Vedi Kosovo dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
Il Kosovo è un piccolo paese della regione balcanica, il cui status resta tuttora incerto. Benché sin dal 1999 il paese sia sotto il controllo di una forza internazionale di stabilizzazione, e sebbene il parlamento nazionale abbia adottato una dichiarazione unilaterale di indipendenza nel 2008, ancora oggi Belgrado si rifiuta di riconoscere l’indipendenza di quella che continua a considerare una regione autonoma della Serbia. La questione kosovara rappresenta al tempo stesso l’ultimo capitolo delle guerre balcaniche degli anni Novanta, nonché l’emblema di tutte le contraddizioni latenti del processo di frammentazione dell’ex Iugoslavia.
Diversamente dagli altri paesi ex iugoslavi, il Kosovo non è riuscito a conquistare una rapida indipendenza. Alla repressione del movimento indipendentista da parte di Belgrado ha fatto seguito, nel 1999, un intervento aereo della Nato che ha costretto la Federazione iugoslava ad accettare il ritiro di tutte le sue truppe dalla regione contesa. Al loro posto è subentrata la missione per l’amministrazione provvisoria del Kosovo delle Nazioni Unite (Unmik), sotto l’egida della quale 50.000 soldati Nato (Kosovo Force, Kfor) avrebbero dovuto assicurare stabilità e sicurezza alla regione, in attesa che un accordo di compromesso ne sancisse il nuovo status. Il processo di transizione apertosi allora non è ancora giunto a compimento. Tutt’oggi vige il complesso sistema di amministrazione provvisoria dell’Unmik, che assegna ampi poteri a un rappresentante speciale nominato dalle Nazioni Unite, tra le cui prerogative vi è quella di scegliere i giudici e di porre il veto sulle disposizioni di legge adottate dal governo. Sotto la supervisione del rappresentante speciale si articolano le istituzioni provvisorie di presidenza, governo e assemblea parlamentare. Al termine di quasi un decennio di mediazioni fallite, nel febbraio 2008 il parlamento kosovaro ha deciso di proclamare unilateralmente l’indipendenza dalla Serbia. Alla scontata reazione di Belgrado ha fatto seguito quella della regione settentrionale del Kosovo, a maggioranza serba, che ha proclamato l’istituzione di un parlamento parallelo, consolidando la propria posizione di semi-autonomia da Priština. Nell’aprile dello stesso anno l’assemblea parlamentare del Kosovo ha adottato una nuova Costituzione. Le elezioni anticipate del dicembre 2010, che hanno visto la riconferma del Partito democratico del Kosovo (Partia Demokratike e Kosovës, Pdk) del primo ministro Hashim Thaçi, sono state le prime a essersi tenute in ossequio alla nuova legge elettorale e alle garanzie di rappresentanza delle minoranze previste dalla nuova Costituzione. A fronte della difficile gestione della transizione sotto l’egida delle Nazioni Unite e del rodaggio della missione europea Eulex (European Union Rule of Law Mission) – il cui impegno è stato rinnovato almeno fino al 15 giugno 2016 –, la dichiarazione d’indipendenza ha avuto l’effetto di inasprire le tensioni con Belgrado e di evidenziare le fratture a livello internazionale. Sebbene la Serbia continui ufficialmente a non riconoscere la statualità del Kosovo, le due realtà hanno da tempo avviato un processo di stabilizzazione e di normalizzazione dei rapporti bilaterali, che, sotto la mediazione dell’Unione Europea, ha portato alla firma di una serie di accordi nel 2013 e nel 2015 funzionali per entrambi – seppur con tempi e modalità diverse – ad una progressiva integrazione nello spazio comunitario.
Nonostante l’aumento del numero degli stati che hanno riconosciuto l’indipendenza del Kosovo – al 2014 sono 111 su 193 delle Un (56,9%), tra cui l’86% dei membri della Nato e l’82% dei paesi dell’Eu –, rimane ancora ferma l’opposizione di alcune grandi potenze (Russia, Cina, India, Brasile), così come la netta contrarietà di alcuni stati europei (Spagna, Cipro, Grecia, Slovacchia e Romania), impegnati a contenere le istanze secessioniste dentro i propri confini.
Il Kosovo ancora oggi continua a sopravvivere solo grazie al sostegno della comunità internazionale, che garantisce la sicurezza interna ed esterna, sorreggendo l’economia con ingenti aiuti. Le strutture centrali sono infatti ancora deboli e non riescono a garantire l’adeguato livello di stabilizzazione. Le elezioni politiche anticipate del giugno 2014 – indette a causa di una crisi di governo apertasi per la mancata approvazione di un progetto di legge relativo all’apparato di sicurezza – hanno avviato una lunga fase di stallo istituzionale: l’impasse, alimentata dalle difficoltà di formazione di una nuova coalizione di governo, si è risolta solamente nel mese di dicembre 2014 grazie ad un accordo tra le due principali forze politiche, il Pdk e la Lega democratica del Kosovo (Ldk). L’attuale esecutivo è presieduto da Isa Mustafa (Ldk), mentre Thaçi (Pdk), ora vice premier, ha assunto la guida del ministero degli esteri. La nota ostilità tra i due schieramenti getta ad ogni modo molti interrogativi sulla solidità del nuovo governo.
La popolazione kosovara, stimata in quasi due milioni di persone, è oggi composta da una netta maggioranza albanese (92%) e da numerose minoranze etniche (8%): serbi, bosniaci e gorani, rom, ashkali, egiziani e turchi. Durante i bombardamenti Nato nel 1999, più di 800.000 albanesi abbandonarono il paese; al termine del conflitto e a seguito del ritiro delle forze iugoslave gran parte di loro rientrò in Kosovo, mentre circa 235.000 persone tra serbi e membri delle altre minoranze emigrarono verso la Serbia e altri paesi europei. Ancora oggi il Kosovo ospita circa 17.000 sfollati e circa 50.000 rifugiati, provenienti soprattutto dalla Serbia. I serbi, minoranza nel paese, sono tuttavia maggioranza nelle province a nord del fiume Ibar e sono dislocati in alcune enclave in altre province a prevalenza albanese. L’area settentrionale del paese non riconosce la sovranità del Kosovo e gode di una forte autonomia di fatto.
Proprio i temi delle autonomie, insieme alle rivendicazioni locali, sono stati oggetto degli accordi firmati da Priština e Belgrado il 25 agosto 2015. Oltre a porre le basi per una collaborazione in tema di forniture di energia elettrica, di telecomunicazioni e di libertà di circolazione attraverso il ponte sul fiume Ibar – limite politico e sociale tra le comunità albanesi e serbe – l’intesa ha riguardato l’istituzione un’Associazione/Comunità delle municipalità serbe (composta da dieci comuni a maggioranza etnica serba, per un totale di quasi 100.000 persone), già prevista dall’undicesimo punto dell’accordo dell’aprile 2013. Allo stesso tempo, il nuovo documento, costituito da 22 articoli e suddiviso in sette sezioni, dovrebbe definire i contorni del quadro giuridico entro cui attuare la suddetta associazione, la sua struttura organizzativa, le relazioni tra essa e le autorità centrali kosovare, la sua capacità giuridica, nonché la sua sostentazione e il finanziamento economico. Tuttavia il mancato riconoscimento del Kosovo in sede di Unesco (novembre 2015) e l’insorgere di vibranti proteste sociali contro il dialogo di normalizzazione con la Serbia, fomentate anche dalle opposizioni parlamentari nazionaliste, hanno spinto le autorità locali dapprima a non dare effettività all’accordo e successivamente, attraverso una decisione della Corte costituzionale del Kosovo, a sospendere temporaneamente (fino al 12 gennaio 2016) l’attuazione della stessa intesa con la Serbia.
Oltre l’albanese, la Costituzione riconosce il serbo come lingua ufficiale e prevede alcune norme a tutela delle minoranze etniche, che sotto certi aspetti sono di fatto ancora discriminate. Sul piano religioso la maggioranza albanese è prevalentemente musulmana (solo il 3% degli albanesi è di fede cattolica) e così anche le comunità bosgnacche, gorani e turche; la minoranza serba è prevalentemente cristiano-ortodossa. Sebbene la Costituzione tuteli la libertà religiosa, dal 1999 si sono registrati attacchi rimasti spesso impuniti ai luoghi di culto ortodossi serbi. La Banca mondiale (Wb) stima che la scolarizzazione sia relativamente elevata, con circa nove studenti su dieci iscritti alla scuola primaria e tre su quattro a quella secondaria, anche se la qualità dell’istruzione non è omogenea. Vi sono ampie disparità tra le zone urbane e quelle rurali e in alcune aree i valori tradizionali costituiscono un ostacolo all’istruzione femminile, tanto che il tasso di scolarizzazione femminile nella scuola secondaria risulta del 20% inferiore rispetto a quello maschile.
Corruzione, crimine organizzato e traffici illeciti – endemici in tutto il paese – sono tra i problemi più gravi che il Kosovo si trova ad affrontare. Nonostante la firma dell’Accordo di associazione e stabilizzazione (Asa), siglato dal premier Mustafa con l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Eu, Federica Mogherini (27 ottobre 2015), e sebbene anche il rapporto 2015 della Direzione generale per l’allargamento della Commissione europea registri un complessivo miglioramento della situazione kosovara, Bruxelles ha rimarcato la debolezza delle istituzioni nazionali, la necessità di limitare le influenze politiche su quest’ultime e l’urgenza di combattere corruzione e crimine organizzato. Slegati da questo contesto, ma emersi in maniera sempre più evidenti negli ultimi anni, sono anche i temi legati alle questioni dell’immigrazione clandestina e del jihadismo, che vedono proprio nel Kosovo un hub logistico per tali fenomeni.
Infine, l’inadeguata tutela dei diritti di proprietà ostacola lo sviluppo economico e il consolidamento dello stato di diritto. La libertà di espressione risulta di fatto limitata a causa della mancanza di sicurezza, in particolare riguardo alle minoranze etniche.
L’economia del Kosovo è tra le meno sviluppate in Europa e la sua popolazione tra le più povere. Nel 2015, il pil è cresciuto del 3,2%, mentre il pil pro capite si è attestato intorno ai 2863 dollari, tra i più bassi della regione balcanica. Nonostante i progressi economici registrati dalla fine degli anni Novanta, l’economia kosovara è ancora in larga misura dipendente dall’assistenza tecnica e finanziaria della comunità internazionale e dalle rimesse: queste ultime contano infatti per circa il 17% del pil e provengono prevalentemente da emigrati in Germania e Svizzera.
La produzione industriale non è ancora ripresa a pieno regime e l’agricoltura, che conta per il 14% del pil, è un’attività generalmente di sussistenza e a bassa produttività. Di conseguenza la disoccupazione è elevata (35,1%), soprattutto tra i giovani (60,2%). Consistente è anche la percentuale di popolazione che vive sotto il livello di povertà nazionale (29,7%), che si concentra prevalentemente nelle aree rurali e nelle province settentrionali di Mitrovicë/Kosovska Mitrovica e Ferizaj/Uroševac.
Subito dopo la guerra, il Kosovo importava la quasi totalità dei beni di consumo e delle materie prime. In seguito, con la ricostruzione e la parziale ripresa della produzione, il paese ha importato più macchinari industriali e materie prime e ha cominciato a esportare. I principali prodotti esportati sono i metalli (con relativi derivati) e gli alimentari, mentre i maggiori paesi destinatari sono l’Italia, l’Albania, la Macedonia, la Svizzera e la Germania. L’Eu nel suo complesso è il più importante partner commerciale e il primo investitore straniero. In ambito monetario, non avendo una propria valuta e considerando i rilevanti legami economici con l’Eu, il Kosovo ha adottato l’euro, sebbene nell’area settentrionale continui a circolare anche il dinaro serbo. A ulteriore dimostrazione del sostegno (anche economico) della comunità internazionale, nel giugno 2009 il Kosovo ha fatto il suo ingresso in due tra le maggiori istituzioni finanziarie internazionali: Banca mondiale e Fondo monetario internazionale.
Il settore energetico kosovaro risente di anni di mancanza di investimenti e attualmente non soddisfa il fabbisogno della popolazione, sebbene quando era ancora regione della Serbia fosse un esportatore netto di elettricità. Il paese non possiede rilevanti riserve di gas e petrolio ma dispone di grandi giacimenti di lignite, un minerale assimilabile al carbone che viene usato per la produzione di elettricità. Di conseguenza il paese ha il potenziale per ricominciare a esportare energia, ma deve svilupparne la capacità; la crescita del settore potrebbe avere peraltro un impatto significativo sullo sviluppo economico e sull’occupazione.
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Dopo l’entrata in vigore della nuova Costituzione, nel giugno 2008, il parlamento kosovaro ha approvato la creazione dei ministeri degli esteri, della difesa e delle forze armate, le quali annoverano 2500 unità. In realtà, questi dicasteri rimangono istituzioni senza competenze, in quanto le loro funzioni sono in larga parte esercitate dalle forze internazionali stabilmente presenti nel paese. Se da una parte, a metà 2008, il segretario generale delle Nazioni Unite ha deciso di ridimensionare il contingente civile Unmik, le competenze della missione delle Un sono state trasferite in capo alla missione europea inaugurata lo stesso anno, Eulex, e non all’amministrazione locale. Composta da circa 1500 persone tra personale locale e internazionale, Eulex è subentrata alle Nazioni Unite nei suoi tre ruoli di garanzia della sicurezza interna, miglioramento dell’amministrazione della giustizia e controllo doganale. L’obiettivo finale rimane il trasferimento di tali competenze al governo locale; tuttavia il processo, legato ai progressi dimostrati dal governo kosovaro nelle tre aree di competenza Eulex, procede con estrema lentezza. Ugualmente importante è il ruolo rivestito dalla missione militare Kfor, sotto comando Nato, alla quale partecipano 31 paesi. Le tensioni originate dalla non autosufficienza economica del Kosovo e dai numerosi traffici illegali che transitano per il paese, sommate alle complesse relazioni con la minoranza serba e con Belgrado, rendono ancora necessaria la presenza in pianta stabile di una forza militare. Dopo aver raggiunto un picco di 50.000 soldati, nel 2012 le forze Kfor presenti in Kosovo sono arrivate a contare circa 6000 militari per poi essere successivamente ridotte fino a raggiungere la quota di 4609 unità al novembre 2015. Il ridimensionamento numerico del contingente non muta tuttavia l’obiettivo della missione, che resta quello di costituire un potenziale di deterrenza, in gran parte simbolico, nei confronti di qualunque minaccia di intervento militare estero.
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La questione dello status del Kosovo ha caratterizzato tutto il periodo di amministrazione diretta delle Un e non può considerarsi ancora risolta a quattro anni dalla dichiarazione d’indipendenza e dall’entrata in vigore della Costituzione kosovara. Fin dalla conclusione dell’intervento armato della Nato, nel 1999, emerse chiaramente che i kosovari di etnia albanese avrebbero puntato all’indipendenza, mentre l’ex repubblica federale di Iugoslavia (oggi Serbia) e la minoranza serba avrebbero considerato come unica opzione possibile quella dell’autonomia del Kosovo nell’ambito della sovranità serba. La risoluzione 1244/1999 del Consiglio di sicurezza Un (presa a seguito del conflitto, con l’obiettivo di istituire l’amministrazione internazionale del Kosovo) riaffermava l’obbligo di tutti gli stati membri delle Un di rispettare la sovranità e l’integrità territoriale della Repubblica federale di Iugoslavia. Faceva poi riferimento alla necessità di garantire l’autogoverno del Kosovo, in attesa di un accordo finale sulla questione dello status.
I negoziati intrapresi nel 2006 da Martti Ahtisaari, inviato speciale del segretario generale delle Un per il Kosovo, si arenarono per via delle posizioni ancora diametralmente opposte di Belgrado e Priština. Data la situazione, Ahtisaari raccomandò al Consiglio di sicurezza (Unsc) l’unica opzione a suo avviso possibile: l’indipendenza sotto la supervisione, per un periodo iniziale, della comunità internazionale. Il piano Ahtisaari, tuttavia, non fu adottato dall’Unsc e rimase un documento politico non vincolante. A seguito dell’autoproclamazione d’indipendenza nel febbraio 2008, molti stati si affrettarono a riconoscere il Kosovo, insistendo tuttavia sull’unicità della situazione, che non avrebbe dovuto in alcun modo rappresentare un precedente. La maggior parte degli studiosi di diritto internazionale sostenne che non si trattasse di un caso di esercizio del diritto di autodeterminazione esterna (riconosciuto solo ai popoli sottoposti a dominio coloniale o all’occupazione straniera), né che si potesse considerare un caso di secessione giustificato dall’esercizio del diritto all’autodeterminazione interna (ovvero il diritto dei popoli di scegliere autonomamente i propri governanti attraverso un processo democratico, che in ogni caso dovrebbe essere esercitato nel rispetto dell’integrità territoriale dello stato). Per valutare la soggettività internazionale del Kosovo si deve tener conto che se, per un verso, il riconoscimento da parte di altri stati è un atto meramente politico, privo di valore giuridico, per l’altro la nascita di uno stato è percepita tradizionalmente nel diritto internazionale come un dato di fatto, rispetto al quale non sono applicabili criteri di legalità. I requisiti che consentono di valutare la nascita di una nuova entità statuale sono l’effettività e l’indipendenza: uno stato è destinatario di norme internazionali e come tale può pretendere che queste ultime siano rispettate nei suoi confronti, se esercita effettivamente i propri poteri di governo su una determinata comunità territoriale in modo indipendente rispetto a qualsiasi altro stato. Nel caso del Kosovo non è ancora possibile affermare che questi requisiti siano pienamente soddisfatti. Ciò è evidente se si considera che alcune attività di governo sono ancora esercitate dalle Un, dalla Nato e dall’Unione Europea (Eu), e che la stessa Costituzione del Kosovo, fino al 2012, riconosceva un’ulteriore autorità internazionale (il rappresentante civile internazionale), alla quale era affidata la supervisione del processo di indipendenza. È altresì vero che il governo kosovaro non è in grado di esercitare i propri poteri nelle aree settentrionali della regione. D’altra parte, non si può non tener conto che, nonostante il riconoscimento formale contenuto nella risoluzione Un 1244, dal 1999 la sovranità serba sul Kosovo è stata di fatto sospesa dall’esercizio dei poteri di amministrazione territoriale da parte delle Un. Questa situazione, che sembrava aver prodotto una separazione irreversibile già prima della dichiarazione d’indipendenza, costituisce una peculiarità che distingue il caso kosovaro da altre rivendicazioni secessioniste in altri paesi del mondo.
Nello stesso giorno in cui si è conclusa la campagna aerea della Nato, il 10 giugno 1999, il Consiglio di sicurezza delle Un ha adottato la risoluzione 1244, che ha inaugurato l’amministrazione internazionale del Kosovo. La risoluzione seguiva solo di un giorno gli accordi di pace siglati a Kumanovo, nei quali la Serbia accettava, contestualmente al ritiro delle forze speciali presenti nella provincia, la presenza internazionale delle Un e della Nato. Secondo le prescrizioni contenute nel testo della 1244, la stabilizzazione dell’area è passata attraverso un forte impegno da parte della comunità internazionale, sia sul piano militare sia su quello civile. I compiti di mantenimento della pace e della sicurezza sono stati affidati alla missione Kfor della Nato. La componente civile dell’intervento internazionale è stata affidata, invece, all’Unmik, la missione internazionale delle Un destinata a gestire l’intera sfera amministrativa del Kosovo. L’Unmik è articolata in quattro pilastri, ciascuno dei quali ricade sotto l’autorità del Rappresentante speciale del Segretario generale Un: il primo pilastro, gestito dall’Alto commissariato per i rifugiati (Unhcr), è responsabile degli affari umanitari (Human Affairs) e, dal 2000, anche della giustizia e dell’applicazione della legge (Law Enforcement and Justice). Il secondo pilastro, gestito dalle Un, è responsabile dell’amministrazione civile. Il terzo pilastro, guidato dall’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), è responsabile della democratizzazione e della ricostruzione istituzionale (Democratization and Institution Building). Il quarto pilastro, a guida Eu, è responsabile per la ricostruzione economica. Nel quadro delle indicazioni della risoluzione 1244, l’Unmik ha dato vita a una amministrazione ad interim e neutrale rispetto allo status del Kosovo: da un lato, essa è stata concepita come transitoria e, dall’altro, le Un si sono impegnate a facilitare i negoziati fra Serbia e Kosovo per stabilire se il paese sarebbe dovuto rimanere una provincia autonoma della Serbia oppure diventare uno stato indipendente, ma senza appoggiare l’una o l’altra soluzione.
Tuttavia, nel corso degli anni l’Unmik ha finito per non essere né transitoria, né neutrale. Diversi fattori hanno contribuito a rendere la presenza internazionale indispensabile e prolungata nel tempo: la quasi totale assenza di istituzioni efficaci in grado di amministrare autonomamente il territorio, il ritiro del personale e dei funzionari serbi, la persistenza di forti tensioni etniche, l’incertezza rispetto al futuro status della provincia. Per le stesse ragioni, quanto più la presenza internazionale è diventata tendenzialmente permanente e ha supplito all’intero quadro amministrativo del Kosovo, tanto più ha creato strutture di governo autonome dalla Serbia, molto vicine a un’indipendenza de facto. Nel 2008, la dichiarazione di indipendenza unilaterale da parte kosovara, paradossalmente, ha reso la presenza internazionale ancora più indispensabile. Per un verso, il riconoscimento che la comunità internazionale è disposta ad accordare al Kosovo è un’indipendenza ‘vigilata’, ossia espressamente guidata dalle istituzioni internazionali presenti nel paese. Per un altro, la natura unilaterale della dichiarazione di indipendenza ha acuito le tensioni etniche, richiedendo un maggiore sforzo da parte dell’amministrazione internazionale per creare un quadro politico e istituzionale condiviso.
Nel 2008 la Serbia propose una risoluzione all’Assemblea generale delle Un, affinché quest’ultima richiedesse un parere alla Corte internazionale di giustizia sulla compatibilità con il diritto internazionale della dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo.
Il parere del luglio 2010 della Corte, adottato a maggioranza e non all’unanimità, affermava che tale dichiarazione non viola il diritto internazionale. Tuttavia, non chiarì le condizioni in base alle quali una dichiarazione unilaterale di indipendenza possa dare legittimamente origine a un nuovo stato, né se il Kosovo avesse i requisiti per considerarsi tale. Pertanto, il parere non ha rappresentato una battuta d’arresto per il processo di indipendenza del Kosovo, ma al tempo stesso non ha fatto venir meno la necessità di una soluzione politica della questione.
La Serbia, da parte sua, ha proposto una seconda risoluzione all’Assemblea generale delle Un che mirava a mettere in discussione l’indipendenza del Kosovo ma che, grazie alle pressioni dell’Eu, è stata poi modificata in modo da riconoscere il parere della Corte e aprire a un possibile dialogo tra i due paesi. Tale marcia indietro sembra confermare che la Serbia, desiderosa di aderire all’Eu, potrebbe di fatto riconoscere in futuro lo status del Kosovo, restando intransigente circa la rinuncia della sovranità kosovara sulla parte settentrionale della regione, a maggioranza serba, e il riconoscimento dello status extraterritoriale dei monasteri ortodossi presenti nel territorio kosovaro. La pressione europea è risultata efficace anche per superare le tensioni, e il conseguente stallo, registrate nella seconda metà del 2011 nel raggiungimento e nell’esecuzione di una serie di accordi tecnici tra i due paesi: dalla regolarizzazione del transito di persone al movimento delle merci, passando per il reciproco riconoscimento dei titoli di studio e delle registrazioni catastali.