Libertà
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Nella teoria politica e sociale noi possiamo essere interessati: a) a definire la libertà; b) ad assegnarle un valore; c) a interpretarne il senso o, meglio, i variabili sensi. Nel primo caso ci avvaliamo di descrizioni, o delle descrizioni più plausibili e coerenti, di Stati del mondo in cui si possa asserire che vi è libertà piuttosto che no o che vi è più libertà piuttosto che meno. Si usa dire che il nostro impegno descrittivo mira a un accordo sul significato di libertà in termini non valutativi, indipendenti dall'assegnazione di un valore, maggiore o minore. Per la teoria politica si può sostenere che l'utilità della descrizione non valutativa consiste nel poter contare su un accordo che è in ogni caso il presupposto indispensabile perché disaccordi relativi all'assegnazione di valore o disaccordi relativi all'interpretazione del senso siano disaccordi significativi. In questo sembra consistere l'interesse genuino per la descrizione della libertà: nel garantire che teorie e modelli normativi o interpretativi della libertà non risultino vuoti o che le controversie su valore e senso non si risolvano in fraintendimenti. Nel secondo caso, quando si è interessati ad assegnare un valore alla libertà, l'impegno della teoria è propriamente normativo o prescrittivo. Le domande che la teoria formula e cui cerca di rispondere sono del tipo: se la libertà è un valore, si tratta di un valore intrinseco o di un valore strumentale? È la libertà l'unico valore nell'ambito del politico o del sociale o esiste più di un valore? E, se vale il secondo caso, è possibile o come è possibile combinare o rendere compatibile il valore della libertà con altri valori o fini sociali, quali l'eguaglianza o la stabilità, il benessere o l'efficienza o la coordinazione? In questo sembra consistere l'interesse genuino per prescrizioni relative alla libertà: nel generare argomenti a favore del buon ordine politico e sociale, miranti a ottenere l'accordo o la condivisione da parte degli uditori pertinenti. Per la teoria politica normativa si può sostenere che l'utilità della prescrizione consiste nel garantire un accordo che è in ogni caso il presupposto indispensabile perché sia riconosciuta la particolare versione favorita dalle istituzioni politiche e dalle pratiche sociali in cui viene assegnato il valore e lo spazio appropriato e coerente alla libertà.
L'interesse teorico pertinente a proposito della libertà è, nel terzo caso, quello che mira a produrre interpretazioni rilevanti del senso e dei mutamenti di senso della libertà entro contesti dati. La teoria sociale può allora cercare di rendere conto delle condizioni e delle circostanze grazie alle quali la libertà ha un senso determinato e le condizioni e le circostanze in virtù delle quali tale senso si modifica, muta, si trasforma. In questo sembra consistere l'interesse genuino per una interpretazione della libertà: nell'ampliare la gamma delle matrici di intelligibilità di quanto, in una varietà di circostanze e in una pluralità di contesti spazio-temporali, risulta essere il mutevole e contingente senso della libertà: le ragioni soggiacenti alla richiesta di libertà, quelle soggiacenti alla sua durata e permanenza nel tempo o alla sua perdita, la variabile natura dei conflitti aventi come esito il riconoscimento o meno di libertà. Naturalmente la distinzione qui proposta fra descrizione, prescrizione e interpretazione della libertà ha solo lo scopo di indicare tre tipi di approccio teorico alla libertà, per dir così, allo stato puro. Essa serve semplicemente a distinguere tre differenti classi di impegni e interessi teorici nei confronti della libertà. A questi tre tipi di approccio si farà prevalentemente riferimento in questo articolo. Tuttavia non è difficile trovare, nella mappa delle ricerche della teoria politica e sociale, numerosi casi di commistione. Sembra anzi che una nozione come quella di libertà tenda quasi inevitabilmente a dar luogo a casi misti nella teoria. E questo, forse, suggerisce qualcosa a proposito della sua natura.
Per illustrare il frequente intreccio fra differenti impegni teorici che caratterizza molte penetranti analisi della libertà, consideriamo uno dei contributi più influenti della seconda metà del nostro secolo, dedicato a gettar luce sulla nozione di libertà: il saggio Due concetti di libertà di Isaiah Berlin (v., 1969; tr. it., pp. 185-241). In questo classico saggio, che riproduce il testo della sua lezione inaugurale all'Università di Oxford del 31 ottobre 1958, l'autore ha formulato una distinzione, destinata a divenire canonica e a generare una lunga e intensa discussione, fra libertà negativa e libertà positiva, fra libertà da e libertà di. Ora si può sostenere che, nel suo complesso, la trattazione di Berlin sia debitrice in vari modi nei confronti di un impegno tanto descrittivo quanto prescrittivo e interpretativo.Si considerino le seguenti asserzioni dell'autore: quando si usa il termine 'libertà' si intende descrivere una situazione in cui sia accertabile l'assenza di ostacoli a scelte o azioni possibili; le strade che ciascun individuo può decidere di percorrere devono essere sgombre, non sbarrate (da qualcuno). Una libertà così descritta e intesa dipende da quante porte sono aperte, da quanto lo sono, dalla loro relativa importanza. L'assenza di libertà è dovuta semplicemente alla chiusura di queste porte o all'impossibilità di aprirle, quando essa è interpretabile come risultato o esito - intenzionale o meno - di istituzioni politiche, pratiche sociali, azioni umane. Sembra che Berlin intenda effettivamente descrivere la libertà quando ne definisce il 'significato principale'. Esso coincide con "la libertà dalle catene, dalla prigionia, dalla schiavizzazione da parte di altri. Il resto è un'estensione di questo significato oppure una metafora" (v. Berlin, 1969; tr. it., p. 53). Se si resta a questa descrizione quasi letterale (non metaforica) della libertà, la celebre distinzione fra i due concetti di libertà deve indicare semplicemente due differenti campi o arene della società in cui può esservi o non esservi libertà. Per la libertà negativa ci riferiremo all'area entro la quale una persona è o dovrebbe essere lasciata fare o essere ciò che è in grado di fare o essere senza interferenze da parte di altre persone. Per la libertà positiva, invece, ci riferiremo all'area in cui si situa la fonte del controllo e dell'interferenza che può determinare che qualcuno faccia o sia una cosa piuttosto che un'altra. Che qualcuno sia libero implica in ogni caso che egli o ella possa scegliere e agire in assenza di ostacoli o vincoli; la differenza fra l'essere libero negativamente e l'essere libero positivamente dipende, per dir così, dall'arena che via via è pertinente. Può trattarsi dell'arena in cui siamo liberi da interferenze o vincoli, quali che siano, e allora saremo negativamente liberi. Se viceversa l'arena è quella in cui siamo liberi di interferire o vincolare, allora saremo positivamente liberi.
Se si resta alla descrizione, sembra difficile parlare di più concetti di libertà. Si sarebbe piuttosto tenuti a parlare di più arene o contesti della società in cui è possibile che vi sia libertà o non libertà, maggiore o minore libertà. Tuttavia l'importanza del contributo di Berlin deriva proprio dal fatto che mette a fuoco la dicotomia fra due distinti concetti di libertà; descrive le loro tensioni e conflitti; privilegia la libertà negativa rispetto alla libertà positiva. Come sia possibile tutto ciò dipende da nient'altro che dall'impegno alla prescrizione. Né, a sua volta, quest'ultimo è indipendente dagli esiti di un esercizio interpretativo del senso e delle ragioni della libertà. Sembra anzi trovare proprio in una particolare interpretazione il suo sfondo più adeguato e coerente: l'interpretazione ha carattere storico. La libertà negativa è, più o meno, la libertà dei 'moderni' di Benjamin Constant, che ne definisce appunto il senso e il valore nella celebre contrapposizione con la libertà degli 'antichi'; essa è l'indipendenza individuale che John Stuart Mill difende nel classico Essay on liberty; il soggetto della libertà negativa è l'individuo (v. Constant, 1815; v. Mill, 1859). E la concezione individualistica soggiacente alla difesa valutativa della libertà negativa sembra a Berlin piuttosto recente: "pur con tutte le sue radici religiose, non risale più in là, nella sua forma sviluppata, del Rinascimento o della Riforma" (v. Berlin, 1969; tr. it., p. 196). L'arena della libertà negativa è circoscritta da un confine che, per quanto mobile e variamente tracciato, separa la sfera 'privata' dalla sfera 'pubblica', la sfera individuale da quella collettiva. L'assenza di vincoli o interferenze va quindi interpretata principalmente come assenza di vincoli o interferenze da parte dei detentori di autorità legittima. O, in altri termini, si può dire che l'autorità è legittima e giustificata se e solo se non viola o viola il meno possibile l'autonomia individuale. La giustificazione dell'ordine politico e delle istituzioni pertinenti può anche coincidere con la giustificazione delle condizioni che massimizzano la garanzia e la tutela delle scelte individuali e minimizzano la coercizione legittima (come specificato per il principio del danno da Mill). Come si vede, il concetto di libertà negativa presuppone una famiglia più ampia di teorie o visioni del mondo politico e sociale, le quali rendono conto, nella loro interezza, dell'importanza prescrittiva di assetti di istituzioni e pratiche sociali che tutelino la sfera della non interferenza o non impedimento o non coercizione ai danni degli individui. Occorre assumere che l'individuo sia un epicentro di valore, che per questo la sua autonomia di scelta individuale debba essere protetta, che sia collettivamente preferibile un ordine politico che non vincoli - o vincoli il meno possibile - le scelte individuali. Infine è implicita, in queste assunzioni prescrittive, una congiunzione fra la libertà come valore e l'eguaglianza come valore: essa si specifica nell'idea elementare della parità di condizioni, quanto alla libertà negativa, fra tutti gli individui. In questo consiste l'ascrizione di eguale libertà negativa a chiunque soddisfi i requisiti per essere incluso nella comunità degli individui, intesi come attori autonomi di scelte e - infine - come soggetti di vite separate. Il riferimento a 'chiunque' rende esplicito una sorta di impegno 'universalistico' che è variamente associato all'interpretazione della libertà negativa e, soprattutto, all'ascrizione della stessa a soggetti che ne siano o ne debbano essere titolari.
Possiamo quindi osservare che l'impiego del concetto di libertà negativa richiede che sia presupposta una qualche forma di separazione o differenziazione fra arene di azione e significato sociale (si pensi al confine mobile fra pubblico e privato) e una pluralità di principî di identificazione di soggetti o, più precisamente, di comunità di soggetti. Si tratta di comunità di inclusione di 'pari', quanto all'ascrizione di libertà negativa. Diremo che un determinato concetto di libertà implica almeno l'identificazione di soggetti di libertà (chi è libero) e di campi o domini di scelta (che cosa, chi è libero, è libero di essere o fare). Chi e che cosa si rivelano in questo modo le variabili salienti per qualsiasi concettualizzazione o resoconto della libertà, dell'esservi libertà, maggiore o minore. La specificazione del valore delle variabili dipende dall'interpretazione di un contesto o del contesto pertinente.
Abbiamo sommariamente considerato il contesto pertinente per l'interpretazione del senso 'negativo' della libertà. Vediamo ora di illustrare l'argomento di Berlin sul suo senso 'positivo'. Sarà possibile verificare in tal modo quanto la celebre dicotomia sia debitrice nei confronti di un contesto determinato e di una particolare interpretazione. "Il senso 'positivo' della parola 'libertà' deriva dal desiderio da parte dell'individuo di essere padrone di se stesso. Voglio che la mia vita e le mie decisioni dipendano da me stesso e non da forze esterne di qualsiasi tipo. Voglio essere strumento dei miei stessi atti di volontà e non di quelli di altri" (v. Berlin, 1969; tr. it., p. 197). A prima vista è plausibile sostenere, come ha chiarito fra gli altri Norberto Bobbio, che la libertà positiva, la libertà di, va intesa propriamente come assenza di coercizione o, in senso affermativo, come autonomia, e concerne la nostra possibilità di volere, le nostre volizioni. All'inverso la libertà negativa, la libertà da, andrebbe intesa propriamente come assenza di impedimento e concernerebbe la nostra possibilità di agire, le nostre azioni (v. Bobbio, 1974). Tuttavia la distinzione fra azioni e volizioni è quantomeno incompleta: sembra sia difficile pensare ad azioni indipendenti da volizioni e a volizioni che non motivino o non mirino ad azioni più o meno con esse coerenti. Più persuasivo potrebbe essere il ricorso alla distinzione fra arene e soggetti, cui ci si è già riferiti: il senso positivo della libertà ha a che vedere con l'arena pubblica o collettiva, mentre quello negativo ha a che vedere con l'arena privata o individuale. Se gli eroi della libertà negativa sono Constant, Mill e Alexis de Tocqueville, uno dei padri della libertà positiva è Jean-Jacques Rousseau; e se la libertà negativa è ugualmente ascritta a tutti coloro che sono inclusi nella comunità (privata) degli individui, la libertà positiva è ugualmente ascritta a tutti coloro che sono inclusi nella comunità (pubblica) dei cittadini, intesi come membri o partners di eguale valore della comunità politica.
Così, disporre di libertà positiva vuol dire essere liberi di partecipare alle procedure che hanno come esito scelte collettive che, inevitabilmente, sono vincolanti per chiunque. Come chiarisce Berlin, "il senso 'positivo' della libertà emerge se cerchiamo di rispondere non alla domanda 'che cosa sono libero di fare o essere?', ma 'da chi sono governato?' o 'chi deve dire che cosa devo e che cosa non devo essere o fare?"' (v. Berlin, 1969; tr. it., p. 196). La tensione e il possibile conflitto fra i due concetti di libertà sono evidenti, se si tiene conto della indipendenza logica delle due domande e delle due possibili risposte. Noi possiamo, contrariamente a una delle tesi difese da Mill, pensare a un ordine politico in cui al massimo di indipendenza individuale si accompagni un minimo di libertà collettiva, o all'inverso. Ciò si basa sulla connessione non necessaria da un punto di vista logico fra 'libertà individuale' e 'principio democratico'. Come dire: la libertà negativa non è di per sé incompatibile con l'assenza di autogoverno. E, d'altra parte, l'autogoverno può implicare esiti che comprimono e riducono o azzerano la libertà individuale. Scelte collettive in qualche senso coerenti con l'idea di essere 'padroni di se stessi' hanno effetti che incidono inevitabilmente sulla linea di confine fra coercizione legittima e libertà o indipendenza individuale. Libertà politica e libertà dalla politica sono in tensione. La tensione fra le due libertà non dipende tuttavia da qualcosa che attiene alla descrizione della libertà; dipende da una sua interpretazione e dall'impegno prescrittivo a favore del prevalere dell'una o dell'altra arena in cui deve esservi libertà e a favore dell'uno o dell'altro principio di identificazione dei soggetti o delle comunità di soggetti che devono avere libertà. La celebre dicotomia fra i due concetti di libertà è quindi una dicotomia che deve la sua salienza alla storia e non alla logica: "La libertà che consiste nell'essere padroni di se stessi e quella che consiste nel non essere ostacolati nelle proprie scelte da altri possono sembrare superficialmente due concetti logicamente abbastanza vicini - nient'altro che due modi, uno positivo e l'altro negativo, di dire sostanzialmente la stessa cosa. Invece la nozione 'positiva' e quella 'negativa' di libertà si sono sviluppate storicamente in direzioni divergenti, non sempre per passaggi logicamente ineccepibili, finché alla fine sono entrate in conflitto fra loro" (v. Berlin, 1969; tr. it., p. 198).
In conclusione possiamo dire che l'importanza del contributo di Berlin consiste nell'aver messo a fuoco le ragioni di una concezione pluralistica della libertà. Si è tenuti a una concezione pluralistica se si accetta: a) la possibilità di differenti interpretazioni della libertà, dipendenti dai contesti e dai soggetti della libertà; b) la tensione non solo 'interna' alla libertà variamente intesa, ma anche 'esterna', fra la libertà e altro, fra la libertà variamente intesa e altri valori o fini sociali. In particolare il conflitto saliente messo a fuoco da Berlin è quello fra la nostra libertà quali individui e la nostra libertà quali membri di una comunità politica. Non si tratta solo di un conflitto che, per buona parte del nostro secolo, ha caratterizzato l'opposizione fra regimi e assetti liberaldemocratici e regimi e assetti autocratici o totalitari (a questo guardava soprattutto Berlin alla fine degli anni cinquanta: v. Passerin d'Entrèves, 1974); si tratta di una tensione permanente entro la tradizione delle stesse società a democrazia pluralistica, la tensione fra le tessere liberali e le tessere democratiche che compongono il mosaico delle democrazie costituzionali o poliarchie. Sembra in proposito che quanto richiesto dalle libertà dei moderni e quanto richiesto dalle libertà degli antichi sia destinato ciclicamente a entrare in conflitto, domandando all'ordine politico e alle sue regole e istituzioni soluzioni di equilibrio intrinsecamente instabili. Le differenti soluzioni si dispongono quasi su un continuum in cui l'una o l'altra libertà, l'uno o l'altro principio di identificazione individuale o collettivo, l'una o l'altra arena prevalgono in peso, portata ed estensione, generando così differenti soluzioni del problema dell'ordine politico pur entro lo stesso quadro di istituzioni e procedure liberaldemocratiche. Nella teoria normativa ciò ha dato luogo a differenti prospettive a proposito del valore della libertà, di quale libertà (o quali libertà) e del rapporto con altri valori sociali; ma di questo ci occuperemo più avanti (v. cap. 7). Ora dobbiamo delineare una descrizione plausibile della libertà, intorno a cui ha lavorato la teoria politica con fini esplicativi e non già valutativi. L'illustrazione successiva di alcuni contesti in cui sono state storicamente interpretate diverse libertà in una prospettiva di ricostruzione storica dei concetti politici fondamentali ci consentirà di passare in modo piano e naturale allo stato della discussione e della ricerca prescrittiva sull'assegnazione di differenti valori alla libertà o alle libertà.
La ricostruzione proposta delle tesi di Berlin su libertà negativa e positiva ha mostrato in che senso una discussione genuina sui valori relativi di differenti libertà sia stata presentata come una discussione intorno al significato del termine 'libertà'. La concezione pluralistica della libertà dipende più precisamente dall'esigenza di proporre (o indicare la necessità o eventualmente l'impossibilità di) una soluzione per un caso di conflitto fra differenti interpretazioni della libertà. Il punto sembra essere il seguente: la teoria politica è interessata a definizioni della libertà quando devono essere assegnati valori a differenti libertà. E ciò accade quando differenti libertà entrano fra loro in conflitto.L'osservazione suggerisce che molti casi in cui sorge una controversia teorica su quale sia la migliore descrizione della libertà sono in realtà casi in cui si registra un conflitto fra differenti libertà (libertà di differenti soggetti e/o in differenti campi o contesti) e si confrontano fra loro differenti assegnazioni di valore alle libertà. Come si è accennato nel cap. 1, uno dei modi in cui la teoria politica può fornire una base più salda e affidabile al confronto razionale fra differenti prospettive valutative è provvedere a una descrizione della libertà quanto più possibile indipendente da impegni valutativi. Ciò può condurre, come è stato proposto - fra gli altri - da Felix E. Oppenheim, a una definizione della libertà come relazione fra agenti o come un particolare tipo di interazione. In quanto relazione fra agenti la libertà è libertà 'sociale'. L'idea di Oppenheim è quella di apprestare una definizione esplicativa, operativa, proficua e, ovviamente, neutrale dal punto di vista valutativo. Si tratta di rendere esplicito "quanto è generalmente implicato da termini vaghi come 'libertà' o 'libero', nel modo in cui ricorrono nel linguaggio quotidiano, e più particolarmente negli scritti politici". Lo scopo è quello di "rendere noi stessi consapevoli di ciò di cui realmente parliamo quando parliamo di libertà e di idee affini: 'non libertà' e 'controllo"' (v. Oppenheim, 1961; tr. it., p. 11). La definizione operativa di libertà sociale indica che "un agente è libero di fare qualcosa nei confronti di un altro agente (o, come vedremo, nei confronti di ogni altro agente). La libertà sociale è per definizione sia 'libertà da' sia 'libertà di': libertà dall'essere costretti da qualcuno a fare qualcosa (o impediti di farla, o puniti se la si fa o se non la si fa)".Dato il carattere relazionale e interattivo del contesto in cui si descrive la libertà sociale, dovremmo escludere per maggiore precisione l'impiego del sostantivo 'libertà' e sostituirlo sempre con l'aggettivo 'libero'. "Il termine 'libertà' facilmente suggerisce l'impressione che la libertà sia una cosa che una persona può 'avere' o 'possedere', come una collezione di francobolli o un mal di testa. A rigor di termini dovremmo usare solo l'aggettivo 'libero' e soltanto in espressioni del tipo: 'nei confronti di Y, X è libero di fare x"' (ibid., p. 125). Quest'ultima formulazione di Oppenheim a proposito della libertà sociale, di cui ad esempio quella politica è solo una fra le possibili specificazioni, suggerisce più in generale l'adozione di una definizione triadica della libertà, se il nostro scopo è quello propriamente descrittivo. La libertà, come ha argomentato Gerald MacCallum in un importante articolo che figura nella discussione canonica aperta dal saggio di Berlin (v. MacCallum, 1967), può essere in ogni caso descritta grazie al riferimento a tre elementi: gli agenti quali esseri liberi, le restrizioni o limitazioni (imputabili variamente ad altri agenti) da cui sono liberi e ciò che sono liberi di fare o non fare. Si può quindi sostenere, come ha suggerito John Rawls, che "la descrizione generale della libertà ha [...] la forma seguente: questa o quella persona (o persone) è libera (o non libera) da questo o quel vincolo (o insieme di vincoli) di fare (o non fare) questo o quello. [...] Inquadrata su questo sfondo la libertà può venire considerata come costituita dai tre elementi sopramenzionati. Inoltre, esattamente come vi sono vari tipi di agenti che possono essere liberi - persone, associazioni, Stati -, così vi sono molti tipi di condizioni che li vincolano e innumerevoli generi di cose che essi sono liberi o non liberi di fare. In questo senso esistono molte libertà diverse, che in alcuni casi può essere utile distinguere. Queste distinzioni, però, si possono operare senza introdurre differenti significati della libertà" (v. Rawls, 1971; tr. it., pp. 176-177). La definizione triadica della libertà include i termini che sono stati illustrati nel capitolo precedente a proposito dei due concetti di libertà: il soggetto o i soggetti di libertà (chi è libero), i campi entro cui essi sono liberi (definiti dai vincoli), gli scopi o i beni socialmente riconosciuti (non necessariamente sociali) che si è liberi di perseguire (che cosa si è liberi di fare). L'idea è quella secondo cui, ogni volta che ci impegniamo a definire stati di libertà, abbiamo a che fare con questioni relative all'identificazione di chi, sotto quale descrizione pertinente per il riconoscimento collettivo, è libero di fare che cosa, rispetto a quali vincoli, entro quale campo di azione e significato sociale. Ciò, tra l'altro, rende conto del perché nella teoria sociale si tenda a mettere a fuoco, a proposito della libertà, processi e trasformazioni che investono sfere o sistemi della società che guadagnano o perdono nel tempo autonomia rispetto ad altri, e le connesse modificazioni delle identità collettive coinvolte. Possiamo così introdurre la nozione di sfere di libertà e di comunità storicamente più o meno inclusive di soggetti di libertà. Ne deriva una concezione certamente pluralistica delle libertà, più ampia e generale di quella prospettata nella celebre dicotomia da cui siamo partiti. Ciò non equivale affatto a ridurre l'importanza della tensione fra le due libertà, negativa e positiva: vuol dire solo considerare quella tensione come un'esemplificazione dopo tutto contingente - e non per questo meno rilevante - di una storia molto più lunga, ampia e complicata.
Nella prospettiva di una storia delle sfere e dei soggetti di libertà si consideri il contributo che l'approccio della storia dei concetti fornisce alla teoria politica e sociale. Werner Conze ha mostrato in proposito come sia ricostruibile il poliedrico campo semantico della libertà e ha sottolineato al tempo stesso il fatto che, se a partire dal secolo scorso tale campo non sembra essere stato più significativamente modificato, negli ultimi due secoli è stata ulteriormente facilitata e accresciuta la disponibilità del termine per ogni impiego: di qui l'utilità di una ricostruzione storico-comparata dei diversi impieghi del termine o, meglio, del concetto fondamentale."'Libero' (frei) e 'il libero' (der Freie) sono ricondotti alla radice germanica frija-, 'con collo libero' (in opposizione allo schiavo), e vanno etimologicamente insieme a lieb ('caro') e Freund ('amico') (vedico priya). Essi indicavano, così come i corrispondenti ἐλεύτεϱοϚ e liber (o ingenuus), tradotti in gotico o in tedesco antico con frei, l'appartenenza a una comunità protettrice. 'Libero' era dunque un concetto giuridico, mediante il quale i membri di una comunità di sangue e di stirpe erano distinti dagli estranei (ovvero dai non liberi)" (v. Conze, 1979; tr. it., p. 3). In questa prospettiva sembra sia possibile fissare due significati fondamentali che, pur con modificazioni più o meno drastiche, permangono invariati nei nostri impieghi del concetto fondamentale di libertà. In primo luogo l'essere liberi significa essere immuni dall'uso altrui della forza all'interno della comunità o dell'ambito entro cui la libertà è tutelata. In secondo luogo l'essere liberi è possibile solo se la libertà è protetta contro la violazione e l'oppressione da parte di una forza estranea, grazie a una forza propria e riconosciuta come tale entro il gruppo o la comunità. Si specifica in tal modo la connessione fra la libertà come status di una particolare comunità di pari (almeno sotto l'aspetto condiviso dell'essere liberi) e la dimensione interna ed esterna rispetto ai confini della comunità inclusiva. Inclusione ed esclusione, rispetto all'interno e all'esterno, consentono di distinguere i liberi dai non liberi. Se poi si considera che la realizzazione della libertà dipende dall'ampiezza del campo di azione dei detentori di potere, è facile rendersi conto della essenziale pluralità delle libertà, "la cui validità - personale e spaziale - era sempre condizionata dalla misura in cui godevano di efficace protezione" (ibid., p. 4). Questa trattazione elementare del concetto fondamentale di libertà, riferito all'inclusione nella comunità protettrice all'interno e all'esterno e specificato dalla opposizione con lo status dell'escluso e perciò non libero, getta luce sulla libertà greca e sulla libertas romana. Dominante in entrambi i casi resta l'opposizione libero-schiavo. L'essere libero dipende così dalla comunità, dalla πόλιϚ che verso l'esterno protegge nei confronti di altre comunità politiche (libere o per lo più non libere) e, all'interno, protegge dalla tirannide. La libertas, che è in primo luogo il potere di disposizione sulla propria persona (lo schiavo è res), consiste nell'appartenenza al populus, ovvero nella civitas che è fatta di leggi miranti a generare sicurezza (securitas). Il campo semantico della libertà è esaurito dal riferimento alla comunità inclusiva dei liberi e quest'ultima è a sua volta definita da un solo principio di identificazione, quello dell'appartenenza. L'interessante eccezione costituita dalla libertà filosofica o dalla libertà del saggio solitario, che incorpora il riferimento a una comunità alternativa rispetto a quella protettrice dei liberi come corpo collettivo, trova uno sviluppo nella variazione più saliente del campo semantico, introdotta con la 'libertà cristiana'. Lo sviluppo sembra essere cruciale per la complicata vicenda delle interpretazioni della libertà e delle trasformazioni del suo senso e delle sue ragioni.
Si possono considerare almeno tre ambiti in cui è identificabile la trasformazione imputabile alla libertà cristiana. Il primo è quello che si riferisce all'ermeneutica neotestamentaria. Il secondo ha a che vedere con la nascente elaborazione del discorso teologico. Il terzo concerne, nell'era postcostantiniana, la libertas ecclesiae. Nella predicazione di Paolo sono ravvisabili almeno tre accezioni della libertà cristiana derivanti dall'interpretazione proposta del Nuovo Testamento: la libertà dal peccato, la libertà dalla legge veterotestamentaria e la libertà dalla soggezione alla morte. Queste tre libertà sono costitutive della comunità dei credenti: Cristo ha affrancato i credenti 'per la libertà'. I credenti, così liberati, sono identificabili dall'appartenenza a una comunità che non coincide con quella politica, con l'ordine politico mondano. Differente risulta il principio di identificazione collettiva e differenti i confini spazio-temporali della comunità dei liberi. Differente è, infine, il criterio di riconoscimento e di inclusione nella comunità. Nell'ambito dell'elaborazione teologica Agostino può trarre dall'analisi del rapporto fra predestinazione, grazia e libertà la conclusione che la libertas superiore è quella propria della comunità che coincide con la città di Dio ("civitas Dei est libera"). Nell'ambito politico e istituzionale la libertas religionis richiesta da Tertulliano e Lattanzio nell'età dell'oppressione e della persecuzione si converte, dopo l'editto di Milano del 313, in libertas ecclesiae, intesa come tutela dell'autonomia dell'istituzione ecclesiale rispetto alle interferenze e ai vincoli imposti dall'autorità imperiale. Si osservi come si profila in questo modo il principio di un conflitto virtuale fra almeno due comunità, quella che include nell'ordine temporale (temporaneo) e quella che include nell'ordine spirituale. Si può pensare a un conflitto fra due principî di identificazione e, quindi, di inclusione ed esclusione dalle comunità pertinenti e distinte, l'uno che concerne i fini collettivi di breve termine e l'altro che tocca i fini collettivi di lungo termine. Le libertà ecclesiastiche sono l'indice del variabile equilibrio fra le pretese avanzate dalle due comunità. Con la riforma gregoriana la libertas ecclesiae si riformula come la pretesa non semplicemente di disporre di libertates quanto di disporre di potere universalistico, riconosciuto come tale, sulle comunità dell'ordine mondano o secolare.
Questo conflitto, centrale per la ricostruzione delle trasformazioni di senso della libertà entro la tradizione occidentale, si ripropone in termini mutati nella Riforma quando, con la rottura dell'universalismo religioso cristiano, viene meno il principio dell'identificazione collettiva dei credenti in una singola comunità e divergono quindi le interpretazioni autorizzate di chi ha potere sui fini collettivi di lungo termine o fini ultimi. Se Lutero, tornando a un'interpretazione di Paolo, si impegna nella critica della libertà cristiana come libertas ecclesiae, che nient'altro diviene se non l'insieme dei privilegi, delle immunità e delle rivendicazioni dell'istituzione ecclesiastica, Calvino sottrae al regimen politicum o all'ordinamento civile il concetto della libertà cristiana, che viene ascritto all'ambito autonomo della teologia. Nella Institutio christianae religionis possiamo identificare almeno tre ambiti tematici, a proposito della libertà cristiana: a) nella prospettiva paolino-luterana il cristiano è libero dalla legge perché obbedisce a Dio; la coscienza del credente, in quanto membro della comunità cristiana, liberata dal giogo della legge, si conforma volontariamente a Dio; b) il cristiano è libero nelle ἀδιάϕοϱα, in tutte le forme regolate ecclesialmente per disciplinare l'espressione della fede; c) la libertà della coscienza del credente, vincolata solo alla parola di Dio, ha valore nel regnum spirituale, distinto dal regimen politicum.
In una prospettiva di storia dei concetti Gerhard May ha osservato in proposito: "Per i riformatori la libertà cristiana è una realtà 'spirituale': essi hanno avversato con decisione la sua interpretazione distorta in termini politici. Ciononostante la concezione riformata della libertà ha giocato un ruolo rilevante per la formazione del concetto moderno di libertà ben al di là della sfera ecclesiastica e teologica. La tesi della libertà della coscienza vincolata soltanto alla parola di Dio, in quanto tale non sottoposta ad alcuna autorità ecclesiastica o secolare, e l'aperta protesta contro una simile coartazione della coscienza, il rigetto delle pretese mondane di potere della Chiesa e della sua sovraordinazione all'ambito statuale-secolare [...] e infine la richiesta di porsi al servizio del prossimo nel segno della libertà cristiana: sono, queste, tutte idee che trascendono l'orizzonte societario medievale e i suoi fondamenti spirituali, preparando la concezione moderna della libertà" (v. May, 1979; tr. it., p. 32).
Possiamo in conclusione rilevare come la ricostruzione storico-concettuale dell'insorgenza di determinate sfere di libertà metta in luce processi di differenziazione quanto a comunità e soggetti sociali. Le trasformazioni di senso della libertà cristiana sono connesse in ogni caso alle pretese di circoscrivere una sfera in cui valga un principio di identificazione collettiva e di inclusione differente rispetto ad altri alternativi: per esempio rispetto a quello proprio dell'ordine politico temporale. Il termine 'libertà' assume in tal modo la funzione di un 'segnaposto', per così dire, che indica un processo di conflitto e di riconoscimento della mutua compatibilità fra due principî di identificazione alternativi, corrispondente alla differenziazione fra due sfere sociali. Il caso saliente resta quello in cui la comunità, rispetto alla quale viene richiesta libertà per gli individui di riconoscersi in comunità alternative, è quella in cui si detiene e si esercita l'autorità politica.
Come si è accennato nella conclusione del capitolo precedente, la genesi della libertà 'moderna' sembra essere associata a un processo molto complicato di sottrazione all'autorità politica data del monopolio dell'identificazione collettiva e della definizione dei fini collettivi ultimi. Ciò richiede la costituzione di una comunità alternativa in cui ci si riconosca collettivamente in termini non politici.
Consideriamo in questa prospettiva il programma giusnaturalistico del contrattualismo come teoria normativa dell'obbligo politico. Protagonista è in ogni caso una comunità particolare, distinta dalla comunità politica data; a essa corrisponde un concetto di libertà distinto dalle libertà, dalle libertates connesse all'autorizzazione del potere pertinente nella comunità politica. La comunità non politica, costruita concettualmente, è universalistica e inclusiva al massimo grado o, comunque, a un grado molto alto: essa è la comunità dei 'pari', in cui sono riconosciuti come componenti gli esseri umani come individui. La libertà 'naturale' è opposta in tal modo alle libertà particolaristiche, ascritte a comunità determinate e circoscritte in virtù dell'esercizio dell'autorità politica data e delle sue classificazioni. È quest'ultima, nella prospettiva delle dottrine del contratto o del patto, a dover riconoscere che gli individui su cui l'autorità stessa si esercita sono 'naturalmente' liberi: il che vuol dire ugualmente liberi.
Se si è interessati a una teoria che produca interpretazioni del senso della libertà (e dei suoi mutamenti), si può cogliere qui una trasformazione saliente - entro la tradizione occidentale - del concetto di libertà. Quanto per convenzione usiamo chiamare la libertà 'moderna' presuppone l'identificazione di un insieme di proprietà non politiche che caratterizzano gli individui in quanto tali e, congiuntamente, l'idea che l'ordine politico è giustificabile se e solo se è coerente con requisiti derivanti dalle proprietà non politiche degli individui. La libertà moderna risulta così uno dei termini non politici più importanti - forse il più importante per giustificare e legittimare l'ordine politico. Questo rende conto della continua opposizione fra la libertà e le libertà nel conflitto delle interpretazioni della libertà che accompagna l'ascesa delle teorie giusnaturalistiche moderne. Le differenti teorie del patto sociale offrono naturalmente divergenti soluzioni del problema della giustificazione dell'ordine politico. Tuttavia il ruolo della libertà 'naturale', non politica, determina costantemente le diverse forme e arene di esercizio dell'autorità legittima o della sovranità. Si consideri in proposito la definizione della libertà - associata alla descrizione dello stato non politico (stato di natura o anarchia) - proposta da Thomas Hobbes e la si confronti con quella fornita da John Locke (v. Matteucci, 1984, pp. 109-166). Al di là delle drastiche differenze nell'interpretazione della situazione non politica (che generano differenti soluzioni del problema dell'ordine e dell'obbligo politico), il ruolo concettuale svolto dalla nozione di libertà, ascritta a chiunque in stato di natura, permane lo stesso nei due modelli più ampi di teoria politica normativa.
Così l'eguale libertà, ascritta a chiunque sia riconoscibile come un individuo, acquista un suo senso pertinente entro una più ampia famiglia di concezioni dell'ordine politico. Pur nelle loro differenze, queste concezioni, variamente connesse alla vicenda dello Stato territoriale moderno, devono ospitare l'idea della scelta razionale o ragionevole e, in ogni caso, del consenso, per rendere conto della giustificabilità dell'autorità politica, della sua portata e dei suoi - variabili - limiti. L'idea stessa dell'ordine politico come esito 'artificiale', come un costrutto e non come un dato naturale, è centrata sul riconoscimento della libertà moderna, intesa come proprietà normativamente rilevante e non politica di individui concepiti come cooperanti nella costruzione pattizia della comunità politica. Come abbiamo accennato, questo cambiamento concettuale rende conto della critica che, in nome della libertà, è possibile rivolgere alle libertà cetuali, territoriali o istituzionali, giuridicamente vigenti in virtù dell'autorizzazione politica. Le concessioni di privilegi, si può dire con Voltaire, non sono altro che titoli di servitù.
L'interpretazione della libertà come eguale libertà individuale specifica in tal modo, in un ambito di riferimento etico piuttosto che politico, le condizioni di possibilità dell'ordine politico coerente con la concettualizzazione dell'individuo come epicentro di valore. È quindi la congiunzione fra eguaglianza e libertà a definire propriamente il ruolo del concetto moderno di libertà nell'ambito di riferimento dell'ordine politico. Come è stato osservato nella ricostruzione storica del concetto di libertà nel XIX secolo, "il concetto moderno di libertà non costituisce la somma delle libertà cetuali condensata in un singolare collettivo ed estesa a tutti i cittadini: è stato piuttosto fondato giusnaturalisticamente contro queste libertà e poi confermato politicamente con il sorgere di una società di cittadini dello Stato. Il concetto si fonda sull'insistenza su un'autonomia dell'individuo che per la propria sicurezza esige divisione dei poteri, partecipazione politica e riconoscimento dei diritti dell'uomo, criticando al contempo come un malinteso (spiegabile a fronte della mutata funzione della feudalità) le libertà delle corporazioni e dei loro membri, ritenute soltanto concesse quando non addirittura usurpate. Il risultato di questo processo consiste nell'idea, nuova per la vita pratica, che la 'libertà' sia pensabile a prescindere da stati di fatto concreti. I due concetti - 'la' libertà e 'le' libertà - si escludevano reciprocamente in via di principio. Da una parte a un termine giuridico orientato alla tradizione si contrapponeva un concetto politico generale rivolto al futuro. Dall'altra lo spazio libero fissato temporalmente e spazialmente, protetto corporativamente, rappresentando uno dei contrassegni essenziali del feudalesimo, non poteva conciliarsi con una libertà pensata a partire dall'individuo e che doveva trovare nello Stato moderno, organizzato secondo una logica unitaria, i suoi organi e le sue garanzie. Non si trattava più soltanto di una libertà dal potere autoritativo, bensì della libertà come valore fondamentale della costituzione statuale" (v. Dipper, 1979; tr. it., pp. 91-92).Il lungo e complicato processo che dalle libertà conduce alla libertà, nel senso ora indicato, trova un suo primo, provvisorio, terminus ad quem nell'impresa del costituzionalismo liberale e nelle Dichiarazioni dei diritti della fine del XVIII secolo. Costituzionalismo e arte della separazione fra arene o sfere sociali sono sinonimi, come è stato suggerito - fra gli altri - da Michael Walzer (v., 1986). Sotto il vincolo della libertà eguale degli individui si delineano i confini fra varie sfere, fra cui quella in cui si esercita l'autorità politica. Ancora una volta la differenziazione e la relativa autonomia fra distinti sistemi o campi sociali risultano connesse al riconoscimento della libertà degli individui; più precisamente, come abbiamo detto, alla presenza di comunità di soggetti liberi, entro determinate sfere, di perseguire una varietà di scopi. Per questo una interpretazione del senso della libertà 'moderna' si ritrova, in un quadro per tanti versi drasticamente mutato, di fronte a una famiglia o a un sistema di libertà (al plurale). E i differenti concetti di libertà, i loro possibili conflitti e le loro possibili tensioni, instabili equilibri o compatibilità, trovano così il loro senso. Qui è possibile rendere conto della dicotomia di Berlin esaminata nel cap. 2, piuttosto che della tesi di Constant sulla libertà degli antichi e dei moderni, o della critica di Karl Marx (v. 1844) alla fallacia della promessa universalistica della libertà del citoyen nella società del bourgeois, piuttosto che dell'elogio di Wilhelm von Humboldt o John Stuart Mill dell'indipendenza individuale. In questo contesto, infine, è possibile trovare, alla radice, il conflitto fra teorie normative o visioni politiche diverse che assegnano differente valore alla libertà o al sistema delle libertà, proponendo diverse soluzioni dei dilemmi generati dalla tensione fra la libertà variamente intesa e altri valori o fini sociali (si pensi al caso del conflitto fra liberalismo e socialismo nell'ambito della questione sociale del XIX secolo europeo).Restano in ogni caso cruciali, nella ricostruzione storico-interpretativa del senso delle libertà, da un lato la connessione fra maggiore o minore libertà e maggiore o minore differenziazione dei principî di identificazione collettiva e di definizione delle sfere sociali o comunità pertinenti, dall'altro la connessione fra maggiore o minore libertà e maggiore o minore opportunità di costituzione autonoma di comunità (religiose o ideologiche o culturali) alternative alla comunità politica o, nell'ambito della comunità politica stessa, maggiore o minore opportunità di dispersione o non agglutinamento delle risorse di potere. Nel primo caso avremo libertà o domande di libertà dalla politica; nel secondo libertà o domande di libertà politica (il che ha qualcosa a che vedere con la mobile separazione fra pubblico e privato, illustrata a proposito della concezione pluralistica di Berlin).
Consideriamo tre casi di libertà che fanno parte del 'catalogo' delle libertà dei moderni o dei contemporanei. Il primo è quello, paradigmatico, della libertà religiosa; il secondo è quello della libertà economica; il terzo è quello della libertà politica. Si tratta di libertà cui sono associati rispettivamente: il contesto della verità e del relativo conflitto; quello della proprietà e del conflitto per la rimozione di interferenze e vincoli che ne ostacolino o limitino gli impieghi; quello dell'autorità o potere politico e del conflitto per partecipare al suo esercizio. In tutti e tre i casi vale la definizione triadica che deve specificare chi è libero, da quali vincoli, di fare che cosa (v. sopra, cap. 3). Avremo quindi differenti soggetti o comunità di soggetti, differenti arene o sfere sociali, differenti beni o scopi, socialmente riconosciuti.
Il contesto del conflitto religioso è paradigmatico per l'interpretazione moderna dell'eguale libertà. La libertà religiosa è il 'segnaposto' della separazione e della differenziazione fra l'arena della verità e quella della giustizia, fra il dominio della salvezza e il dominio del politico. Quando Locke asserisce che "nessuno potrebbe, nemmeno se lo volesse, conformare la sua fede ai dettami di un altro" (v. Locke, 1689; tr. it., p. 10), riecheggia certamente Agostino e Lutero, ma ha essenzialmente di mira la disgiunzione fra la comunità di quanti condividono il significato della salvezza e la comunità dei membri della società politica. Come ha commentato Michael Walzer, "forse la tesi di Locke che 'gli uomini non possono essere costretti a salvarsi' può essere la posizione di un dissidente o addirittura di uno scettico, ma è basata su una concezione della salvezza condivisa da molti credenti. E se le cose stanno così, il disaccordo e il dissenso religioso pongono dei limiti all'uso della forza, i quali alla fine assumono la forma di una separazione radicale, del muro fra Chiesa e Stato" (v. Walzer, 1983; tr. it., p. 250). In questo senso quello della libertà religiosa è, almeno entro la tradizione occidentale, un caso esemplare. Il conflitto si chiude, se si chiude, con un 'trattato di pace'. Le sue clausole circoscrivono un ambito in cui gli individui sono liberi di credere o non credere e, in ogni caso, di aderire a differenti comunità di credenti. Tale adesione è compatibile con l'appartenenza alla comunità politica. Si potrebbe sostenere, adottando la terminologia di Carl Schmitt, che in tal modo assistiamo alla neutralizzazione o spoliticizzazione dell'ambito di riferimento religioso (v. Schmitt, 1972, pp. 167-183). In ogni caso la libertà religiosa si specifica, in una prospettiva normativa, come un diritto individuale costituzionalmente indisponibile; esso è sottratto all'arena della scelta collettiva. In una prospettiva interpretativa le radici della libertà religiosa affondano nell'autonomia relativa fra il dominio della verità e quello dell'autorità, fra il bene e il giusto.
Da un punto di vista concettuale l'autonomizzarsi di una sfera sociale in cui hanno luogo attività di impiego, combinazione, consumo e scambio di risorse economiche su cui individui liberi hanno diritto di proprietà è il processo cui corrisponde la domanda di libertà economica. Si tratta del "sistema semplice e ovvio della libertà naturale" di cui parla Adam Smith: il sistema non politico, ma appunto economico, capace di generare e assicurare benessere in una società bene ordinata in cui "ognuno, nella misura in cui non viola le leggi di giustizia, è lasciato libero di perseguire il suo interesse a modo suo". Se Locke aveva adottato il termine 'proprietà' per designare la libertà individuale, elaborando una teoria che faceva discendere la legittimità del possesso di cose dal lavoro erogato, a sua volta dipendente dal possesso di sé, Smith esamina l'ordine politico dal punto di vista della sua maggiore o minore coerenza con i fini non politici del mercato, quelli attinenti al progresso della società. "Ogni sistema che cerca o di attrarre per mezzo di incentivi straordinari verso una data specie di attività una quota del capitale della società maggiore di quella che vi andrebbe naturalmente, o di deviare forzatamente per mezzo di limitazioni straordinarie da una data specie di attività una parte del capitale che altrimenti vi verrebbe impiegato [...] ritarda, invece di accelerarlo, il progresso della società" (v. Smith, 1776; tr. it., pp. 680-681).
La libertà economica, in modo affine alla libertà religiosa, richiede la separazione fra l'arena del mercato e quella dell'autorità politica e la loro almeno relativa autonomia. E per quanto tale libertà esemplifichi un caso eminente di indipendenza individuale, non deve sfuggire come anche nel suo caso valga il principio della duplice fonte di identificazione collettiva o della disgiunzione delle comunità pertinenti. Qui pertinente è la comunità degli scambisti che coincide con il mercato: la libertà economica è la libertà del mercato di operare stabilmente in modo relativamente autonomo rispetto ai vincoli derivanti dall'ambito del politico.
È invece l'ambito del politico a essere investito direttamente nel caso della libertà politica, intesa come eguale libertà individuale di partecipare alle procedure che hanno come esito scelte collettive o decisioni sociali vincolanti erga omnes. Se Constant, pensando a Rousseau, aveva precisato che fra i diritti dei moderni vi è quello di ciascuno "di influire sull'amministrazione del governo sia nominando tutti o alcuni dei funzionari, sia mediante rimostranze, petizioni, richieste che l'autorità sia più o meno obbligata a prendere in considerazione" (v. Constant, 1815; tr. it., pp. 220-221), è Tocqueville ad asserire lapidariamente: "Dopo la libertà di agire da solo, l'idea più naturale per l'uomo è quella di collegare i suoi sforzi con quelli dei suoi simili e agire in comune. Il diritto di associazione mi sembra dunque per sua natura inalienabile quasi quanto la libertà individuale" (v. Tocqueville, 1835-1840; tr. it., p. 205). La libera arte di associarsi di Tocqueville è possibile alla luce di almeno due principî che Tocqueville stesso formula come in sequenza: la libertà di agire individualmente e quella di agire collettivamente. Si può osservare che il principio secondo cui tutti i membri di una comunità politica, in quanto riconosciuti come tali, hanno eguale diritto a essere pienamente rappresentati si congiunge, non senza tensioni, al principio secondo cui ogni gruppo di persone le quali condividono determinati interessi ha diritto di coalizzarsi e organizzarsi in modo stabile per farli valere (v. Pizzorno, 1993, p. 233).
La libertà politica è connessa a una differenziazione interna all'ambito delle istituzioni politiche; in particolare essa tocca le istituzioni della rappresentanza, così importanti per le democrazie liberali o costituzionali. Sembra che sin dall'origine questa differenziazione sia all'opera nel definire alcuni caratteri permanenti del sistema pluralistico di rappresentanza. Vi è almeno una versione o un modello coerente delle istituzioni politiche fondate sul valore della libertà moderna come valore della scelta individuale in cui il rapporto fra autorità, potere politico e cittadini è lineare e diretto. Ciò riguarda strettamente l'idea di comunità politica di cittadini la cui eguale libertà è alla base dell'idea stessa di rappresentanza politica (moderna). Com'è noto, la comunità politica così definita non è compatibile con altre comunità o con altri principî di identificazione collettiva. La lunga lotta fra la libertà e le libertà, cui si è fatto cenno nel capitolo precedente, è l'altra faccia del processo di dissoluzione dei 'corpi intermedi' o delle 'società parziali' che accompagna la nascita dello Stato territoriale moderno. Il principio di Rousseau della correlazione fra volontà individuali e volontà generale è chiaramente in conflitto con il principio dell'organizzazione pluralistica degli interessi di sezioni di popolazione incluse nella comunità politica. Si potrebbe inoltre asserire che il pluralismo che risorge dopo la breve parentesi delle legislazioni coerentemente liberali è un pluralismo trasformato alla luce del principio moderno del valore della scelta individuale. Per usare la terminologia della teoria sociale, esso perde o tende a perdere le sue caratteristiche ascrittive per assumere caratteristiche prevalentemente elettive.
Nel sistema delle libertà dei moderni è implicito tanto il principio dell'opzione individuale quanto quello dell'opzione collettiva: una teoria completa del sistema delle libertà prevede tanto che i cittadini scelgano di agire individualmente quanto che essi scelgano di agire con altri, collettivamente. Gli effetti dell'esercizio del diritto di coalizione implicano una tensione essenziale con l'idea di volontà generale o, più semplicemente, di interesse collettivo della comunità politica. Essi consistono nell'articolazione pluralistica del potere, nella definizione mobile e instabile dei confini fra ciò che è politica e ciò che non lo è e nella frammentazione dell'identità collettiva di cittadinanza; incidono sulle trasformazioni della natura della rappresentanza; inducono la formulazione di nuove questioni di diritti. In breve, il caso della libertà politica mostra come la teoria politica moderna della cittadinanza debba incorporare tanto il principio dell'individualismo quanto quello del pluralismo. E i dilemmi delle democrazie pluralistiche rappresentative o poliarchie trovano in questa tensione interna alla libertà politica la loro radice.In conclusione, possiamo osservare come i tre casi illustrati di libertà che investono differenti soggetti e differenti sfere sociali suggeriscano ancora una volta una concezione pluralistica della libertà destinata a mettere a fuoco una famiglia di contesti di conflitto o tensione fra le libertà. Come abbiamo osservato, la concezione pluralistica della libertà trova il suo senso genuino in caso di conflitti fra differenti libertà, quando si pone la questione dell'assegnazione di valori relativi a differenti libertà. Abbiamo detto che si tratta di una questione eminentemente prescrittiva o normativa. Anche se essa non è indipendente dalla descrizione non valutativa di quali libertà siano in conflitto, né è indipendente dall'interpretazione del senso e delle ragioni soggiacenti a differenti libertà, la questione dell'assegnazione di valore resta distinta, come questione normativa. Essa si può intendere in senso più ampio come una questione che investe sia le tensioni fra differenti libertà, sia le tensioni fra le libertà e altri valori o fini sociali, connessi alla giustificazione del buon ordine politico. In tal senso la questione si pone all'interno di teorie più ampie: teorie politiche miranti alla giustificazione di istituzioni, pratiche sociali e forme di vita collettiva. Per convenzione tali teorie sono qui chiamate teorie della giustizia, e l'illustrazione di alcune tesi sul valore assegnato alla libertà e sulle priorità rispetto ad altri fini sociali cui anche viene eventualmente assegnato valore sarà l'illustrazione del variabile ruolo che la libertà ha in teorie politiche normative più ampie o, nel senso detto, teorie della giustizia.
Consideriamo la più influente e discussa teoria della giustizia della seconda metà di questo secolo, la teoria della giustizia come equità di John Rawls. La libertà o, meglio, il sistema delle libertà è oggetto del primo principio di giustizia. Esso prescrive che il sistema delle libertà sia per ciascuno il più ampio possibile, compatibilmente con il sistema delle libertà di ciascun altro (v. Rawls, 1971). L'unico limite alla libertà, come si usa dire, è a vantaggio della libertà. Nella prospettiva di Rawls, la massimizzazione del sistema delle libertà individuali è lessicalmente prioritaria rispetto a quanto prescritto dal secondo principio di giustizia, il cosiddetto principio di differenza, un principio che deve modellare le istituzioni responsabili della distribuzione di una classe particolare di risorse, considerate come beni sociali primari spettanti a tutti i cittadini. Proponendo un ordinamento fra libertà ed equità, espresso dalla priorità del principio di libertà sul principio di differenza, Rawls ha di mira la soluzione di un conflitto fra la libertà e un altro valore sociale quale l'eguaglianza. Naturalmente l'eguaglianza richiede una specificazione appropriata: nella teoria della giustizia di Rawls l'eguaglianza va intesa come eguaglianza dei beni sociali primari o beni di cittadini. Per convenzione la si può chiamare eguaglianza distributiva, anche se la teoria non è egualitaria in senso stretto, dato il ruolo riconosciuto agli incentivi dalla formulazione del principio di differenza che classifica le ineguaglianze giustificabili.
Ora Rawls sostiene che il sistema delle libertà non solo deve essere eguale per tutti i partners della comunità politica, ma che esso non è negoziabile né sono ammesse transazioni aventi di mira la massimizzazione di altri valori sociali quale il benessere collettivo. La ragione di questa sottrazione 'costituzionale' delle libertà individuali al variabile campo degli interessi e dei valori sociali dipende dal tentativo di Rawls di formulare una teoria globalmente alternativa nei confronti della più consolidata e consistente tradizione di pensiero nella teoria politica normativa, quella dell'utilitarismo. Sin dalla sua formulazione classica, la teoria utilitaristica ha sempre assegnato a un termine come 'libertà' un valore in ogni caso strumentale e comunque non intrinseco. L'utilitarismo è una teoria rigorosamente monistica e l'unico valore intrinseco che essa riconosce non è altro che l'utilità collettiva, sotto la condizione della massimizzazione. Nelle riformulazioni a volte drastiche che la teoria utilitaristica ha incontrato nella sua lunga storia, l'idea base secondo cui la valutazione delle istituzioni politiche e delle pratiche sociali dipende da un unico valore e dal grado della sua realizzazione resta invariante come parte del nucleo della teoria (v. Harsanyi, 1988). Questo non vuol dire che alla libertà (o all'eguaglianza o alla stabilità) non sia assegnabile alcun valore: un valore è assegnabile, ma l'assegnazione di valore maggiore o minore dipende dall'esito di un test di massimizzazione, in termini, grosso modo, di benessere collettivo. L'utilitarismo esclude che possano darsi conflitti genuini fra differenti valori sociali. Anche se prima facie può sembrare che noi siamo chiamati a trovare un punto di equilibrio, per quanto provvisorio e instabile, fra quanto richiesto da un valore e quanto richiesto da un altro valore confliggente, in realtà la teoria utilitaristica dimostra che siamo chiamati a risolvere un problema di massimizzazione. Occorre chiedersi la soddisfazione di quale dei due valori o quale arrangiamento o trade off fra i due prometta di conseguire la massimizzazione del benessere collettivo. In questo senso l'utilitarismo ammette in linea di principio qualsiasi transazione fra valori, sotto la condizione che essa ottenga esiti, per così dire, di efficienza sociale.
A tale prospettiva è chiaramente alternativa la tesi della giustizia come equità, presentata da Rawls come parte di una prospettiva contrattualistica.
Per il contrattualismo, come per le teorie pluralistiche, vi sono differenti valori ed essi possono entrare in conflitto fra loro. Rawls propone, nel caso della libertà, un criterio costruttivo di ordinamento che genera la priorità, in ogni caso, a favore della libertà. Altre prospettive pluralistiche non consentono ciò, dato che la pluralità dei valori non è ritenuta teoricamente ordinabile (v. Berlin, 1991; tr. it., pp. 1942). I casi di conflitto fra la libertà e l'eguaglianza, l'efficienza o la stabilità potranno così ottenere solo soluzioni ad hoc, dipendenti dai contesti in cui si danno determinati conflitti e dal peso delle ragioni via via in gioco. Se quindi per la teoria della giustizia come equità uno dei problemi centrali è quello di proporre una soluzione cogente dei casi di conflitto fra la libertà e altri valori, e il dilemma è risolto con la priorità della libertà, resta aperta la questione non tanto della libertà quanto dell'eguaglianza distributiva. La domanda pertinente è del tipo: quale concezione dell'eguaglianza (se ve n'è una) è coerente con l'assegnazione della priorità alla libertà? La risposta è più o meno la seguente: accettare la priorità dell'eguale sistema delle libertà implica accettare un principio di equità nella distribuzione dei beni sociali primari, in quanto un eguale sistema di libertà non ha, di regola, eguale valore per individui diversamente dotati. Giustificare istituzioni modellate dall'eguale libertà implica che si formuli la domanda relativa al valore che essa presumibilmente ha per uomini e donne differenti quanto a dotazioni naturali e sociali e a risorse personali e impersonali. Questo modo di guardare alla questione è quello, secondo l'economista Arthur Okun, che permette di mettere a fuoco il trade off fra libertà ed eguaglianza, così come quello connesso fra eguaglianza ed efficienza (v. Okun, 1975).
Può essere utile, in proposito, sottolineare importanti sviluppi di questa prospettiva, che si basa sull'idea di assegnare all'eguaglianza un valore coerente con quello - prioritario - della libertà. Si consideri la proposta di Amartya K. Sen di distinguere fra libertà-controllo e libertà-potere, che mette a fuoco la questione della possibilità per uomini e donne di convertire i beni primari in capacità fondamentali di controllo sulle proprie vite; o la tesi sull'eguaglianza di risorse, formulata da Ronald Dworkin in un complesso argomento che ha di mira una soluzione distributiva che superi il test di non invidia e, soprattutto, sia coerente con la libertà di scelta individuale (v. Sen, 1992, tr. it., pp. 85-106; v. Dworkin, 1981). In ogni caso la teoria normativa di Rawls e gli sviluppi critici di Sen o Dworkin suggeriscono che una soluzione del conflitto fra la libertà e altri valori sociali è possibile; che essa richiede la priorità della libertà; che, una volta soddisfatta la richiesta del principio di libertà, l'ordinamento resta incompleto ed è quindi possibile procedere a un'assegnazione di valore coerente con tale principio, per esempio all'eguaglianza distributiva.
A questa prospettiva, e ad altre che in qualche modo condividono l'idea del mix o del trade off fra la libertà e altri valori o fini sociali, si contrappone radicalmente la tesi sui diritti negativi propria della teoria libertaria. Si consideri, in proposito, la tesi incisivamente argomentata da Robert Nozick nel 1974 a favore dello Stato minimo. L'argomento si presenta nel modo seguente: se la libertà individuale è assunta come un valore intrinseco, allora non è possibile alcun tipo di impegno rispondente a quanto richiesto da altri valori, quale l'eguaglianza. Perseguire obiettivi dettati dall'idea dell'eguaglianza distributiva non vuol dire altro che assegnare alla libertà un valore strumentale. Quindi o si è a favore della libertà, intesa come libertà negativa, o si è contro, punto e basta. Nella prospettiva libertaria l'unica accezione di eguaglianza coerente è quella specificata dall'eguale libertà di chiunque. Conflitti fra valori si danno solo prima facie, in modo affine a quanto accade per l'utilitarismo, nel senso che l'unico valore intrinseco è la libertà. Se si è coerenti con l'assegnazione di valore intrinseco a essa, allora il compito di una teoria della giustizia è praticamente concluso; nel senso che la giustificazione verterà solo su istituzioni che tutelino l'eguale libertà negativa di chiunque. La tesi libertaria confuta la pretesa di teorie della giustizia distributiva, quali quella utilitaristica o quella contrattualistica, di proporre criteri o modelli di distribuzione giusta. Tali modelli non possono che essere incoerenti con gli esiti distributivi derivanti dalla libertà che 'sconvolge i modelli'. Se ci si basa sull'assegnazione di valore intrinseco alla libertà individuale, qualsiasi precetto distributivo modellato è inaccettabile perché non può che violare la libertà individuale stessa. Più precisamente, una teoria normativa centrata monisticamente sul valore intrinseco della libertà mostra chiaramente che qualsiasi teoria della giustizia sociale non è altro che la formulazione di un 'miraggio', per usare l'espressione di uno dei più importanti e autorevoli scienziati sociali e politici del secolo, Friedrich von Hayek, la cui monumentale teoria generale (economica, giuridica, epistemologica) implica esiti normativi affini a quelli illustrati come esiti libertari (v. Nozick, 1974; v. Hayek, 1982, tr. it., pp. 262-306).
Nel suo complesso la discussione teorica sul problema del valore della libertà e sulla soluzione dei casi di conflitto fra la libertà e altri valori o fini sociali ha avuto come sfondo la questione, ritenuta centrale per la giustificazione dell'ordine politico, del conflitto fra interessi e pretese entro comunità politiche date. Le libertà sono in tal caso libertà da ascrivere o meno a soggetti dati, entro sfere date di azione e significato sociale, in presenza di un orizzonte dato di beni o scopi socialmente riconosciuti. Si può in conclusione suggerire che, nella più recente controversia nell'ambito della teoria normativa, il conflitto di interessi o conflitto distributivo abbia finito per lasciare spazio - maggiore o minore - ad altro tipo di conflitto, il conflitto di identità o conflitto per il riconoscimento. E questioni relative all'assegnazione di valore alle libertà si sono così connesse - o riconnesse - a questioni di riconoscimento di nuove identità o di identità prima escluse, a questioni di inclusione in o esclusione da comunità di 'pari' dai differenti confini, dando luogo a nuove classificazioni di sfere sociali. Nella teoria sono state messe a fuoco con maggiore intensità dimensioni comunitarie che in ogni caso darebbero un senso alle (o sarebbero costitutive delle) libertà individuali o ci si è interrogati sulla storia, di cui abbiamo richiamato qualche tratto rilevante, della costruzione dell'idea moderna di individuo come epicentro di valore (v. Sandel, 1982; v. Taylor, 1989). John Rawls, nella sua ultima opera, Liberalismo politico, ha cercato di iscrivere questi mutamenti e il possibile slittamento dal conflitto distributivo al conflitto per il riconoscimento entro il rinnovato nucleo normativo di un liberalismo che riconosce le proprie radici politiche nel paradigma della soluzione del conflitto religioso, dell'idea connessa della tolleranza e della sua tortuosa e complicata conversione da fatto dopo tutto contingente in valore costitutivo, incorporato negli elementi costituzionali essenziali di istituzioni di libertà (v. Rawls, 1993).
Nella teoria sociale sembra che l'accento cada più sulla dimensione delle legature che su quella delle opzioni per gli individui, per usare la terminologia proposta da Ralf Dahrendorf a proposito dell'idea di occasioni o chances di vita che sarebbero generate dai processi di modernizzazione di società 'aperte'. Forse l'indebolirsi, o l'esaurirsi, di vecchie legature o di fonti di identità collettive (politiche, sociali, culturali, religiose) ripropone la questione ricorrente, a proposito della libertà, del suo senso e della sua importanza. Quest'ultima, nella prospettiva sociologica di Dahrendorf, dipende non semplicemente dalla gamma di opzioni disponibili, né dall'intensità maggiore o minore delle legature, quanto piuttosto dal rapporto fra le due dimensioni che caratterizzano la "libertà che cambia" (v. Dahrendorf, 1979). (V. anche Eguaglianza; Giustizia; Liberalismo; Potere; Proprietà).
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