L'arte bizantina in epoca macedone
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Con la fine della controversia iconoclasta e l’ascesa della dinastia macedone, la città di Costantinopoli e la sua cultura artistica mostrano tutto il loro splendore esercitando un’egemonia sull’intera ecumene bizantina. Si tratta della cosiddetta rinascenza macedone che si manifesta con la scomparsa degli influssi dell’arte provinciale e con il ritorno al gusto classico della cultura greca e latina sia nella la decorazione del tempio giustinianeo di Santa Sofia, sia nella raffinatezza della tradizione della miniatura bizantina.
Intorno alla metà del IX secolo si verificano a Costantinopoli due eventi di straordinaria portata che segneranno l’arte medio-bizantina: la fine della controversia iconoclasta (730-843) e l’ascesa al trono della dinastia macedone inaugurata nell’867 da Basilio I, imperatore dal forte carisma. Gli effetti di questi due avvenimenti si ripercuotono in maniera significativa sulla vita sociale e culturale dell’impero e portano, di fatto, alla codificazione di quello che solitamente si definisce come stile bizantino classico. Le grandi campagne militari di riconquista territoriale (dall’Italia meridionale, alla penisola balcanica, alle regioni caucasiche) restituiscono all’impero un’estensione quasi pari a quella dell’epoca giustinianea; e, al contempo, sono create strutture burocratiche ed amministrative capillari su tutto il territorio, alle quali corrisponde un forte potere concentrato nelle mani dell’imperatore, che diviene quasi riflesso terreno dell’onnipotenza divina.
L’egemonia di Costantinopoli quale centro artistico è assoluta, pur se l’onda lunga della grande stagione macedone avrebbe investito l’intera ecumene bizantina. Proprio nella capitale si delinea il nuovo linguaggio formale macedone. Da una parte scompaiono del tutto gli influssi dell’arte provinciale; dall’altra, si fa strada un palese ritorno al classico, ad un rinnovato ellenismo: equilibrato nelle composizioni, pacato nelle scelte cromatiche, modulato su raffinati passaggi di colore, giocato su mezzitoni sapientemente accostati, e permeato di un delicato sensualismo. Anche nella tecnica pittorica, dunque, l’arte macedone si rifà al mondo ellenistico. La recuperata stabilità sociale ed economica agevola presto la ripresa sia dell’attività edilizia, sia della produzione artistica in senso stretto. Tra il IX e l’XI secolo, tanto nella capitale quanto nelle altre aree – in modo particolare in Grecia – il fermento artistico produce una serie notevole di nuove fondazioni, in primo luogo monastiche, e, soprattutto, avvia la stagione aurea della pittura e della miniatura bizantine.
Il percorso di rinnovamento formale coinvolge tutta l’arte; nella sua elaborazione il richiamo all’antico svolge un ruolo determinante, sia con un’appassionata ricerca di classici della cultura greca e latina, sia con il profilarsi di uno stile che guarda all’espressionismo ellenistico come principio ispiratore. Quella che si definisce oggi come rinascenza macedone si avvia sin dalla nuova decorazione del tempio giustinianeo di Santa Sofia, immediatamente dopo la riconsacrazione di Costantinopoli – e di tutta la cultura figurativa bizantina – al culto delle immagini, evento suggellato significativamente dalla solenne processione dell’11 marzo dell’843, guidata dall’imperatrice Teodora.
Sono due le immagini-manifesto di questo nuovo spirito. La prima è la Theotokos nel catino absidale, alla cui base correva anticamente il celebre distico in lettere dorate scritto dal patriarca Fozio (“le immagini che gli impostori avevano abbattuto, sono state ripristinate dai pii imperatori”). L’altra è la decorazione della lunetta sulla porta che introduce al vestibolo sud, ove vi sono raffigurati una Madonna in trono con Bambino tra Costantino e Giustiniano offerenti rispettivamente il modello della città e quello della chiesa. Nel mosaico del catino absidale la Vergine è rappresentata in trono col Bambino, affiancata dall’arcangelo Gabriele vestito col loros imperiale nella volta del bema: il suo elevato valore simbolico rimane indiscutibile. La datazione si fissa intorno all’867, sebbene da qualcuno messa inverosimilmente in dubbio. Il morbido panneggio del manto blu intenso della Vergine e l’incarnato delicato fondono magistralmente la tradizione ellenista con una forte ricerca espressiva. Probabilmente coeve, ma diverse stilisticamente dal mosaico absidale sono le figure di tre vescovi, degli originari quattordici, che sopravvivono sui timpani della navata e che evidenziano, invece, un trattamento più spigoloso del panneggio e una maggiore sommarietà espressiva. Alla stessa campagna decorativa appartiene anche la decorazione della lunetta del portale centrale in cui un imperatore, generalmente individuato con Leone VI il Saggio, è raffigurato prostrato ai piedi di un Cristo in trono affiancato da due clipei con le effigi della Vergine e di Gabriele (soluzione che condensa il tema dell’Annunciazione con quello della Deesis), dal volto estremamente severo. Completano il quadro della decorazione di Santa Sofia di epoca macedone altri due pannelli isolati: quello del fratello di Leone il Saggio, Alessandro, raffigurato in abiti imperiali, astante, nella galleria nord; il gruppo, nella galleria sud, costituito dal Cristo in trono (fortemente restaurato ab antiquo in verità), affiancato da Zoe, Costantino Monomaco, entrambi offerenti. In particolare quest’ultimo pannello, datato entro il 1050, che si disingue per una accentuata caratterizzazione dei volti e, contemporaneamente, da un forte appiattimento dei volumi delle membra, sembra anticipare un nuovo orientamento stilistico, in cui il neoclassicismo iniziale pare cedere il passo ad una profonda spiritualizzazione delle forme.
Come accade per l’architettura, la rinnovata cultura figurativa macedone non s’identifica con la produzione della sola capitale. Dagli affreschi delle chiese rupestri cappadoci, tra cui vale la pena ricordare la cosiddetta “chiesa nuova” di Tokal Kilise, decorata per volontà dell’imperatore Niceforo II Foca, ritratto con Teofano in una nicchia; al ciclo cristologico musivo in parte conservatosi nei monasteri di Hosios Loukas (prima metà dell’XI sec.) – che peraltro custodisce pure un prezioso lacerto di decorazione murale più antica, un monumentale Giosuè in armi della seconda metà del X secolo – di Nea Moni (tra il quinto e il sesto decennio dell’XI sec.) e di Dafni (fine XI sec.), passando per il grande ciclo musivo della Santa Sofia a Kiev (ante 1046); a tutte le latitudini dunque si può seguire lo sviluppo dell’arte macedone.
Il termine di rinascenza macedone rimane tuttavia legato con maggiore forza alla grande tradizione della miniatura bizantina. Il manoscritto più antico è senz’altro la raccolta delle Omelie di Gregorio Nazianzeno (Parigi, Bibliothèque Nationale, ms Gr. 510), eseguito per Basilio I tra l’880 e l’883: grandi miniature a piena pagina inquadrate da eleganti cornici, dispiegano un’impostazione compositiva chiara e spaziosa in cui le figure si muovono con cadenze molli ma leggere e allo stesso tempo, incarnando al meglio lo spirito più aulico della miniatura della rinascenza. Nonostante la pregevole qualità della raccolta parigina, il manoscritto gr. 510 non sembra aver avuto un grande influsso al di fuori degli atelier costantinopolitani. Allo stesso ambiente della capitale si lega, infatti, anche il noto Salterio Chludov (Mosca, Museo Storico Statale, cod. 129): le grandi miniature a margine del testo in onciale condividono lo stesso linguaggio formale del codice parigino, e al folio 67r si recupera peraltro il manifesto della restaurazione del culto delle immagini.
Altrettanto celebre è il Rotolo di Giosuè (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 431), prodotto costantinopolitano anch’esso della prima metà del X sec., in cui la tavolozza cromatica ridotta – conseguenza di un lavoro incompiuto – condensa magistralmente, per lo stile adottato, per l’iconografia classicheggiante e per la scelta stessa della forma del rotolo, i principi cardine dell’arte bizantina di epoca macedone.
In linea col gusto classicista, l’arte della corte macedone recupera anche l’antica tecnica dell’intaglio eburneo, con la produzione di numerosi manufatti di varie dimensioni, sia a carattere sacro, sia di tema profano. A partire dal tardo IX e soprattutto nel X e XI secolo, la produzione di icone di piccolo formato, dittici, trittici e oggetti liturgici raggiunge standard quantitativi e qualitativi impressionanti. Il soggetto può essere sia di tipo iconico, ma anche narrativo, come nel caso del trittico del Louvre con scene della vita di Cristo. Il pannello centrale in cui è ritratta una Natività sotto un baldacchino è chiuso da due valve, con una decorazione a registri sovrapposti, ed episodi della vita pubblica di Cristo; l’intaglio raffinato delle figure e una razionale concezione spaziale lo qualificano come un’opera realizzata sicuramente nella capitale. Una qualità altrattanto alta e una spiccata vocazione secolare e pagana caratterizzano, inoltre, un gran numero di manufatti eburnei. Tra i più noti si segnala la tavoletta (risalente al 945-949 ca.) raffigurante l’incoronazione di Romano II ed Eudocia (929-956), facente parte del cosiddetto Gruppo di Romanos: si tratta di un oggetto importante non solo per le sue qualità estrinseche, ma anche per l’eco che avrà nella diffusione dell’iconografia imperiale a Bisanzio come in Occidente. A orizzonti iconografici squisitamente pagani, in cui si riconoscono i prototipi greco-romani, rimanda invece il bel cofanetto di Veroli (oggi al Victoria and Albert Museum), un oggetto di finissima manifattura costantinopolitana della seconda metà del X secolo (forse della stessa mano del trittico del Louvre): scene dionisiache di banchetti, musicanti e amoreggiamenti popolano le sei placchette di cui esso si compone, immagini che si potrebbero interpretare, sul piano iconologico, come vere e proprie invettive figurative contro le lascivie di taluni imperatori.