituzioni rimanda all'azione di fondatori, di sostenitori ed, eventualmente, di distruttori delle istituzioni stesse. Non è infrequente il caso di istituzioni, ad esempio città o Stati, che, sorte 'spontaneamente' e gradualmente dall'agire di una miriade di individui sconosciuti, sono in un secondo tempo state attribuite alla volontà di qualche mitico fondatore. In modo particolare, le istituzioni della comunità politica tendono a costruire il 'mito' della loro origine o fondazione, facendo di tale evento l'oggetto di periodiche celebrazioni nelle quali viene rinnovato il vincolo originario e rafforzato il senso di appartenenza comune.
La stessa istituzione può essere vista, in circostanze diverse, come effetto di processi spontanei o di azioni intenzionali. Prendiamo l'esempio del mercato. Nella tradizione dell'Occidente il mercato è un'istituzione, vale a dire un sistema di regole per la circolazione di beni e servizi, che si è formata gradualmente nel corso dei secoli per effetto dell'azione di molteplici attori e circostanze (venditori, compratori, mercanti, banchieri, magistrature cittadine, ecc.). Diversa è, invece, l'istituzione del mercato quale emerge attualmente dall'esperienza dei paesi ex comunisti dell'Europa orientale, dove il mercato si forma per effetto dell'azione intenzionale di una élite politica orientata a demolire le istituzioni dell'economia di piano e a 'creare', per così dire, ex novo un'economia di mercato (v. Streeck, 1993).
Lo stesso discorso fatto per le origini vale evidentemente anche per gli altri eventi che segnano la vita delle istituzioni e, infine, anche per la loro morte. Le istituzioni possono scomparire perché si estinguono 'da sole', oppure perché vengono distrutte da qualche attore, individuale o collettivo. Se si adotta una prospettiva funzionalista, si può dire che le istituzioni nascono perché rispondono a qualche bisogno o esigenza sociale insoddisfatta e si estinguono quando o scompare il bisogno che le ha originate o vi sono altre istituzioni in grado di soddisfare lo stesso bisogno in modo più adeguato. Spiegazioni di questo tipo della dinamica delle istituzioni sono palesemente tautologiche, in quanto tendono a spiegare le cause di un fenomeno alla luce degli effetti che esso produce, e tuttavia sono utili poiché invitano ad analizzare le istituzioni non isolatamente, ma sempre in riferimento al contesto, vale a dire all'ambiente nel quale operano.
La considerazione dei rapporti tra istituzioni e ambiente suggerisce di adottare nel loro studio una prospettiva sistemica; ogni istituzione viene vista come un sistema di regole in rapporto con altre istituzioni e quindi con altri sistemi di regole, ognuno dei quali mantiene rispetto agli altri un determinato grado di apertura-chiusura. Quando in qualche ambito (ad esempio in un'istituzione politica o religiosa) avviene un cambiamento, questo si ripercuote sulle altre istituzioni collegate, trasforma cioè il loro ambiente, e queste a loro volta si modificano per reazione al mutamento ambientale e così via in un gioco continuo di azioni e retroazioni (feed-back). Il tipo e l'intensità della risposta alle 'sfide' dell'ambiente dipendono dalla capacità dell'istituzione di percepire e valutare i mutamenti esterni, di mobilitare le proprie risorse e di organizzare la propria reazione. Se un'istituzione sopravvaluta o sottovaluta l'entità della sfida, se non riesce a mobilitare le proprie risorse, o se le mobilita in misura eccessiva, la sua risposta sarà inadeguata fino al punto di minacciare la sopravvivenza dell'istituzione stessa.
Il mutamento delle istituzioni non dipende solo dalla loro capacità di rispondere efficacemente alle sfide che provengono dall'ambiente esterno (ad esempio, nel caso di un'impresa, dalla sua capacità di rispondere alle trasformazioni dei mercati nei quali opera), ma anche dal modo di affrontare le tensioni e i conflitti che si sviluppano al loro interno. I fattori di mutamento, cioè, possono essere sia esogeni sia endogeni. Per rimanere all'esempio dell'impresa, i mutamenti possono essere indotti dal riassetto dei rapporti tra proprietà e controllo oppure dalla rinegoziazione dei rapporti di lavoro dipendente, e questi mutamenti potranno a loro volta influire sulle strategie di mercato.
Non si può dire a priori quale tipo di risposta alle sfide, esterne o interne, rafforzi o indebolisca un'istituzione, aumenti o diminuisca le sue chances di sopravvivenza, poiché ciò dipende dal tipo di sfida e dalle circostanze nelle quali si verifica. In generale si può dire che le istituzioni dispongono potenzialmente di una vasta gamma di possibili risposte, ma che solo alcune di queste sono effettivamente attivabili nelle circostanze date. Due, in linea di principio, possono essere i tipi di risposta strategica alle sfide ambientali: da un lato un tipo di risposta 'rigida', tendente a conservare l'identità e l'integrità dell'istituzione di fronte alla turbolenza interna o esterna, dall'altro un tipo di risposta 'flessibile', in grado di modificare la struttura interna dell'istituzione, di ridefinirne i confini con l'ambiente e quindi l'identità stessa (v. Simmel, 1908).
Un esempio illuminante delle possibili strategie che un'istituzione può adottare di fronte alle sfide o alle minacce cui è sottoposta è fornito dall'atteggiamento della Chiesa di fronte ai movimenti eretici. I movimenti eretici si sviluppano generalmente ai confini dell'istituzione della Chiesa, talvolta mettendosi esplicitamente 'al di fuori' della Chiesa stessa, talvolta rivendicando a sé la 'vera' ortodossia, cioè la pretesa di rappresentare la 'vera' fede. La risposta della Chiesa è stata storicamente assai differenziata: la minaccia ereticale da un lato ha incontrato una risposta 'rigida', nel senso che gli esponenti di tali movimenti sono stati espulsi (quando essi stessi non si sono collocati 'al di fuori') e perseguitati con ogni possibile mezzo, dall'altro ha incontrato una risposta 'flessibile' di inclusione, invece che di esclusione, dalla quale sono nati frequentemente gli ordini monastici. In questo caso l'istituzione ha risposto alla minaccia modificando la propria struttura, in particolare realizzando al proprio interno un processo di differenziazione capace di inglobare gli elementi di diversità. In generale si può dire che l'incapacità di dare risposte flessibili ai mutamenti interni o esterni riduce, almeno nel lungo periodo, le chances di adattamento e quindi di sopravvivenza di un'istituzione.
Nel definire le istituzioni abbiamo osservato che si tratta di modelli di comportamento dotati di cogenza normativa, vale a dire di sistemi di regole. Non tutte le istituzioni, tuttavia, presentano lo stesso grado di cogenza normativa. Soprattutto quando nasce, un'istituzione non presenta ancora i tratti che fanno di essa un'istituzione compiuta e, inoltre, molte istituzioni restano a uno stadio poco avanzato o parziale di istituzionalizzazione. Le istituzioni si possono infatti ordinare lungo un continuum a seconda del grado di istituzionalizzazione raggiunto, e nel corso della loro storia possono muoversi lungo questo continuum passando a livelli superiori o retrocedendo a livelli inferiori.
Il grado di istituzionalizzazione di un sistema di regole dipende da diversi fattori: dalle forme flessibili o rigide del controllo sociale che ne garantiscono l'osservanza, dal grado di informazione in merito alla loro esistenza, dal grado di accettazione da parte della società, dal tipo e dall'intensità delle sanzioni che premiano la conformità o puniscono la trasgressione, dal grado di interiorizzazione nei codici morali individuali, infine dal grado in cui le norme vengono di fatto osservate oppure no. All'estremo inferiore del continuum abbiamo sistemi di regole che incontrano forme flessibili di controllo sociale, di cui molta gente non conosce l'esistenza o che comunque non accetta o che ha interiorizzato in modo superficiale, la conformità alle quali non viene premiata né la trasgressione punita in modo sistematico, e che quindi di fatto non sempre danno luogo a comportamenti conformi. All'estremo superiore avremo invece le caratteristiche opposte.
Nelle moderne società occidentali, ad esempio, un basso grado di istituzionalizzazione presentano le istituzioni che prescrivono il digiuno o altre forme di restrizioni alimentari periodiche (lo stesso non si può dire delle società islamiche o ebraiche dove prevale l'ortodossia religiosa). Un alto grado di istituzionalizzazione, viceversa, sempre nelle società occidentali moderne, è tipico delle istituzioni che abilitano all'esercizio di certe professioni (medici, avvocati, notai, ecc.). Il matrimonio, invece, almeno nella fase storica attuale delle società avanzate, sembra essere un'istituzione che regredisce a uno stadio inferiore di istituzionalizzazione: infatti cresce il numero delle coppie che convivono senza essere sposate e, soprattutto, senza incontrare un grado elevato di disapprovazione sociale. I settori di attività nei quali operano nuove professioni (ad esempio l'assistenza sociale) presentano inizialmente un basso grado di istituzionalizzazione che tuttavia tende ad aumentare man mano che tali settori vengono sottoposti a forme di regolamentazione (v. Larson Sarfatti, 1977; v. Freidson, 1986).Un caso particolare di elevata istituzionalizzazione è costituito da quelle istituzioni che esercitano un controllo pervasivo e costante sui comportamenti (ma spesso anche sui pensieri) dei loro membri. Si parla in questo caso di 'istituzioni totali' (v. Goffman, 1961) per indicare il fatto che esse restringono, fino quasi ad annullarli, i gradi di libertà degli individui coinvolti. Rientrano in questa categoria le prigioni (v. Foucault, 1975), i campi di concentramento, gli ospedali psichiatrici, le caserme, i conventi e, in genere, tutte quelle istituzioni che tendono a cancellare i segni dell'individualità e a trasformare in numeri (o in burattini) coloro che volontariamente (o, più spesso, involontariamente) ne fanno parte.
La fase decisiva del processo di istituzionalizzazione è comunque senz'altro quella della nascita. Abbiamo visto che di molte istituzioni non è possibile determinare la nascita perché sono sorte come effetto emergente dall'intreccio delle interazioni umane. Altre istituzioni, invece, sono il prodotto dell'azione di movimenti sociali che si pongono degli obiettivi e mobilitano delle risorse per conseguirli. I movimenti nascono in genere da stati di tensione o di conflitto sociale, si presentano come innovativi e spesso devianti rispetto agli assetti istituzionali esistenti e sono spesso caratterizzati da forti componenti di espressività, di spontaneità e di entusiasmo da parte dei loro sostenitori. Lo stato di movimento è tipicamente uno stato instabile, magmatico e provvisorio, in cui sono spesso presenti figure carismatiche, capaci di raccogliere intorno a sé e di mobilitare le energie di una moltitudine di seguaci. Si tratta di una fase molto delicata poiché, se il movimento non riesce a trasformarsi in istituzione, è inevitabilmente destinato a scomparire. Il passaggio dalla fase del movimento alla fase dell'istituzione ha attirato in special modo l'attenzione degli scienziati sociali. Max Weber, in particolare, ha analizzato il problema della "trasformazione del carisma in pratica quotidiana", problema che si pone invariabilmente nel passaggio, ad esempio, di un movimento religioso alla forma della chiesa o della setta, oppure di un movimento politico alla forma del partito politico (v. Weber, 1922). Si tratta, dal punto di vista analitico, dello stesso problema che devono affrontare i leaders di una rivoluzione vittoriosa quando devono passare dalla lotta rivoluzionaria alla gestione del potere conquistato.
Recentemente Alberoni, riprendendo i termini dell'analisi weberiana, ha contrapposto il 'movimento' e l''istituzione' come i due stati fondamentali del sociale, il primo di tipo fusionale, in cui i rapporti sociali sono fortemente personalizzati, diffusi, carichi di emotività e affettività, il secondo dove invece prevalgono i rapporti impersonali regolati da sistemi astratti di norme (v. Alberoni, 1977).
Da quanto esposto risulta chiaro che il concetto di istituzione, così come viene utilizzato nelle scienze sociali, si colloca a un livello molto elevato di generalizzazione ed è quindi applicabile a una categoria molto ampia di fenomeni. Per poter operare una classificazione delle istituzioni è necessario disporre di un criterio, cioè di un modello teorico di riferimento. Abbiamo già visto che un criterio possibile riguarda il loro diverso grado di istituzionalizzazione. Un secondo criterio, in parte legato al precedente, fa riferimento alle forme organizzative nelle quali un'istituzione può esprimersi, al grado di articolazione e differenziazione delle stesse, alla definizione dei ruoli al loro interno e in relazione agli scambi con l'ambiente.
Un altro criterio di classificazione, spesso adottato soprattutto dagli antropologi, riguarda la frequenza con la quale certe istituzioni compaiono in società diverse. Non solo infatti non vi è società là dove non vi siano istituzioni sociali, cioè là dove non vi siano regole che guidino i comportamenti dei membri, ma alcune istituzioni sono riscontrabili in tutte (o quasi) le società. Queste istituzioni sono chiamate "universali culturali". C. Lévi-Strauss (v., 1949), ad esempio, sostiene che nelle società umane una delle prime istituzioni sociali, se non la prima, è stata il tabù dell'incesto, in quanto, vietando i rapporti sessuali tra consanguinei, avrebbe indotto a stabilire legami sociali stabili al di fuori della cerchia strettamente famigliare. Non a caso le norme della parentela fanno parte delle istituzioni sociali fondamentali di ogni società umana, in quanto regolano i rapporti dai quali dipende la sopravvivenza stessa della sua base biologica, vale a dire la sua popolazione. Anche il linguaggio, la religione, l'arte, il gioco, lo scambio di doni, ecc. sono considerati dagli antropologi degli universali culturali (v. Murdock, 1949). È chiaro, tuttavia, che la grande variabilità delle forme con le quali questi tratti compaiono nelle diverse società riduce molto il loro carattere di universalità. Le esigenze alle quali queste istituzioni rispondono possono essere le stesse in ogni società, ma i modi in cui queste esigenze vengono soddisfatte variano moltissimo.Il riferimento alla indispensabilità di un'istituzione per l'esistenza stessa della società richiama il fatto che i bisogni che le istituzioni soddisfano, o, che è lo stesso, le funzioni che svolgono, costituiscono un altro importante criterio impiegato dagli scienziati sociali per classificare le varie istituzioni. Adottando un approccio funzionalista e semplificando molto la formulazione classica data da Talcott Parsons (v., 1951), possiamo dire che ogni sistema sociale per esistere deve soddisfare quattro requisiti fondamentali: 1) formulare dei fini; 2) adattare i mezzi ai fini; 3) regolare le transazioni tra le sue parti; 4) mantenere nel tempo i propri orientamenti di fondo. Al primo requisito corrisponde sostanzialmente la funzione politica (garantire la sicurezza esterna e interna, regolare i conflitti di interesse, definire gli interessi generali), al secondo la funzione economica (assicurare l'approvvigionamento di beni e servizi, vale a dire la loro produzione, circolazione e distribuzione), al terzo la funzione normativa (definizione dei diritti e doveri dei singoli e delle parti, formulazione, interpretazione e applicazione delle norme), al quarto la funzione di riproduzione biologica e culturale (mantenimento dell'identità, dei valori e degli orientamenti di fondo). Alle varie funzioni corrispondono istituzioni diverse, anche se molte istituzioni svolgono una pluralità di funzioni (multifunzionalità), la stessa funzione può essere svolta da una pluralità di istituzioni (alternative funzionali) e le funzioni di un'istituzione possono modificarsi nel tempo a vantaggio o a svantaggio di altre istituzioni. Così, ad esempio, famiglia, scuola e religione sono istituzioni specializzate nella funzione di riproduzione culturale, ma svolgono anche funzioni politiche ed economiche; la famiglia ha storicamente ceduto gran parte delle sue funzioni educative alla scuola, la religione ha ceduto funzioni regolative al diritto e alla politica; le istituzioni giuridiche sono specializzate nella funzione normativa, ma condividono con le istituzioni politiche la formulazione delle leggi, e così via. L'approccio funzionalista al quale abbiamo fatto ricorso per affrontare il problema della classificazione delle istituzioni lascia aperti e insoluti molti problemi teorici, in particolare può fornire la base per una tassonomia (tipologia) delle istituzioni, ma non è in grado di spiegarne la genesi e il mutamento. All'analisi dei problemi teorici posti dallo studio delle istituzioni è dedicato l'articolo che segue.
(V. anche Carisma; Conflitto sociale; Controllo sociale; Incesto; Matrimonio; Movimenti politici e sociali; Parentela; Ruoli, teoria dei; Socializzazione).
Alberoni, F., Movimento e istituzioni, Bologna 1977.
Boudon, R., La logique du social, Paris 1979 (tr. it.: La logica del sociale, Milano 1980).
Foucault, M., Surveiller et punir: naissance de la prison, Paris 1975 (tr. it.: Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino 1976).
Freidson, E., Professional power. A study in the institutionalization of formal knowledge, Chicago 1986.
Goffman, E., Asylums. Essays on the situation of mental patients and other inmates, Harmondsworth 1961 (tr. it.: Asylums. Le istituzioni totali, Torino 1968).
Larson Sarfatti, M., The rise of professionalism, Berkeley 1977.
Lévi-Strauss, C., Les structures élémentaires de la parenté, Paris 1949 (tr. it.: Le strutture elementari della parentela, Milano 1969).
Murdock, G., Social structure, New York 1949 (tr. it.: La struttura sociale, Milano 1971).
Parsons, T., The social system, New York 1951 (tr. it.: Il sistema sociale, Milano 1965).
Simmel, G., Soziologie, Berlin 1908 (tr. it.: Sociologia, Milano 1989).
Streeck, W., Social institutions and economic performance, New York 1993.
Weber, M., Wirtschaft und Gesellschaft, Tübingen 1922 (tr. it.: Economia e società, Milano 1968²).
di Mary Douglas
Nell'attuale teoria delle istituzioni queste vengono definite come sistemi di regole. Poiché le regole possono sorgere spontaneamente in risposta a una varietà di problemi e possono svolgere una pluralità di funzioni senza che vi sia un unico obiettivo globale, le istituzioni vanno distinte dalle organizzazioni, qualora con questo termine si vogliano indicare ordinamenti finalizzati al conseguimento di un fine specifico.
'Istituire' significa stabilire un ordine, regolare. Una istituzione è, specificamente, un ordinamento di relazioni sociali in modelli regolari. Nel linguaggio quotidiano il termine non presenta problemi, in quanto si applica a qualunque tipo di comportamento regolarmente istituito: la proprietà è un'istituzione, al pari del matrimonio, del denaro o dei divieti relativi all'incesto. Si possono avere istituzioni di ogni scala di grandezza: si va dai grandi sistemi amministrativi degli imperi, come ad esempio l'Impero romano, all'istituzione del pranzo domenicale in famiglia. In termini generali, le istituzioni sono costituite da sistemi di regole che specificano norme di comportamento, fondate su determinati principî e associate a sanzioni per chi le viola e ricompense per chi vi si conforma.
Il problema delle istituzioni è profondamente radicato nelle scienze sociali, e si è sempre inevitabilmente prestato a una lettura in chiave politica. A partire da Marx gran parte delle teorie relative alle istituzioni si è incentrata sui diritti di proprietà: alcune considerano l'istituzione della proprietà privata il fondamento della libertà di mercato, altre antepongono il pubblico interesse alla facoltà degli individui di disporre liberamente delle loro proprietà. La contrapposizione tra individualismo e collettivismo continua a essere un motivo di fondo del dibattito su questo tema. Ancora in tempi piuttosto recenti J.M. Buchanan (v., 1993) ha sviluppato una teoria delle istituzioni in cui i diritti di proprietà individuali costituiscono la principale unità d'analisi.
Un altro importante problema che si ripresenta costantemente nello studio delle istituzioni, e sul quale le opinioni si sono divise in modo altrettanto radicale quanto sulla questione della proprietà, è di ordine metodologico: in che modo dovrebbe essere condotta l'analisi della società e delle istituzioni? Dovrebbe avere i caratteri di una scienza deduttiva come l'economia classica? Auguste Comte, Vilfredo Pareto ed Émile Durkheim sono alcuni dei grandi pensatori che hanno adottato questa concezione. Sin dall'inizio però vi sono stati altri autori i quali hanno criticato l'eccessiva astrazione dell'analisi formale, che si lascia sfuggire troppi aspetti della vita sociale e della dimensione umana.
L'istituzionalismo è nato alla metà del XIX secolo come corrente del pensiero economico guidata da quanti erano insoddisfatti del formalismo dell'approccio neoclassico. L'espressione 'istituzionalismo storico' fu adottata per indicare una prospettiva più storica e un metodo più descrittivo. Wilhelm Georg Roscher (1817-1894) fondò l'autorevole scuola storica tedesca in reazione ai metodi deduttivi dell'economia classica. Secondo Roscher l'approccio all'economia politica deve basarsi su un'attenta analisi storica. A differenza della teoria economica classica, che era ed è tuttora astratta, l'istituzionalismo era caratterizzato da un approccio globale, nel senso che prendeva in considerazione la società nella sua totalità.
Alla base delle differenze di ordine metodologico vi era una profonda divergenza sui valori: l'utilitarismo, destinato ad assumere un'importanza di primo piano nell'economia neoclassica, attirava le critiche per la sua definizione del comportamento razionale come comportamento fondato sull'interesse personale; Roscher, in linea con la sua fede cristiana e protestante, propose una definizione dell'interesse personale che includeva la coscienza umana quale istanza regolatrice dei desideri.
Nel periodo tra le due guerre il gruppo dei cosiddetti 'istituzionalisti francesi' (M. Haurion, G. Renard, J.T. Dalos, di orientamento cattolico) si oppose ai metodi deduttivi nella filosofia del diritto (v. Broderick, 1970) e cercò di sviluppare una teoria delle istituzioni basata sul diritto naturale.In America John Roger Commons (1862-1945) fu il fondatore di una particolare scuola istituzionalista che aveva come base lo Stato del Wisconsin (v. Seckler, 1975). Secondo Commons le forze di mercato capitalistiche seguono una determinata linea di sviluppo, mentre le istituzioni, modificandole, vanno in una direzione diversa. Egli si propose di elaborare una teoria dell'azione collettiva che tenesse conto del ruolo costruttivo e conciliatore delle istituzioni, le quali forniscono il contesto entro cui può dispiegarsi la libera iniziativa individuale. Come vedremo, questo tema venne in seguito del tutto trascurato, ed è stato ripreso solo dalle teorie più recenti.Un'altra importante scuola istituzionalista americana, influenzata da Thorstein Veblen e guidata da Clarence Ayres (1891-1972), considerava le istituzioni nemiche del progresso. Secondo Ayres lo sviluppo sociale equivale allo sviluppo tecnologico e la tecnologia è il principale risultato dei processi di problem solving. In quanto prodotto del pensiero strumentale, la tecnologia viene contrapposta alle istituzioni, che rappresenterebbero la componente 'cerimoniale' del comportamento umano. Si tratta di due processi che interagiscono tra loro: la tecnologia rappresenta l'elemento vitale, mentre le cerimonie hanno un carattere statico e inibiscono il cambiamento (v. Samuels, 1988, pp. 45-57). Gli istituzionalisti americani non avevano un atteggiamento neutrale, ma fecero dello studio delle istituzioni - considerate fonte dei mali della società - un programma di impegno morale.
La storia del dibattito sulle istituzioni nelle scienze sociali è caratterizzata da prese di posizione appassionate in cui traspaiono in modo abbastanza evidente i principî religiosi e politici che le ispirano: la difesa dei metodi induttivi da un lato e di quelli deduttivi dall'altro non segnala solo una divergenza metodologica, ma è parte integrante di un atteggiamento politico complessivo. In effetti è vero che l'economia classica concentrava l'attenzione sui processi del mercato trascurando altre istituzioni, ed è vero anche che la teoria economica con i suoi metodi finì per costituire un polo opposto rispetto alle altre branche delle scienze sociali. Essa aveva il compito di fornire informazioni esatte sui meccanismi dell'economia e interpretazioni in termini rigorosamente economici. A questo scopo vennero elaborati sofisticati strumenti analitici e un linguaggio specialistico, a tutto beneficio della teoria economica ma a detrimento dell'economia politica e dell'economia applicata, nella misura in cui per questi ambiti non ci si preoccupò di sviluppare una metodologia altrettanto rigorosa. Alla fine la discussione accademica sulle istituzioni venne relegata nei dipartimenti di sociologia. Quanto più efficacemente la scienza economica sviluppava i propri modelli specialistici, tanto più la teoria delle istituzioni - che pure era nata in seno alla teoria economica - diventava marginale e subordinata. La scienza economica assunse un carattere ancor più rigorosamente teorico e deduttivo, mentre lo studio delle istituzioni divenne piuttosto la sede privilegiata per esprimere indignazione morale o per prendere posizione in favore della stabilità o del cambiamento.Recentemente è stato compiuto il tentativo di operare una sintesi in grado di unificare questi due universi di discorso divergenti. All'interno della stessa teoria economica si è andato sviluppando un indirizzo, noto come 'neoistituzionalismo', il quale ha trovato nuovi modi di rispondere a vecchie questioni e ha elaborato un nuovo linguaggio congeniale a entrambi i campi di studio. Prima di illustrare questo orientamento esamineremo le principali tematiche dell'approccio in chiave sociologica alle istituzioni.
Alla metà del XIX secolo il sociologo inglese Herbert Spencer (1820-1903) elaborò un modello dello sviluppo delle istituzioni ispirato alla biologia e basato sull'evoluzione dei diritti di proprietà (v. Spencer, 1876-1896). L'idea secondo cui le leggi che tutelano la proprietà privata avvantaggiano le società dal punto di vista evoluzionistico ben si accordava con l'interesse della Gran Bretagna per la legittimazione dei mercati.
La teoria di Spencer si proponeva di dare allo studio della società umana la precisione e l'obiettività proprie delle scienze della natura. Le principali unità d'analisi della sua teoria evoluzionistica sono gli individui in competizione gli uni con gli altri, analogamente alle specie che in natura lottano per il controllo delle risorse e del territorio. Si trattava di un modello sostanzialmente teleologico, in quanto assumeva che i conflitti di interesse tra gli individui si sarebbero risolti automaticamente in un beneficio per la società intera. Al pari dell'evoluzione delle specie teorizzata da Darwin, anche l'evoluzione sociale si configura come un processo in cui il debole sarà eliminato e il più adatto sopravviverà. Una relativa idoneità (dimostrata dalla sopravvivenza) è il prodotto della differenziazione e dell'integrazione delle istituzioni. Le società che sono scomparse, oppure sono state dominate e assorbite da altre, erano quelle più semplici, in cui i diritti connessi alla proprietà privata erano meno sviluppati; quelle che sono sopravvissute dimostrandosi più adatte sono le società che hanno raggiunto un elevato grado di complessità istituzionale. Esempi di istituzioni semplici si possono trovare nelle società tribali di cacciatori e raccoglitori e in quelle dei pastori nomadi, in cui i diritti territoriali sono indefiniti; mercati, banche, chiese e parlamenti sono gli esempi più familiari di istituzioni complesse, saldamente presenti nella vita contemporanea e caratterizzati da funzioni specializzate e da una integrazione sociale più estesa. Tutti sappiamo cosa sono le istituzioni complesse, perché le vediamo controllare efficacemente - ognuna nettamente differenziata dalle altre nelle sue tipiche forme architettoniche - la vita degli individui.
Questo primo tentativo di comparazione delle istituzioni dipendeva dalla plausibilità prima facie dell'ipotesi evoluzionistica. Poiché si assumeva che un livello relativamente superiore di differenziazione fosse segno di uno status più evoluto, si riteneva che le istituzioni più semplici fossero anacronismi viventi oppure che fossero destinate a una imminente estinzione. Per spiegare l'evoluzione sociale si richiamava l'esempio delle trasformazioni avvenute nella famiglia e nella Chiesa. La famiglia in passato svolgeva quelle funzioni connesse all'educazione dei giovani che ora sono state assunte da istituzioni educative specializzate. Non solo i genitori hanno demandato le loro antiche funzioni educative, persino per i figli nella prima infanzia, ma l'industria e il commercio hanno sostituito la famiglia nel compito di preparare e conservare il cibo. Col generale processo di specializzazione, la famiglia svolge unicamente la funzione specializzata della riproduzione. In un'altra sfera, quella della religione, la secolarizzazione ha comportato un'analoga riduzione e specializzazione funzionale. L'analogia con l'evoluzione della famiglia e della Chiesa, che hanno perso le competenze globali di cui erano investite un tempo, induceva a postulare una fase primitiva della società in cui mancano istituzioni specializzate per la religione, la politica e l'economia, e in cui la divisione del lavoro avviene esclusivamente in base al sesso e all'età.
L'influenza delle teorie evoluzionistiche all'epoca di Spencer si manifestava in ogni campo: dalla filologia all'archeologia, al diritto. Circa un secolo più tardi, tuttavia, il modello evoluzionistico spenceriano ha perso la sua plausibilità. Si possono criticare i 'salti' logici che lo caratterizzano, ad esempio l'indebito passaggio dall'analogia con la famiglia alla conclusione che le fasi primitive di un'istituzione sono più semplici di quelle successive, e con esso il discutibile assunto che le istituzioni 'semplici' sono inefficienti - un'idea che ancor oggi crea delle difficoltà quando si analizzano le economie non di mercato. Ancora più opinabile è la tesi assai diffusa secondo cui le società più semplici sono di dimensioni ridotte e quindi non presentano problemi di coordinazione. La nozione centrale di 'semplicità' è piena di ambiguità.Per quanto si debba ammettere che lo schema spenceriano basato sull'idea di un'evoluzione sociale in direzione di una maggiore specializzazione e di una migliore integrazione domini ancora la comparazione delle istituzioni, e sebbene molti studiosi abbiano elaborato propri schemi evolutivi, nella sua prima formulazione l'evoluzionismo sociale non ha dato luogo a una teoria paragonabile a quella darwiniana della selezione genetica. Esso utilizzava semplicemente la nozione di evoluzione per dare un fondamento di plausibilità alla ottimistica ipotesi dell'esistenza di leggi del progresso umano, cui si accompagnava l'esortazione a guardarsi dalle forze inerziali che condannano le società ad arenarsi, diventando simili a fossili che i flussi della storia lasciano dietro di sé.
Val la pena di rimarcare le differenze tra il modo in cui la nozione di evoluzione è utilizzata attualmente nell'analisi comparata delle istituzioni e quello in cui veniva impiegata nel XIX secolo. In primo luogo l'evoluzionismo sociale ottocentesco selezionava una serie di trasformazioni in quanto rilevante per sostenere una data tesi, ad esempio la serie delle trasformazioni che conducono a un avanzamento tecnologico; in secondo luogo esso considerava solo il punto d'arrivo dei mutamenti, prestando scarsa attenzione ai dettagli del processo; in terzo luogo, trascurando il ruolo degli individui nell'organizzare il cambiamento, dava implicitamente un'immagine degli uomini del passato come passivamente soggetti alle leggi dell'evoluzione, mentre nello stesso tempo, contraddittoriamente, si serviva della nozione di evoluzione per sostenere la necessità di promuovere attivamente il mutamento nella giusta direzione.Il nuovo approccio alle istituzioni fa ricorso al concetto di evoluzione solo ai fini di una prudente e circoscritta analisi delle trasformazioni all'interno dei sistemi economici. È comprensibile che gli studiosi di economia siano interessati al processo che ha portato l'Occidente a diventare ricco. Nell'interpretare in chiave evoluzionistica i fenomeni della stagnazione economica e del mancato sviluppo, alcuni autori hanno espresso la convinzione che la competizione economica eliminerà le istituzioni inferiori e consentirà di sopravvivere solo a quelle che hanno risolto più efficacemente i problemi dell'epoca. Il passato tuttavia è ricco di esempi di istituzioni che sono sopravvissute pur non risultando in alcun modo adatte in senso evoluzionistico. Si rende quindi necessario riesaminare i criteri in base ai quali definire 'idonee' le istituzioni. Ad esempio la storia della Spagna nell'età moderna o le limitate opportunità delle economie del Terzo Mondo rappresentano altrettanti problemi per le teorie economiche neoevoluzionistiche. Alcune istituzioni con la loro sopravvivenza sembrano favorire la stagnazione, altre contribuiscono all'espansione e allo sviluppo economico. Il neoistituzionalismo economico cerca di elaborare una serie di strumenti analitici che consentano di comprendere tali processi.
Allorché la descrizione a grandi linee degli stadi evolutivi della società non fu più in auge nella teoria economica, lo sviluppo delle istituzioni perse la sua importanza centrale nel pensiero sociologico e divenne un campo di studi marginale della disciplina. L'interesse dei sociologi per le istituzioni si focalizzava tipicamente sulle cause dell'integrazione e della disintegrazione sociale. Altri temi al centro dell'attenzione erano l'arrestarsi del processo di innovazione, il vacuo ritualismo e il mancato sviluppo di adeguate soluzioni istituzionali ai nuovi problemi. Le testimonianze archeologiche di antichi imperi caduti in rovina dimostravano come le istituzioni potessero causare la disintegrazione totale di un sistema sociale.
Spencer riteneva che l'integrazione potesse essere raggiunta solo attraverso un'organizzazione economica complessa, e si servì pertanto della teoria evoluzionistica per corroborare la sua difesa del capitalismo. Émile Durkheim adottò la concezione spenceriana dell'evoluzione sociale come passaggio dal semplice al complesso, ma, poiché si inseriva nella tradizione istituzionalistica francese, si propose di confutare la teoria inglese di una società organizzata interamente in base ai principî della competizione economica. Egli distinse due tipi di integrazione sociale: la prima prodotta da un ordine simbolico condiviso (il tipo primitivo), la seconda frutto della differenziazione economica (il tipo più altamente evoluto). Durkheim riteneva che lo sviluppo di istituzioni economiche complesse indebolisse inevitabilmente l'impegno morale e che l'anomia (o mancanza di norme) caratterizzasse la società moderna.
A partire da Durkheim la teoria sociologica delle istituzioni prese a studiare gli atteggiamenti morali che si supponeva preservassero le istituzioni. I problemi legati alla disintegrazione della società dovuta all'alienazione e alla mancanza di impegno morale assunsero un'importanza di primo piano. I valori e l'adesione ai valori costituirono temi centrali nella teoria sociale di Talcott Parsons (v., 1937, 1951 e 1964), che divenne la figura dominante della disciplina dagli anni trenta agli anni cinquanta.
La teoria sociologica del comportamento istituzionale in questo periodo si concentrò sui ruoli e sull'adempimento di ruolo. La teoria dei ruoli tendeva a considerare i membri delle istituzioni come soggetti meramente passivi, simili a docili pecore che obbediscono ai latrati del cane pastore impersonato dalle istituzioni (v. Gouldner, 1970). I sociologi discussero i fenomeni della conformità, del ritualismo, della devianza e dell'alienazione (v. Merton, 1938; v. Riesman, 1950). Interessanti ricerche nel campo della psicologia sociale esaminarono i processi di socializzazione e di marginalizzazione, e dimostrarono come istituzioni eccessivamente routinizzate abbiano un effetto oppressivo sulla fragile psiche umana. L''istituzionalizzazione' venne ritenuta distruttiva per l'autonomia personale. Si studiarono i processi di socializzazione e di educazione, in modo che le scuole potessero proteggere i giovani da tali insidie. L'eccessiva istituzionalizzazione era considerata un pericolo per la personalità umana (v. Goffman, 1968). Nei notevoli studi condotti sui fenomeni di marginalizzazione e di rifiuto le istituzioni vennero segnalate come la fonte del pericolo.
Lo studio delle istituzioni, iniziato come una comparazione scientifica tra i diversi tipi di istituzioni analoga alla classificazione delle specie in biologia, perse via via la sua originaria connessione con la teoria economica; l'attenzione si spostò dallo studio comparato delle istituzioni alle relazioni fra i loro singoli membri e agli effetti che esse esercitano su di essi, e le teorie prescrittive presero il sopravvento. Un pregiudizio romantico induceva a considerare le istituzioni come intrinsecamente repressive e come ostacoli irrazionali alla libera spontaneità del comportamento umano; imponendo risposte meccaniche, esse costituirebbero una minaccia per la democrazia. Il giudizio negativo sulle istituzioni non fu mai controbilanciato dal riconoscimento del loro carattere di presupposto della stabilità dei rapporti umani e di condizione della creatività individuale. Di fatto, le istituzioni come tali e nella loro immensa varietà di forme furono quasi del tutto trascurate in questa fase.
In tempi più recenti si è verificato un radicale mutamento di prospettiva nello studio delle istituzioni. L'orientamento teorico noto come neoistituzionalismo ha cercato di operare una sintesi tra diverse branche delle scienze sociali, e in particolare di pervenire a un campo di studi unificato che includa la teoria economica, la sociologia e la storia. La teoria delle istituzioni basata sul concetto di scelta razionale dovrebbe fornire un terreno d'incontro tra la teoria economica neoclassica e la sociologia. I problemi dell'identità personale e dell'impegno morale, che hanno un posto di primo piano nella sociologia, non vengono presi in considerazione dal neoistituzionalismo, in quanto esso parte dall'assunto che gli individui siano attori che compiono liberamente le proprie scelte razionali. L'individuo non è più visto come vittima passiva di istituzioni oppressive, ma come attivamente impegnato nel foggiare le proprie istituzioni in base a calcoli razionali.
È inevitabile che, a quasi mezzo secolo di distanza, il neoistituzionalismo non si ponga in un rapporto di continuità diretta con il vecchio istituzionalismo storico. Se i problemi della continuità e del cambiamento, della stagnazione, dell'innovazione e della trasmissione di valori sono ancora al centro dell'attenzione, sono però cambiati i metodi e i modelli d'indagine. La società non è più vista come un organismo complesso, ma come un sistema di informazione; l'analisi statistica della regressione continua a essere impiegata, ma l'approccio dominante sul piano metodologico è la cibernetica. Il rinnovato interesse per le istituzioni e per i sistemi di informazione non fu dovuto a un repentino mutare di atteggiamento da parte degli economisti. Kenneth Boulding introdusse il primo modello della società come sistema di informazione cibernetico a retroazione nel 1956. Molti esponenti del neoistituzionalismo fanno risalire le origini del proprio indirizzo teorico agli scritti di Coase degli anni trenta.
Coase (v., 1937) aveva focalizzato l'attenzione sull'impresa nella sua revisione critica della teoria economica. Se si parte dal presupposto che il mercato si autoregoli attraverso il meccanismo dei prezzi e se si assume - come in effetti si fa - che tale meccanismo sia privo di costi, come si spiega la nascita dell'impresa? quando e perché questa si afferma? Secondo Coase l'errore sta nell'assumere che il meccanismo dei prezzi sia privo di costi; per gli operatori in proprio l'informazione relativa al mercato può comportare costi notevoli, per non parlare dei costi legati alla negoziazione e alla conclusione delle transazioni. Partendo da un problema apparentemente semplice, lo studio di quelli che Coase definì 'costi di transazione' riproponeva antiche questioni, quale quella del declino dell'industria, del monopolio e della concorrenza perfetta. I costi di transazione sono simili a costi di trasferimento non localizzati che si aggiungono al prezzo del prodotto. Coase propose di analizzare tali costi in base al principio di sostituzione marginale. In questo modo lo studio delle istituzioni abbandonava la sfera delle vaghe descrizioni e veniva ricondotto sul terreno dell'analisi economica. Nella teoria dei costi di transazione i dirigenti d'impresa vengono visti come attori impegnati in un processo di decisione razionale, e ciò introduce un importante correttivo rispetto alla tendenza a vedere le istituzioni come entità indipendenti e non umane; e poiché i costi di transazione ostacolano un'efficiente allocazione delle risorse, essi forniscono la chiave per spiegare i fenomeni del monopolio e della stagnazione economica.
L'analisi dei costi di transazione parte dal presupposto che le attività interne dell'impresa non siano regolate dal meccanismo dei prezzi. In pratica il rapporto tra impiegato e datore di lavoro è analogo al rapporto giuridico tra servo e padrone. In precedenza, al fine di spiegare perché i sottoposti accettano di essere diretti da altri, si faceva ricorso di solito a una teoria psicologica: certi individui sarebbero inclini a lasciarsi guidare dagli altri, a lasciare che questi assumano i rischi per loro e dicano loro che cosa fare. Per Coase invece la spiegazione è un'altra: i singoli imprenditori si rendono conto che in certe circostanze la situazione del mercato comporta gravi rischi per chi opera in proprio; la decisione di impiegarsi in un'azienda anziché restare nel mercato come operatori in proprio è analoga ad altre decisioni economiche. Quando prevale l'incertezza, la sicurezza è costosa, i contratti a breve termine risultano difficili da negoziare e l'informazione attendibile comporta costi superiori al suo valore, allora conviene ridurre una serie di contratti separati a uno solo: un accordo in base al quale si acconsente a essere diretti da altri (entro certi limiti).
Oliver Williamson si servì di questo approccio per sviluppare un indirizzo neoistituzionalista che rovescia completamente la teoria economica, attribuendo alla riduzione dei costi di transazione un ruolo altrettanto importante quanto quello della massimizzazione del profitto. Secondo Williamson gli economisti dovrebbero analizzare la struttura delle istituzioni; i costi di transazione spiegano le dimensioni delle aziende, la struttura degli incentivi e il potere delle associazioni sindacali. Determinati casi di stagnazione economica prima inspiegabili si chiariscono una volta messa in luce la struttura degli incentivi. Il termine 'efficienza', che in economia si riferisce alla redditività, acquista un nuovo significato in rapporto ai "costi comportati dalla valutazione di ciò che conviene, dalla tutela dei diritti, dai meccanismi di sorveglianza e di applicazione degli accordi" (v. North, 1990, p. 2). Questa affermazione merita di essere citata in quanto segnala un ritorno della teoria economica alla più ampia sfera di interessi dell'economia politica, da cui aveva preso le mosse. Al centro dell'attenzione viene posta ora la cooperazione socialmente produttiva. Alle istituzioni viene attribuito un ruolo di primo piano in quanto queste, stabilendo le regole del gioco, strutturano gli incentivi dei giocatori.
Il vecchio istituzionalismo non si era preoccupato di definire una tipologia delle varie istituzioni. Queste o venivano analizzate dal punto di vista storico, ognuna come caso sui generis (come nel vecchio istituzionalismo storico tedesco), oppure venivano considerate tutte indistintamente una forma generale di restrizione della libertà individuale (come nell'istituzionalismo americano e nell'approccio sociologico che giudicava negativamente le istituzioni). Un'eccezione è costituita dalla distinzione weberiana tra la categoria delle burocrazie e quella dei mercati, caratterizzata ognuna da proprie forme specifiche di classificazione e da una propria logica. Il neoistituzionalismo si rifà a questa distinzione, che corrisponde a quella operata da Coase tra imprese e singoli operatori nel mercato: le grandi imprese corrispondono alle burocrazie dell'analisi weberiana, nonché alle 'gerarchie' di cui parla Williamson; esse minimizzano i costi di transazione controllando i flussi di informazione e delegando a istituzioni specifiche le attività di negoziazione e di controllo.
Con l'ausilio di questi strumenti analitici più sofisticati possiamo tornare ora al problema evoluzionistico e chiederci nuovamente perché le cosiddette società primitive non hanno sviluppato la moneta e il commercio. Forse per il fatto che sono caratterizzate da istituzioni monopolistiche che riducono le opportunità? Anziché presentare tali società come il primo gradino di una scala lineare di evoluzione sociale, è assai più proficuo considerarle come società che si trovano ad affrontare costi di transazione troppo alti e che non riescono a trovare, per i propri problemi, soluzioni basate sulla cooperazione. Il basso livello di sviluppo economico in questo caso sarebbe dovuto all'incertezza incontrollabile, agli alti rischi, alla mancanza di informazione sulle intenzioni e le opinioni degli altri, nonché ai costi che comporta sorvegliare e punire quanti defezionano. Supponiamo che un abitante di un villaggio africano chieda a qualcuno di consegnare un pacco prezioso a un creditore che si trova lontano. In che modo evitare che il latore fugga con il bene affidatogli? Come conservare la segretezza onde evitare che questi venga aggredito dai briganti? Quando l'incertezza è così elevata e i rischi così grandi, l'individuo in questione tenderà ad affidare l'incarico al cognato o al nipote, in modo che i costi della sorveglianza ricadano anche sulla moglie o sulla sorella. I legami familiari sono più affidabili dei rapporti commerciali: privilegiare l'investimento in una rete familiare di mutuo vantaggio consentirà di risparmiare sui costi di transazione. In tutti quei casi in cui le infrastrutture (sistema assicurativo, forze dell'ordine, vie di comunicazione sicure, informazione, garanzie di onestà) sono deboli, l'analisi dei costi di transazione aiuta a spiegare la persistenza del sottosviluppo.
Anziché adottare questa spiegazione ragionevole, tuttavia, i sociologi restano ancorati a due illusioni: da un lato all'idea che le società 'semplici' si collochino a uno stadio inferiore del percorso evolutivo dell'umanità, dall'altro all'idea opposta che la semplicità sia un vantaggio e che le comunità di dimensioni ridotte siano in grado di superare i problemi di cooperazione meglio di quelle più estese. Si è sostenuto, ad esempio (v. Taylor, 1982), che in una piccola comunità le norme sociali possono essere comprese meglio, che gli individui sono in grado di effettuare congetture fondate sulle opinioni degli altri e che quindi i problemi di coordinazione possono essere risolti più agevolmente. Se così fosse, i membri di una società semplice di dimensioni ridotte dovrebbero essere nella felice situazione di avere costi di transazione nulli. Un'informazione priva di costi dovrebbe comportare efficienza e sviluppo economico; ma le cose stanno diversamente. Il paradosso persisterà sinché si resterà ancorati all'immagine di una società semplice di dimensioni ridotte, i cui membri cooperano in quanto uniti da caldi sentimenti di Gemeinschaft. In questo modo si assume ingenuamente che per il fatto di condividere la stessa lingua e le stesse credenze morali i membri di una comunità siano indotti a comportarsi in modo altruistico e a rimettersi gli uni ai desideri degli altri. La tentazione di avvantaggiarsi degli sforzi altrui senza impegnarsi in prima persona è presente tanto nelle piccole comunità quanto in quelle estese; la perdita di popolarità cui va incontro chi si assume il compito di sorvegliare gli altri e applicare sanzioni in caso di trasgressione - problema ancora più sentito quando si vive in stretto contatto - e la difficoltà di far rispettare gli accordi e di ottenere un comportamento conforme all'impegno preso ostacolano lo sviluppo delle istituzioni nelle società di tutto il mondo. È un errore ritenere che una larga parte dell'umanità sia esente dai problemi delle scelte collettive che affliggono il mondo occidentale.
Gli studiosi dell'economia del benessere e di scienze politiche che utilizzano modelli formali di cooperazione semplificano il problema delle scelte collettive postulando il singolo agente razionale. In questo modo l'analisi diventa più potente in certe direzioni, ma nello stesso tempo risulta impoverita in quanto non è in grado di tener conto degli effetti delle istituzioni sugli individui. Nei modelli formali le istituzioni tendono a essere equiparate a singoli giocatori oppure a sistemi di regole di un gioco molto semplice.
I nuovi strumenti analitici approntati dal neoistituzionalismo hanno arricchito la microsociologia. Troppo spesso i sociologi, quando hanno cercato di abbandonare i macromodelli del comportamento sociale, sono ricaduti nelle spiegazioni psicologiche, considerando l'individuo come unità ultima dell'analisi e trascurando le istituzioni (v. Coleman, 1990). Una nuova prospettiva si apre allorché le istituzioni vengono definite come "insiemi di regole operative utilizzate per stabilire chi sia idoneo a prendere decisioni in un determinato campo, quali azioni siano consentite o vietate, quali regole aggregate saranno usate, quali procedure occorra seguire, che tipo di informazione si debba o non si debba fornire, quali ricompense saranno assegnate agli individui a seconda delle loro azioni" (v. Ostrom, 1990, p. 51). Come ha dimostrato lo studio dei sistemi di gestione comune delle risorse, in alcune istituzioni la cooperazione è organizzata in modo piuttosto debole, ed è solo questione di tempo prima che le risorse vengano dissipate. Altre invece riescono a impedire lo sfruttamento da parte di individui avidi e di controllori corrotti o incauti, sicché le risorse affidate alla pubblica amministrazione possono essere protette dal degrado per millenni. Il segreto sta nel modo in cui vengono progettate le istituzioni, in una chiara allocazione dell'autorità, in una chiara definizione delle risorse comuni, e negli incentivi in grado di indurre gli individui a partecipare all'attività di sorveglianza (v. Ostrom, 1985 e 1990).
In quanto sistemi di regole le istituzioni possono essere 'benigne' o 'perverse'. 'Benigna' si definirà un'istituzione che consente ai membri della comunità di cooperare in modo che ciascuno realizzi il proprio vantaggio. 'Perversi' saranno per contro quei sistemi di regole che favoriscono gli interessi a breve termine di pochi a scapito degli interessi più ampi e a lungo termine della maggioranza. In base al criterio di progresso sociale definito da Douglas North, le istituzioni più evolute sono quelle che creano un contesto favorevole alle soluzioni di tipo cooperativo; le istituzioni perverse per contro creano monopoli anziché favorire la competizione, restringono le opportunità anziché ampliarle, e nel far ciò avviano la società sulla strada di una produzione sempre meno efficiente (v. North, 1990, p. 2).
È comprensibile che gli economisti giudichino le istituzioni in base alla capacità di incrementare la produzione. North considererebbe inefficienti quelle istituzioni che si limitano a redistribuire la produzione anziché favorirla, o che limitano le opportunità individuali. Tuttavia non sempre la produzione di beni va considerata come l'obiettivo primario. Per una comunità che si trovi ad affrontare costi di transazione proibitivi potrebbe essere una buona soluzione dar vita a un'istituzione centralizzata, come ad esempio una monarchia, cui demandare quelle funzioni di controllo e di sorveglianza in grado di assicurare una certa regolarità e di dar adito ad aspettative fondate per il futuro. Negli anni trenta il re della tribù Wemba nello Zambia doveva proteggere i meno fortunati dei suoi sudditi dagli effetti disastrosi di un'annata di cattivo raccolto, imponendo tributi in grano agli agricoltori che non avevano risentito della carestia, per poi redistribuirli ai villaggi affamati. Nel descrivere questa situazione A.I. Richards (v., 1937) osservò però anche il verificarsi di una flessione dell'offerta: la consapevolezza che se avessero ottenuto buoni raccolti avrebbero dovuto pagare l'imposta in grano induceva gli abitanti del villaggio a diminuire la produzione. In questo modo l'istituzione, che da un lato tutelava il bene comune in un settore della vita economica, riduceva, dall'altro, lo sforzo produttivo. Ma come analizzare il delicato equilibrio tra pubblico interesse e vantaggio privato? Come valutare un'istituzione che permette a determinati individui di avvantaggiarsi rispetto al resto della comunità e si preoccupa principalmente di ricompensare chi ha successo? È forse preferibile un sistema istituzionale che tuteli i meno fortunati a costo di frenare l'iniziativa e la produttività? Definire 'perversa' o 'benigna' un'istituzione sulla base di queste considerazioni significa subordinare lo studio delle istituzioni ai programmi politici, ponendolo sullo stesso piano delle teorie di Herbert Spencer, di Clarence Ayres, o di John Commons.
L'idea di distinguere tra istituzioni 'benigne' e 'perverse' è interessante, ma il vero problema è quello di stabilire in base a che cosa le istituzioni vanno giudicate buone o cattive. Alcuni economisti considerano le istituzioni come parte dei costi di produzione: le istituzioni buone sono quelle che aiutano a produrre una maggiore quantità di beni, le istituzioni cattive quelle che ostacolano la produzione, e i beni sono considerati il solo valore misurabile. Se invece è legittimo privilegiare l'aspetto della cooperazione piuttosto che quello della produzione, le istituzioni saranno valutate come 'buone' o 'cattive' a seconda che riescano o meno a strutturare le interazioni umane in modo da ridurre i conflitti di interesse.
Per comprendere l'evoluzione delle istituzioni occorre abbandonare l'idea che le società tradizionali di dimensioni ridotte siano in grado di risolvere i problemi della cooperazione, idea che si rivela non meno infondata della convinzione che tali società siano ferme a uno stadio primitivo dell'evoluzione (v. Douglas, 1986). Non è possibile stabilire a priori se un insieme di credenze comuni favorirà o meno la cooperazione. Il fatto di condividere un insieme di credenze indica solo che è stato raggiunto un certo grado di coordinazione. Poiché si assume che queste presunte società fortunate siano di dimensioni ridotte, ci si potrebbe perlomeno chiedere perché le loro capacità di coordinazione non si siano spinte oltre. La coordinazione ovviamente è più difficile da raggiungere per le comunità più estese, ma ciò non autorizza a concludere l'inverso, ossia che le società su scala ridotta raggiungano un livello più elevato di coordinazione. Perché, altrimenti, restano di piccole dimensioni?
In realtà tali società sono gravate non meno delle altre, e forse più delle altre, da pesanti costi di transazione. Mentre però le società occidentali cercano di ridurre tali costi e di pervenire a soluzioni di tipo cooperativo, quelle del Terzo Mondo non hanno superato questi problemi. Per capire il perché di tale situazione occorre rifarsi alla storia delle istituzioni.
Una teoria contemporanea dell'evoluzione sociale, a differenza di quella ottocentesca, non sceglie una determinata direzione di sviluppo per poi valutare la riuscita di una società a seconda che abbia seguito o meno tale percorso, bensì considera la fortuna di un successo iniziale. A tal fine vengono introdotti i concetti di 'rendimenti crescenti' (v. Arthur, 1989) e di 'dipendenza dal percorso intrapreso'. Un'innovazione, anche di modesta portata, che si affermi può creare per se stessa tutta una serie di vantaggi che le consentono di ammortizzare i costi della concorrenza con idee rivali.
Quando un'innovazione ha successo darà luogo a una serie di altri vantaggi: gli investimenti in prodotti sussidiari che generano nuove idee e nuovi investimenti, sicché una rete interconnessa di istituzioni di sostegno rafforza i vantaggi della prima innovazione. Altre possibilità alternative sono escluse per il semplice fatto che inserirsi in un mercato consolidato comporta costi eccessivi. Consideriamo ad esempio il passaggio dalla carrozza all'automobile. Il motore a combustione interna non era l'unico motore possibile: avremmo anche potuto optare per macchine azionate elettricamente. Ma una volta che l'automobile quale noi la conosciamo cominciò la sua 'carriera' industriale, si costruirono strade adatte a essa, si installarono stazioni di rifornimento di benzina per alimentarla, vennero inventati nuovi dispositivi tecnologici per migliorarla ed emanate leggi per tutelarla. L'invenzione del motore a combustione interna fece sì che una serie di investimenti seguissero il percorso da essa iniziato, col risultato che l'intero sistema dei trasporti nel mondo occidentale rimase 'bloccato' nella tecnologia del motore a combustione interna.Le spiegazioni basate sul concetto di 'dipendenza dal percorso iniziale' e di 'blocco' introducono una componente irrazionale. Il risultato di questi processi evolutivi infatti, sia esso una situazione di monopolio o di competizione, non è pianificato da un agente razionale che persegue un determinato obiettivo. L'intervento di un pensiero razionale si manifesta nella tecnologia e nei sistemi istituzionali, ma non nella scelta del percorso intrapreso. La razionalità delle istituzioni è analoga a quella del linguaggio. Soggetto prevalentemente alla logica, il linguaggio non è stato inventato da un singolo individuo, ma è un prodotto collettivo e in costante mutamento; nessuno può prevedere in che modo si evolverà il linguaggio, se si amplierà o se si impoverirà, quali nuovi termini saranno inventati e prenderanno il posto di quelli vecchi. Allo stesso modo risulta impossibile formulare ipotesi sull'evoluzione delle istituzioni: le loro origini sono indeterminate e il loro sviluppo è imprevedibile.
Una delle conseguenze di questo approccio è quella di liberare lo studio delle istituzioni da qualsiasi pregiudiziale politica. Non esiste alcuna legge evoluzionistica cui fare appello per tacitare i sostenitori di idee politiche opposte. Non conosciamo il segreto del successo evolutivo, anche se sappiamo qualcosa sulle trasformazioni dei sistemi economici. Perlomeno sappiamo che il futuro dipenderà da ciò che è accaduto nel passato.
Le considerazioni esposte in precedenza chiariscono in parte la trasformazione delle istituzioni, ma assai più problematico risulta spiegare in che modo le istituzioni nascono e impongono un ordine all'umanità priva di regole. Una delle spiegazioni addotte è che i singoli individui traggono un vantaggio personale allorché accettano che le loro azioni vengano coordinate. È questo il caso, ad esempio, dell'operatore in proprio che sceglie un lavoro dipendente e accetta di essere diretto da altri quando i tempi si fanno duri. Tuttavia non sempre è evidente che vi sia un vantaggio nell'optare per una soluzione piuttosto che per un'altra. A volte la scelta è indifferente: ad esempio quella tra la guida a destra o a sinistra. Molti comportamenti vengono adottati per abitudine e vengono mantenuti perché è preferibile che vi sia una qualche regola e non essere costretti a decidere.
A partire da questa spiegazione apparentemente modesta si è sviluppata una teoria secondo cui le istituzioni vengono create un po' alla volta, in modo disorganico ed episodico; esse non sarebbero frutto di un progetto deliberato, di un processo costruttivo intenzionale, bensì dell'abitudine e della convenienza (v. Schelling, 1960 e 1978; v. Lewis, 1968). Quando si vogliono risolvere i problemi della coordinazione e non vi è una soluzione preferita, di solito si adotta una regola facilmente riconosciuta e che non necessita di istanze di controllo esterne che ne assicurino l'osservanza: nel caso della guida a destra o a sinistra, sono gli altri guidatori a infuriarsi con chi si mette sulla carreggiata sbagliata. Questa teoria costituisce l'equivalente sociologico delle teorie dell'evoluzione economica basate sui concetti di riduzione dei costi di transazione, di dipendenza dal percorso iniziale e di rendimenti crescenti. Ad esempio, data la necessità di fissare un giorno di mercato, una volta fissato tale giorno, altre istituzioni si svilupperanno intorno a questa decisione iniziale, tutte tra loro interdipendenti, sicché diventa difficile introdurre un cambiamento.
Questa spiegazione del cambiamento istituzionale è in sintonia con uno stile intellettuale che privilegia le soluzioni minimaliste. Il punto di partenza dei primi istituzionalisti era stato una reazione alla superbia delle formulazioni teoriche deduttivistiche. In un certo senso il cerchio si chiude con l'attuale tendenza a privilegiare gli studi microeconomici e con l'interesse teorico per l'elemento 'convenzionale' che sta alla base delle istituzioni. Si potrebbe dire che la nozione di convenzione comincia a dimostrarsi sempre più proficua e intellegibile via via che viene adottata in diversi ambiti disciplinari. Ad esempio la nozione di abitudine - cui David Hume attribuì un ruolo centrale nella sua teoria empiristica della conoscenza - può rivelarsi importante per spiegare l'economizzazione sui costi di transazione intellettuali; la dipendenza dal percorso iniziale chiarisce molte cose nella storia delle idee, e i rendimenti crescenti derivati dall'attenersi a una convenzione sono evidenti nel caso della comunicazione.
La modestia di questo stile teorico confrontata con le pretese di rigore della teoria economica classica ridimensiona in parte i pericoli che i primi istituzionalisti intravvedevano nei modelli formali deduttivi. Il neoistituzionalismo può anche eliminare le connotazioni peggiorative implicite nella distinzione tra le istituzioni moderne in espansione e quelle cosiddette 'arretrate'. Inoltre, se il processo attraverso cui si formano le istituzioni è considerato per molti versi analogo a quello attraverso il quale si costituiscono le lingue, le istituzioni possono apparire meno minacciose a quanti temono per le proprie libertà costituzionali. Lo studio delle istituzioni non potrà che trarre vantaggio da un approccio che sembra diminuire il margine per una strumentalizzazione politica. Quando le istituzioni erano concepite principalmente come istanze di controllo, il problema del determinismo sociale appariva importante. Ma ora che le istituzioni vengono considerate in certa misura come frutto del caso, come una mescolanza di pressioni e contropressioni a volte statiche, a volte dinamiche, il problema dell'influenza che esse esercitano sugli individui si presenta in una luce diversa. Il 'pensiero di gruppo' appare un nemico assai meno plausibile.
In questa breve rassegna abbiamo visto come lo studio delle istituzioni, nato, per quanto riguarda le scienze sociali, nell'ambito della teoria economica, sia tornato al centro dell'attenzione in questa disciplina dopo un periodo di oblio. Date queste origini e questo orientamento, non sorprende che il perseguimento di un interesse personale 'illuminato' sia ancora considerato l'unico movente degli individui che creano le istituzioni. Questa concezione del ruolo della mente nelle istituzioni economiche è essa stessa alquanto minimale; funziona abbastanza bene quando le istituzioni vengono considerate tutte dello stesso tipo, ma questa mancanza di differenziazioni dimostra come lo studio delle istituzioni sia ancora a uno stadio molto elementare. Nelle teorie delle istituzioni economiche gli individui sono divisi in due categorie: quella dei singoli operatori in un mercato competitivo e quella degli impiegati o dirigenti di impresa. Di conseguenza vengono distinti due tipi di istituzioni, ognuno dei quali è caratterizzato da un proprio insieme di valori e di atteggiamenti; per adattarsi a un clima di competizione l'individuo deve adottare idee e comportamenti che non sarebbero tollerati e ancor meno ricompensati in un sistema gerarchico. Ai due tipi di istituzioni corrispondono due tipi di cultura, ma questi non sono gli unici tipi possibili. La teoria delle istituzioni dovrà sviluppare una teoria della cultura più articolata per integrare la propria spiegazione del comportamento umano (v. Thompson e Wildavsky, 1992).
Un modello della mente che definisce solo un tipo di agente razionale non tiene conto delle interazioni tra gli individui. Nella misura in cui gli esseri umani reagiscono gli uni agli altri e si influenzano reciprocamente nella definizione dei rispettivi programmi personali, cercano di conformare le proprie azioni a linee di condotta comuni. Le istituzioni strutturano gli incentivi degli individui e nella misura in cui differiscono devono produrre diversi orientamenti culturali. L'essere razionale che agisce all'interno di un determinato insieme di istituzioni rispetto a quello che agisce entro un altro insieme di istituzioni selezionerà differenti problemi e privilegerà diverse risposte. Lo studio comparato delle istituzioni è sufficientemente progredito da prendere in considerazione le differenze culturali.Infine la stessa vacuità della nozione di agente razionale che persegue il proprio interesse personale rende praticamente impossibile anche solo formulare i problemi dell'impegno e del giudizio morali, che rivestono tanta importanza per i sociologi. Fintantoché restiamo gravati da questo handicap cognitivo, ci sarà difficile avere una visione adeguata di noi stessi come membri delle istituzioni, e quindi non saremo in grado di affrontare quei problemi che una teoria delle istituzioni non può ignorare se vuole essere completa.
Ad esempio, partendo dalla distinzione tra istituzioni e organizzazioni, dovremo chiederci se un determinato ambiente istituzionale influenzi i tipi di organizzazione che si possono sviluppare; se esse influiscano sulla stabilità e sull'efficienza delle organizzazioni; se esistano organizzazioni che favoriscono una visione a lungo termine e altre che favoriscono invece una visione a breve termine, e, in tal caso, in che misura tali organizzazioni determinino lo stile delle istituzioni mediante le quali operano. Ancora, se le istituzioni vengono concepite nei termini della teoria dell'informazione, che tipi di memoria sono depositati nelle diverse strutture istituzionali? In che modo la strutturazione interna delle istituzioni dà luogo a stili diversi di sorveglianza e di controllo (v. Downs, 1967; v. Hood, 1976; v. Rose-Ackerman, 1978)? Una volta purificato da slogans emotivi, lo studio sistematico delle istituzioni sarà in grado di affrontare i problemi relativi alla trasmissione delle istituzioni e al mutamento culturale - che rivestono un'importanza centrale nella spiegazione dei fenomeni della crescita economica e della stagnazione esaminati in precedenza - nonché i problemi a essi correlati nella sfera politica, come ad esempio quelli relativi alla valutazione e al controllo.
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