Italia
L'Italia fu il teatro della gran parte della vita di Federico II. Nato in una città delle Marche, incoronato re di Sicilia a Palermo, incoronato imperatore in Roma, morto in un castello del Tavoliere pugliese, egli percorse più volte e in ogni direzione il paese, e i luoghi del suo itinerario (v.) disegnano una geografia che riassume largamente la geografia dell'Italia del tempo: sia di quella ordinata in una forte monarchia, il Regno di Sicilia di derivazione normanna, sia di quella che aveva avuto una formale definizione di Regnum Italiae in età longobarda e carolingia e si articolava politicamente in una pluralità di dominazioni dinastiche e di principati ecclesiastici, di città dominanti, di castelli con forte autonomia, di inquadramenti entro l'alta sovranità temporale del papato romano. Se nella carta delle presenze italiane documentate di Federico II ci sono degli spazi più vuoti, questo è dovuto banalmente a una situazione di insediamenti più radi, di minore urbanizzazione, come accade nella Sicilia interna e nella Calabria centrale e settentrionale, ed è altrettanto ovvio che la presenza dell'imperatore e del suo seguito fu sporadica o nulla in città importanti ma dominate da forze ostili quali Milano e Firenze, mentre città di antica e sicura fede imperiale, come Cremona, e aree strategiche e salde, come il quadrilatero tra Foggia, Melfi, Capua e San Germano, furono soste privilegiate dell'itineranza regia.
Così, dai luoghi della fanciullezza tra Puglia, Campania e Sicilia, da Palermo alle città maggiori della grande isola, a Genova dove Federico II trascorse più di due mesi nel 1212 sulla strada verso l'incoronazione di Germania, alla pianura lombarda dove pochi giorni dopo fu insidiato dalle milizie milanesi, dall'area alpina orientale attraverso la quale passò per rientrare dalla Germania in Italia nel 1220 e avviarsi alla solenne incoronazione imperiale in Roma, dalle città pugliesi di tradizione bizantina ai porti dai quali partì per la crociata del 1228-1229, dal fittissimo reticolo di città episcopali, di castelli imperiali e signorili, di borgate in ascesa economica e produttiva che segnava la Toscana, l'Emilia e la Lombardia, fino alle ricche sedi mercantili del Nord-Ovest, Asti e Chieri, egli ebbe sotto gli occhi tutta la sequenza dei paesaggi umani dell'Italia del suo tempo. Non possiamo sapere quanto fosse in grado di coglierne le peculiarità e le diversità, né possiamo dire quale visione d'insieme avesse del paese su cui regnava. Non erano a di-sposizione degli uomini di allora rappresentazioni cartografiche che non si risolvessero in un informe e improbabile disegno di coste e di corsi fluviali, riempito poi di una costellazione di simboletti didascalici che indicavano le città maggiori, come si vede nel cosiddetto mappamondo di Vercelli, che fu disegnato negli anni del primo viaggio tedesco di Federico II. L'Italia era un'antica definizione geografica, che contemplava una fondamentale unità dall'arco alpino alle grandi isole, e alla quale corrispondeva l'idea di un'unità politica, organizzata in antico nell'inquadramento imperiale romano, ribadita nei secc. IV e V nel contesto della riorganizzazione imperiale e della bipartizione fra parte occidentale e parte orientale dell'Impero, solennizzata come un Regno al tempo di Odoacre e del grande Teoderico, reinserita nella diretta dipendenza dell'imperatore al tempo di Giustiniano (553), spezzata poi dall'invasione longobarda e dalle tendenze disgregatrici che si manifestarono all'avvento di Carlomagno e dei suoi successori, ulteriormente compromessa dalle conquiste islamiche del IX sec., ma senza che mai venisse meno l'idea di una tendenziale ricomposizione unitaria, quale venne perseguita in maniera più o meno consapevole, più o meno velleitaria, da successivi sovrani.
Così, secondo una tradizione, il re Autari avrebbe indicato presso Reggio di Calabria il confine meridionale del Regnum Italiae dei longobardi, e certamente verso la metà del VIII sec. i re longobardi d'Italia cercarono una estensione di sovranità politica a spese delle vaste regioni che ancora rimanevano sotto il dominio dell'Impero romano, che aveva adesso la sua capitale a Bisanzio. Due fattori si erano allora opposti a questa velleità, oltre all'ovvia resistenza imperiale. Presso la Sede Apostolica romana si era affermata una rivendicazione alla successione nel potere politico già appartenuto agli imperatori della pars occidentis dell'Impero: in tesi, dunque, su tutto l'Occidente, in ipotesi sulla città di Roma e su alcuni vasti segmenti dell'Italia ‒ Ravenna e l'Esarcato, i territori italici da Luni a Parma a Reggio Emilia e Mantova, la Corsica, le Venezie e l'Istria, i ducati di Spoleto e Benevento. L'altra difficoltà che i re longobardi del VIII sec. avevano incontrato nella costituzione di un dominio unitario veniva dall'interno delle strutture politiche longobarde, cioè dalla grandissima autonomia dei duchi e in particolare di quelli che dalle sedi di Cividale del Friuli, di Spoleto e di Benevento signoreggiavano su spazi di dimensione regionale. La svolta decisiva impressa nei decenni centrali dell'VIII sec. dall'alleanza fra la Chiesa romana e il Regno dei franchi, e conclusa nella vittoria di Carlomagno sul re longobardo Desiderio e nell'unificazione personale del Regno dei franchi e del Regno dei longobardi sotto la corona di Carlo, ebbe come esito un aggravarsi della divisione politica d'Italia. L'ambizione di dominio temporale dei vescovi di Roma fu riconosciuta solennemente dai franchi, anche se fu sostanzialmente frustrata l'ambizione papale a estendere quel dominio alle Venezie, all'Istria e ai ducati di Spoleto e di Benevento. Dal canto suo, l'apparato regio di Carlomagno e dei suoi successori riuscì solo parzialmente a porre sotto la propria sovranità politica tali spazi. L'Istria fu acquisita in gran parte al dominio carolingio, ma nelle Venezie si mantenne un'alta sovranità bizantina nel cui contesto la città mercantile sorta attorno all'isola di Rialto prese a consolidare un grande potere autonomo. Nell'Italia meridionale il ducato di Benevento si elevò a principato e riconobbe solo una formale dipendenza dal re dei franchi. Quando, nell'anno 800, Carlomagno fu acclamato imperatore e inaugurò la corona che un giorno sarebbe stata sul capo di Federico II, nel Beneventano i franchi avevano appena subìto uno scacco politico e militare che vanamente avrebbero cercato di recuperare negli anni a venire. E nel terzo decennio del IX sec. la Sicilia, che già aveva rappresentato una prospettiva assai incerta di dominio per i precedenti sovrani d'Italia, fu conquistata da un potere politico esterno, e per di più esercitato da genti non cristiane.
L'idea di una necessaria lotta cristiana contro l'Islam diede nel corso del IX sec. un impulso nuovo ai tentativi di ripresa di controllo unitario sull'Italia, nel quadro della rinnovata autorità imperiale d'Occidente. Si avviò però una divaricazione, destinata a ripresentarsi in forme sempre nuove sino all'età di Federico II, tra la forte idea di un'alta e generale sovranità imperiale e il reale governo sugli uomini. Sempre più l'imperatore apparve non già come un effettivo signore di eserciti e una efficace istanza centrale di amministrazione della giustizia, bensì come un alto garante di possibili e difficili equilibri tra formazioni territoriali di potere sostanzialmente autonome, e intrise di endemiche pulsioni di disgregazione interna. In Italia in particolare, non solo il principato di Benevento non riconobbe mai la sovranità di Carlomagno e dei suoi figli e nipoti se non nella forma di tributi, formali omaggi, talora consegna di nobili ostaggi da tenere in confortevole e onorevole custodia, ma seguì anche una serie di divisioni politiche interne, con la separazione di una nuova entità politica, il principato di Salerno, dal principato beneventano, e con l'affermazione di Napoli, di Capua e di altre città importanti.
Le formazioni di città e di spazi regionali con forte autonomia politica interessarono anche l'Italia del Nord e del Centro, e ovunque si andarono complicando, dagli ultimi decenni del IX sec. a tutto il sec. XI, con fenomeni di frantumazione e capillarizzazione delle prerogative di natura militare, giudiziaria, amministrativa e fiscale. Il servizio armato al sovrano, in particolare, fu assicurato sempre meno da guerrieri alle dirette dipendenze dei re, degli imperatori e dei loro funzionari, e fu normalmente svolto da milites al servizio di un notabilato cittadino oppure di élites aristocratiche ed ecclesiastiche (marchesi e conti, vescovi e abati), le quali spesso remuneravano i guerrieri con concessioni di terre e redditi nella forma precaria del beneficio feudale: il controllo della forza militare da parte di re e imperatori venne dunque a dipendere dal loro controllo su quei nuclei intermedi di potere, che dalla fine del IX sec. andarono crescendo sia nella loro autonomia sia nel loro numero. Si trattò di una crescita in buona misura spontanea, ma anche largamente alimentata dagli stessi sovrani, che per ottenere la fedeltà di nobili e di chiese concessero ampie prerogative pubbliche, in particolare competenze giurisdizionali e cespiti fiscali, a volte in feudo ma più ordinariamente con pure e semplici alienazioni perpetue.
Quando, nei decenni centrali del IX sec., la corona d'Italia e la corona imperiale d'Occidente furono assunte da dinastie tedesche e si sancì di fatto la coincidenza personale fra la titolarità del Regno di Germania e la titolarità del Regno d'Italia, i sovrani theotonici avviarono nuovi modi per restaurare un potere effettivo sull'Italia. Fecero grande affidamento su una loro propria forza armata, cercarono di restringere le mediazioni di potere a un numero limitato di grandi famiglie aristocratiche, alle maggiori sedi episcopali e a un piccolo numero di monasteri regi, instaurarono una sempre maggiore solidarietà con il papato, e infine, con Corrado II (1037), definirono una disciplina dei rapporti feudali che garantisse tutti i milites, maggiori e minori, nel possesso del beneficio feudale in cambio di un'ordinata disposizione gerarchica entro l'autorità regia e imperiale.
Ma negli stessi anni nei quali si seguivano queste strade di restaurazione si andavano approfondendo i fenomeni di diffusione dei poteri sugli uomini, adesso esercitati di fatto o per consuetudine o per concessione regia da una pluralità di marchesi e di conti, di semplici signori di castello, da chiese e monasteri, da città nelle quali accanto all'autorità del vescovo e del conte si levavano le rivendicazioni di autonomia delle comunità laiche urbane. Di più, nei decenni centrali del XI sec. due fatti imprevisti compromisero ancora la tenuta imperiale sull'Italia. Gruppi di guerrieri normanni, piccoli e disuniti tra loro, avviarono la conquista di diversi segmenti del Mezzogiorno e inflissero sconfitte militari ad ambedue gli eserciti imperiali, il tedesco e il greco, che volevano respingere la loro affermazione di sovranità territoriale in Campania, nelle Puglie, in Calabria; presto i normanni diressero anche sulla Sicilia uno sforzo militare che ebbe infine successo. L'altro fatto decisivo fu l'incrinarsi, e in veloce sequenza il decisivo infrangersi, della solidarietà tedesco-romana. L'esito della cosiddetta lotta per le investiture fu l'asserzione dell'autonomia romana nell'elezione del papa e la clericalizzazione dei collegi elettorali dei vescovi d'Italia, vescovo di Roma compreso, con la sottrazione delle nomine episcopali sia all'imperatore sia ai laici delle città. Fu inoltre esaltato il primato romano e si instaurò un rapporto privilegiato di fedeltà fra la Chiesa di Roma e i normanni, già nemici e adesso alleati in funzione antimperiale. Questo allontanava ancor più quell'ambizione a una sovranità unitaria sull'Italia che, come si è detto, non era venuta mai meno e che si era riconfermata con i dinasti tedeschi.
A mano a mano che il potere normanno nel Mezzogiorno d'Italia si configurava come forte e capace di unificare le aree continentali e la Sicilia, e mentre si affermavano movimenti politici e religiosi sempre più corali e intensi, con l'avvio delle crociate e la vitalità delle comunità cittadine e di castello, si riprendeva anche la tessitura di un rapporto di solidarietà fra papato e Impero d'Occidente. Il 23 settembre del 1122 l'imperatore Enrico V e il papa Callisto II si scambiarono reciproche promesse di pace e di aiuto, e definirono le procedure per la nomina dei vescovi in una maniera che conciliasse due esigenze: il rispetto della normativa canonica, che escludeva l'intervento di autorità politiche, e la necessità che i poteri pubblici dei vescovi fossero comunque riconosciuti come una concessione da parte dell'imperatore. Si apriva una nuova fase, dove a tratti sarebbero riemerse le tensioni fra imperatori e papi per le nomine di alcuni episcopati strategici, ma soprattutto si sarebbero manifestate nuove complessità nella costruzione dei poteri politici e nei rapporti fra laici e chiese. Alla gestione delle ricchezze pubbliche e dei poteri politici concorrevano adesso non soltanto principi e grandi nobili, ma una miriade di signori di castello, cavalieri e comunità cittadine. Queste componenti, organizzate spesso nella forma del comune, erano in rotta di collisione sia con le più alte autorità laiche sia con i poteri locali delle Chiese, e soprattutto dei vescovi. Furono talora recepite le aspirazioni a una separazione dei ruoli ecclesiastici e religiosi dall'esercizio dell'autorità politica e dalla fruizione delle ricchezze pubbliche: a Roma un movimento di cittadini, guidato da un religioso di grande cultura, Arnaldo da Brescia, espose nel 1140 un programma di restituzione all'autorità imperiale delle sue piene prerogative, sottraendole alle ambizioni e alle prevaricazioni delle grandi famiglie nobiliari e dei papi che le appoggiavano. Nel frattempo si era svolto pienamente il trionfo normanno e l'unificazione del Mezzogiorno in un regno, detto Regno di Sicilia. Dopo una lunga fase di ostilità e incertezza, nel 1139 il papa aveva formalmente riconosciuto il titolo regio a Ruggero II, che se lo era attribuito nove anni prima.
Mentre l'Italia meridionale conosceva questa grande fase unificatoria, e l'Italia del Nord e del Centro continuava a essere frazionata in decine e decine di centri diversi di potere, la Germania rimaneva articolata nei suoi grandi ducati, in alcuni principati territoriali e nei domini di una serie di arcivescovati e vescovati. Il 9 marzo del 1152, dopo diversi anni di incertezza nella successione del Regno, fu eletto re di Germania, e quindi naturale candidato alla corona d'Italia e dell'Impero, Federico di Hohenstaufen, o di Svevia, che si sarebbe detto Barbarossa. Assistito da un'importante cerchia di fedeli e consiglieri, alti prelati e giuristi, Federico volle affermare la supremazia dell'autorità imperiale sulla miriade di poteri che si erano formati entro le frontiere dell'Impero occidentale: non solo ducati e contee, ma le tante circoscrizioni di castello dominate dai nobili del luogo, e le città autonome che signoreggiavano sui loro contadi. Anche il Regno di Sicilia avrebbe dovuto essere effettivamente ricondotto sotto la corona imperiale. Erano scenari molto diversi, nei quali l'imperatore tedesco si mosse contemperando, da un lato, affermazioni generali di sovranità e l'idea che ogni prerogativa pubblica dovesse considerarsi come un beneficio feudale concesso dall'imperatore, e dall'altro interventi capillari e mirati. A Roma fu sconfessato e duramente represso il movimento di Arnaldo da Brescia, e con esso la prospettiva di separazione fra autorità ecclesiastiche e poteri politici. Poi il nesso fra Chiese e poteri pubblici portò a un nuovo conflitto fra il vertice imperiale e il vertice ecclesiastico, e a una lotta tra Federico e papa Alessandro III che si intrecciò con la lotta durissima che opponeva l'imperatore a Milano e alle altre città dell'Italia comunale solidali con essa. Quando a Federico vennero a mancare le forze militari dei principi tedeschi, sempre in attitudine di ribellione verso il loro sovrano, si ebbe la sconfitta sul campo in terra italiana (battaglia di Legnano, 1176). Si avviò allora un processo di pacificazione, anzitutto con Alessandro III: la pace stipulata solennemente a Venezia nel 1177 consentì a Federico di riprendere il controllo sui principi tedeschi e di organizzare una nuova politica italiana.
Qualche anno dopo, il 25 giugno del 1183, fu stipulato a Costanza un atto di pacificazione tra l'imperatore e le città della societas Lombardiae guidata da Milano. Il riconoscimento di un intervento delle autorità imperiali nella conferma dei magistrati di governo delle città, i consoli, fu equilibrato dalla prospettiva di una sostanziale cessione alle città comunali delle prerogative pubbliche (soprattutto fiscali) delle quali esse si erano impossessate, previo un eventuale procedimento di ricognizione che avrebbe potuto però essere sostituito da una forma di monetizzazione. Anche sull'altro versante della politica italiana di Federico Barbarossa, la volontà di controllo politico dell'Italia meridionale, il tentativo di conseguire l'obiettivo con la forza militare, che pure era stato considerato e preparato, fu perseguito infine per una via diplomatica, con il matrimonio tra il figlio dell'imperatore e l'erede normanna del Regno di Sicilia, Costanza di Altavilla, nel 1186. Con queste sistemazioni alle spalle, tutte di effettività provvisoria e incerta ma comunque saldamente impostate, Federico Barbarossa si avviò all'impresa che nelle idee del tempo appariva oramai l'impresa maggiore delle sovranità regie e imperiali, la riconquista dei Luoghi Santi; qui egli trovò la morte, meno di dieci anni dopo la sistemazione politica delle cose di Germania e d'Italia (1190). Il successore di Federico nelle corone di Germania, d'Italia e in prospettiva di Sicilia, Enrico VI, si trovò immediatamente impegnato in una serie di estenuanti conflitti per l'affermazione della propria effettiva sovranità su tutti quegli scenari.
Le tumultuose vicende d'Italia avevano fatto maturare da gran tempo, quando fu infine Federico II ad assumere quelle corone, una serie di stereotipi pessimistici sui mores rissosi e ribellistici, sulla inaffidabilità politica degli italici. In parte il sovrano svevo li dovette fare propri, dall'epoca del periglioso viaggio che lo condusse dalla Lombardia in Germania nel 1212, e che egli ricordò in una lettera enciclica del dicembre 1227, sino alla denunzia del mos di disubbidienza dei Lombardi nell'epistola a papa Gregorio IX dell'agosto 1235, per giungere verso quegli anni Quaranta nei quali andò crescendo il senso del tradimento di città e potenti: così ad Arezzo, nel gennaio del 1240, Federico II recitò una sua poesiola contro questa città, "arca di mèle, amara come fiele" (Annales Arretinorum, 1909-1912, p. 5). La recitò in italiano, la lingua che conosceva e certamente amava, come amava il clima culturale e letterario al quale diede da parte sua grande impulso. Perché altrettanto radicati degli stereotipi negativi sull'Italia si erano venuti consolidando i giudizi ammirati sulla floridezza economica e culturale di un paese di alfabetizzazione molto più elevata che nel resto d'Europa, pieno di codici e di scriptores, culla delle scienze giuridiche, il tutto supportato da mobilità sociale intensa, da ceti dinamici di mercanti e da fluide ascese di uomini non nobili al cavalierato e ai pubblici uffici: un paese dove erano regioni "fiorenti per ricchezze e per valore degli uomini", come l'imperatore ebbe ad esprimersi nella stessa enciclica del dicembre 1227 che si è appena ricordata.
Non è semplice dare uno spessore fattuale a queste valutazioni celebrative, verificare con precisione i livelli di ricchezza economica e l'articolazione sociale dell'Italia del primo Duecento: agli occhi dello studioso di storia, che lavora sulle fonti, lo stato di queste ultime fa sì che l'Italia di quei tempi sia altrettanto appannata di quanto lo fosse, per differenti ragioni, agli occhi dei suoi sovrani. In particolare, è problematico soppesare con precisione la congiuntura economica e sociale del primo Duecento nell'evoluzione complessiva dello sviluppo economico italiano. Questo perché quella congiuntura si staglia sul fondo di una tendenza di sviluppo di lunghissimo periodo, i cui primi sintomi vanno ricondotti addirittura alla ripresa fra il VII e l'VIII sec., all'assestamento etnico e insediativo succeduto agli sconvolgimenti della guerra greco-gotica e delle conquiste longobarde. Il sintomo più importante di quella remota ripresa si riconosce nel progressivo sviluppo degli insediamenti di villaggio e nelle manifestazioni di vitalità della società urbana, in un quadro di insediamenti cittadini fondamentalmente modellato sull'assetto ellenistico e romano. Il crescendo della documentazione scritta a partire dall'VIII sec. consente di cogliere una lenta crescita parallela della società cittadina e di quella rurale, e poi, dalla fine del IX sec. e lungo tutto il X, un organizzarsi di gran parte della società rurale attorno ai castelli, che furono al tempo stesso forme tipiche di inse-diamento e nuclei di potere giudiziario, militare, amministrativo e fiscale sui residenti delle campagne. Dall'ultima generazione del X sec. una serie di movimenti politici di città importanti e di élites rurali organizzate intorno alle aristocrazie locali dei milites o a famiglie di alta aristocrazia rappresenta il sintomo di un progresso sociale che aveva il supporto di una crescita economica la cui dinamica rimane assai oscura. Nessuna cesura netta attorno all'anno Mille, dal punto di vista dello sviluppo economico e demico, ma certamente una nuova mobilità sociale e una nuova dialettica tra crescita economica delle famiglie e modi di organizzazione della vita politica: con l'affermazione, nelle campagne, di compagini di milites, il consolidamento di dinastie nobiliari di differente livello attorno a chiese e monasteri di famiglia e attorno ai castelli che continuavano a proliferare nei territori italiani; e nelle città con la crescita di élites talora antagonistiche nei confronti dei vescovi e dei loro apparati di potere, rispetto ai quali i cittadini organizzati rivendicavano prerogative giurisdizionali e cespiti fiscali ‒ tutto questo ben prima di esprimere un organo di governo nei collegi di consoli, attestati fra l'ultimo ventennio dell'XI e la metà del XII secolo.
Fin verso la metà del XII sec. lo sviluppo economico e sociale italiano fu dunque uno sviluppo parallelo di ceti rurali e di ceti urbani, al Nord come al Sud, con molti momenti di scambio sia di merci e prodotti sia di residenti. Nel corso del XII sec. si espressero due tendenze, una sul piano economico e una sul piano dell'organizzazione politica dei territori, che avrebbero alterato il quadro e avrebbero consegnato all'età di Federico II una dialettica fra economia e società ancora innovata rispetto alle precedenti mutazioni. Nell'attività economica, sullo sfondo di una produttività agricola lentamente in aumento e di una conseguente espansione demografica, si affermarono i rapporti di credito, sporadicamente documentati in una situazione ancora debolissima della documentazione scritta ma con un'attestazione tanto isolata quanto clamorosa e significativa nei registri notarili genovesi della metà del secolo, dove centinaia di contratti di mutuo, di prestiti di natura commerciale, di prestiti per acquisto e consumo, di vendite a termine, di cambi monetari danno il senso di una crescente domanda di moneta e del ricorso oramai corrente e strutturale allo strumento monetario e al differimento dei pagamenti per fare fronte a una situazione di tipo 'inflazionistico', e cioè una richiesta di merci, servizi e opere cui teneva dietro più o meno faticosamente o tempestivamente un'offerta di denaro. Nell'età di Federico Barbarossa fu espressione e sintomo importante di tale situazione la coniazione di monete d'argento più forti dei denari al momento correnti, e dagli anni 1170 e 1180 si può accertare, anche se per discontinue placche di situazioni documentate in maniera soddisfacente, la prima netta ondata di aumento dei prezzi.
Su questo sfondo si andò collocando un susseguirsi di conflitti, più frequenti e duri che nel passato, fra autorità centrali, o aspiranti tali, e periferie. L'Italia meridionale vide lo strutturarsi della forte monarchia normanna, con le guerre prima per l'affermazione del potere regio-normanno, poi, dal 1186 sin verso il 1220, per l'affermazione del potere svevo: le guerre furono condotte contro grandi aristocratici e contro castelli e città di antica tradizione autonomistica, videro feroci assedi e devastazioni ed ebbero un esito economico complessivo del quale è difficile ricostruire il bilancio tra le distruzioni di risorse da un lato e, dall'altro, l'indotto positivo determinato dalle esigenze finanziarie e militari. Nella gran parte dell'Italia settentrionale e centrale cominciò ad aprirsi una forbice tra sviluppi cittadini e sviluppi rurali. La divaricazione fu sin da questi inizi di tipo politico, perché nella tensione per organizzare le forme di comando sugli uomini e sui territori le città ebbero lentamente il sopravvento sulle dominazioni signorili locali che erano imperniate sui castelli dominati da famiglie aristocratiche e da chiese. Si creò una situazione endemica e capillare di guerra: guerra fra una città e i signori del suo territorio e guerra fra città vicine e concorrenti nella propria espansione di potere. Tale situazione determinò una importanza crescente dei ceti di milites, reclutati sempre più in ambito cittadino, e nuove esigenze finanziarie: la formazione di un sistema fiscale urbano, nel quale appariva già cruciale l'indebitamento dell'autorità pubblica, incrementò il ruolo del credito, e una gran parte dei residenti urbani si trovò nella situazione sia di debitrice, in quanto contribuente, sia di creditrice, perché coinvolta nel finanziamento del pubblico erario, che era alimentato con prestiti forzosi o volontari, stipulati presso i cittadini stessi o presso banchieri e mercanti di città esterne.
Negli anni dell'infanzia e della fanciullezza di Federico II lo sviluppo economico, che sino a quest'epoca si può ricostruire in maniera sporadica e con debolissime possibilità di definizione quantitativa, comincia a essere illuminato da una documentazione scritta ancora molto porosa e casuale, ma di intensità e articolazione crescente. In qualche misura ciò è dovuto a una maggiore attenzione dei cronisti ai fatti economici. Ma il motivo principale della crescita delle scritture risiede nelle crescenti esigenze di amministrazione finanziaria e fiscale dei centri di potere politico. Questo spiega anche perché l'incremento delle scritture sia soprattutto vistoso nelle città comunali non inserite in un dominio politico superiore, dunque soprattutto nelle città del Nord e del Centro d'Italia: esse erano sovrane nel determinare la propria spesa e la maniera di finanziarla, e dovevano poi escogitare forme di raccolta socialmente accettabili dalle diverse componenti della vita politica cittadina, costituite in élites ancora assai larghe; di qui le prime sistematiche raccolte dei testi che fondavano i diritti patrimoniali e signorili delle città, le prime forme di definizioni delle capacità contributive dei cittadini, le tenute regolari dei libri di entrata e uscita, le registrazioni relative al debito pubblico, le amministrazioni delle risorse demaniali e dei beni confiscati a condannati e ribelli.
Sono così possibili per la prima metà del Duecento alcune valutazioni, pur molto approssimative, sull'entità demica di un certo numero di città italiane, che suggeriscono una popolazione di qualche decina di migliaia di abitanti per Genova e per le maggiori città toscane (Firenze, Siena, Pisa); si può pensare che Venezia, Milano, Bologna e Napoli fossero di analoga entità, mentre per Alessandria, Vercelli, Verona, Padova, Perugia, forse Ancona, è consentito di ipotizzare una popolazione superiore ai diecimila abitanti, e di poco inferiore doveva essere quella di Vicenza, di Chieri, di Imola, di Teramo, per ricordare le non molte sedi per le quali si dispone di una indicazione quantitativa anteriore alla metà del Duecento. Certamente il trend demografico segnò un complessivo aumento sin verso la fine del secolo, altrettanto certamente cambiò la dinamica dell'insediamento, nel senso che piuttosto che una crescita numerica dei centri si ebbero dei processi di ridistribuzione, e un ritmo dei fenomeni di inurbamento più diseguale che nel passato da periodo a periodo e da città a città. Si avviò una sorta di gerarchizzazione delle città in funzione della loro capacità di attrarre popolazione, della loro ricchezza e della possibilità di finanziare la propria affermazione politica e territoriale con risorse interne oppure con il ricorso a prestatori di altre città. Continuò dunque, ma con sempre più frequenti diversificazioni locali, una crescita segnata dal rincorrersi fra esigenze monetarie e offerta di risorse, e uno sviluppo dei ceti mercantili e finanziari. La collocazione del primo Duecento nel trend plurisecolare di sviluppo economico e sociale si caratterizza, in definitiva, per un accrescimento, e una crescente diseguaglianza di ritmi, delle mediazioni tra la formazione e la distribuzione di ricchezze e di risorse, e dunque per l'avviarsi di nuove dialettiche fra mobilità sociale e strutture politiche: il loro esito avrebbe veduto una peculiarità italiana nell'articolazione delle forme dell'organizzazione statale, che risultò particolarmente variegata e complessa rispetto al quadro europeo.
Dagli anni Ottanta del XII sec. al secondo decennio del Duecento, l'assestamento dell'Europa politica era stato anzitutto ritmato dalle guerre franco-inglesi, culminate nella battaglia di Bouvines (1214) e nella sconfitta del re d'Inghilterra: quasi tutti i suoi feudi divennero allora proprietà personale del monarca di Francia. Un'altra opportunità di espansione fu offerta alla Corona di Francia dalla crociata che il papa indisse nei primi anni del Duecento per reprimere il forte movimento religioso degli albigesi; la crociata era guidata da una grande e ricca casata, i Montfort, che alla fine lasciarono le loro terre in eredità al re di Francia, Filippo Augusto. In Spagna una buona metà del Regno di Navarra fu assorbita all'inizio del Duecento dal Regno di Castiglia; nel 1212 la battaglia di Las Navas de Tolosa segnò definitivamente la fine del dominio islamico, ridotto a un segmento nel Sud-Est della Spagna, mentre il Regno di Castiglia si ampliava al di là del Guadalquivir. Nell'Europa orientale e balcanica si andava realizzando una erosione, questa volta irreparabile, dell'Impero bizantino in favore di più o meno recenti formazioni politiche. Nel 1187 il Regno di Ungheria incorporava a spese di Bisanzio la Croazia e la Dalmazia settentrionale, e dal 1203 la Bosnia. Indipendente dal 1186, la Bulgaria si proclamò Regno dal 1203. Due piccoli Regni indipendenti si costituirono nella Piccola Armenia e a Cipro. L'erosione dell'Impero bizantino culminò infine con la quarta crociata, iniziata nel 1202 ed egemonizzata da Venezia, che fra il 1203 e il 1204 acquistò Zara e la costa croata, la Dalmazia costiera e le isole, Spalato, Ragusa, Negroponte, Creta, Rodi.
Quanto al Sacro Romano Impero d'Occidente, dopo la morte di Enrico VI nel 1197, esso aveva veduto l'apertura di una difficilissima e combattutissima successione, con due pretendenti, Ottone di Brunswick e Filippo di Svevia, fratello di Enrico VI, ai quali variamente si allearono il papa e le altre potenze d'Europa; la morte violenta di Filippo nel 1208 non impedì la finale sconfitta di Ottone e l'ascesa al trono di Germania, e in seguito al trono imperiale, del figlio di Enrico VI, Federico II. Il Duecento sarebbe stato così segnato in Europa da un approfondimento e da una estensione di un piccolo numero di stati monarchici, dal definitivo sfaldamento di un grande Impero nello spazio sudorientale, dalla ripresa di un Impero d'Occidente che era adesso reso più forte dalla pur sofferta acquisizione del Regno di Sicilia. Né l'Impero fu direttamente minacciato da una nuova e imprevista manifestazione imperialistica che proveniva da Oriente, quella dei mongoli, che un capo, Temujin, aveva unificato, attribuendosi poi l'appellativo di signore del mondo, Genghiz Khān, intraprendendo la conquista della Cina, del Turkestan, della Persia, slanciandosi quindi verso il Caspio e le grandi pianure russe. La sua morte nel 1227 determinò una pausa dell'espansionismo, che però riprese negli anni 1237-1240 e condusse alla conquista di un amplissimo spazio nella Russia orientale, incluso in quella nuova formazione imperiale che si disse l'Orda d'oro. Ma in Italia il fuoco che divampava in questi anni attutì l'attenzione per quanto accadeva a Oriente.
Il mondo italiano della prima metà del Duecento era in effetti un mondo di guerra: nel Mezzogiorno la guerra tra il partito svevo e il partito normanno per la successione di Enrico VI e poi di Federico II nel Regno di Sicilia; ai confini tra il Mezzogiorno e lo Stato della Chiesa i conflitti legati alla successione imperiale e al forte intervento di papa Innocenzo III per riaffermare la solidità del dominio temporale della Sede Apostolica. Queste lotte si avviarono a soluzione negli anni in cui Federico II fu riconosciuto re di Germania e poi durante il suo soggiorno in questo paese, fra il 1212 e il 1220. Quando egli riprese la strada d'Italia per concludere felicemente con l'incoronazione imperiale in Roma, nel novembre del 1220, la lunga e faticosa trattativa diplomatica con i principi tedeschi e con la Sede Apostolica, la situazione del Regno di Sicilia appariva relativamente solida e il rapporto con il papato, retto al momento da Onorio III, definito in termini soddisfacenti per ambedue le parti, con il riconoscimento della sovranità feudale del papato sul Regno di Sicilia, con l'impegno di Federico II a tutelare le temporalità della Chiesa romana, a difendere le libertates delle chiese, a reprimere le eresie e a riconquistare all'Islam i Luoghi Santi. Ma prima ancora che si infrangesse questo stato di pacificazione, con la scomunica papale di Federico II nel 1227, l'Italia del Nord e del Centro era in uno stato di larga e cronicizzata ostilità nei confronti degli imperatori tedeschi (che si manifestò in maniera clamorosa nel 1226, quando le città della societas Lombardiae, Marchiae et Romaniolae bloccarono le chiuse di Verona per ostacolare una grande Curia indetta da Federico II in vista della crociata) e, all'interno, di endemica guerra fra città e città.
La vitalità economica e sociale che continuava il suo progresso da oramai molte generazioni, e che si era manifestata negli anni dell'infanzia e della prima giovinezza di Federico II, seguitava infatti a esprimersi in una continua dialettica di conflitti e di sistemazioni, che da un lato apriva spazi all'intervento di superiori autorità politiche e religiose, cioè della corte imperiale e della Curia romana, dall'altro si dimostrava refrattaria a ogni inquadramento stabile imposto dall'esterno. In questa situazione di ordinaria turbolenza e di strutturale conflitto, si era però manifestata in una gran parte dell'Italia comunale centrale una sostanziale uniformità di soluzioni politiche nel governo delle città autonome. A sua volta, questo sviluppo degli anni dal 1180 al 1220 circa si era fondato su analoghi fenomeni di mobilità sociale verso l'alto. Nell'aumento della popolazione urbana, che continuava a essere determinato soprattutto dall'incremento demico delle campagne e dalle immigrazioni dei ceti rurali in città, in quegli anni avevano avuto un peso particolare, nel movimento di inurbamento, gli elementi più agiati del contado: nobili di castello, medi e notevoli proprietari fondiari, amministratori e vassalli di chiese cattedrali e di monasteri, affluenti artigiani e commercianti. Inurbati agiati e ceti urbani di più antica origine concorsero a formare élites composite e nuove rispetto alla prima età comunale, l'età del governo dei consoli, e indussero l'esigenza di affermare una forma di governo che superasse l'immediatezza del rapporto tra preminenza sociale e autorità politica che aveva segnato il comune consolare: non era più proponibile, cioè, un tipo di governo che riproducesse in maniera informale un ceto di maggiorenti socialmente riconosciuto come tale. A ciò si aggiunsero i nuovi bisogni dell'organizzazione militare e finanziaria, che richiedevano lo svincolamento della finanza pubblica cittadina dagli oneri signorili e la sua strutturazione, in funzione delle esigenze militari, in forme che superassero l'auxilium feudale.
La pace di Costanza, come si è detto, aveva definito le autorità comunali cittadine e la loro relazione con l'autorità imperiale facendo riferimento al collegio dei consoli. Adesso, però, in tutte le città dell'Italia comunale si veniva affermando un sistema nuovo, dove si manteneva e anzi si ampliava sempre più il ruolo del consiglio cittadino, mentre al vertice, in luogo del collegio dei consoli, era un podestà (potestas, al femminile), figura di fisionomia nobiliare, provveduto di competenze giuridiche e comunque di elevato livello culturale, e di norma forestiero, scelto tra i cittadini di una città politicamente alleata. Questo apparato costituzionale cittadino, fondato sul consiglio e sul podestariato, si affermò con sorprendente sincronismo nel periodo tra il 1180 e il 1220 circa, dunque con un ritmo molto più serrato se lo si paragona ai tempi, tanto più dilatati e certo non solo per la situazione delle fonti, entro i quali si erano svolte le prime affermazioni istituzionali delle città tra l'XI e il XII secolo. In parte questa maggiore velocità del processo istituzionale fu il portato di un'accresciuta velocità della circolazione culturale. L'età podestarile-consiliare si caratterizzò per l'impostazione di una cultura scritta più strutturata e diffusa, che fu all'origine della nuova situazione documentaria di cui si è detto. Determinò inoltre un clima di elaborazione dottrinale politica, espressa eminentemente nelle forme della retorica. In essa assunsero un ruolo importante i temi della coesistenza fra stati sociali diversi, fra nobili e non nobili, maiores e minores, e della necessaria superiorità della res publica sui privati interessi delle famiglie.
Questa tensione ideologica non attutì le dinamiche conflittuali di fondo che segnavano la società del tempo, e che derivavano da alcuni elementi strutturali. Di primaria importanza fra di essi il ruolo sempre importante, e per molti versi crescente, degli elementi militari, aristocratici e feudali. Proprio l'intensità dei processi di mobilità sociale condusse a esigenze di definizione istituzionale maggiore, e nelle città italiane, come nel Mezzogiorno e in altre aree dell'Europa del tempo, si andò verso un irrigidimento delle qualifiche nobiliari, ancorate precisamente alla nascita o alla formale promozione da parte dell'autorità pubblica, a specifici cerimoniali e a caratterizzati stili di vita. Presero forma i riti cavallereschi, ben attestati dall'ultima generazione del XII secolo. Si operarono distinzioni tra i milites pro communi e i 'veri' milites, il cui stato cetuale era sempre più spesso sanzionato con le cerimonie dell'addobbamento. Fin verso la metà del Duecento si ebbe certamente una larga permeabilità tra le due categorie, motivata banalmente da posizioni di analoga agiatezza economica (anche il miles procommuni doveva avere un certo censo), e si costituirono degli amalgama di vertice in numerose città importanti.
Tuttavia la formazione di queste compagini politiche composite, il perdurare di una mobilità sociale verso l'alto, la permeabilità fra ceti, la costituzione di una forma di governo che non era immediata espressione di una preminenza sociale, la retorica della supremazia della cosa pubblica e della necessaria coesistenza e della compatibilità fra maiores e minores, milites e pedites, nobiles e populares, i movimenti di pacificazione, in parte promossi in un nuovo fervore religioso del laicato (anzitutto dal movimento di Francesco d'Assisi e dei Minori), tutto ciò non eliminò il fondamentale contrasto tra componenti nobili e non nobili: dalla fine degli anni Venti del Duecento, cioè dall'epoca della ripresa del conflitto tra Federico II e il papato, e poi negli anni del susseguirsi di pacificazioni e riprese bellicose e del definitivo cristallizzarsi dello scontro ghibellino-guelfo, il conflitto interno alle città andò assumendo connotati nuovi, e di maggiore asprezza, rispetto all'epoca che abbiamo definito podestarile-consiliare. Il confronto tra la componente militare-nobiliare e quella popolare assunse il carattere di un confronto tra parti politiche, partes. Ciò implicava, tra le altre cose, l'ampia partecipazione di personaggi aristocratici ai movimenti popolari, anche con funzione di capi e guide degli stessi, e per converso la confluenza di elementi popolari nelle partes aristocratiche. Proprio per questa tendenza alla costituzione dei ceti in partes politiche, le élites mercantili e artigiane delle città crearono una struttura quale il populus, nella forma di un organismo politico parallelo all'organismo comunale, con l'autorità di un proprio capitano e con una propria attività normativa e una propria gestione economica e finanziaria.
Quando si avviò il conflitto guelfo-ghibellino e la divisione trasversale in partes di città e di famiglie, erano così già in piedi le strutture, gli strumenti e la cultura atti a trasformare una dialettica di compatibilità in uno scontro, assai meno riducibile, fra organismi politici definiti come tali e non portato di determinate formazioni di ceti sociali. Il conflitto fra l'imperatore e la Sede Apostolica e i rispettivi fautori contribuì in maniera molto rilevante a questa evoluzione della dialettica politica, che da una dialettica di coesistenza e di compatibilità evolvette verso una di tipo sopraffattorio, a una fisionomia della lotta politica come lotta per l'esclusione definitiva e senza ritorno di una delle due parti. A sua volta, questo intreccio fra l'evoluzione dello scontro che opponeva l'un l'altro i poteri di ambizione universale e l'evoluzione della struttura politica interna delle città ebbe fondamento in una nuova fase della trasformazione economica e sociale, e diede reciprocamente impulso a essa. Anche se non è stata ancora chiarita bene attraverso studi molto analitici e necessarie comparazioni, l'epoca dei decenni centrali del Duecento sembra potersi leggere senz'altro nel segno di un rallentamento (non di interruzione, ma, conviene ripetere, di rallentamento) dei processi di formazione di ricchezza e di ascesa di ceti sociali verso ambizioni di governo cittadino. Ricerche accurate hanno mostrato come le famiglie che appaiono dominanti nelle città a partire dalla metà del Duecento siano in grande maggioranza famiglie già affermatesi nel periodo 1180-1220 circa, e come sia molto più modesto il numero di nuove accessioni agli strati dominanti. Si ebbe insomma un processo di selezione, di concentrazione dei poteri e delle ricchezze, di crescente divaricazione sociale, che fu certamente accentuato dal conflitto delle partes. Nelle forme di ascesa al potere si trovò sempre più privilegiato chi era già da tempo sul proscenio politico e chi poteva contare su quella confluenza di accumulazione fondiaria, di ricchezza proveniente dal profitto finanziario e mercantile, dall'intervento nel finanziamento del debito pubblico, dall'assunzione di ruoli istituzionali in carriere politiche ed ecclesiastiche, nel cardinalato e nei nuovi Ordini religiosi, ruoli che erano sempre meno alla portata di ceti nuovi e di ceti di formazione rurale. Accadde così che il populus con il quale la Curia papale strinse accordi, e presso il quale trovò sostegno nel conflitto con l'imperatore, fosse cosa diversa dal populus della fine del XII sec. e degli inizi del Duecento che il papato aveva considerato con fondamentale ostilità. Nello stesso tempo si era venuta formando una nobiltà più selettiva e più potente rispetto ai milites dell'età podestarile e consiliare. Il problema dei milites evolveva nel problema dei magnates, dei grandi, delle famiglie di numero assai limitato che per la loro eccessiva potenza economica e sociale potevano essere destabilizzanti per la quieta conduzione della vita politica cittadina: questo tanto più gravemente quanto più si accendeva il conflitto delle partes e dunque si formavano coalizioni egemonizzate da potenti e contrapposti clan familiari.
Dalla fase di fondamentale omogeneità di esiti istituzionali degli anni dal 1180 al 1220 circa si passò così alla fase delle diversità e a una nuova geografia dell'Italia politica. Alcuni aspetti delle costruzioni statali furono in realtà largamente comuni. Ovunque si intensificarono le sistemazioni legislative, i provvedimenti dettati dalle esigenze dell'ordine interno e di un'amministrazione regolare della giustizia criminale, gli sforzi per accettabili definizioni delle capacità contributive dei residenti, e ovunque si sperimentarono forme di governo intermedie tra podestà e consiglio, con l'instaurazione di organismi con largo potere esecutivo, di carattere collegiale: consigli ristretti, collegi di anziani, collegi di dodici, ventiquattro, trentasei. Ma il peso da attribuire alle diverse componenti sociali in questi organismi, con i meccanismi delle riserve di posti e delle esclusioni, segnarono un fattore di differenziazione da città a città. Il resto fu il portato della lotta tra le grandi partes politiche e tra le fazioni cittadine, e del peso che le famiglie eminenti esercitavano nella vita pubblica. Si andò così verso la differenziazione di fondo fra governi larghi, oligarchie e regimi signorili, ma neppure essa riassume la varietà delle situazioni.
In tale varietà, grande appare sempre e comunque il peso della componente aristocratica nelle città comunali. Esso crebbe ancor più in altre formazioni politiche e ad alcune di esse diede l'impronta fondamentale: così nel Regno, così in tante articolazioni signorili e feudali, così nei principati dinastici ed ecclesiastici, quali il patriarcato di Aquileia nel Nord-Est d'Italia e, nel Nord-Ovest, il marchesato del Monferrato, per citare solo le due compagini maggiori al tempo di Federico II. In tutte queste strutture politiche i ceti aristocratici conobbero articolazioni complesse e molto diverse, in funzione della provenienza da più o meno antichi ceppi di milites e di signori locali e in funzione del rapporto con il principe: dipendenza feudale, investitura funzionariale, commistione fra i due momenti. Sviluppi importanti nei ceti aristocratici furono quelli della ministerialità, cioè un rapporto di subordinazione stretta e con aspetti quasi servili nei confronti del principe e al tempo stesso con grandi prospettive di potere politico nella corte, e quelli della presenza nei parlamenti, organismi con competenze giudiziarie e fiscali costituiti per ceti (nobili, chiese, comunità cittadine) variamente rappresentati. In tale quadro di complessità, articolazione e mobilità è ozioso porre in termini generali la questione del rapporto fra l'imperatore Federico II e la nobiltà, e occorre invece considerare situazione per situazione, territorio politico per territorio politico, il giuoco fra l'alta sovranità imperiale e le nuove intermediazioni che si creavano fra essa e i sudditi.
Fra queste intermediazioni grandissimo peso va infine riconosciuto per l'età di Federico II, come già per tutta la precedente storia dell'Impero d'Occidente, alle istituzioni ecclesiastiche e in generale al mondo religioso. L'Italia ereditava dal passato un tessuto di insediamento ecclesiastico particolarmente fitto, anzitutto con un reticolo di diocesi che erano nell'ordine delle duecento sedi all'avvento di Federico II. Se la loro dislocazione nel territorio italiano era diseguale, con regioni fittissime e disseminate di vescovati, spesso modesti per consistenza demica della rispettiva città e dimensione della diocesi, e regioni con un insediamento episcopale a maglie più larghe e generalmente mense episcopali ricche e potenti, dovunque si era andato però creando un tessuto molto solido di raccordo fra la Chiesa episcopale e il territorio: tessuto rappresentato dalle antiche pievi, le chiese provviste di un fonte battesimale, e dalle sempre più numerose parrocchie rurali. Accanto alle chiese secolari sussistevano i monasteri di tradizione benedettina, alcuni di immensa ricchezza e titolari di ampie prerogative pubbliche, come era il caso di Montecassino nel cuore del Regno di Sicilia, un buon numero inseriti nell'Ordine benedettino riformato dei Cistercensi, che si segnalava per il legame particolare con la Chiesa romana e i ruoli politici degli abati, per la grande capacità di gestione delle ricchezze fondiarie e lo slancio e l'innovazione nell'edilizia. Escluso dalle nomine episcopali e dal controllo diretto di chiese e monasteri rurali, il laicato aveva trovato nel corso del XII sec. sue strade di istituzionalizzazione del fervore religioso nelle fondazioni di ospedali, poi in movimenti penitenziali che ebbero un travolgente successo negli anni dell'ascesa al trono di Germania e poi alla corona imperiale di Federico II e si inserirono pienamente nella vita economica e politica delle città: Predicatori e Minori aprirono nei decenni centrali del Duecento un ampio spazio alle affermazioni degli aristocratici e dei cittadini agiati, in alternativa, anzi in aggiunta, alle carriere più tradizionali offerte dall'inserimento nei capitoli delle chiese cattedrali; diedero così un contributo importante ai fenomeni di selezione sociale e di aristocratizzazione, come pure diedero un contributo rilevante alla crescente affermazione centralistica della Sede Apostolica.
Il giuoco fra le diverse componenti della vita sociale di città e territori, tra nobili e non nobili, tra le diverse e mutanti esperienze di governo e di relazioni dei centri di potere con le rispettive periferie, tra i laici e le vecchie e nuove istituzioni religiose, determinò quella molteplicità di situazioni che rende improponibile ogni lettura dell'Italia di Federico II per grandi blocchi contrapposti, quali sarebbero Italia comunale e Italia signorile o feudale, Nord e Sud. La ricorrente tendenza a interpretare la storia italiana nell'orizzonte di un dualismo suggerisce di tanto in tanto interpretazioni ‒ che in genere peccano di economicismo ‒ che riconducono al Medioevo una presunta divaricazione, l'individuazione di un presunto 'scambio ineguale' tra un'Italia mercantile e finanziaria e un'Italia produttrice di beni primari. In realtà è solo in un aspetto della vita culturale che si può individuare nel primo Duecento una diversificazione tra una gran parte delle città del Nord e del Centro e il resto del paese; questo perché un livello più elevato di socialità urbana e di necessità di consenso interno determinò una più elevata necessità di scritture e quindi di incremento della capacità e consuetudine di scrittura. Da questo aspetto pur importante, che si traduce in una maggior ricchezza degli archivi cittadini di molte aree del Nord e del Centro d'Italia, non è però lecito dedurre dislivelli culturali di più ampia portata. Il paesaggio della cultura italiana, del suo grande slancio duecentesco, è un paesaggio che si diversifica per situazioni puntuali e per qualche fisionomia di tipo regionale, non per blocchi contrapposti. Nell'Italia del Nord e del Centro i quadri dominanti delle grandi produzioni artistiche, quelli che determinarono committenze e finanziamenti, rimasero ancora a lungo, tra la fine del XII sec. e la metà del Duecento, le maggiori istituzioni ecclesiastiche e religiose: si ebbero così le fabbriche delle cattedrali e dei battisteri cittadini, delle abbazie cistercensi, poi le grandi chiese di predicazione degli Ordini mendicanti, e si realizzarono, da Fossanova a Vercelli a Padova alla campagna senese, le prosecuzioni e innovazioni della grande arte romanica e gli incontri con l'esperienza artistica del gotico di Francia. In uno dei capolavori architettonici di questa fase, il battistero di Parma, l'architetto fu anche il maggiore scultore dell'epoca, Benedetto Antelami. Nel Mezzogiorno l'iniziativa cistercense fu stimolata e integrata da Federico II, e a lui si dovette la promozione di una fioritura architettonica di castelli (v.), monumenti e porte urbane; questo fervore avrebbe avuto il suo influsso nell'arte dell'Italia centrale, particolarmente in Toscana, con l'affermazione di un altro architetto e scultore, Nicola Pisano. Vi fu dunque una circolazione, fra Italia e Francia e fra il Regno di Sicilia e gli altri territori d'Italia, e simili forme di circolazione e di movimentazione si manifestarono nel campo della cultura scientifica, letteraria e poetica: qui con una ripresa della poesia trovadorica (v. Trovatori provenzali) che trovava alimento nella vitalità dei ceti aristocratici della quale si è detto, ed entro la quale si espresse, probabilmente al tempo dei primi anni d'impero di Federico II, qualche intenzione di creare una poesia lombarda con innovazione rispetto alla poesia proenzalesca.
Non è questo il luogo per richiamare il ruolo delle corti federiciane nella ripresa letteraria del primo Duecento (v. Scuola poetica siciliana), né per parlare dell'impulso dato dall'imperatore alla cultura giuridica (v. Scienza giuridica, Regno d'Italia) e della fondazione universitaria che egli promosse a Napoli (v. Studio di Napoli). Occorre solo ricordare come in quella vitalità culturale espressa nelle opere della poesia e delle arti figurative e nelle alte istituzioni culturali trovasse la sua appartenenza anche la crescita delle ideologie politiche, in parte appannaggio delle grandi sistemazioni universitarie e scolastiche e in parte diffusa nei sentimenti e nelle aspirazioni delle persone che, con minore o maggiore capacità di intervento, vissero la vita politica di quelle epoche di disunione e di guerra. Su questi sentimenti e su queste aspirazioni, ma anche sulle sistemazioni dottrinali di alta levatura, gli anni federiciani avrebbero lasciato un retaggio importante e di lungo riflesso nel tempo, in particolare con l'idea-forza della necessità di un'alta istanza politica, laica, atta a garantire la giustizia e la pace, la tranquillitas, al di sopra delle tendenze sopraffattorie e dei privati interessi.
Fonti e Bibliografia
Come per tante questioni relative alla storia di Federico II, l'approccio bibliografico fondamentale è C.A. Willemsen, Bibliographie zur Geschichte Kaiser Friedrichs II. und der letzten Staufer, München 1986 (preceduta di pochi anni dall'edizione italiana: Bibliografia federiciana. Fonti e letteratura storica su Federico II e gli ultimi Svevi, Bari 1982), con buon apparato di indici anche topografici.
Per successivi aggiornamenti si ricorrerà a D. Abulafia, Frederick II. A Medieval Emperor, London 1988 (trad. it. Federico II. Un imperatore medievale, Torino 1990).
A. Romano, Introduzione, in Constitutiones Regni Siciliae, a cura di G. Carcani, Messina 1992 (riprod. anast. dell'ediz. orig. Neapoli 1786), pp. IX-XXXIX.
Federico II e le città italiane, a cura di P. Toubert-A. Paravicini Bagliani, Palermo 1994.
Federico II e l'Italia. Percorsi, luoghi, segni e strumenti, catalogo della mostra (Roma, Palazzo Venezia, 22 dicembre 1995-30 aprile 1996), a cura di C.D. Fonseca, Roma 1995.
Copiosissimi sono i contributi di ambito italiano in Friedrich II./Federico II. Convegno dell'Istituto Storico Germanico di Roma nell'VIII centenario della nascita, a cura di A. Esch-N. Kamp, Tübingen 1996.
Un convegno di impianto cittadino e regionale ha nondimeno convogliato contributi interessanti soprattutto sulla cultura di Federico II e dell'Italia del suo tempo: '
Esculum'e Federico II. L'imperatore e la città: per una rilettura dei percorsi della memoria. Atti del Convegno di studio svoltosi in occasione della nona edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno (Ascoli Piceno, 14-16 dicembre 1995), a cura di E. Menestò, Spoleto 1998.
E v. anche Politica e cultura nell'Italia di Federico II, a cura di S. Gensini, Pisa 1986.
La fisionomia delle fonti per il Medioevo italiano in genere è stata descritta, con molti riferimenti all'incremento delle scritture dal XII sec. e al quadro di sviluppo politico e culturale in cui esso si inserisce, da P. Cammarosano, Italia medievale. Struttura e geografia delle fonti scritte, Roma 1991 (19985).
Negli anni trascorsi dalla pubblicazione di questo libro numerose edizioni di fonti e numerosi repertori sono apparsi. Non è possibile dare conto qui di tutti i testi di ambito italiano, fra i quali gli studiosi hanno continuato a privilegiare fonti narrative e statuti.
Nell'ambito delle prime ricordo qui solo la nuova edizione della cronaca di Saba Malaspina (Die Chronik des Saba Malaspina, a cura di W. Koller-A. Nitschke, in M.G.H., Scriptores, XXXV, 1999), e la Bibliografiaagiografica italiana 1976-1999, a cura di P. Golinelli, Roma 2001.
per gli statuti va segnalata la Bibliografiastatutaria italiana 1985-1995, ivi 1998.
Tra le edizioni di fonti che hanno più diretta relazione con Federico II deve essere anzitutto citata quella delle Constitutiones Regni Siciliae: Die Konstitutionen Friedrichs II. für das Königreich Sizilien, a cura di W. Stürner, in M.G.H., Leges, Legum sectio IV:Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, II, Supplementum, 1996; essa è adesso corredata di imponenti concordanze: Vocabularium Constitutionum Regni Siciliae Friderici Secundi Imperatoris, a cura di A.L. Trombetti Budriesi-A. Pavia, I, A-E, Castel di Serra 2002 (sono previsti altri tre volumi).
I diplomi federiciani sono in preparazione per la sezione Diplomata dei M.G.H., a cura di W. Koch. È ancora indispensabile, nell'attesa, ricorrere alla Historia diplomatica Friderici secundi, agli Acta Imperii inedita, e ai testi diplomatistici e normativi in M.G.H., Leges, Legum sectio IV:Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, II, a cura di L. Weiland, 1896 (riprod. anast. 1963), nrr. 43-274, pp. 54-389.
Preziosa rimane anche la silloge documentaria diJ. Ficker, Forschungen zur Reichs- und Rechtsgeschichte Italiens, I-IV, Innsbruck 1874 (riprod. anast. Aalen 1961), in particolare il volume IV, Urkunden, con oltre duecento documenti che interessano tutta l'Italia nei suoi rapporti istituzionali e politici e nelle relazioni fra l'Impero e i centri locali del potere.
Per un profilo generale della storia d'Italia nelle epoche antecedenti Federico II rinvio, anche per le indicazioni di fonti e di bibliografia, a P. Cammarosano, Nobili e re. L'Italia politica dell'alto medioevo, Roma-Bari 1998, e Id., Storia dell'Italia medievale. Dal VI all'XI secolo, ivi 2001.
Per l'età sveva si vedranno i volumi IV-VII della Storia d'Italia, diretta da G. Galasso, Torino 1981-1987, corredati tutti di eccellenti bibliografie.
L'itinerario di Federico II, con l'indicazione di tutte le sedi italiane dei suoi soggiorni, si trova in C. Brühl, Fodrum, Gistum, Servitium regis. Studien zu den wirtschaftlichen Grundlagen des Königtums im Frankenreich und in den fränkischen Nachfolgestaaten Deutschland, Frankreich und Italien vom 6. bis zur Mitte des 14. Jahrhunderts, I-II, Köln-Graz 1968, in partic. II, Register und Karten, alla Karte VII.
Per il mappamondo di Vercelli, la sua datazione e preziose indicazioni bibliografiche sulla cartografia duecentesca dell'Italia, v. M. Piccat, Le 'Gesta Alexandri' e il re di Francia: nuova ipotesi di lettura per il mappamondo di Vercelli, in Carte di viaggi eviaggi di carta. L'Africa, Gerusalemme e l'Aldilà, a cura di G. Baldissone-M. Piccat, Novara 2002, pp. 41-56 e figg. 7-9.
Sull'evoluzione demografica i riferimenti fondamentali sono a K.J. Beloch, Bevölkerungsgeschichte Italiens, I-III, Berlin 1937-1961 (trad. it. Storia della popolazione d'Italia, a cura di L. Del Panta-E. Sonnino, Firenze 1994), e a M. Ginatempo-L. Sandri, L'Italia delle città. Il popolamento urbano tra Medioevo e Rinascimento (secoli XIII-XVI), Firenze 1990.
La lettera enciclica del 6 dicembre 1227 è edita in M.G.H., Leges, Legum sectio IV:Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, II, a cura di L. Weiland, 1896, nr. 116, pp. 148-156.
La lettera a Gregorio IX del 24 agosto 1235, ibid., nr. 195, pp. 139-140.
L'aneddoto della poesiola contro Arezzo è riportato in Annales Arretinorum Maiores et Minores, in R.I.S.2, XXIV, 1, a cura di A. Bini-G. Grazzini, 1909-1912, pp. 1-38, a p. 5.