KOUNELLIS, Jannis
Nacque al Pireo il 23 marzo 1936, da Grigoris e da Evaggelia Venou.
La famiglia d’origine apparteneva, negli anni antecedenti la seconda guerra mondiale, alla media borghesia politicamente orientata a sinistra: il padre Grigoris era un ingegnere navale impiegato nella ditta di spedizioni via mare del magnate Stavros George Livanos e il suo lavoro lo obbligava a lunghi periodi di lontananza dal Pireo. Kounellis, che realizzò i suoi primi esperimenti artistici all’età di tredici anni, ricevette una buona educazione scolastica cui si aggiunsero lezioni di disegno e di violino. Nel 1944 nacque Antonio, il secondogenito della famiglia. Durante la guerra e l’occupazione straniera della Grecia il padre fece parte del movimento di resistenza. Al termine del conflitto, il lungo periodo di instabilità politica della Paese – iniziato con la guerra civile (1946-49) e culminato con la presa di potere delle forze militari anticomuniste che avviò la dittatura dei colonelli (1967) – segnò indelebilmente gli anni dell’infanzia e della formazione di Kounellis, contribuendo a formarne le convinzioni politiche e l’identità artistica.
Fino al 1949 studiò all’Istituto d’arte di Atene, preparandosi per l’accesso alla locale Accademia di belle arti, che però frequentò un solo anno (1955) con scarso profitto, a causa degli attriti con il suo docente, il pittore greco Yannis Moralis. Kounellis decise allora di proseguire i suoi studi altrove (Kounellis, 2019).
Il primo gennaio 1956 Kounellis, grazie al sostegno economico del padre, giunse a Roma, città nella quale visse e lavorò per il resto della vita, accompagnato dalla moglie Efthymia Sardi, detta Efi, compagna di scuola sposata nel 1953 a diciassette anni. Il viaggio rappresentò la prima occasione nella quale l'artista lasciò la sua città natale e il trasferimento ebbe subito un carattere definitivo: alla ricerca di una nuova identità, abbandonò infatti la sua lingua madre ed evitò di tornare in Grecia per più di vent’anni, interrompendo anche le comunicazioni con la famiglia d’origine per lungo tempo (Celant, 1974). A Roma si iscrisse subito all’Accademia di belle arti, dove frequentò, tra gli altri, i corsi di Franco Gentilini e Toti Scialoja. Qui venne a contatto con la più giovane e inquieta comunità artistica della capitale e scoprì «una sensibilità contemporanea, che non esisteva in Grecia» (J. Kounellis, in Sharp, 1972, p. 26).
Nel 1958 i coniugi Kounellis partirono per un lungo viaggio Oltreoceano, imbarcandosi su una nave sulla quale era in servizio il padre. In quest’occasione i due visitarono la Columbia e il Venezuela, per raggiungere Boston e, infine, New York, città nella quale Grigoris Kounellis aveva aperto un negozio di forniture per imbarcazioni (Kounellis, 2019). In seguito, i due fecero ritorno, sempre via mare, in Europa, sbarcando ad Anversa.
Nel 1963 i genitori di Kounellis si separarono e il padre sposò in seconde nozze l’austriaca Maria-Margarita Heinz, da cui ebbe una terza figlia, Angela.
Tra il 1958 e il 1959 Kounellis iniziò a realizzare una serie di opere con grandi numeri, lettere e segnali, dipinti con pittura acrilica nera per interni, Kem-Tone, su tela bianca. Questi quadri vennero intitolati con la formula senza titolo che avrebbe caratterizzato in futuro la quasi totalità dei suoi lavori: essa evitava, nelle intenzioni dell’artista, di fornire rigide indicazioni di lettura all’osservatore cui veniva chiesto di interpretare in modo autonomo ciò che stava guardando.
I primi lavori di questo ciclo vennero esposti quando l’artista era ancora studente dell’Accademia di Roma nella sua prima personale «L’alfabeto di Kounellis». La mostra si tenne alla romana galleria La Tartaruga nel giugno 1960 e fu presentata da un testo di Mario Diacono apparso l’anno successivo nella rivista di galleria (Quaderni della Tartaruga, 1961, n.3). Per l’occasione mise anche in scena la sua prima performance dipingendo in presenza del pubblico e declamando poi le lettere leggibili sulle tele. Durante l’azione indossava una tela da lui dipinta che ricordava gli indumenti portati da Hugo Ball nelle serate dadaiste del Cabaret Voltaire di Zurigo (1916), palesando così le radici culturali della sua ricerca con precisi riferimenti alle pratiche delle prime avanguardie storiche.
Un’opera con numeri e lettere (Senza titolo, 1961) venne esposta alla prima mostra collettiva cui fu invitato l’artista, in occasione del XII Premio Lissone del 1961.
Questa produzione, come accadeva per molte altre ricerche di stampo monocromo di quegli anni, rappresentava una risposta alle esigenze avvertite dalla nuova generazione di artisti interessata al superamento delle ricerche informali, considerate troppo individualiste, estetizzanti e decadenti, e affascinata dalla rappresentazione di nuovi simboli e dalla nuova oggettività dei supporti e dei materiali (Kounellis, 1992).
Al 1958 risale anche l’esecuzione delle prime insegne urbane: un Senza titolo è costituito da una tavola dipinta con la scritta 'tabacchi' su un fronte e 'olio' sull’altro. Questi lavori, diari di realtà cittadina, volevano nelle intenzioni dell’artista restituire «l’oggettività ambientale» ma erano anche esempi di «una pittura non rappresentativa né gestuale», agganciata alla necessità di un’arte pubblica e popolare, lontana da codici astratti ed elitari (J. Kounellis, in Celant, 1974, p. 34). Un simile orizzonte di ricerca proseguì con la realizzazione di tele di intenzione simile, come l’opera dedicata ai giorni della settimana (Senza titolo, 1963) e quella con dipinta la parola 'giallo' in smalto rosso (Senza titolo, 1965).
In questi stessi anni si concentrarono anche le prime mostre istituzionali, italiane e internazionali, quali la partecipazione alla IV Biennale di San Marino nel luglio 1963 e l’inclusione, quello stesso anno, nella collettiva «Schrift en Beeld», tenutasi allo Stedelijk Museum di Amsterdam prima, e alla Staatliche Kunsthalle di Baden-Baden poi.
Nel 1964 Kounellis realizzò il primo lavoro per il quale pensò un accompagnamento musicale: Senza titolo (petite) era stato infatti concepito per essere osservato ascoltando il brano di Sidney Bechet Petite fleur (1952) del cui spartito erano riprodotte, sulla tela, le note delle prime tre battute.
Nello stesso 1964 si tenne anche la seconda personale dell’artista alla galleria La Tartaruga presentata, in catalogo, da Cesare Vivaldi. Venne esposto un ciclo di marine, realizzate con motivi figurativi schematici e completamente antinaturalistici, mutuati ancora una volta dalle convenzioni della segnaletica cittadina. Questo fu il momento in cui la pittura di Kounellis si confrontò maggiormente con temi e modi peculiari delle poetiche visive della pop art che nello stesso periodo si andavano diffondendo anche in Italia.
Tra il 1963 e il 1965 il rapporto dell'artista con il medium pittorico iniziò a essere messo in crisi, come provano i numerosi inserimenti nelle sue opere di elementi musicali e performativi. Nella seconda metà degli anni Sessanta questa insoddisfazione raggiunse il suo apice non solo in Kounellis, ma nell’intero sistema internazionale delle arti. Il contesto storico-culturale del decennio non appariva infatti più restituibile attraverso una ricerca pittorica di stampo individualista, né le vie percorse dalle avanguardie storiche sembravano più sufficienti ad affrontare la perdita di identità che stava vivendo l’Occidente e che avrebbe portato, di lì a poco, ai fermenti del Sessantotto. Kounellis avvertì, prima di altri artisti italiani e con maggior intensità, la necessità di intraprendere una nuova ricerca attraverso un rapporto più diretto con la realtà. Per questo motivo, a partire dal 1967, l’artista lavorò nella direzione di un superamento dei procedimenti pittorici per appropriarsi dello spazio reale, adottando nuove modalità esecutive e nuovi materiali.
Nel 1967 realizzò la prima opera che includeva tre rose di stoffa bianca applicate alla tela con un sistema provvisorio di clip automatiche, circondate da dodici gabbiette contenenti uccellini vivi. In questo lavoro, esposto in occasione della mostra «Il giardino – I giuochi» alla galleria dell’Attico, veniva riproposta una versione preiconografica delle immagini scelte: le rose erano infatti stilizzate e ridotte a semplici elementi grafici, puri segni figurali. Il loro posizionamento, momentaneo e precario, indicava inoltre la fragilità di ogni sistema e codice linguistico. La bidimensionalità della tela era poi superata dal panneggio del tessuto delle rose e dalla presenza viva dei canarini: elementi che avevano ormai valicato, senza possibilità di ritorno, la soglia di separazione tra i generi tradizionali di pittura e scultura.
Un altro esempio di questi nuovi intenti era quel Senza titolo del 1967 noto anche come Margherita di fuoco. In questo lavoro un fiore di metallo aveva al suo centro, al posto del pistillo, il collettore di una bombola a gas dal quale usciva, luminosa e quasi solida, un’intensa fiamma blu. Compariva così per la prima volta un elemento molto caro a Kounellis: il fuoco mitologico e primordiale che tanto aveva segnato la storia dell’uomo, dalla sua scoperta in età primitiva, al suo uso punitivo e purificatore nel Medioevo, fino ai più recenti impieghi industriali (White, 1979).
Il 1967 fu un anno molto importante per Kounellis anche sotto il profilo espositivo. Tra la primavera e l’autunno allestì infatti tre diverse personali all’Attico e partecipò ad alcune mostre fondamentali per la nascita dell’arte povera, e cioè la collettiva promossa da Alberto Boatto e Maurizio Calvesi «Lo spazio degli elementi: fuoco immagine acqua terra» sempre all'Attico di Fabio Sargentini, e quella curata da Germano Celant, alla genovese galleria La Bertesca, intitolata «Arte povera – Im-spazio». In quest’ultima il suo lavoro fu inserito nella sezione Arte povera, assieme alle opere di Alberto Boetti, Luciano Fabro, Giulio Paolini, Pino Pascali ed Emilio Prini.
Kounellis presentò in quest’occasione la sua prima 'carboniera' (Senza titolo, 1967), una struttura di ferro riempita con un quintale di carbone grezzo, materiale che faceva qui la sua comparsa e che avrebbe caratterizzato tanta parte della sua produzione negli anni a venire. Il carbone esaltava la tattilità e sensorialità delle opere: «nel carbone c’è una cattiveria nel voler sporcare tutto» (J. Kounellis, in Celant, 1974, p. 46). Allo stesso modo la sua presenza, accostata a un contenitore in ferro, palesava la contraddizione tra le due realtà coinvolte: l’artificialità geometrica e funzionale del recipiente e la naturalità sporca e materica del contenuto (J. Kounellis, in Fanelli, 1988). Da ultimo, la presenza del carbone era una risposta poverista alla proposta americana della minimal art, con le sue 'strutture primarie' perfettamente lucidate, pulite e autoreferenziali. Nella costante ricerca di un rapporto arte-verità l’indagine di Kounellis andava sempre più concentrandosi sulla realtà delle cose: in questo modo si faceva commento e giudizio del mondo contemporaneo.
Nel 1968 prese parte a un altro momento di canonizzazione dell’arte povera: la mostra evento, curata da Celant, «Arte povera più azioni povere», che si svolse negli Antichi arsenali di Amalfi tra il 4 e il 6 ottobre. Per l’occasione espose una matassa di lana grezza, inserita in un intreccio di corde legate a un telaio vuoto (Senza titolo, 1968). L’opera fu riprodotta in un articolo che Tommaso Trini dedicò all’artista sulla rivista Cartabianca (1968).
Il 1968 vide anche la partecipazione dell’artista alla sua prima mostra statunitense: la collettiva itinerante «Young Italians» ordinata da Alan Solomon e allestita all’Institute of contemporary art di Boston e poi al Jewish Museum di New York.
Nel 1968 Kounellis prese parte al suo primo spettacolo teatrale realizzando le scenografie per I testimoni di Tadeusz Różewicz, messo in scena al teatro Sociale di Torino per la regia di Carlo Quartucci. L’opera cuciva assieme tre testi di dell'autore polacco (Cartoteca, I testimoni ovvero la nostra piccola stabilizzazione e Atto unico) e aveva per tema un’amara riflessione sulle sorti delle generazioni postbelliche, impegnate nel vano tentativo di trovare un proprio posto nel mondo contemporaneo. Kounellis inserì in scena una serie di carrelli che scorrevano da una parte all’altra del palcoscenico trasportando, di volta in volta, attori, tecnici, sacchi di terra e carbone che non avevano un legame diretto con la narrazione teatrale. Al fondo era collocata una grande uccelliera abitata da presenze vive e inquiete. Scopo di quest’intervento non era quello di realizzare una scenografia complementare alle azioni che si svolgevano in scena ma di creare una forma di 'disturbo' al pubblico e soprattutto agli attori, obbligati a dimenticare le tecniche tradizionali di recitazione per inventare un linguaggio gestuale e corporeo completamente nuovo.
Con simili intenti vennero realizzati anche i successivi interventi teatrali di Kounellis, come quello messo in scena, sempre per Quartucci, nell'ottobre del 1969 al teatro di palazzo Grassi a Venezia sulla base di un testo di Roberto Lerici (Il lavoro teatrale ovvero la separazione e altre scene). Altri spettacoli ancora furono realizzati, quasi sempre in collaborazione con lo stesso regista, nel 1978 a Roma, nel 1980 a Genova, nel 1982 a Genazzano e Kassel, e così via.
Kounellis si pronunciò con chiarezza a proposito del suo rapporto con lo spettacolo teatrale in un’intervista del 1980, quando dichiarò: «io ho un’idea del teatro, un’idea dello spazio teatrale […] mi rifiuterei in maniera categorica di fare un riadattamento del mio lavoro a livello del teatro. Quando sono nel teatro sono un teatrante» (J. Kounellis, in Corà, 1980, p. 164).
Il 1969 può essere fuor di dubbio definitivo l’anno di svolta nell’opera di Kounellis. Perno centrale di questo cambiamento – irreversibile per l’artista, tanto quanto per l’arte contemporanea italiana e internazionale – fu la realizzazione, nel gennaio, della celebre installazione con i dodici cavalli (Senza titolo, 1969; Cintoli, 1969). L’opera inaugurò la nuova sede – un garage sotterraneo – dell’Attico di Sargentini e prevedeva che, per tre giorni e a intervalli regolari, dodici cavalli vivi venissero legati alle pareti perimetrali della galleria. La presenza, vitale e incontrollabile, di questi animali intimidiva inevitabilmente lo spettatore, costretto a rimanere ai margini dello spazio, in un atteggiamento di disagio e passività. I rumori e gli odori prodotti dagli equini ampliavano poi i confini prettamente visivi dell’esperienza artistica, trasformando la galleria da spazio di pratica della pura visibilità a luogo deputato all’esercizio di tutti i sensi. La scelta dei cavalli recava in sé ovvi riferimenti all’arte classica e, in particolare, alla statuaria equestre. Era così messo in scena uno scontro ideale tra materia e cultura, storia e natura, come sottolineò lo stesso artista in una sua intervista più tarda: «la cosa importante era la struttura sociale della galleria e la sua organizzazione spaziale […] era mia intenzione mettere in luce la fisionomia dell’artista posto di fronte al sistema. Non la situazione in sé stessa, ma la posizione dell’artista in seno al sistema, la posizione di uno che deve guadagnare. Perché l’artista deve assumersi la responsabilità del suo lavoro» (J. Kounellis, in Sharp, 1972, p. 94).
Una forma di allontanamento dello spettatore venne messa in scena, quello stesso anno, anche alla galleria Iolas di Parigi. In Senza titolo (1969) una serie di collettori di bombole a gas era posizionata, ad altezza uomo, lungo le pareti della sala. Le fiamme che ne scaturivano erano un vero e proprio attacco alla presenza dell’osservatore che non poteva penetrare lo spazio a causa del reale pericolo fisico, ma anche del rumore assordante delle fiamme ossidriche e del forte odore di gas. La presenza aggressiva del fuoco era anche metafora dell’esplosione dei movimenti del Sessantotto e del continuo avvampare delle proteste studentesche, operaie e femministe. A questi stessi temi era d’altronde dedicata anche l’opera Senza titolo (Libertà o Morte W Marat W Robespierre, 1969), esposta alla prima personale dell’artista alla Modern art Agency di Lucio Amelio a Napoli, in cui venivano esplicitamente esaltati i moti della Francia rivoluzionaria.
Il 1969 vide anche la partecipazione di Kounellis alla storica mostra «Live in your head – When attitudes become form», curata da Harald Szeemann alla Kunsthalle di Berna, dove espose sette sacchi contenti ciascuno un materiale diverso tra fagioli bianchi e rossi, lenticchie, riso, caffè, granturco e piselli.
Tra il 1970 e il 1973 tornò centrale, in Kounellis, una riflessione sulle potenzialità auditive della ricerca artistica grazie all’inserimento, in molte opere, di elementi sonori legati a una dimensione storico-culturale della collettività. I rumori prodotti da animali e processi industriali – i cavalli da un lato, le fiamme ossidriche dall’altro – vennero infatti sempre più spesso sostituiti da brani di musica classica, eseguiti dal vivo da pianisti, flautisti, violoncellisti. In occasione della partecipazione a «Vitalità del negativo nell’arte italiana 1960-1970», mostra curata da Achille Bonito Oliva nel novembre 1970 (Roma, Palazzo delle Esposizioni), Kounellis presentò per esempio una performance nella quale, a intervalli regolari, il pianista Frederic Rzewski suonava frammenti dell’aria Va’ pensiero dal Nabucco di Giuseppe Verdi. L’impianto teatrale di queste azioni prevedeva, inevitabilmente, un maggior coinvolgimento del pubblico, mentre le scelte musicali rappresentavano forti richiami alla cultura europea, nonché riferimenti ideologici alla coeva situazione politico-sociale. Similmente l’anno successivo, nell’ambito degli Incontri internazionali d’arte di Palazzo Taverna, alcuni flautisti eseguirono ripetutamente un frammento mozartiano.
Il 13 gennaio 1972 nacque il figlio Damiano, cui l’artista dedicò un’opera in quello stesso anno: Senza titolo (Omaggio a Damiano o A Damiano Rousseau).
Sempre nel 1972 partecipò alla Biennale di Venezia e a Documenta 5 di Kassel; ebbe inoltre la sua prima mostra personale negli Stati Uniti, allestita negli spazi newyorkesi della Ileana Sonnabend Gallery con una selezione di opere realizzate tra il 1967 e il 1972.
Nel 1973 espose, prima alla galleria La Salita e poi a Contemporanea (Roma, Parcheggio di villa Borghese), un Senza titolo con i frammenti in gesso di una statua di Apollo disposti, insieme a un corvo impagliato, su un tavolo. Kounellis partecipava alla performance indossando una maschera sul volto, mentre un flautista eseguiva, ogni due minuti, brevi frammenti tratti da musiche di Mozart. L’opera chiariva la posizione ideologica dell’artista, annichilito dalla piega presa dai fermenti politici del decennio precedente e parimenti sconfortato dalla dimostrata impossibilità, per l’arte, di rivoluzionare un sistema capitalista e individualista.
Nel 1974, in occasione della Biennale di Venezia, riallestì, in un barcone attraccato alla Giudecca, un’opera esposta nel 1969 alla galleria di Lucio Amelio nella quale, su otto piani metallici agganciati l’uno all’altro, erano collocate, come merce in vendita, piramidi di caffè in polvere. Questo elemento, che sarebbe stato da lì in avanti frequente nel lavoro di Kounellis, apriva l’opera al senso dell’olfatto e si faceva anche, parimenti, riferimento autobiografico, rinviando a temi quali la cultura mediterranea, il commercio, il viaggio in terre lontane.
Il biennio 1976-77 rappresentò il momento in cui in Italia si iniziò ad avvertire la fine delle utopie libertarie e rivoluzionarie. In Kounellis prese il sopravvento uno scetticismo nichilista per il quale, come osservò Celant, «la cultura diventa il cimitero delle grandi speranze naufragate», «rivoluzione e restaurazione, illuminismo e decadentismo, rinascenza e manierismo, appaiono strettamente imparentati» (in J. Kounellis, 1983, p. 19). A questa crisi Kounellis reagì mantenendo ferme le scelte che riguardavano i materiali e i procedimenti delle stagioni precedenti: la loro forza d’urto venne però amplificata attraverso l’adozione di una scala monumentale e di un dialogo con le dimensioni dell’architettura.
A tal proposito, ad esempio, nel dicembre 1976 una ciminiera di mattoni fu costruita e brevemente accesa nella milanese galleria Salvatore Ala, permettendo al fumo – elemento che si andava sostituendo sempre più spesso al fuoco vivo – di macchiare soffitto e pareti.
In quello stesso anno, alla Biennale di Venezia, venne riproposta, in versione ridotta, l’installazione del 1969 con i cavalli vivi, segno che il contributo dato da Kounellis all’arte contemporanea occidentale iniziava a essere ufficialmente riconosciuto. Nell'edizione successiva della rassegna veneziana venne interamente ricostruita la sua mostra presentata all’Attico nel novembre 1967. Nel 1978 l’artista ottenne anche il primo importante riconoscimento alla carriera, aggiudicandosi la quinta edizione del premio Pino Pascali.
Agli ultimi anni del decennio risalì la separazione dalla moglie e l’inizio della relazione con Michelle Coudray, compagna di vita per i successivi quarant’anni.
Gli anni Ottanta furono, sul fronte della lettura ideologica del presente riverberata nella ricerca artistica, il periodo di maggior disillusione per Kounellis: ne sono testimonianza la frequente sostituzione della fuliggine al fuoco e quella di animali impagliati ai precedenti animali vivi. Ma sul tema del riconoscimento professionale questo decennio rappresentò il momento della consacrazione e canonizzazione dell’artista, con una numerosissima serie di mostre personali in istituzioni e musei di rilevanza internazionale. Nel 1980, ad esempio, una mostra monografica gli venne dedicata dal Musée d’art moderne de la Ville de Paris; l’anno successivo fu il turno del Van Abbemuseum di Eindhoven, che organizzò una retrospettiva con opere realizzate tra il 1969 e il 1981, presentate da un catalogo a cura di Rudi Fuchs – la stessa mostra venne allestita, nel 1982, all’Obra Social di Madrid, alla Whitechapel Art Gallery di Londra e alla Staatliche Kunsthalle di Baden-Baden – e, nel 1985, il Musée d’art contemporain di Bordeaux presentò una sua personale. Nel 1986 Mary Jane Jacob curò una retrospettiva dell’opera di Kounellis al Museum of contemporary art di Chicago, mostra che comprendeva anche numerosi progetti site-specific negli spazi pubblici della città. Nel 1988 fu poi la volta dell’importante monografica torinese del Castello di Rivoli.
Negli anni Novanta, alla sempre più internazionale attività espositiva si affiancò anche l’impegno didattico: tra il 1993 e il 2001 Kounellis fu infatti professore di pittura alla Kunstakademie di Düsseldorf.
Nel 1993 venne pubblicato il volume Odissea lagunare, raccolta dei suoi scritti più importanti, in occasione della mostra palermitana al Real albergo dei poveri.
Nel 1995 l’impegno civile di Kounellis si confermò ancora una volta in occasione della realizzazione del "Monumento alla memoria di Concetto Marchesi, Egidio Meneghetti ed Ezio Franceschini". L’opera, conosciuta anche con il titolo di Resistenza e Liberazione, fu realizzata nel cortile di palazzo Bo, sede principale dell’Università degli studi di Padova, in occasione delle celebrazioni del cinquantenario della Resistenza e della guerra di liberazione in Italia.
Negli anni Duemila l’artista portò avanti coerentemente e continuativamente la sua ricerca artistica: in contemporanea istituzioni culturali e musei proseguirono un lavoro di studio, conoscenza e diffusione della sua opera.
Morì a Roma il 16 febbraio 2017 per problemi cardiaci. I funerali si tennero il 20 febbraio nella Basilica di S. Maria in Montesanto in piazza del Popolo.
M. Diacono, L'alfabeto di K., in Quaderni della Tartaruga, 1961, n. 3, p.n.n.; XII Premio Lissone (catal.), testi di G. C. Argan - U. Apollonio - P. Restany, Lissone 1961, p.n.n.; J. K. (catal.), testo di C. Vivaldi, Roma 1964; T. Trini, K.: terrestre déraciné, in Cartabianca, I (1968), 2, p. 11-14; C. Cintoli, Se sono cavalli sono K., ibid., II (1969), 2, pp. 37 s.; M. Volpi, “I Testimoni” al Teatro stabile di Torino, appunti su J. K., ibid., II (1969), 1, pp. 14-19; Vitalità del negativo nell’arte italiana 1960/70 (catal., Roma), a cura di A. Bonito Oliva, Firenze 1970, p.n.n.; G. Celant, J. K., in Domus, 1972, n. 515, pp. 53-56; W. Sharp, Structure and sensibility: an interview with J. K., in Avalanche, 1972, n. 5, pp. 16-25 (poi in J. K. (catal., Rimini), a cura di G. Celant, Milano 1983, pp. 25-27, 93-98); G. Celant, Intervista inedita a J. K., 1974, in J. K., cit., 1983, pp. 27-36; R. White, Interview at Crown Point Press, in View, 1979, n. 10 (poi in J. K. cit., 1983, pp. 130-142); B. Corà, J. K.: sulla storia, la lingua, gli equivoci, il teatro, in AEIOU, 1980, n.1 (poi in J. K., cit., 1983, pp. 146-165); G. Politi, Intervista a J. K., in Flash art, 1985, n. 122, pp. 14-21; K. (catal.), a cura di M.J. Jacob, Chicago 1986; F. Fanelli, Intervista con J. K., in Il Giornale dell’arte, 1988, 10, p. 77; K. (catal.), a cura di G. Celant, Milano 1992; J. Kounellis, Odissea lagunare (catal.), a cura di M. Codognato, Palermo 1993; Id., Eco nell’oscurità. J. K. Scritti e interviste 1966-2002, a cura di M. Codognato - M. D’Argenzio, Londra 2002; J. K. (catal., Napoli), a cura di E. Cicelyn - M. Codognato, Milano 2006; A. Bellini, J. K. La componente antitragica dell’arte e il mito dell’uomo, in Flash art, 2007, n. 262, pp. 70-73; J. K. La storia e il presente (catal., Cosenza), Pistoia 2007; E. Sassi, Incontro con J. K., in Corriere della Sera, 8 aprile 2011; E. Janulardo, K. L’immagine e l’ideologia, Roma 2015; W. Grimes, J. K., Leader in ‘60s “Poor Art” movement, Dies at 80, in The New York Times, 21 febbraio 2017; P. Larratt-Smith - R. Fuchs, J. K., London-New York 2018; K. (catal.), a cura di G. Celant, Venezia 2019.
Foto: Michelle Coudray/Archivio Kounellis