Abstract
Viene esaminata la normativa del testo unico maternità-paternità con riferimento al lavoro subordinato, tenendo conto della sua evoluzione in termini di autonomia di scelta da parte della lavoratrice e del coinvolgimento dei padri.
La normativa sulla protezione delle lavoratrici madri ha radici storiche profonde. Costituisce uno dei primi interventi della legislazione sociale nazionale, da cui deriva l’odierno diritto del lavoro. È stata il paravento dietro cui si celava l’allontanamento delle donne dal mercato del lavoro durante il fascismo, che ne aveva fatto l’emblema della più avanzata protezione rispetto agli altri Paesi europei, stereotipo da cui fatichiamo a separarci. Ha assunto rango ordinamentale con l’inserimento nella Carta costituzionale, sia pure accompagnata dal suggello dell’essenzialità della funzione famigliare della donna, compromesso storico dei padri fondatori (le madri, non a caso, erano molto scarse), solo apparentemente superato.
Il principale e tradizionale asse normativo riguarda le madri lavoratrici subordinate. L’ultimo aggiornamento che ha apportato miglioramenti in linea di continuità con la normativa pregressa è costituito dalla l. 30.12.1971, n. 1204, confluita nel testo unico maternità – paternità nel 2001 (d.lgs. 26.3.2001, n. 151). Le linee principali sulle quali si sviluppava la disciplina riguardavano la sola tutela della maternità negli aspetti di: tutela fisica, con l’obiettivo di preservare l’integrità della salute della donna e del figlio; tutela giuridica, compresa quella contro i licenziamenti; tutela economica, mediante la garanzia di un (adeguato) trattamento durante i periodi di assenza dal lavoro.
La tutela economica è stata poi estesa: alle lavoratrici autonome (l. 29.12.1987, n. 546), alle libere professioniste (l. 11.12.1990, n. 379), alle collaboratrici coordinate e continuative (nella l. 27.12.1997, n. 449 recante misure di stabilizzazione della finanza pubblica) e alle lavoratrici atipiche e discontinue, riconoscendo l’assegno di maternità in connessione con la fiscalizzazione parziale degli oneri sociali di maternità.
Nell’analisi che segue ci occuperemo solo di lavoro subordinato e la disciplina verrà presentata alla luce della sua evoluzione in termini di autonomia di scelta da parte della lavoratrice e del coinvolgimento dei padri.
Preliminarmente va prestata attenzione ad alcune questioni generali. Il t.u., infatti, nell’inglobare e coordinare l’intera disciplina previgente ha realizzato anche una operazione di ripulitura terminologica. Erano diventati clamorosamente imprecisi i termini rinvenibili nella disciplina a seguito dell’attribuzione di diritti di paternità e non solo di maternità; dell’emergere della nozione di lavoro di cura per periodi temporali relativamente lunghi, ben oltre il puerperio; del riconoscimento di tutela anche alle filiazioni giuridiche e non solo alla nascita; del superamento della stagione degli obblighi uniformi mediante una maggiore diversificazione delle scelte esercitate dai genitori.
Da qui la necessità, nel t.u., di nominare il congedo di paternità (Congedi di maternità e di paternità [dir. lav.]) e di superare la nozione di astensione obbligatoria, ormai obsoleta, dato che il suo inizio è variabile e dipende dall’esercizio di una opzione della lavoratrice, opzione a sua volta sottoposta alla valutazione del suo stato di salute; e dato che ne fruiscono i padri e i genitori adottivi e affidatari, senza che sorga nei loro confronti alcun obbligo di assenza dal lavoro. In altri termini, e fatti salvi i divieti di adibizione al lavoro che riguardano esclusivamente la donna, siamo in presenza del passaggio dalla stagione degli obblighi a quella dei diritti e delle opportunità. Eppure, siamo ancora lontani dall’aver prodotto un assestamento. Persiste il richiamo alla terminologia precedente, in particolare per quanto riguarda il congedo di maternità, ancora nominato come astensione obbligatoria (da ultimo nella l. 28.12.2015, n. 208 – legge di stabilità per il 2016), e il congedo di paternità, purtroppo confuso con il congedo parentale del padre. Inoltre, una parte del congedo di paternità è qualificato proprio come obbligo e non come diritto.
Si ricordi, infine, che il t.u. è stato oggetto di una serie di modifiche successive (nel 2003, nel 2010, nel 2011, nel 2012 e nel 2015), ma è rimasto invariato quanto a sede, struttura, contenuti.
Alla tutela fisica, intesa come salute e sicurezza della donna, ma anche del figlio, il t.u. dedica un intero Capo (il secondo).
Presenta particolare interesse l’individuazione del termine iniziale della protezione rafforzata. Il t.u. precisa che la tutela decorre dal momento in cui la lavoratrice ha «informato il datore di lavoro del proprio stato» (art. 6), tranne nel caso in cui la lavoratrice sia occupata in attività che comportino esposizione a radiazioni ionizzanti, per il quale vige l’obbligo di comunicare immediatamente al datore di lavoro la gravidanza, una volta accertata. Non è effettuata, quindi, una precisa determinazione, lasciata alla prudenziale valutazione della madre.
Questa scelta è conforme alle indicazioni provenienti dalla Commissione europea e, in particolare alle sue Linee direttrici, in cui si precisa che «la gravidanza non è una malattia ma un aspetto della vita quotidiana» e che la valutazione del rischio va condotta con riferimento ai pericoli (agenti fisici, chimici e biologici), alla loro portata (quantitativa e qualitativa) e alle categorie di lavoratrici.
Nel documento sono segnalate numerose difficoltà interconnesse. Se si considera che nel periodo iniziale della gravidanza nemmeno la lavoratrice può essere «consapevole del proprio stato», che in questo periodo la lavoratrice potrebbe comunque esitare a comunicarlo, anche per essere certa del buon andamento della gravidanza stessa, e che il rischio è maggiore nella prima fase della gravidanza, la tutela particolare, per essere efficace, dovrebbe riguardare tutte le lavoratrici durante il periodo potenzialmente fertile, scelta ovviamente inaccettabile, pena l’espulsione delle donne dal mercato del lavoro professionale. Possono bastare queste notazioni per comprendere la delicatezza delle questioni sottese, che non riguardano solo gli aspetti tecnici, di valutazione e di identificazione dei rischi e dei lavori, ma che si estendono ad ambiti che attengono la sfera personale e che potenzialmente riguardano l’intero (o quasi) universo delle lavoratrici.
Il documento chiede che venga garantita la massima riservatezza, il che comporta che la lavoratrice deve essere lasciata libera di decidere in quale momento comunicare la gravidanza. Pertanto, l’identificazione del momento iniziale della protezione speciale cui ha diritto la lavoratrice è collegata all’informazione del proprio stato al datore di lavoro.
È questa la soluzione accolta nel t.u. che assegna priorità alla tutela della riservatezza della donna o meglio, con parola fortemente evocativa, alla sua auto-determinazione. È una soluzione non appagante, ma forse l’unica possibile a fronte dell’ampliamento dei rischi e della loro accentuazione di pericolosità soprattutto nella primissima fase della gravidanza.
Inoltre, va ricordato che il t.u. ha allegati gli elenchi vigenti in materia di lavori pericolosi e insalubri. L’intreccio non è sempre ordinato, in quanto mancano tuttora alcuni tasselli della disciplina interna, in particolare per quanto riguarda i «lavori che, in relazione all’avanzato stato di gravidanza, siano da ritenersi gravosi o pregiudizievoli», con conseguente anticipazione dell’obbligo di astensione dal lavoro a tre mesi dalla data presunta del parto, e che dovevano essere determinati con decreto ministeriale, decreto di cui si sta tuttora attendendo l’emanazione. Se pensiamo che, come vedremo anche di seguito, la lavoratrice in gravidanza può esercitare l’opzione a posporre di un mese il periodo di assenza obbligatoria pre-parto e che il Ministero del lavoro è chiamato a indicare, in apposito decreto, l’elenco dei lavori nei quali tale scelta è vietata, ci si può agevolmente rendere conto di quanto complicato sia il quadro attuale e di quanti rinvii siano da lungo tempo stati assegnati ma ancora da esercitare.
La disciplina del congedo di maternità è ampiamente nota, sia per la parte normativa, con la sua durata minima di cinque mesi, sia per la parte economica, con l’indennità pari al minimo all’80 per cento della retribuzione.
Le modifiche più significative riguardano il superamento della corrispondenza biunivoca tra diritto al congedo e divieto di adibizione al lavoro, con un netto incremento delle possibilità di scelta da parte della lavoratrice.
Il primo intervento si è avuto con la l. 8.3.2000, n. 53 che ha consentito alla lavoratrice subordinata di posporre (fino a) uno dei due mesi antecedenti la data presunta del parto al momento successivo alla nascita, con la sola condizione della verifica di compatibilità con le condizioni fisiche e con l’attività da svolgere (art. 20 t.u.). Tale disposizione rappresenta una modificazione di estrema rilevanza, non solo pratica, ma anche teorica, data la sua capacità di inserire nel divieto di lavoro l’elemento della volontà della lavoratrice subordinata, sia pure temperato dalla certificazione di un buon stato di salute.
La disposizione presentava – e tuttora presenta – una formulazione troppo sintetica, al punto da sollevare, in un primo momento, dubbi interpretativi circa la sua immediata operatività. In via amministrativa sono state tuttavia da subito fornite precisazioni, mediante circolari (del Ministero del lavoro e dell’Inps, rispettivamente n. 43 e 152, del 2000). Innanzitutto, la disposizione non introduce un autonomo obbligo di presenza nei luoghi di lavoro della figura del medico competente; la garanzia di assenza di condizioni pregiudizievoli va valutata al momento dell’esercizio dell’opzione, senza possibilità di spingersi ad un futuro che ovviamente resta incerto; il rapporto di lavoro può proseguire per un periodo che va da un giorno fino a un mese, applicandosi le ordinarie regole anche per quanto riguarda le ipotesi di sospensione, con l’eccezione della malattia, collegata comunque a problemi relativi alla gravidanza, per evitare comportamenti opportunistici.
Come è noto, la flessibilità del congedo è una opzione ampiamente esercitata e desiderata dalle lavoratrici che, per quanto possibile, preferiscono utilizzare il periodo di assenza dal lavoro quando il figlio è nato, in modo da avere tempo (pieno) a disposizione per la sua cura.
Il secondo intervento rivolto alla lenta ma progressiva erosione dei divieti, è avvenuto con il decreto correttivo del 2011 ed è consistito nel superamento della permanenza del divieto di adibizione al lavoro in caso di morte del figlio alla nascita o durante il congedo di maternità.
È così stato espressamente previsto che le lavoratrici abbiano «la facoltà di riprendere in qualunque momento l’attività lavorativa», dando preavviso di dieci giorni al datore di lavoro e dietro attestazione favorevole dei sanitari competenti. Giova ricordare come, in caso di parto (soprattutto se fortemente) pretermine e di morte del figlio, la lavoratrice considerasse spesso eccessivo un periodo di congedo di maternità, e quindi di allontanamento dal lavoro, della durata minima di cinque mesi. Anche in questo caso, fermo restando il principio della salvaguardia della salute, si consente alla lavoratrice di decidere per quanto utilizzare il congedo.
Il terzo intervento è avvenuto con il d.lgs. 15.6.2015, n. 80, che ha recepito le indicazioni della sentenza n. 116 del 7.4.2011 della Corte costituzionale, in cui si ritiene che il congedo di maternità, in caso di parto prematuro, non possa decorrere dalla data presunta del termine fisiologico di una gravidanza normale, perché si tratterebbe di fare riferimento ad un evento ipotetico che in realtà è già avvenuto. Pertanto, il dies a quo della decorrenza è quello dell’ingresso del neonato nella casa familiare, in modo da garantire pienamente l’instaurarsi del rapporto tra la madre e il figlio. Ne deriva che il rientro al lavoro diventa una scelta della lavoratrice, dietro presentazione di documentazione medica.
Si supera così la formulazione della l. n. 53/2000, che aveva invece accolto una delle due opzioni suggerite al legislatore dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 270 del 30.6.1999, e previsto (solo) di aggiungere dopo il parto tutti «gli ulteriori giorni non goduti prima del parto». In questo modo, non venivano protetti casi come quello di una nascita fortemente pretermine e lunga degenza presso strutture sanitarie, casi sempre più frequenti grazie ai risultati della ricerca scientifica e alle sue applicazioni alla clinica medica, che portano a un ingresso nella famiglia pressoché coincidente con il termine del congedo di maternità.
Attualmente, nei casi «di ricovero del neonato in una struttura pubblica o privata», alla madre è riconosciuto, una sola volta e solo se le condizioni di salute sono compatibili, il «diritto di chiedere la sospensione del congedo di maternità ... e di godere del congedo, in tutto o in parte, dalla data di dimissione del bambino». In caso di parto pretermine, la durata del congedo di maternità può superare il limite massimo complessivo di cinque mesi (nuova lett. d dell’art. 16).
I tasselli stanno andando a comporre il quadro in modo soddisfacente, anche se non tutto ancora combacia perfettamente sotto il profilo giuridico. È apprezzabile la scelta di non essersi limitati ai parti pretermine, consentendo una parificazione del trattamento in tutti i casi in cui il neonato necessiti di ricovero sanitario, a prescindere dalla corrispondenza o meno della nascita con la data presunta del parto o addirittura con una nascita antecedente di oltre due mesi. È altresì apprezzabile che non si vincoli il sorgere dei problemi di ricovero al solo evento nascita, potendo intervenire il ricovero ospedaliero del figlio anche in un momento successivo durante il congedo di maternità di cui la madre gode (e vi è obbligata). Le perplessità riguardano soprattutto la formulazione letterale del nuovo dispositivo, a partire dal rilievo che la lavoratrice potrà sospendere il congedo di maternità il prima possibile, ma non potrà mai goderne posticipatamente in misura integrale per quanto rapida possa essere la sua ripresa fisica.
È, infine, da segnalare che non è stata finora considerata a livello legislativo, ma trova autorevole risposta nella giurisprudenza della Corte di giustizia europea, un’altra questione che riguarda la possibilità di scelta della lavoratrice. È quella relativa alla portata del divieto connesso al congedo di maternità qualora vengano in gioco altre attività, come quelle relative alla formazione. In un caso relativo al nostro Paese, la Corte di giustizia (C. giust., 6.3.2014, C-595/12, L. Napoli c. Ministero della giustizia) ha ritenuto violata la normativa sulla parità di trattamento e di opportunità, producendo effetto diretto, da «una normativa nazionale che, per motivi di interesse pubblico, esclude una donna in congedo di maternità da un corso di formazione professionale inerente al suo impiego ed obbligatorio per poter ottenere la nomina definitiva in ruolo e beneficiare di condizioni d’impiego migliori, pur garantendole il diritto di partecipare ad un corso di formazione successivo, del quale tuttavia resta incerto il periodo di svolgimento».
La controversia oggetto del giudizio mette in evidenza la crescente insofferenza nei confronti di un divieto di lavoro relativamente lungo, talvolta incompatibile per la lavoratrice stessa rispetto a lavori di elevata qualificazione o ad attività in settori particolari. Sono ampiamente noti i rischi di aprire possibilità di gestione individualizzata – diversa dalla flessibilità di un mese tra prima e dopo la nascita, su cui infra – del congedo di maternità: da strumento per esigenze delle madri potrebbe diventare occasione di sfruttamento o comunque di (ulteriore) soggezione alle esigenze del cd. mercato.
La l. 28.6.2012, n. 92 è intervenuta in tema di congedi con due distinti provvedimenti: uno relativo al congedo di paternità (vedi infra), l’altro al congedo parentale. Di dubbia utilità il primo e legittimità il secondo.
Quanto al congedo parentale, è introdotta una misura di carattere sperimentale finalizzata ad aiutare la madre lavoratrice sotto il profilo economico, che in realtà ha come obiettivo quello di spingere la madre lavoratrice a tornare al più presto al lavoro al termine del congedo di maternità – quindi, quando il figlio ha da tre a quattro mesi – ottenendo in cambio, «per gli undici mesi successivi e in alternativa al congedo parentale», la corresponsione di un voucher per l’acquisto di servizi di baby-sitting o «per fare fronte agli oneri della rete pubblica dei servizi per l’infanzia o dei servizi privati accreditati».
È evidente la supremazia del mercato e la sudditanza all’imperativo della continuità del lavoro, che mette all’angolo la promozione dell’allattamento al seno, l’importanza del rapporto fisico ed affettivo nel primo anno di vita, il rientro al lavoro mediato dalla riduzione di orario.
Che la madre tornata immediatamente al lavoro e a seguito di rinuncia al congedo parentale possa percepire il sostegno in voucher per undici mesi rischia di confondere la durata massima nei confronti del figlio del congedo parentale con il periodo di assenza massima fruibile dalla madre lavoratrice. La lettera della disposizione non aiuta, ma l’unica interpretazione possibile è che si tratti dello scambio tra i sei mesi di congedo parentale della madre e il sostegno economico mediante voucher esteso per undici mesi. Se così non fosse, si tornerebbe indietro di decenni. Se così fosse, il padre lavoratore può fruire del suo congedo parentale. Ipotizzando che sia l’intero periodo a disposizione della madre ad essere scambiato con il sostegno economico, restano cinque mesi fruibili. Questo aspetto indiretto e nascosto potrebbe essere il vero tentativo di redistribuzione dei ruoli. Certo, al padre lavoratore resterebbe il congedo parentale privo di alcuna copertura economica: né retribuzione, né indennità, con quanta probabilità che ne fruisca appare evidente.
Il voucher costituisce, pertanto, alternativa al congedo parentale della lavoratrice madre. È questo il profilo più problematico. La normativa europea considera i congedi parentali un diritto, non rinunciabile e in parte nemmeno trasferibile tra i due genitori lavoratori, a loro disposizione anche per una fruizione frazionata entro gli 8 anni di vita del figlio (e anche oltre in caso di adozioni). Il panorama comparato non ha ancora visto un Paese porre in alternativa il diritto al congedo parentale con il sostegno ai servizi di assistenza dei figli.
Infine, non si dimentichi che il numero e l’importo dei voucher è legato non tanto alla retribuzione della madre lavoratrice, ma all’indicatore Isee del nucleo familiare, violando il principio dell’incardinamento del diritto in relazione alla persona che lavora.
Questo intervento sul congedo parentale va in controtendenza rispetto alle esigenze di cambiamento da tempo rilevate di rendere la sua utilizzazione da parte di madri e di padri lavoratori: più equilibrata, dato che a fruirne sono ancora quasi sempre solo le madri; più conveniente, dato che l’indennità è bassa (30 per cento della retribuzione) o addirittura inesistente (dopo 6 mesi); meno discriminatoria, soprattutto quando a fruirne sono i padri lavoratori; più effettiva nei lavori precari e instabili. Va in controtendenza, in altri termini, proprio rispetto a quel coinvolgimento del padre nella cura dei figli che ha costituito il tratto più significativo del cambiamento normativo iniziato nel 1977 e proseguito nel 2000, come vedremo di seguito.
Il primo intervento si è avuto con la prima legge di parità tra lavoratrici e lavoratori (l. 9.12.1977, n. 903), che ha incluso i padri nella fruizione dell’astensione facoltativa dal lavoro, sottoposta però alla duplice condizione che la madre del figlio fosse una lavoratrice subordinata, che rinunciava in tutto o in parte a goderne.
È con la l. n. 53/2000 che si realizza il vero e proprio cambiamento e si passa al congedo parentale come diritto di ciascun genitore, indipendentemente dalla condizione lavorativa dell’altro, in recepimento (silente) del primo Accordo quadro/direttiva europea del 1996. L’attribuzione a titolo originario di parte della disciplina ai padri lavoratori subordinati ha lo scopo di rendere più ripartiti tra i due generi i rischi collegati all’assenza dal lavoro, incuneandosi nell’ambito della parità di opportunità tra donne e uomini, segnando il passaggio dal sostegno al lavoro femminile in quanto gravato in via presuntiva da lavoro di cura, al sostegno al lavoro di cura svolto dalla persona a prescindere dal genere, accrescendo la dinamicità della relazione tra la dimensione della tutela e quella della parità.
Il congedo parentale può essere fruito non più solo entro il primo anno di vita del figlio, ma fino ai dodici anni di età, come previsto dal d.lgs. n. 80/2015, superando il precedente riferimento agli otto anni della direttiva europea. Complessivamente, i due genitori – se entrambi lavoratori subordinati – hanno diritto ad una assenza di undici mesi, distinta all’interno tra un massimo di sei mesi per la madre e un massimo di sette mesi per il padre, che salgono a dieci in caso di fruizione da parte di un solo genitore in quanto unico genitore.
La disciplina amplia il periodo di tempo (fascia di età del figlio) all’interno del quale utilizzare il congedo, consentendone il frazionamento; attribuisce al padre più della metà della durata complessiva, promuovendo non solo la modificazione della tradizionale segregazione dei ruoli familiari, ma anche una più bilanciata presenza sul mercato del lavoro; riconosce la gravosità del lavoro di cura nella famiglia monoparentale; prevede il finanziamento di progetti di formazione al rientro al lavoro.
Quanto al frazionamento, è da ricordare che, durante il primo decennio di applicazione del t.u., la durata minima del congedo era fatta coincidere con una giornata lavorativa (circ. Inps n. 109/2000). Già questo consentiva la creazione, a scelta del richiedente, di alternanza tra periodi di lavoro e periodi di non lavoro, anche all’interno di una singola settimana lavorativa (una sorta di part time verticale autodeterminato e con possibile parziale sostegno economico). La riduzione oraria, prevista dalla direttiva europea, anche nella prima versione del 1996, è ora enfatizzata dalla sua duplice versione dell’accesso, come diritto potestativo – esercitabile con un preavviso minimo abbassato dal d.lgs. n. 80/2015 a due giorni – al frazionamento giornaliero del congedo e al lavoro a tempo parziale.
È, inoltre, superato il divieto di usufruire contemporaneamente del congedo per i due genitori lavoratori dipendenti, consentendo non solo l’alternanza nella cura, favorita dalla frazionabilità dei periodi di assenza, ma anche la compresenza nel nucleo familiare. Viene di conserva precisato nel t.u. il momento di decorrenza del diritto al congedo parentale per il padre lavoratore, che corrisponde alla nascita del figlio. In altri termini sono sempre possibili le seguenti coppie: congedo di maternità-congedo parentale del padre; congedo parentale della madre-congedo parentale del padre.
I dati a disposizione depongono però per una tuttora scarsa utilizzazione da parte dei padri. È innegabile quanto lo scarso trattamento economico influisca sulle scelte dei genitori, la fruizione da parte del padre, già difficile per fatto culturale, restando ancor più confinata nell’ambito della residualità. D’altro canto la scelta ricadrà sul padre soprattutto quando la madre è lavoratrice che fruisce di tutela minore (collaboratrice, lavoratrice autonoma, libera professionista).
Tra i limiti della disciplina resta l’impossibilità di effettuare controlli e di verificare quanta parte del tempo liberato dal lavoro venga effettivamente messo a disposizione dei figli da parte dei padri (e delle madri) di bambini non più neonati. Qualcosa si muove a livello di giurisprudenza (Cass.,16.8.2008, n. 16207 ha configurato un abuso per sviamento dalla funzione del diritto nel caso di un congedo utilizzato dal padre per svolgere attività presso una pizzeria con asporto appena acquistata dalla moglie) e di circolari amministrative (circ. Inps n. 62 del 29.4.2010), ma permane il silenzio del legislatore, che attiene a quello che possiamo considerare l’altro versante delle presunzioni giuridiche basate su stereotipi culturali e sociali: la richiesta di assenza dal lavoro professionale per esigenze di lavoro di cura equivale alla sua effettuazione. Del resto questo si collega al noto problema della continua acritica corrispondenza del lavoro di cura con il non lavoro. E non si deve dimenticare che il diritto è riconosciuto al genitore non solo a prescindere dal rapporto coniugale ma dalla stessa convivenza. Nel congedo parentale, e non solo, questa irrilevanza diventa indifferenza rispetto alla situazione estrema consistente nell’abitare in luoghi lontani e all’aver compiuto un unico atto: il riconoscimento del figlio.
Resta la difficoltà, se non la vera e propria impossibilità di un controllo rigoroso degli stessi dati relativi al trattamento economico-previdenziale, soprattutto quando i due genitori non sono sotto l’ombrello Inps, ma intrecciano situazioni lavorativa diverse: privato – pubblico; pubblico – pubblico della stessa o di diversa amministrazione; autonomo – privato; e via di seguito. E si pensi poi al caso in cui uno dei due genitori sia di diversa nazionalità e lavori in altro paese, anche nell’ambito dell’Unione, ma con diversa disciplina legislativa di riferimento. Non sembra apprestare soluzioni la regolamentazione europea sul coordinamento dei sistemi nazionali di sicurezza sociale (reg. 29.4.2004, n. 883 e s.m.i.), che se ne occupa in riferimento al singolo titolare dei diritti. Nel caso di specie, si tratterebbe di effettuare un'operazione giuridica che porti a considerare come titolare dei diritti il figlio. La questione è stata affrontata dalla Corte di giustizia europea, ma, appunto, per escluderla (C. giust., 16.9.2010, C-149/10, Zoi Chatzi: la clausola 2.1 dell'accordo quadro sul congedo parentale «non può essere interpretata nel senso che conferisce al figlio un diritto individuale al congedo parentale»).
L’astensione obbligatoria dal lavoro era rimasta attribuita alle sole lavoratrici fino alla breccia realizzata dalla sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 19.1.1987, che riconosceva la titolarità al padre lavoratore subordinato in caso di morte o grave infermità della madre, anche non lavoratrice.
La l. n. 53/2000 e il successivo intervento del t.u. hanno provveduto a regolare la fattispecie, aggiungendo i casi di abbandono e di affidamento esclusivo al padre, consentendo di fruire dell’intera parte residua e non solo dei tre mesi successivi alla nascita e parificando il trattamento rispetto al congedo di maternità sotto tutti i profili (economico, normativo e previdenziale).
Per il padre costituisce un diritto (e non un obbligo), ma non a titolo originario. Vi si affianca ora il congedo di paternità introdotto, in via sperimentale, dalla l. n. 92/2012 (co. da 24 a 26 dell’art. 4), che ammonta a tre giorni, innalzati a quattro dal co. 205 dell’unico articolo della legge di stabilità per il 2016. Questo congedo di paternità, che possiamo definire fisiologico è integralmente compensato e distinto al suo interno in due mini-segmenti di due giorni ciascuno, differenti quanto a qualificazione giuridica, condizioni di fruizione e copertura finanziaria. Il primo appartiene alla categoria degli obblighi, il secondo a quella – tipica dei congedi parentali – dei diritti potestativi. Ne è derivata, ad opera del d.m. 22.12.2012, una distinta nozione: congedo obbligatorio e congedo facoltativo, riecheggiando improvvidamente la precedente distinzione tra astensione obbligatoria e astensione facoltativa, superata dal t.u., ma che continua a resistere anche nel linguaggio dell’estensore dei dispositivi legislativi.
Il periodo di tempo entro il quale il padre lavoratore subordinato ha l’obbligo di astenersi dal lavoro e la facoltà di fruire dei giorni di congedo è di cinque mesi, a partire dalla «nascita del figlio». Per il congedo facoltativo occorre però il «previo accordo con la madre» e l’utilizzazione «in sua sostituzione in relazione al periodo di astensione obbligatoria spettante a quest’ultima». L’indennità è pari al cento per cento della retribuzione ed è a carico dell’Inps.
La disposizione presenta una sommatoria di criticità, larga parte delle quali legate alla tecnica legislativa e a un inquadramento sistematico ampiamente carente.
Innanzitutto, anche a fronte dell’esiguità della durata, risulta incomprensibile la distinzione tra obbligo per due giorni e diritto per gli altri due. La preoccupazione che porta a proteggere i padri lavoratori subordinati da discriminazioni è reale, ma apre uno iato rispetto alla politica di ripartizione dei ruoli famigliari che si intende perseguire e si presenta a sua volta come fonte di discriminazione nei confronti delle madri, ferme – almeno a livello legislativo – a una indennità pari all’ottanta per cento della retribuzione.
Inoltre, la madre dovrebbe rinunciare alla sua quota parte di congedo di maternità, per uno o due giorni, e cederla al padre lavoratore, il che è impossibile nell’ordinamento vigente, senza una disposizione di espresso coordinamento e forse anche in sua presenza. Quanto alla contemporanea o disgiunta fruizione da parte del padre e della madre si entra in un vero e proprio terreno minato. Ci si deve qui limitare a ricordare che, affinché il padre possa goderne, è necessario che la madre sia una lavoratrice subordinata, riportando indietro le lancette dell’orologio e rievocando la penna del legislatore del 1977: a disposizioni che, come ricordato in precedenza, sono state più volte rivisitate in chiave evolutiva dalla Corte costituzionale e dal legislatore del 2000.
Non serve dimostrare quanto sia da escludere che questo congedo di paternità possa essere ascritto agli interventi di redistribuzione dei ruoli famigliari. Anche se questi giorni fossero fruiti non per festeggiare la nascita, ma per condividere la cura, sarebbero un periodo del tutto insufficiente per un aiuto effettivo e per una presa in carico consapevole.
Si stanno affacciando nuove problematiche, che richiederebbero una analisi interdisciplinare, che incroci regole legislative e tecnologie mediche, per poter avviare con fondatezza una riflessione sulla normativa giuridica. Le regole sulla procreazione medicalmente assistita (e, in particolare, sulla fecondazione eterologa) e quelle sulla maternità surrogata ne sono un esempio.
Dal dibattito, acceso sia in campo giuridico sia in campo politico, con fortissime interconnessioni e condizionamenti reciproci, è sempre rimasta esclusa l’attenzione alle ricadute sulla persona. Ne sono un esempio le due decisioni emanate lo stesso giorno (il 18.3.2014) dalla Corte di giustizia europea, riguardanti entrambe la richiesta di riconoscimento di congedo alla madre committente che abbia avuto un figlio mediante un contratto di maternità surrogata. Entrambe le decisioni hanno ritenuto legittimo il rifiuto dello Stato membro di riconoscere il diritto al congedo e non discriminatorio il rifiuto del datore di lavoro (C. giust., 18.3.2014, C-167/12, in un caso avvenuto nel Regno Unito); così come l’incapacità di sostenere una gravidanza non è stata considerata rientrante tra gli handicap da proteggere contro le discriminazioni (C. giust., 18.3.2014, C-363/12, in un caso avvenuto in Irlanda). Entrambe le decisioni affrontano il tema della discriminazione di cui la Corte ha negato l’esistenza: nel primo caso, attenendosi alla risalente direttiva del 1992, che ha come base giuridica esclusivamente il profilo della salute e sicurezza (Salute e sicurezza sul lavoro) della lavoratrice gestante, puerpera e in periodo di allattamento; nel secondo aggiungendovi l’esame della direttiva del 2000 sulla protezione della disabilità (Disabili [dir. lav.]) per rilevarne la sua limitazione alla sola dimensione lavorativa. In effetti, entrambe le direttive sono da tempo oggetto di tentativi di revisione e proprio per i profili coinvolti: la riforma della prima dovrebbe ampliare il campo di applicazione oltre la maternità biologica; quella della seconda proiettarsi a introdurre regole oltre l’ambito del lavoro. Il processo di revisione attivato dalle istituzioni europee – e voluto in particolare dal Parlamento europeo, ma osteggiato altrettanto intensamente dal Consiglio europeo – non sembra tuttavia, almeno per il momento, destinato a giungere a compimento.
Tornando alle controversie portate in giudizio, dalla lettura dello svolgimento dei fatti appare evidente l’incertezza qualificatoria, con grande confusione tra richiesta di congedo di maternità e congedo parentale, tra congedo legato alla nascita e congedo equiparato a una self-made adozione. Più che la negazione delle discriminazioni che le ricorrenti dichiarano di aver subito, è la disciplina legislativa a rimanere ancorata a un quadro sociale che nei fatti – e con forzature individuali – sta modificandosi.
Siamo del resto ancora lontani da un assetto concluso e coordinato della disciplina. L’insoddisfazione per i risultati raggiunti trova alcuni nuclei aggregativi. Da un lato, è il lavoro professionale, soprattutto se svolto in forma subordinata, ad assumere il ruolo di attivatore della maggior parte dei diritti sociali connessi all’esercizio della funzione parentale; dall’altro lato, è il lavoro di cura e, quindi, la funzione familiare in sé considerata a essere riconosciuta e protetta, indipendentemente dall’esercizio precedente o contestuale di una attività lavorativa.
La disciplina si presenta tuttora troppo complessa, sia pure ordinata (o quasi) in un unico testo normativo, con continua differenziazione del trattamento a seconda dell’istituto coinvolto. Solo a titolo di esempio si ricordi che, in caso di gemelli, il congedo di maternità e di paternità rimangono inviariati, mentre i riposi giornalieri si duplicano, e il congedo parentale si moltiplica. Se può essere comprensibile l’applicazione del mero raddoppio nel caso dei riposi giornalieri, il periodo di riferimento essendo quello appunto della durata giornaliera del lavoro, non si comprende perché non tener conto della filiazione plurima anche nel congedo di maternità (e di paternità) come avviene in altri Paesi europei, come la Francia, dove i benefici sono crescenti all’incremento del numero di figli.
Art. 37 Cost.; d.lgs. 26.3.2001, n. 151; l. 28.6.2011, n. 92 ; d.lgs. 15.6.2015, n. 80; d.lgs. 15.6.2015, n. 81; d.lgs. 14.9.2015, n. 151.
Calafà, L., Congedi e rapporto di lavoro, Padova, 2004; Gottardi, D., La tutela della maternità e della paternità, in Tutela civile del minore e diritto sociale della famiglia, Lenti, L., a cura di, in Trattato di diritto di famiglia, Zatti, P., vol. VI, 2012, 898; Gottardi, D., a cura di, La conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro. Le modifiche al t. u. n. 151/2001, in Il nuovo diritto del lavoro, Fiorillo, L.-Perulli, A., dir., Torino, 2016.