Abstract
La voce esamina le caratteristiche strutturali di questa specifica forma di impiego evidenziando, altresì, le metamorfosi funzionali che essa ha subito dal momento della sua prima regolamentazione legislativa.
Il lavoro accessorio deve la sua denominazione al fatto di costituire lo schema negoziale più idoneo a dare forma giuridica a quelle prestazioni di lavoro che, proprio in ragione della loro brevità, si presentano meramente occasionali. La sua specifica funzione spiega le caratteristiche distintive di questa forma di impiego. La prima è l’assenza di qualsiasi vincolo relativo sia alla manifestazione dell’accordo delle parti in ordine all’instaurazione del rapporto, sia al programma negoziale, in ipotesi circoscritto all’esecuzione di un’unica prestazione o di più prestazioni in un arco temporale breve o addirittura brevissimo. Una libertà di forme non ignota al diritto del lavoro, ma certamente singolare nell’area dei rapporti di lavoro non-standard. La seconda peculiarità del lavoro accessorio è l’assenza di una regolamentazione legale della fase esecutiva del rapporto e l’anomia che caratterizza lo svolgimento della prestazione. Infine, la terza e forse più nota caratteristica è la “cartolarizzazione” della retribuzione e della contribuzione, vale a dire la loro incorporazione in un documento di natura cartacea o informatica (generalmente denominato buono o voucher). La formazione di questo documento, che sostituisce il pagamento in denaro, è resa possibile dalla predeterminazione ad opera del Ministro del lavoro e delle politiche sociali sia del valore orario medio della prestazione lavorativa, sia dell'ammontare dei contributi previdenziali ed assicurativi.
Il d.lgs. 15.6.2015, n. 81 conferma, infatti, che il valore nominale del buono orario è pari a 10 euro, salvo che per le prestazioni rese nel settore agricolo ove esso «è pari all’importo della retribuzione oraria delle prestazioni di natura subordinata individuata dal contratto collettivo stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale» (art. 49, co. 2), e comprende i valori corrispondenti al compenso netto spettante al lavoratore (essendo esso esente da imposizione fiscale), ai contributi previdenziali ed assicurativi (attualmente pari al 13 per cento del valore nominale del buono) e al rimborso delle spese sostenute dal concessionario.
In concreto, chi è interessato a beneficiare di prestazioni di lavoro accessorio deve acquistare presso le rivendite autorizzate ovvero secondo modalità telematiche i buoni orari i quali, al termine della prestazione, saranno consegnati direttamente (se cartacei) o “accreditati” al lavoratore presso il concessionario (se telematici). Sarà poi il concessionario a corrispondere al lavoratore quanto dovuto e a provvedere al versamento dei contributi previdenziali (all’Inps, presso la gestione separata di cui all’art. 2, co. 26, l. 8.8.1995, n. 335) e assicurativi (all’Inail).
Al legislatore non è sfuggito l’impatto destrutturante che un siffatto schema giuridico può produrre sulle relazioni di lavoro e, per questo motivo, ha configurato la relativa disciplina in modo da assicurare la marginalità e l’occasionalità del lavoro accessorio rispetto al complesso delle attività, di lavoro e di vita, delle persone. Questo è accaduto, soprattutto, con la determinazione di una soglia complessiva massima entro la quale devono essere contenuti i compensi annualmente guadagnati dal lavoratore, da chiunque corrisposti: soglia reddituale attualmente fissata in via generale a 7000 euro (valore che deve essere annualmente rivalutato in base all’indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie degli operai e degli impiegati) e, per i soli lavoratori che beneficino di «prestazioni integrative del salario o di sostegno al reddito», a 3000 euro (e in tal caso l’INPS provvede a sottrarre dalla contribuzione figurativa relativa alle prestazioni integrative del salario o di sostegno al reddito gli accrediti contributivi derivanti dalle prestazioni di lavoro accessorio).
L’impianto regolativo originario, contenuto negli artt. 70 e ss. d.lgs. 10.9.2003, n. 276 (abrogati dall’art. 55, co. 1, lett. d, d.lgs. n. 81/2015), prevedeva poi una serie di limitazioni soggettive e oggettive che attribuivano a tale schema negoziale la funzione specifica di fornire alle famiglie uno strumento giuridico semplice e dai costi ridotti per impiegare personale al quale affidare compiti di cura (quali, ad esempio, piccoli lavori domestici a carattere straordinario, compresa l’assistenza domiciliare ai bambini e alle persone anziane, ammalate o con handicap). Sennonché, col passare del tempo, il lavoro accessorio ha avuto un significativo arricchimento funzionale diventando, da forma promozionale del lavoro di cura qual era, una modalità di impiego a basso costo a disposizione delle amministrazioni pubbliche e, oggi, anche di imprenditori e professionisti.
Da sempre molto controversa è la questione relativa all’ascrivibilità o meno del lavoro accessorio al genus del lavoro subordinato.
Vigente il d.lgs. n. 276/2003, per il vero, era prevalente la posizione che valutava come inutile un’indagine di questo genere (v., tra i tanti, Dell’Olio, M., Le «nuove tipologie» e la subordinazione, in AA.VV., Come cambia il mercato del lavoro, Milano, 2004, 24; Vallebona, A., la riforma dei lavori, Padova, 2004, 26; Bellocchi, P., Il regime del lavoro accessorio e l’autonomia privata: logiche negoziali e dinamiche fattuali, in Tipologie contrattuali, a progetto e occasionali, Bellocchi, P.-Lunardon, F.- Speziale, V., a cura di, in Commentario al D.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, Carinci, F., coordinato da, Milano, 2004, IV, 118 ss.; Lo Faro, A., Prestazioni occasionali di tipo accessorio rese da particolari soggetti, in La riforma del mercato del lavoro e i nuovi modelli contrattuali, Gragnoli, E.-Perulli, A., a cura di, Padova, 2004, 812), sebbene avesse un certo seguito l’opinione che affermava la natura autonoma di questo rapporto di lavoro (tra i primi, Pedrazzoli, M., Commento agli artt. 70-73, in Il nuovo mercato del lavoro, Pedrazzoli, M., coordinato da, Bologna, 2004, 861; Ghera, E., Il nuovo diritto del lavoro, Torino, 2006, 1; in giurisprudenza Trib. Milano, 1.4.2014, massimata in Argomenti dir. lav., 2014, II, 811, individua nei «contratti di collaborazione accessoria» una «categoria speciale all’interno delle collaborazioni occasionali») e non fossero mancate ricostruzioni opposte (Valente, L., Lavoro accessorio nelle recenti riforme e lavoro subordinato a “requisiti ridotti”, in Riv. giur. lav., 2009, I, 636; Pinto, V., Lavoro subordinato flessibile e lavoro autonomo nelle amministrazioni pubbliche. Politiche legislative e prassi gestionali, Bari, 2013, 167 ss.).
La posizione che rinuncia a confrontarsi con la questione qualificatoria, tuttavia, non convince in quanto singolarmente distonica con il quadro giuridico sia sovranazionale sia costituzionale il quale, a parere di chi scrive, impone di ascrivere la disciplina dei rapporti in discorso all’una o all’altra area. Sul primo versante, ad esempio, solo i rapporti di lavoro autonomo e non anche le prestazioni occasionali e saltuarie di lavoro subordinato sono esclusi dal campo di applicazione della dir. 99/70/CE sul lavoro a tempo determinato. A parte le ipotesi espressamente previste dalla clausola n. 2, par. 2, infatti, la direttiva non si applica a quei rapporti giuridici che, secondo la legislazione nazionale, non presentano i caratteri della subordinazione. Di conseguenza, l’interprete è tenuto ad affrontare l’operazione di inquadramento sistematico del lavoro accessorio sapendo, peraltro, che perfino i margini di discrezionalità riconosciuti in materia al legislatore nazionale non sono assoluti. Come precisato dalla Corte di giustizia con riferimento alla normativa italiana in materia di lavori socialmente utili, infatti, agli Stati membri non è consentito disporre sul piano giuridico-legale della qualificazione dei rapporti di lavoro se da ciò derivi un pregiudizio per la realizzazione degli obiettivi perseguiti da una direttiva. Più precisamente, se «le prestazioni fornite [in coerenza con il titolo giuridico presentano] concretamente le caratteristiche di una prestazione di lavoro subordinato […] si deve rilevare che la qualificazione formale, da parte del legislatore nazionale, del rapporto […] non può escludere che a detta persona debba tuttavia essere conferita la qualità di lavoratore in base al diritto nazionale, se tale qualifica formale è solamente fittizia» (C. giust., 15.3.2012, C-157/2011, Sibilio c. Comune di Afragola, ptt. 48-50). Identico ragionamento vale, sempre a titolo di esempio, per la dir. 91/533/CE circa l’obbligo datoriale di informare per iscritto il lavoratore delle condizioni applicabili al contratto o al rapporto di lavoro subordinato. Sul piano interno, infine, il tema della posizione sistematica del lavoro accessorio deve essere affrontato al fine di valutare la coerenza della relativa disciplina rispetto alle norme costituzionali di tutela dei lavoratori subordinati, ad iniziare dalla conformità o meno del metodo di predeterminazione dei compensi orari rispetto ai principi dettati dall’art. 36 Cost.
Stabilita la necessità di procedere all’inquadramento sistematico del lavoro accessorio, occorre premettere che anche gli artt. 48 e 49 del d.lgs. n. 81/2015 impiegano una nomenclatura ambigua e che non offre elementi univoci per risolvere la questione in un senso o nell’altro. Se è vero, infatti, che il legislatore utilizza ampiamente l’espressione «prestazioni di lavoro accessorio» (così ad es. l’art. 48, co. 1 e 2) o «prestatore di lavoro accessorio» (artt. 48, co. 5, e 49, co. 3) e «lavoratore» (art. 49, co. 3), ossia una terminologia tipica del rapporto di lavoro subordinato, è anche vero che non impiega mai il sintagma “datore di lavoro” (preferendo i più anodini «committente» e «beneficiario della prestazione»)) per indicare il creditore della prestazione o il termine “retribuzione” (Retribuzione 1. Rapporto di lavoro privato) (al quale preferisce la parola «compenso») per denotare il corrispettivo dovuto.
Più utili appaiono quelle ulteriori evidenze normative che, per il vero, già in passato avevano indotto alcuni a considerare la disciplina in discorso come una regolamentazione delle prestazioni occasionali di lavoro subordinato.
La prima è rappresentata da quelle previsioni che, seppure in maniera talvolta ellittica, indicano che le prestazioni di lavoro accessorio sono destinate ad essere inserite in un contesto organizzativo (più o meno articolato) orientato da altri alla produzione di un risultato da essi voluto e sul quale il lavoratore non ha alcuna influenza. Questa doppia alienità (dell’organizzazione e del risultato) propria del lavoro subordinato (v. C. cost. 12.2.1996, n. 30, rel. Mengoni) è il presupposto – per quanto implicito – della previsione che in agricoltura limita l’utilizzabilità del lavoro accessorio alle attività lavorative di natura occasionale rese nell’ambito delle attività agricole di carattere stagionale ma anche, della disposizione che vieta il ricorso a prestazioni di lavoro accessorio esclusivamente nell’ambito dell’esecuzione di appalti di opere o di servizi. Doppia alienità confermata, tra l’altro, dal criterio per la determinazione quantitativa del compenso spettante al lavoratore che è quello tipico dei rapporti di lavoro subordinato, vale a dire quello temporale. Il committente, infatti, è tenuto a consegnare al lavoratore un numero di buoni orari/voucher almeno pari al numero delle ore lavorate.
La seconda evidenza utile a fini qualificatori è strettamente connessa alla prima ed è fornita dall’art. 3, co. 8, d.lgs. n. 81/2008 (Salute e sicurezza sul lavoro), come novellato dal d.lgs. 14.9.2015, n. 151. Questa previsione dispone che la disciplina dettata dal «decreto legislativo e [da] tutte le altre norme speciali vigenti in materia di sicurezza e tutela della salute» per i lavoratori subordinati si applichi anche «nei confronti dei lavoratori che effettuano prestazioni occasionali di tipo accessorio» quando «la prestazione sia svolta a favore di un committente imprenditore o professionista» (e delle p.a., si può ritenere in via interpretativa); restano esclusi dalla tutela, così come previsto dalla direttiva, i lavoratori che svolgono «piccoli lavori domestici a carattere straordinario, compresi l’insegnamento privato supplementare e l’assistenza domiciliare ai bambini, agli anziani, agli ammalati e ai disabili». Il decreto stabilisce altresì che «negli altri casi si applicano esclusivamente le disposizioni di cui all’articolo 21» del d.lgs. n. 81/2008, vale a dire quella regolamentazione speciale dettata con riferimento ai componenti dell’impresa familiare di cui all’art. 230 bis c.c., ai lavoratori autonomi, ai coltivatori diretti del fondo, ai soci delle società semplici operanti nel settore agricolo, agli artigiani e ai piccoli commercianti. Disposizione, quest’ultima, foriera di gravi incertezze interpretative derivanti, più che dalla struttura aperta della fattispecie e dalla conseguente controvertibile individuazione degli «altri casi» ai quali il legislatore imputa la disciplina, dalla difficile adattabilità delle norme di condotta dettate dall’art. 21 alle specificità del lavoro accessorio.
Un terzo elemento normativo a sostegno dell’appartenenza della forma di impiego in discorso all’area della subordinazione è fornito dal rinvio contenuto nell’art. 48, co. 7, d.lgs. n. 81/2015 alla disciplina di cui all’art. 36, co. 2, d.lgs. 30.3.2001, n. 165, previsione che esplicitamente include il lavoro accessorio tra le «forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale» ivi disciplinate (v. già Pinto, V., Lavoro subordinato flessibile, cit., 166).
Ancora, un quarto elemento è costituito proprio dalla norma delegante: è evidente, infatti, che l’art. 1, co. 7, lett h, l. 10.12.2014, n. 183, nel prefigurare una disciplina unitaria per le prestazioni occasionalmente rese dal lavoratore e per le prestazioni dirette a soddisfare un interesse produttivo discontinuo o intermittente del datore di lavoro, presuppone l’assimilabilità delle prime alle seconde non soltanto sul piano materiale (essendo comune la temporaneità), ma anche sul piano giuridico (qui essendo comune la natura subordinata).
L’inquadramento sistematico del lavoro accessorio nell’area della subordinazione, infine, può essere sostenuto anche con un argomento contrario. Dopo che la l. 28.6.2012, n. 92 ha abrogato il limite costituito dall’elencazione tassativa dei compiti che potevano essere eseguiti (e remunerati) con le modalità del lavoro accessorio, persistere nell’inclusione di quest’ultimo nell’area del lavoro autonomo significa ammettere che esso possa aver ad oggetto anche prestazioni e servizi resi da professionisti o da iscritti ad albi professionali (con le implicazioni fiscali e previdenziali che ciò comporta). Ricorrendo tutte le condizioni legalmente previste in ordine ai committenti e ai limiti di reddito, in altri termini, sarebbe possibile acquisire mediante lavoro accessorio anche le prestazioni di un avvocato oppure di un ingegnere. Conclusione, quest’ultima, ben poco plausibile e che, di conseguenza, rende preferibile la diversa opzione proposta in questa sede.
Il d.lgs. n. 81/2015, come anticipato, opera una mera manutenzione di una disciplina che, nel corso del tempo, ha subito profonde modificazioni funzionali ad opera di diversi interventi legislativi e che tuttora presenta “stratificazioni” normative ben riconoscibili.
Le caratteristiche strutturali di questa forma di impiego, anzitutto, sono spiegabili in ragione dei modelli stranieri che hanno costituito il riferimento del legislatore all’epoca della sua introduzione nell’ordinamento italiano. Già nel Libro Bianco cd. di Delors e nelle coeve esperienze straniere, la cartolarizzazione delle obbligazioni retributiva e contributiva nonché la riduzione del costo fiscale del lavoro, rese possibili dall’emissione di buoni/voucher, costituivano elementi di uno strumento complesso diretto alla creazione ed al consolidamento di provider in grado di rispondere, in modo organizzato e professionale, alla crescente domanda di servizi di cura generata dal cambiamento degli stili di vita, dalla trasformazione delle relazioni familiari, dal progressivo invecchiamento della popolazione o dal necessario recupero delle aree urbane. In siffatti contesti, ai provider specializzati spettava il compito di aggregare l’offerta di lavoro e di “mettere a disposizione” delle famiglie lavoratori affidabili in grado di svolgere tempestivamente i compiti di cura richiesti; ed alle famiglie quello di remunerare le prestazioni occasionalmente rese in loro favore mediante la consegna al lavoratore dei buoni/voucher.
Il modello italiano originario, invece, non era affatto assimilabile al “lavoro occasionale tramite agenzia specializzata”, tipico delle esperienze straniere, se non per la particolare convenienza economica incorporata nello strumento del buono/voucher. Questa era pur sempre funzionale alla promozione (o alla regolarizzazione) della domanda di cura espressa dalle famiglie la quale, però, era legislativamente indirizzata verso «soggetti a rischio di esclusione sociale o comunque non ancora entrati nel mercato del lavoro, ovvero in procinto di uscirne» (così il testo originario dell’art. 70, co. 1, d.lgs. n. 276/2003). Ma proprio l’aver trapiantato il sistema di pagamento mediante buoni/voucher, pensato in funzione di un assetto giuridico triangolare, in una relazione giuridica bilaterale è all’origine di tutte le questioni fondamentali in materia di lavoro occasionale. Si pensi, ad esempio, al dibattito sulla natura contrattuale o acontrattuale del rapporto (sul quale v., anche per ulteriori riferimenti bibliografici, Marinelli, F., Il paradosso del lavoro occasionale di tipo accessorio, in Risistemare il diritto del lavoro, Nogler, L.-Corazza, L., a cura di, Milano, 2012, 225) e alle gravi e perduranti incertezze circa le conseguenze derivanti dal superamento della soglia reddituale annuale che identifica l’accessorietà delle prestazioni (su cui v. la circ. Min. Lav. 18.1.2013, n. 4, 5).
Come anticipato, però, del disegno originariamente perseguito dal legislatore oggi resta ben poco. Il ricorso al lavoro accessorio per soddisfare bisogni di cura è tuttora possibile, ma è evidente che – con l’abrogazione della riserva in favore delle categorie sociali svantaggiate tassativamente indicate dal legislatore (avvenuta nel 2008) e, soprattutto, dell’elenco altrettanto tassativo dei particolari compiti che potevano costituire oggetto delle prestazioni occasionali (avvenuta nel 2012) – il legislatore ha eliminato il carattere esclusivo che la finalità in discorso aveva nell’originario impianto legislativo.
Nel disegno originario, il ricorso delle amministrazioni pubbliche al lavoro accessorio era del tutto marginale, essendo ammesso soltanto in relazione alla «pulizia e [alla] manutenzione di edifici e monumenti» e allo «svolgimento di lavori di emergenza, come quelli dovuti a calamità o eventi naturali improvvisi, o di solidarietà» (v. l’art. 70, co. 1, lett. c ed e, d.lgs. n. 276/2003). In concomitanza con i primi effetti interni della crisi economica mondiale, però, la platea delle p.a. legittimate ad utilizzare le prestazioni di lavoro accessorio è stata progressivamente ampliata fino alla completa generalizzazione prevista dall’art. 1, co. 32, lett. a, l. n. 92/2012 e, ora, confermata dall’art. 48, co. 4 e 7, d.lgs. n. 81/2015. La circostanza che questa progressiva estensione abbia avuto luogo contemporaneamente all’introduzione della possibilità di impiegare con il lavoro accessorio anche le categorie più colpite dalla mancanza o dalla perdita del lavoro (cfr. il testo dell’art. 70, co. 1-bis, d.lgs. n. 276/2003 introdotto dall’art. 7 ter, co. 12, d.l. 10.2.2009, n. 5, conv. con mod. dalla l. 9.4.2009, n. 33) e i part-timer (cfr. l’art. 70, co. 1, introdotto dall’art. 2, co. 148, lett. f, l. 23.12.2009, n. 191) induce a ritenere che l’obiettivo del legislatore sia stato quello di permettere alle p.a. di recuperare margini di flessibilità operativa in un periodo di stringenti vincoli assunzionali e, insieme, di mitigare gli effetti occupazionali della crisi (soprattutto sulle comunità locali). È molto probabile, insomma, che l’intento del legislatore fosse quello di disporre di uno strumento anticiclico non dissimile dai programmi di lavori socialmente utili o di lavori di pubblica utilità già noti all’esperienza italiana.
Questa specifica finalità è evidente anche nelle disposizioni del d.lgs. n. 81/2015 che permettono al Ministero del lavoro e delle politiche sociali di sostenere i progetti promossi dalle p.a. in favore dei beneficiari di ammortizzatori sociali fissando specifiche condizioni e modalità di utilizzazione nonché importi dei buoni orari «in considerazione delle particolari e oggettive condizioni sociali». La stessa possibilità è riconosciuta, peraltro, anche qualora i progetti riguardino l’integrazione sociale di chi versi in uno stato di disabilità, di detenzione o di tossicodipendenza.
La facoltà delle p.a. di ricorrere al lavoro occasionale, ad ogni modo, è condizionata non soltanto all’osservanza delle regole generali esposte nel precedente paragrafo ma anche al rispetto dei vincoli di finanza pubblica e di quanto disposto dall’art. 36 d.lgs. n. 165/2001. Il rinvio a quest’ultima previsione, assente nella disciplina precedentemente in vigore, conferma che le p.a. possono avvalersi di prestazioni occasionali ed accessorie solo per soddisfare «esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale» e non anche per svolgere attività stabili ed ordinarie. In questo senso, del resto, era già la prassi amministrativa seguita in vigenza del d.lgs. n. 276/2003 (in termini, la circ. Inps del 3.2.2010, n. 17, par. 3).
Né pare si possa più dubitare della necessità che anche il personale da impiegare secondo le modalità del lavoro accessorio sia selezionato secondo le procedure di reclutamento previste dall’art. 35 d.lgs. n. 165/2001 (al quale l’art. 36, co. 1, rinvia). Ovviamente, qualora le attività da affidare ai lavoratori occasionali siano riconducibili a qualifiche e profili per i quali è richiesto il solo requisito della scuola dell’obbligo, l’attività di selezione si presenterà più celere posto che, in queste ipotesi, l’art. 35 ammette l’«avviamento degli iscritti nelle liste di collocamento». Le p.a., ad ogni modo, sono impossibilitate a beneficiare di una delle maggiori convenienze pratiche connesse al lavoro accessorio, vale a dire quella di poter instaurare rapporti di lavoro di breve durata senza alcuna formalità.
Come si è avuto modo di anticipare, nel disegno originario le prestazioni di lavoro accessorio avrebbero dovuto essere impiegate solo per soddisfare la domanda di cura e di servizi alla persona ed alla comunità, con esclusione di qualsiasi attività a carattere lucrativo. A partire dal 2005, tuttavia, si è consolidata una tendenza legislativa ad ampliare il novero dei soggetti legittimati a ricorrere a questa forma di impiego (si pensi, ad esempio, all’inclusione delle imprese familiari di cui all’art. 230 bis c.c., inizialmente solo se attive nei settori del commercio, del turismo e dei servizi) e ad arricchire l’elenco dei casi in cui questa era praticabile (come è accaduto per l’ingaggio del personale da adibire alla consegna porta a porta, alla vendita ambulante di stampa quotidiana e periodici, ai maneggi e alle scuderie).
Queste estensioni, comunque selettive e circoscritte, si spiegavano in ragione della particolare semplicità delle forme di instaurazione, di gestione e di estinzione del lavoro accessorio le quali ben si attagliano all’organizzazione del lavoro dei piccoli operatori economici (quali le imprese familiari) o alle caratteristiche strutturali ed alla marginalità di alcune attività (come la consegna porta a porta o la gestione delle scuderie). Esse, tuttavia, determinavano l’insorgere del rischio che l’impiego di prestazioni di lavoro accessorio in attività orientate al lucro potesse, in concreto, condurre ad una vera e propria destrutturazione del diritto del lavoro. Per questa ragione, nel corso della XV legislatura, il Governo e le parti sociali condivisero gli impegni a limitare «questa tipologia contrattuale […] ai piccoli lavori di tipo occasionale a favore delle famiglie, in limiti predeterminati di ore utilizzabili per singola famiglia» e ad avviare «una sperimentazione di questo istituto anche in agricoltura, entro limiti predeterminati in grado di evitare che questo strumento [si ponesse] come alternativa al lavoro subordinato» (cfr. il Protocollo su previdenza, lavoro e competitività – Per l’equità e la crescita sostenibili del 23.9.2007, 22).
Tale rischio è stato avvertito anche dal Governo Monti posto che, in occasione del processo di riforma del mercato del lavoro (d.d.l. AS. 3249 del 5.4.2012), esso non solo ha manifestato l’intenzione di «restringere il campo di operatività dell’istituto» (come si legge nella relazione di accompagnamento) ma ha anche previsto dovessero essere «escluse dal ricorso al lavoro accessorio le prestazioni rese nei confronti di committenti imprenditori commerciali o professionisti» (mentre era disposta una sorta di “liberalizzazione” del lavoro accessorio in campo agricolo, ove esso avrebbe potuto essere utilizzato nell’ambito di tutte le attività «di carattere stagionale svolte anche in forma imprenditoriale»). Sennonché, i lavori parlamentari hanno invertito il segno della disciplina e all’apertura riconosciuta agli «imprenditori commerciali o professionisti», seppure entro il limite di 2000 euro, è corrisposta la sostanziale conferma delle regole già in vigore per il comparto agricolo. Da questo momento il lavoro accessorio è diventato una sorta di equivalente funzionale dei cd. mini-job propri dell’esperienza tedesca; ed è proprio quest’ultima metamorfosi del lavoro accessorio il presupposto della norma della l. delega n. 183/2014 ai sensi della quale, come già segnalato, la regolamentazione delle prestazioni di lavoro accessorio sarebbe dovuta diventare l’unica normativa di riferimento «per le attività lavorative discontinue e occasionali nei diversi settori produttivi».
Il d.lgs. n. 81/2015, ad ogni modo, ha confermato sia l’apertura operata dalla l. n. 92/2012, sia la differente disciplina applicabile alle attività lucrative a seconda che esse siano espletate nel settore agricolo ovvero in un qualsiasi altro settore merceologico.
In agricoltura, possono fare ricorso a prestazioni di lavoro accessorio nei limiti reddituali ordinari – vale a dire entro la soglia di 3.000 euro annuali per i beneficiari di misure di sostegno al reddito e di 7.000 euro per tutti gli altri lavoratori – soltanto i piccoli produttori agricoli, ossia coloro che nell’anno solare precedente hanno realizzato un volume d’affari non superiore a 7.000 euro (costituito per almeno due terzi da cessioni di prodotti). Tuttavia, poiché il lavoro accessorio è certamente più conveniente rispetto all’ordinaria assunzione a termine, al fine di scongiurare un possibile “effetto di sostituzione” il legislatore vieta di reclutare ed impiegare con questa modalità quei lavoratori che – proprio perché nell’anno precedente hanno prestato attività di lavoro subordinato secondo le regole ordinarie – sono iscritti nell’elenco anagrafico annuale dei lavoratori agricoli.
Per tutti gli altri operatori agricoli, invece, l’impiego di lavoratori con le modalità del lavoro accessorio è ammesso, sempre entro la soglia reddituale di 7.000 euro, solo se le attività da svolgere hanno carattere stagionale e purché tali lavoratori siano o pensionati ovvero studenti con meno di venticinque anni di età. Con riferimento a questi ultimi, peraltro, la disciplina è ulteriormente articolata a seconda che essi siano studenti universitari oppure no. Mentre i primi, infatti, possono prestare la propria attività in qualsiasi periodo dell’anno (purché regolarmente iscritti a un ciclo di studi universitari), i secondi possono lavorare solo a condizione che l’attività stagionale sia compatibile con gli impegni scolastici (naturalmente, anche nella forma occasionale, potranno essere occupati i minori (Lavoro minorile) che non abbiano concluso il periodo di istruzione obbligatoria e, comunque, che non abbiano già compiuti i 15 anni, restando fermo quanto previsto dall’art. 3, l. 17.10.1967, n. 977).
Come innanzi segnalato, peraltro, il valore nominale del buono orario nel settore agricolo è diverso da quello stabilito per la generalità dei casi, essendo pari all’importo della retribuzione oraria delle prestazioni di natura subordinata individuata dal contratto collettivo stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
In tutti gli altri settori merceologici, invece, gli imprenditori e i professionisti possono acquisire prestazioni di lavoro occasionale entro il limite di 2000 euro per ciascun lavoratore a condizione che – come anticipato – essi siano adibiti ad attività diverse dall’esecuzione di appalti di opere o di servizi (la previsione, tuttavia, consente al Ministro del lavoro e delle politiche sociali di introdurre delle deroghe al divieto e, tra queste, potrebbe rientrare anche l’ipotesi degli assistenti impegnati negli impianti sportivi, i cd. steward, attualmente regolata dall’art. 2, co. 2, d.m. Min. Interno 8.8.2007).
Fin qui le regole dettate per evitare il ricorso al lavoro accessorio in funzione sostitutiva di altre forme di impiego, e segnatamente di quelle intermittenti o temporanee.
Vi sono, poi, altre disposizioni il cui fine specifico consiste nell’evitare che i datori di lavoro possano utilizzare strumentalmente i buoni accreditandoli al lavoratore solo in caso di accessi ispettivi o in altre ipotesi similari essendo sempre più conveniente non accreditare al lavoratore alcun voucher, ovvero accreditargli una quantità di buoni minore di quella dovuta, una volta che la prestazione sia stata eseguita e che sia stato eliminato il rischio di accertamenti diretti. Del resto, l’esistenza di pratiche del tipo ora descritto è confermata dalla significativa differenza quantitativa registrata dall’INPS tra i buoni acquistati dai committenti e i buoni effettivamente riscossi dai lavoratori. Più precisamente, l’esistenza di pratica abusive risulterà evidente a chi consideri che il valore dei buoni acquistati e non utilizzati è rimborsato e non ritenga plausibile spiegare questo scarto in ragione di una generalizzata incapacità dei committenti di pianificare il ricorso al lavoro accessorio. Sta di fatto che, proprio al fine di evitare pratiche fraudolente, il legislatore ha previsto una serie di misure idonee a garantire la «piena tracciabilità dei buoni lavoro acquistati». Si spiegano così sia l’obbligo previsto per gli imprenditori e i professionisti di acquistare i buoni orari esclusivamente per via telematica, sia il sistema di comunicazioni obbligatorie da effettuare in favore dell’Ispettorato del lavoro. Dopo il d.lgs. 24.9.2016, n. 185 (decreto correttivo del d.lgs. n. 81/2015), infatti, gli imprenditori e i professionisti sono tenuti a comunicare «mediante sms o posta elettronica» alla sede territoriale competente dell’Ispettorato, almeno sessanta minuti prima dell’inizio di ciascuna prestazione, i dati anagrafici o il codice fiscale del lavoratore, il luogo e, soprattutto, il giorno nonché «l’ora di inizio e di fine della prestazione». Un regime meno stringente, invece, è previsto per gli imprenditori agricoli (ma non anche per gli operatori dello stesso settore che non siano qualificabili come tali). Questi sono tenuti a comunicare, con le stesse modalità ora descritte, oltre al nominativo del lavoratore, ai suoi dati anagrafici e al luogo di lavoro, soltanto la «durata» della prestazione e non anche l’inizio della stessa, che potrà aver luogo nei successivi tre giorni (art. 49, co. 3). Agli imprenditori agricoli, insomma, è consentito di lasciare parzialmente indeterminata la collocazione temporale della prestazione e la concessione di una siffatta forma di flessibilità può essere facilmente giustificata per le lavorazioni “in campo aperto” (la cui praticabilità dipende dalle condizioni meteorologiche). Quanto all’omissione delle comunicazioni, che possono essere ulteriormente articolate con decreto ministeriale, essa è punita con una specifica sanzione amministrativa di importo variabile.
L’esperienza applicativa dimostrerà se queste previsioni, certamente opportune, saranno anche concretamente efficaci. Fin d’ora, però, esse sconfessano definitivamente quelle ricostruzioni teoriche che considerano il lavoro accessorio uno strumento di contrasto al lavoro irregolare e confermano come esso – quanto meno nella sua attuale configurazione – sia soltanto una forma di impiego a costi ridotti che si presta bene ad assecondare le esigenze di quella parte del sistema produttivo che produce beni e servizi a basso valore aggiunto ovvero che opera esclusivamente per il mercato interno.
Artt. 48-50 d.lgs. 18.6.2015, n. 81; art. 36 d.lgs. 30.3.2001, n. 165; art. 3 d.lgs. 9.4.2008, n. 81.
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