La storiografia del Novecento
È probabile che alcune qualità indispensabili per scrivere buoni libri di storia – indipendenza, acutezza, nitidezza di visione – siano felicemente indipendenti da condizioni storiche. Il tentativo di tracciare un profilo storico della storiografia nel Novecento deve fare i conti con questa difficoltà. Come connettere tra loro vicende storiche – innumerevoli, multiformi, magmatiche – e sfuggenti qualità fuori del tempo? Nondimeno, le opere storiche che nascono da quelle ineffabili virtù individuali – e l’immenso numero delle altre minori – vivono poi tra le persone, sono oggetti sociali: libri, articoli, riviste, collane, convegni, istituti, scuole, tradizioni. E se ne possono disegnare almeno le condizioni di esistenza e le linee evolutive.
In effetti, provando a immaginare il paesaggio formato dalle principali «imprese» storiografiche del Novecento alcune linee diventano visibili. Innanzi tutto, il Novecento della storiografia non coincide con il sec. 20°: inizia almeno tre decenni prima e non è ancora finito nel 2010. Non ci sono novità rivoluzionarie o cesure radicali che manifestino l’inizio di un nuovo periodo delle pratiche storiografiche (nonostante la globalizzazione, internet e i vari crolli di imperi e di torri). Nuova, invece, era la configurazione che si formò alla fine dell’eroico, pionieristico «secolo della storia», nell’ultimo quarto dell’Ottocento. Emancipata da letteratura, filosofia e storia sacra, fortificata rispetto agli eccessi romantici, ispirata allo stile delle scienze naturali, la storiografia si avviò a sviluppare gli elementi principali dell’attrezzatura concettuale e materiale che fa di essa, ancora oggi, una disciplina «accademica»: strumenti, metodi, istituzioni, pratiche, modi di circolazione del sapere, forme di sociabilità, teorie.
Nel lungo arco temporale così definito – segnato, dopo una fase che arriva al 1914, dalla crisi della civiltà europea e dall’impatto delle due guerre mondiali sugli studi, mentre dal 1945 si apre una fase di moltiplicazione, internazionalizzazione e globalizzazione delle ricerche, con una accelerazione dalla fine degli anni Settanta – la storiografia del Novecento si è modificata, conservando però una sostanziale continuità «stilistica». Per fare qualche esempio ovvio: i libri di storia si identificano ancora per la presenza delle note (A. Grafton, The footnote, 1997); il modello della Cambridge modern history (1902-11) – la raccolta di saggi su un argomento affidati a singoli specialisti – è ancora adottato per la Storia d’Europa Einaudi (1993-96); le riviste di storia pubblicano articoli, documenti, recensioni come i primi periodici specializzati («Historische Zeitschrift», 1859; «Revue historique», 1876; «Rivista storica italiana», 1884; «English historical review», 1886; «American historical review», 1895); la circolazione dei risultati delle ricerche è ancora affidata a convegni (K.D. Erdmann, Die Ökumene der Historiker. Geschichte der Internationalen Historikerkongresse und des Comité International des Sciences Historiques, 1987), corrispondenze erudite, ormai elettroniche; libri e articoli sono segnalati in bibliografie generali e speciali, che escludono lavori giornalistici e romanzi storici, e che si presentano come i Jahresberichte der Geschichtswissenschaft (1880-1916) o la International bibliography of historical sciences (dal 1930, ancora in vita). Tale continuità stilistica ha dato alla storiografia una forma internazionale riconoscibile, l’ha resa un prodotto occidentale standardizzato, una specie di tradizione o koinè, che si esprime secondo moduli invariabili nelle più varie lingue, comprese le orientali (ma l’inglese assume rilievo dominante e in arabo compaiono quasi soltanto lavori sulla cultura islamica).
Profonde trasformazioni, dunque, si sono verificate rispetto alla situazione di partenza di fine Ottocento. Innanzi tutto, la moltiplicazione di coloro che appartengono alla «corporazione» storica: in Italia si contavano in decine, oggi in migliaia. La «professione» storica si costituisce per estensione universale di un modello tedesco di studioso, proprio alla fine dell’Ottocento. Scrivono di storia non più i membri di sociétés savantes o «deputazioni di storia patria», ma i professori universitari di storia, ricercatori più che insegnanti – che danno il meglio di sé nel «seminario», pratica anch’essa tedesca – aggregati per discipline. Gli «storici di mestiere» scrivono per i sempre più numerosi colleghi; sempre meno per un pubblico generale (la quota di mercato dei libri di storia è stimabile allo 0,5%). Ma pubblicano moltissimo: nel mondo, le riviste accademiche di storia – circa 150 nel 1900 – oggi sono oltre 5000.
Certo, la profondità dei cambiamenti intervenuti nel lungo Novecento storiografico si misurerebbe meglio sulla qualità del lavoro compiuto: i temi trattati, le scoperte, i risultati concreti. Ma un conto è discutere lavoro e risultati di una singola ricerca – per es. la più famosa, La Méditerranée et le monde méditérranéen à l’époque de Philippe II di F. Braudel (1949): gli archivi esaminati in giro per il Mediterraneo, la scelta dell’ambiente naturale come «protagonista», l’intuizione delle diverse temporalità che struttura il ragionamento, la novità rispetto ai lavori precedenti. Tutt’altro conto è discutere lavoro e risultati delle opere e delle imprese che formano la «storiografia del Novecento»: si va per approssimazioni, tendenziose e contraddittorie. Si assumono punti di vista diversi. Si è costretti a utilizzare i termini delle «discussioni sulla storia», per dare un ordine a ricerche condotte nella piena indifferenza per quelle «teorie» e le loro «classificazioni».
In termini molto generali, il presupposto indiscusso – almeno fino agli anni Trenta – è che si fa storia di un «centro», e che si deve escludere dalla ricerca la «periferia». Il centro fino alla grande guerra è la storia degli Stati nazionali, la periferia è la storia regionale e locale, quest’ultima poi emarginata, dopo aver contribuito alla conoscenza della storia nazionale. Nello stesso tempo la storia «universale» s’incentra sull’Occidente (gli Stati europei e le loro colonie). Nella periferia sono relegati i popoli non civilizzati (non europei). La stessa dinamica si riproduce anche all’interno della storia delle singole nazioni. All’inizio, negli ultimi decenni dell’Ottocento, centrale è la storia politica, militare, diplomatica; periferica, per es., la Kulturgeschichte di K. Lamprecht (Deutsche Geschichte, 1891-1904). Ed esiste anche un «centro» del metodo storico, all’inizio del lungo Novecento storiografico: la «scienza tedesca», egemone fino al 1914, soppiantata poi da quella francese – fino agli anni Sessanta – e infine dalla storiografia nordamericana.
Nel periodo tra le due guerre le gerarchie s’incrinano einiziano a dissolversi. Il metodo storico tedesco è attaccato nella sua pretesa di scientificità: non basta più aver emarginato letteratura e filosofia, si vorrebbe che la storia-scienza confluisse tra le scienze sociali (magari per dominarle). Un modello alternativo propone lo storicismo, che non accetta la rimozione dal metodo storico dei problemi posti da letteratura e filosofia («La critica», rivista diretta da B. Croce, 1903-1951; E. Auerbach, Mimesis, 1947). La storia politica di individui perde la posizione centrale, conquistata nel secondo dopoguerra dalla storia economica e sociale di soggetti collettivi (Histoire économique et sociale de la France, a cura di F. Braudel, C.E. Labrousse, 1977-82; P. Bairoch, Victoires et déboires: histoire économique et sociale du monde du XVIe siècle à nos jours, 1997). Nelle pagine delle «Annales d’histoire économique et sociale» (rivista fondata nel 1929 e diretta da M. Bloch e L. Febvre) si leggono articoli di storia rurale e stradale, di storia monetaria e dei prezzi, della popolazione e colonizzazione, di storia delle industrie, di archeologia agraria, di storia dei mestieri, delle case, della vita materiale, delle tecniche, del lavoro, dei trasporti, di storia dell’alimentazione, delle famiglie, dei nomi di persona, ma anche di storia del tempo presente (per es. il nazismo e la crisi economica mondiale). Il mainstream lascia alla periferia la storia diplomatico-militare, quella del diritto, delle istituzioni, delle idee. Tra le due guerre inizia anche a tramontare l’idea di una centralità indiscussa dell’Occidente europeo (la «civiltà»), idea che scompare quasi definitivamente, dopo la decolonizzazione, alla fine degli anni Settanta (E.W. Said, Orientalism, 1978; Subaltern studies, a cura di R. Guha, 1982-2004), trascinando con sé anche la storia come sicuro dominio dei «fatti».
L’unico possibile criterio ordinatore del lavoro storiografico più recente è proprio la perdita di un qualsiasi centro (e la conseguente scomparsa dei territori «periferici»). Le innumerevoli opere concrete della storiografia si collocano su una serie di mappe assai più dettagliate di quella adottata per tracciare i grandi cambiamenti di cui si è detto: ogni opera è alle prese con le sue indagini e le sue fonti, sempre più numerose e varie, anche orali e visive. Tali mappe si potrebbero costruire partendo da un repertorio dei temi. Dal secondo dopoguerra alla fine degli anni Settanta, oltre al prestigio delle ricerche economico-sociali, prevale l’interesse, come scrisse A. Momigliano nel 1981, per i gruppi subalterni e oppressi delle società avanzate e la loro storia culturale («donne, bambini, schiavi, uomini di colore, o più semplicemente eretici, contadini, operai»). Altri temi crescono negli ultimi trent’anni: scambi, interrelazioni, intrecci tra aree e civiltà diverse; forme dell’esperienza religiosa, ortodosse ed eretiche; relazioni tra i sessi come costruzione sociale; circolazione del sapere, alfabetizzazione, pratiche di lettura; dimensioni culturali e sociali della storia politica delle società complesse; storia urbana; rivoluzioni, totalitarismi (con impronta revisionistica) e ora imperi; aspetti ideologici e simbolici della costruzione delle unità nazionali (Lieux de mémoire, a cura di P. Nora, 1984-92); nella storia sociale, preferenza a networks, parentele, clientele; in quella economica, ma anche culturale e artistica, interesse prevalente per il consumo, non per la produzione. Sul piano dei metodi delle imprese collettive di ricerca, si registra l’estensione al di là dei confini originari della prosopografia e dell’archeologia. Resiste la tradizionale periodizzazione incentrata sulle vicende dell’Occidente europeo, ma emergono come periodi autonomi il tardoantico e la early modern history, e si dissolve il Medioevo come contenitore unitario.
Alcuni sviluppi extradisciplinari appaiono però determinanti. Fino alla fine degli anni Cinquanta l’atmosfera culturale europea – in cui sono ancora vigenti marxismo e storicismo – non è del tutto sfavorevole agli studi storici, benché sia già molto diffusa una visione «kafkiana» della sostanziale incomprensibilità delle azioni umane.
Poi una serie di fenomeni culturali, tra loro concatenati, ostili alla storia come progetto di conoscenza «tradizionale», crea un clima di sfiducia sempre più cupa nelle possibilità della disciplina. Il lavoro di indagine storiografica continua nella più assoluta indifferenza per la circostante situazione, apparentemente disperata. Così i teoremi strutturalisti non impediscono a M. Foucault di scrivere − attraverso «capitoli» sulla follia, la clinica, il carcere e la sessualità − una storia originale e profonda dei sistemi di pensiero in Occidente (1961-84). E la critica radicale della ragione illuminista, che anima le correnti postmoderne del Linguistic turn (dagli anni Ottanta in poi, con recentissimi segnali di esaurimento), non impedisce a F. Venturi di comporre il suo monumento critico al Settecento riformatore (1969-1900). Certo la «svolta linguistica» postmoderna è un po’ l’aria che si respira dopo l’uscita di scena dell’idealismo liberale, l’eclisse del marxismo e la sepoltura della storia quantitativa.Si dichiara sciolta l’alleanza della storia con le scienze sociali (ritorno di letteratura e filosofia), si mette in discussione l’articolazione del reale in «materiale» e «immateriale», si dubita della distinzione stessa tra reale e immaginario (a favore del secondo) e celebrando le «rappresentazioni» e la «memoria» delle cose. Un tournant critique, una «svolta critica» (Les formes de l’expérience. Une autre histoire sociale, a cura di B. Lepetit, 1995), vorrebbe lanciare una controffensiva, basata sul ritorno, come oggetto di storia, dell’azione responsabile, indagata nelle complessità dello «spazio di esperienza» degli attori, nelle sue dimensioni culturali e politiche (in questo gioca un ruolo la microstoria di C. Ginzburg e G. Levi). Nonostante le nutrite schiere di storiche e storici «professionisti», pronti a raccogliere la sfida − spesso disorganizzati, ma talora inquadrati in solide istituzioni di ricerca,come il Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, dal 1952, il Max Planck Institut für Geschichte, dal 1956, o l’Institut d’histoire du temps présent, dal 1978 − la «crisi della storia» è qualcosa di più di un’invenzione dei critici letterari. L’offerta di lavori storici supera la domanda e del resto l’attività stessa d’indagare sul passato ha sempre presentato notevoli difficoltà, tanto che «se non fosse che la storiografia esiste, si potrebbe quasi dire che si tratta di una missione impossibile» (S. Kracauer, History: the last things before the last, 1969). Non è detto, però, che questo clima di scetticismo diffuso nei confronti della storiografia non finisca per provocare ricerche nuove, pratiche nuove, nuovi stili.
si vedano anche e La storiografia tra passato e futuro