La Chiesa cattolica è sempre stata un attore geopolitico di peso. È giocando sullo scontro tra le grandi potenze dell’8° secolo – bizantini, arabi, longobardi e franchi – che è riuscita a ritagliarsi un suo spazio territoriale e ad assumere la leadership spirituale dell’Europa latina.
Oggi la Chiesa di Roma è la sola potenza religiosa organizzata presente su tutti i continenti, rispettata e ascoltata in (quasi) tutte le capitali, e attiva in molti organismi internazionali. È la più antica di tutte le istituzioni, ma anche la più estesa, la più radicata, la più strutturata e la più centralizzata. In un’epoca come la nostra, segnata da un ruolo crescente delle religioni sulla vita pubblica, queste caratteristiche ne fanno non solo l’organizzazione religiosa più potente al mondo, ma una vera e propria potenza in sé, capace di esercitare un’influenza sensibile sulla politica internazionale.
Nel passato, questa influenza era essenzialmente diplomatica. Ma, amputata delle ricche regioni dell’Europa centrale e settentrionale all’epoca della Riforma, la Chiesa conobbe un progressivo alleggerimento del suo peso politico, fino a essere anche formalmente subordinata ai nascenti stati-nazione col Trattato di Vestfalia del 1648. Il punto più basso fu toccato dopo la conquista italiana di Roma, nel 1870, quando gli appelli del papa alle potenze cattoliche – Austria, Spagna e Francia – contro il nuovo regno rimasero inascoltati. Alla vigilia della Grande guerra, «il Vaticano sembrava destinato a diventare una quantité négligeable negli affari mondiali» (Stehlin 1994, p. 75). Di fatto, il messaggio alle potenze belligeranti dell’agosto 1917 fu accolto con ostilità da entrambi gli schieramenti.
Eppure, il ritrovato ruolo della Chiesa cattolica negli affari politici degli stati risale proprio a quel conflitto. Più che l’abilità diplomatica, giocò allora a suo favore il lungo accumulo di esperienza politica, capace di combinare l’intransigente neutralismo della Chiesa universale con l’intensa partecipazione allo sforzo bellico delle singole chiese locali. L’impegno morale e materiale dei cattolici, a volte decisivo, fu ricompensato con la fine dell’ostracismo nei loro confronti in Italia, in Germania, in Francia e, di lì a poco, negli Stati Uniti.
Nel corso del Novecento, il Vaticano non ha mai dismesso la sua vocazione a trattare direttamente con i governi: dalla stagione concordataria, incarnata dal segretario di stato di Pio XI, Eugenio Pacelli, fino alla cosiddetta Ostpolitik di Agostino Casaroli, promossa da Giovanni XXIII e da Paolo VI, volta a garantire spazi di visibilità e di legalità alla Chiesa nei paesi dell’Europa orientale durante la Guerra fredda.
Ma la Chiesa è tornata ad essere una potenza tra le grandi potenze quando ha fatto leva sulla sua lunga esperienza politica: sulla sua capacità, cioè, di individuare talune grandi tendenze di fondo della società, anticipandole, rappresentandole pubblicamente e dando ad esse un afflato spirituale. È il caso del processo di unificazione europeo e della crisi demografica che attanaglia le vecchie potenze industrializzate.
Nel 1920, Benedetto XV rispondeva al massacro appena concluso rilanciando il mito dell’‘Europa cristiana’ medievale, che «sotto la guida e l’auspicio della Chiesa, mentre conservò a ciascuna nazione la propria caratteristica, culminò in una compatta unità, fautrice di prosperità e di grandezza» (Benedetto XV 1920, § 11). Le potenze europee giunsero a un simile approdo solo dopo l’esperienza devastante della Seconda guerra mondiale e dovettero ricorrere, per tentare di tradurlo in pratica, agli uomini e alle idee già rodate dalla Chiesa di Roma.
Il caso della crisi demografica è forse ancora più significativo: la possibilità di sopravvivenza di continenti come l’Europa, e di grandi paesi come la Russia o il Giappone, si gioca anche su questo fronte. Ed è su questo fronte che la Chiesa conduce una battaglia natalista intransigente almeno dalla seconda metà degli anni Sessanta, dapprima isolata e derisa, oggi imitata e seguita da quasi tutti i paesi interessati.
Queste battaglie controcorrente hanno risollevato la Chiesa dalla crisi che la prostrava fin dall’inizio dei grandi processi di secolarizzazione. Tra la fine del 20° e l’inizio del 21° secolo, l’apostolato dei laici ha conosciuto una crescita vertiginosa, soprattutto nel mondo occidentale; i diaconi permanenti e i catechisti sono raddoppiati, i missionari laici si sono moltiplicati per cento, e la ‘crisi delle vocazioni’ appartiene ormai al passato.
Rinvigoritasi anche e soprattutto in autorevolezza, la Chiesa può affrontare la sfida del presente e del futuro: offrire una solida sponda alla ricerca, a volte affannosa, di nuove identità politiche, tipica della nostra era post-vestfaliana, di crisi e di disordine internazionale. L’indebolimento degli stati nazionali e delle loro strutture di protezione sociale, così come l’annebbiamento delle vecchie ideologie, hanno aperto un varco in cui le religioni tradizionali si stanno insinuando.
La Chiesa rivendica apertamente il ritorno della religione come criterio discriminante della vita pubblica e, su questo fronte, può dar voce ad aneliti similari espressi da altri responsabili religiosi, cristiani ma anche musulmani, indù ed ebrei. È questo il nocciolo della ‘alleanza di civiltà’ promossa da Giovanni Paolo II e dal suo successore Benedetto XVI, e il prisma attraverso cui guardare l’evoluzione futura della Chiesa cattolica come grande potenza politica mondiale.