Vedi Kenya dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
Il Kenya si è affermato nella regione dell’Africa orientale come un paese di grandi potenzialità, che derivano soprattutto dall’aver sempre perseguito una linea politica filoccidentale, l’aver beneficiato di una certa stabilità politica e di un discreto livello d’industrializzazione. Tuttavia, a causa di tensioni interne, corruzione e situazioni critiche alle frontiere con paesi confinanti difficili, queste potenzialità sono rimaste in parte inespresse e hanno frenato l’affermazione della sua leadership nella regione.
Nonostante l’apprezzabile livello di democrazia di cui gode il paese, si è registrata una scarsa alternanza al potere. La storia politica del Kenya conta, dall’anno dell’indipendenza (1963) a oggi, soltanto quattro presidenti. Indiscusso protagonista del primo quindicennio è stato Jomo Kenyatta, icona della lotta contro il dominio coloniale britannico, che ha mantenuto la carica di presidente fino alla sua morte, avvenuta nel 1978. Gli è subentrato Daniel Arap Moi, membro dello stesso partito, Kenya African National Union (Kanu), rimasto al potere per circa quarant’anni. Solo alle elezioni del 2002 il partito d’opposizione Party of National Unity, guidato da Emilio Mwai Kibaki, è riuscito ad avere per la prima volta la meglio e a rimanere al governo fino alle ultime elezioni presidenziali del 4 marzo 2013. Le elezioni del 2007, però, hanno segnato una battuta d’arresto nel processo di consolidamento democratico del paese e sono state fonte di gravi tensioni interne: i sospetti di brogli e manipolazione che hanno accompagnato la vittoria di Kibaki, sono sfociati in scoppi di violenza tra Kikuyu, Luo e altri gruppi etnici, costate più di 1.500 morti e 500.000 sfollati. Kibaki ha così negoziato un accordo con Raila Odinga dell’Orange democratic movement, suo principale rivale nelle elezioni, che ha portato, nell’aprile 2008, alla formazione di un governo di coalizione e all’assegnazione della nuova carica di primo ministro proprio a Odinga. La Corte penale internazionale (Icc) è stata chiamata a intervenire per perseguire i responsabili delle violenze e, il 10 settembre 2013, ha avviato il processo che coinvolge anche gli attuali presidente e vicepresidente, rispettivamente Uhuru Kenyatta e William Ruto.
Le ultime elezioni presidenziali non hanno dato seguito al medesimo teatro di violenza e la chiarezza dei risultati elettorali ha lasciato che la vittoria venisse facilmente attribuita a Kenyatta, figlio del celebre Jomo. Il nuovo presidente è il primo a dover confrontarsi con le riforme apportate dalla nuova Costituzione, approvata nel 2010, la quale mantiene il sistema presidenziale ma prevede la devoluzione di alcuni poteri a livello locale, la creazione di una camera alta del Parlamento, l’introduzione di una Carta dei diritti, l’istituzione di una Corte suprema e l’abolizione della posizione di primo ministro. Il nuovo testo ha previsto anche la creazione di una commissione indipendente per risolvere l’annosa questione delle riforme terriere.
Il Kenya, oltre ad essere tra i paesi più influenti della regione, è anche tra i più ricchi in termini di reddito pro capite, e tra i più attenti ai processi di integrazione regionale, in particolare nell’ambito della Comunità dell’Africa orientale (Eac), che rappresenta il maggior mercato per le esportazioni manifatturiere kenyote, e del Mercato comune per l’Africa orientale e meridionale (Comesa). Nairobi ha inoltre svolto un ruolo importante nei processi di pace dei vicini Sudan e Somalia, da un lato assumendo il ruolo di mediatore tra Juba e Khartoum, dall’altro promuovendo la creazione di un governo di transizione in Somalia, che ha visto la luce appunto a Nairobi nel 2004. La crisi somala rappresenta una delle principali fonti di rischio per la sicurezza kenyota, soprattutto a causa delle attività del movimento islamico radicale al-Shabaab.
Il paese intrattiene buone relazioni politiche ed economiche con gli Stati Uniti, con i principali donatori internazionali e sta intensificando i rapporti con Cina, India e Sudafrica.
La popolazione kenyota è composta da più di 40 gruppi etnici. I Kikuyu rappresentano il gruppo maggioritario (22%), seguiti da numerosi altri gruppi quali i Luhya (14%), i Luo (13%), i Kalnjin (12%) e i Kamba (11%). La divisione etnica si riflette sulla politica e sull’economia (le controversie per i terreni spesso sono legate a conflitti etnici) e le tensioni tra etnie sono piuttosto frequenti e suscettibili di produrre episodi di violenza. Il Kenya ospita, inoltre, più di 560.000 rifugiati, di cui almeno 500.000 dalla Somalia. Gli altri arrivano da Etiopia e Sudan meridionale: il numero è cresciuto in seguito alla carestia che ha colpito il Corno d’Africa nel 2011. L’80% circa dei kenyoti è cristiano, ma vi è una significativa minoranza musulmana che rappresenta circa il 10% della popolazione. Il paese ha riconosciuto ufficialmente i tribunali Kadhi che applicano la sharia per alcuni aspetti, come i matrimoni e le successioni, nelle aree dove la popolazione musulmana è maggioritaria.
Il tasso di crescita della popolazione sta diminuendo (2,7%) a causa di vari fattori tra i quali l’urbanizzazione e la diffusione dell’hiv, la cui incidenza nel 2011 era del 6,2%. Tale fenomeno comporta costi elevati per la sanità nazionale e vede il governo impegnato da anni in politiche di sensibilizzazione e prevenzione che hanno effettivamente ridotto l’incidenza della malattia, che raggiungeva il 14% alla metà degli anni Novanta. Nel 2002 il governo, guidato dalla National rainbow coalition (Narc), ha reso gratuita la scuola primaria, portando il tasso netto di scolarizzazione dal 61% del 2002 all’84% del 2009. Il tasso relativo alla scuola secondaria registra percentuali inferiori, ma è comunque passato dal 35% al 50% nel medesimo periodo. Il tasso di alfabetizzazione degli adulti è dell’87,4%, più elevato rispetto agli altri paesi membri Eac.
La libertà di espressione è generalmente rispettata e i media kenyoti si dimostrano tra i più attivi del continente africano. Si sono registrate però alcune episodiche restrizioni della libertà di stampa, per esempio nel periodo successivo alle elezioni del 2007, durante il quale le autorità imposero un temporaneo divieto di trasmissioni in diretta.
La corruzione, infine, coinvolge tutti i rami dell’amministrazione pubblica e interviene nel rapporto tra pubblico e privato. Il Kenya è 139° su 176 paesi nell’Indice di corruzione percepita di Transparency International del 2013.
Nonostante la crisi economica internazionale e i disordini interni ne abbiano rallentato la progressione (con tassi relativi al biennio 2008- 2009 pari all’1,6% e al 2,6%), l’economia kenyota sembra essere ripartita, mantenendo una crescita intorno al 5% nel triennio 2011-13. Ciononostante, lo sviluppo economico del Kenya è ostacolato dalla dipendenza da diversi beni primari i cui prezzi sono rimasti bassi, e dalla corruzione. Nel 2006, Banca mondiale e Fondo monetario internazionale hanno ritardato l’elargizione di un prestito, in attesa di un provvedimento da parte del governo di Kibaki a proposito di uno scandalo di tangenti pubbliche. Disagi come questi e bassi investimenti infrastrutturali minacciano, nel lungo termine, l’affermazione del Kenya quale più grande economia dell’Africa orientale.
Il settore formale, inoltre, è ridotto e comprende il comparto manifatturiero, quello della lavorazione e dell’esportazione di prodotti di base e quello dei servizi. La maggior parte della popolazione è impiegata nel settore informale e nell’agricoltura di sussistenza. L’agricoltura conta per il 27,1% del pil e fornisce i principali prodotti esportati, quali tè e prodotti ortofrutticoli, seguiti da caffè e pesce. A livello regionale, il Kenya è il paese più industrializzato dell’Africa orientale: è il maggiore esportatore di manufatti nell’ambito dell’Eac, mentre le sue esportazioni verso Stati Uniti e Unione Europea riguardano soprattutto prodotti di base. Il settore dei servizi conta per il 55,5% del pil ed è il principale motore di sviluppo dell’economia nazionale. Una parte rilevante di tale risultato proviene dal turismo: i safari nei parchi naturali e i villaggi di vacanza sulla costa, in particolare sulle spiagge di Mombasa, sono una costante fonte di reddito. Anche il settore delle telecomunicazioni, negli ultimi anni, ha registrato una crescita molto significativa.
L’afflusso di rimesse rappresenta una risorsa fondamentale per l’economia nazionale, mentre l’attrazione di investimenti esteri nel paese è resa difficoltosa da diversi fattori, tra i quali l’inadeguatezza delle infrastrutture e la corruzione.
Il Kenya produce più dell’80% dell’energia che consuma, generata per più del 70% dalla combustione di legname. Importa invece petrolio, che rappresenta il 18,5% del suo consumo totale di energia. Il petrolio viene utilizzato nel settore commerciale, mentre le biomasse sono la fonte primaria delle comunità rurali e delle periferie urbane. Le interruzioni di elettricità sono frequenti, soprattutto per la dipendenza dall’energia idroelettrica a cui ha accesso soltanto una piccola parte della popolazione. Al fine di migliorare le infrastrutture e incentivare lo sviluppo economico, il governo sta finanziando l’ampliamento della fornitura di elettricità nelle zone rurali e in particolare nelle scuole secondarie e nei centri sanitari.
In Kenya la criminalità è molto diffusa e riflette i diversi problemi che interessano il sistema sociale e politico del paese. Tra questi, il principale resta quello della povertà diffusa, ma non meno rilevanti sono anche la larga disponibilità di armi leggere e un apparato di sicurezza non ancora adeguato. A supporto delle capacità difensive del paese agiscono gli Stati Uniti, con i quali è in atto da anni un rapporto di collaborazione reciproca sorto in seguito ai diversi attentati terroristici di matrice islamica che hanno colpito il Kenya - come quello contro il Westgate Mall di Nairobi da parte del gruppo al-Shabaab. Il continuo stato di allerta vigente nel paese è legato all’illegalità dilagante nella vicina Somalia, al gran numero di somali residenti in Kenya, alla proliferazione di armi nella regione e all’aumento dei legami tra al-Shabaab e altre organizzazioni jihadiste mondiali.
Il Kenya spende circa l’1,5% del pil per il settore militare e mantiene un esercito di piùdi 24.000 effettivi. Le missioni di peacekeeping internazionale a cui il paese partecipa sono quelle delle Nazioni Unite in Sudan (Unmis) e in Darfur (Unamid). Ciò evidenzia il forte interesse del paese per la stabilità della propria regione. Il Kenya partecipa inoltre all’operazione Linda Nchi (Proteggere la nazione), assieme agli eserciti etiopico, somalo, francese e con copertura degli Stati Uniti, all’interno del territorio somalo, con l’obiettivo di marginalizzare e sconfiggere le milizie di al-Shabaab.