Vedi Libia dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
La lunga fase di transizione della Libia, iniziata con il conflitto civile e il crollo del regime di Muammar Gheddafi nell’ottobre del 2011, si è rivelata molto complessa e irta d’ostacoli. Il paese nel corso del 2014 pare essere entrato in un nuovo conflitto civile dopo quello di tre anni prima. Il confronto vede due governi, e due parlamenti, l’uno contro l’altro: quello ufficiale, riconosciuto dalla comunità internazionale, ha abbandonato la capitale Tripoli nell’agosto del 2014 rifugiandosi a Tobruk, città nell’est del paese, vicina al confine egiziano. A Tripoli si è nuovamente insediato il vecchio parlamento, eletto nel 2012, che ha a sua volta formato un nuovo governo. La polarizzazione politica si è estesa nell’ultimo anno anche al campo della sicurezza. Il governo di Tobruk è controllato da una sorta di alleanza tra le forze laiche del partito di Mahmoud Jibril e varie fazioni autonomiste/federaliste prevalentemente cirenaiche. Guidato da Ab- dullah al-Thinni, può contare in Cirenaica sulle varie forze riorganizzate all’interno della ‘Operazione Dignità’ dal generale Khalifa Belqasim Haftar, pienamente reintegrato all’interno di un costituente, seppur alquanto debole, nuovo esercito libico. In Tripolitania il governo di Tobruk può contare sulle milizie di Zintan, che controllavano l’aeroporto internazionale di Tripoli fi no all’agosto scorso. Il parlamento e il governo di Tripoli, guidati da Omar al-Hassi, sono invece sotto il controllo delle variegate forze islamiste con una forte preponderanza del partito legato alla Fratellanza musulmana libica. Diverse milizie dichiaratamente ‘islamiste’, coalizzatesi all’interno della missione ‘Operazione Alba’, appoggiano il governo di Tripoli. Tra queste la forza preponderante è quella delle milizie di Misurata, terza città del paese, certamente aperta a commerci marittimi e di scarse propensioni islamico-radicali. Due fronti di aperto confronto vedono contrapporsi questi due schieramenti: in Tripolitania, a Kikla, 82 km da Tripoli, si affrontano le forze zintaniane contro quelle misuratine; in Cirenaica, a Bengasi, continuano a guerreggiare le forze di Haftar contro varie milizie islamiche, tra le quali quelle più radicali di Ansar al-Sharia. Nel contempo, ampie zone del paese, soprattutto nell’est e nel sud, sono cadute sotto il controllo di forze dichiaratamente jihadiste come la stessa Ansar al-Sharia o gruppi radicali che dichiarano la propria appartenenza all’Is, come avvenuto a Derna, una sorta di città-stato sulle coste del Mediterraneo ormai roccaforte del radicalismo.
Dal punto di vista politico e geopolitico, quindi, la frammentazione politica, la precaria situazione di sicurezza e la permeabilità dei propri confini a molteplici traffici rendono la Libia post-Gheddafi un paese molto diverso da quello conosciuto sotto i quarantadue anni di regime del Colonnello.
Le cause di questo aggravarsi della situazione sono diverse. Le peculiarità del regime di Gheddafi, sostanzialmente costruito attorno alla propria figura, non hanno permesso la sopravvivenza di istituzioni che potessero contribuire alla stabilità nel periodo di transizione. Inoltre la ‘rivoluzione libica’ del 2011 si è fin da subito caratterizzata come rivolta armata, alimentata in buona parte da attori esterni e dai chiari contorni di guerra civile.
Infine le mancanze della comunità internazionale e le intromissioni degli attori esterni in campo politico costituiscono certamente un’importante concausa dell’attuale crisi. Appare evidente come si sia, per esempio, attivato troppo presto un processo di transizione basato sulle elezioni anziché su un tentativo – accompagnato dalla comunità internazionale – di costruzione delle istituzioni e di rafforzamento dello stato di diritto. Le tre elezioni (Congresso generale 2012, Assemblea costituente 2014, Camera dei rappresentanti 2014) tenutesi in un breve arco temporale, hanno contribuito a dividere il paese anziché unirlo e rigenerarlo, facendo venir meno una reale fase di ‘nation building’ nella quale si sarebbe dovuto discutere il più apertamente possibile del comune terreno sul quale ricostruire la nuova nazione libica.
Dal punto di vista delle relazioni internazionali, il governo ufficiale libico si è contraddistinto nel 2014 per richieste d’aiuto alla comunità internazionale nella lotta agli islamisti, raccogliendo di fatto l’appoggio di Egitto, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita. D’altro canto il governo di Tripoli è sostenuto da Turchia e Qatar. Queste interferenze esterne sembrano rendere più complesso l’avvio di un reale processo di riconciliazione nazionale. A questa ipotesi ha continuato a lavorare l’inviato speciale dell’Un, Bernardino Leon, nel secondo semestre del 2014. L’azione diplomatica della comunità internazionale si è avvalsa anche di una visita del Segretario Generale Ban Ki-moon nell’ottobre 2014.
La popolazione libica conta solo 6,2 milioni di persone: la densità demografica è molto bassa e la maggior parte della popolazione vive sulla costa e si concentra soprattutto nelle zone di Tripoli e Bengasi. La crescita della popolazione è sostenuta (il tasso di crescita tra il 2005 e il 2010 è stato del 2%) e la fascia giovanile (tra zero e 30 anni) è maggioritaria.
I libici sono prevalentemente di etnia araba e berbera, ma esistono anche significative minoranze tribali tuareg e tebu. Circa il 10% della popolazione è costituito da immigrati, provenienti per la maggior parte dall’Africa subsahariana. Si stima che circa il 97% dei libici sia musulmano sunnita; ai pochi non musulmani sotto il regime di Gheddafi era consentito praticare la loro fede con relativa libertà. Dalla caduta del regime ci sono stati frequenti attacchi contro luoghi signficativi per occidentali e cristiani, ma anche contro i santuari del sufismo da parte di gruppi salafiti jihadisti.
La Libia è stata per lungo tempo un paese di immigrazione, per l’elevata domanda di manodopera nei settori del petrolio e del gas e in quello dell’edilizia. Il paese ha attratto immigrati provenienti in prevalenza dai vicini stati dell’Africa subsahariana e, in misura minore, dal Nord Africa. Inoltre, la Libia è tuttora un paese di transito per gli immigrati provenienti dall’Africa subsahariana (Sudan, Ciad e Niger) e diretti in Europa. Di qui l’interesse dell’Italia e dell’Unione Europea (Eu), nel porre un freno al fenomeno migratorio, stipulando con il paese africano accordi in grado di delegare a Tripoli le prime competenze in materia di pattugliamento delle coste. In questo modo, la Libia si è trasformata di recente in una sorta di paese ‘cuscinetto’. Il Trattato di amicizia italo-libico e l’accordo tra Eu e Libia dell’ottobre 2010, ribaditi dal nuovo governo libico, hanno mirato al rafforzamento dei controlli della frontiera marittima da parte della Libia ed esternalizzato parte delle responsabilità nella riduzione della pressione migratoria. Tuttavia, le condizioni degli immigrati in Libia sono state aspramente criticate da alcune organizzazioni che si occupano di diritti umani: la Libia non dispone di una legislazione adeguata per la tutela dei rifugiati e dei richiedenti asilo e, pur non esistendo dati ufficiali sul traffico di esseri umani da e verso il paese, l’ingente afflusso di immigrati irregolari e la stretta dei controlli alle frontiere ha creato spesso condizioni di vita insostenibili. La crisi libica del 2011 ha implicato un relativo e momentaneo aumento dell’immigrazione proveniente dal paese, e condizioni di vita assai difficili per le minoranze nere all’interno del paese, considerate sostenitrici del regime di Gheddafi. Nel corso del 2013 l’Italia ha dato il via all’operazione militare umanitaria ‘Mare nostrum’ per il pattugliamento con quattro navi della marina della zona di mare italiana e internazionale tra Italia e Libia. Nel corso del 2014 Mare Nostrum è stata riassorbita nella missione europea Triton, mentre il flusso di immigrazione dalla Libia verso l’Italia, proprio a causa del nuovo conflitto, ha raggiunto la cifra record di 140.000 persone.
L’economia libica dipende dai proventi del settore degli idrocarburi, che vi contribuiscono per circa due terzi del pil nominale. Il paese possiede vasti giacimenti di petrolio e di gas ed esporta tali prodotti verso l’Italia – maggiore partner commerciale, che assorbe la quasi totalità delle esportazioni di gas e il 27% di quelle petrolifere – la Germania, la Spagna e la Francia.
In particolare la Libia vanta ingenti riserve di greggio accertate: circa 44 miliardi di barili, le maggiori d’Africa e tra le più vaste in assoluto. La Libia non ha però la tecnologia necessaria a sviluppare il settore degli idrocarburi e rimane quindi dipendente dagli investimenti provenienti dall’estero: per questo, la svolta moderata nella politica estera libica impressa al paese da Gheddafi nella prima parte degli anni Duemila ha offerto alle imprese straniere le garanzie necessarie perché potessero insediarsi con minori preoccupazioni. Tuttavia, la mutevole politica di Gheddafi, che aveva per esempio paventato la nazionalizzazione del settore degli idrocarburi, le condizioni piuttosto sfavorevoli imposte dal governo libico alle compagnie internazionali e, infine, le condizioni di sicurezza instabili che caratterizzano il paese nel post-Gheddafi, creano incertezze e scoraggiano gli investitori. Tra i principali investitori un ruolo di rilievo è ricoperto dall’Italia, e in particolare da Eni. I legami con l’ex colonia italiana, una volta ripresi, sono divenuti negli ultimi anni molto stretti.
Il conflitto civile del 2011 ha comportato per lunga parte dell’anno un blocco delle esportazioni di petrolio e gas e, quindi, una drastica diminuzione delle entrate e del pil annuale (-61%). A cominciare da ottobre 2011 la produzione petrolifera libica è tornata a crescere e ha quasi raggiunto alla fine del 2012 i livelli pre-guerra, ossia circa 1,5 milioni di barili al giorno. Tuttavia, l’attuale situazione d’instabilità del paese sta avendo forti ripercussioni anche sul fondamentale settore produttivo dell’energia. Dall’inizio di giugno 2013, l’estrazione di idrocarburi ha subito gravi interruzioni perché oggetto degli scioperi serrati dei lavoratori del settore e delle guardie preposte al controllo delle infrastrutture o perché colpiti dai sabotaggi delle milizie armate. Il 2014 ha registrato addirittura un importante tentativo di vendita irregolare da parte del gruppo autonomista cirenaico capeggiato da Ibrahim Jethran che aveva occupato diversi impianti energetici. Jethran accusava la Fratellanza musulmana libica di aver rovesciato la maggioranza laica all’interno del parlamento e, allo stesso tempo, rivendicava una maggior redistribuzione alla Cirenaica delle risorse energetiche. Nel marzo 2014 il gruppo è riuscito sorprendentemente a vendere un carico di greggio alla petroliera Morning Glory battente bandiera nord-coreana, che pochi giorni più tardi tuttavia veniva bloccata dalla marina americana e fatta rientrare in Libia. L’operazione è stata permessa grazie alla risoluzione n. 2146 del Consiglio di Sicurezza Un che impedisce le vendite illegali di greggio. Anche a causa di questi eventi la produzione nel corso del 2014 è molto diminuita attestandosi tra i 300.000 e i 700.000 barili al giorno. Nel corso del 2014 i due governi libici si sono contesi anche il controllo delle istituzioni economiche più importanti del paese tra cui la Banca centrale e la Compagnia nazionale del petrolio (Lnoc). L’incertezza su chi gestisca queste istituzioni è stata evidente quando al vertice Opec di Vienna di novembre si sono presentate due delegazioni diverse.
La Libia potrebbe quindi affrontare nel prossimo futuro anche una crisi economica, acuita dal crollo del costo del barile di petrolio sui mercati internazionali, prospettando la necessità di un prestito internazionale perché la Banca centrale potrebbe non essere in grado di pagare gli stipendi dei numerosi dipendenti pubblici. Più generalmente, infatti, i problemi dell’economia libica rimangono legati alla forte dipendenza dal settore energetico, alla necessità di differenziazione economica, all’alto tasso di disoccupazione, in particolare quella giovanile, e al bisogno di tecnologie adeguate e investimenti esteri.
La Libia di Gheddafi, nonostante l’assenza di libertà politiche e civili, possedeva un livello di sviluppo umano relativamente elevato rispetto ai vicini africani. Il tasso di alfabetizzazione per esempio raggiungeva il 100% tra i giovani; le condizioni dei servizi sanitari generici offerti alla popolazione erano sufficienti: in base ai dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, il 97% della popolazione aveva accesso alle strutture sanitarie, ma soltanto il 54,4% all’acqua potabile. La mortalità infantile era piuttosto bassa (17 su 1000 nati). Quanto alla parità di genere, Gheddafi aveva cercato, almeno pubblicamente, di promuovere lo status della donna rispetto alla cultura tradizionale e di scoraggiare la discriminazione. Nel 2012 il Ntc ha cercato per legge di riservare una quota di seggi a donne alle elezioni di luglio, ma ha dovuto rinunciare inserendo solamente l’obbligo di alternanza di sesso tra i candidati della quota proporzionale, il che ha assegnato alle donne complessivamente 80 seggi. La situazione è invece da sempre critica per quanto concerne i diritti civili e politici. L’attività politica sotto il regime di Gheddafi è sempre stata molto controllata, la libertà di assemblea era consentita solo alle manifestazioni filo-governative, non vi erano sindacati indipendenti e la corruzione era piuttosto diffusa. La Libia post-regime aveva offerto, in una prima fase, dati incoraggianti. Alle elezioni di luglio 2012 ha concorso il numero record di 140 partiti registrati, ma le formazioni politiche sono state più di 350. Le elezioni hanno prodotto un congresso molto eterogeneo dal punto di vista politico. Il sistema elettorale ha permesso l’elezione con il sistema maggioritario su circoscrizioni locali di 120 membri indipendenti che rispondevano quindi più alla comunità di appartenenza che a qualche partito. Tuttavia la scarsissima partecipazione in termini numerici della popolazione libica alle ultime votazioni ha costituito un importante indicatore sul grado di disillusione della popolazione libica nei confronti di una transizione pacifica e democratica.
Nella nuova Libia il pluralismo sembrava essere garantito, come la libertà d’espressione: nel giro di pochi mesi erano sorti moltissimi media, gruppi civili, associazioni e sindacati. Tuttavia, negli ultimi due anni, le libertà civili e i diritti politici sono stati fortemente limitati da minacce, agguati personali e intimidazioni, perlopiù esercitate da radicali islamici, ma anche dalle milizie che gestiscono singole aree. Il maggior pericolo sembra derivare da gruppi salafiti e jihadisti violenti ma anche dalle vendette incrociate dei vecchi appartenenti al regime gheddafiano.
L’attuale situazione caotica del paese è caratterizzata della presenza di numerose milizie armate presenti sul territorio libico. Queste non si sono disarmate alla fine del conflitto del 2011 e attualmente restano le vere detentrici del potere nel paese. Le varie autorità nazionali succedutesi dalla caduta del regime non sono state in grado di riconquistare il monopolio dell’uso della forza. Le sanzioni al regime di Gheddafi nel marzo 2011 hanno imposto l’embargo su qualsiasi tipo di armamento, mentre l’intervento Nato ha eliminato buona parte delle forze armate terrestri e aeree del regime.
Dopo la fine del conflitto si è registrato inoltre un flusso piuttosto rilevante di armamenti in uscita dal paese e diretto ad aree conflittuali africane e mediorientali. La Libia ha una forte necessità di ricostituire le proprie forze armate anche dal punto di vista dei mezzi e delle strutture, tuttavia sinora ciò le è stato impedito proprio dalle limitazioni ancora esistenti nel quadro delle sanzioni dell’Un. Diversi paesi occidentali, dagli Stati Uniti all’Italia, al Regno Unito, hanno collaborato nel corso del 2013-14 con il governo libico nella costituzione e nell’addestramento delle forze di polizia e dell’esercito, tuttavia con modesti risultati. La polarizzazione nel campo della sicurezza, tramutatasi in aperto conflitto tra le due fazioni, ha alimentato una nuova rincorsa agli armamenti, nel tentativo di rafforzamento di una parte sull’altra. La comunità internazionale, l’Eu in particolare, ha tentato di collaborare con la Libia nel tentativo di rafforzare i carenti controlli alle frontiere, causa del proliferare di traffici di armi, di persone e di droga, ma il tentativo è stato vano nel momento in cui la Libia è ricaduta in un conflitto tra le due fazioni a metà 2014. In particolare su questo fronte è da rilevare come il ritorno nel Mali di decine di ribelli tuareg che avevano combattuto a fianco delle milizie pro-Gheddafi durante la rivoluzione libica e il riarmo di Aqim (al-Qaida nel Maghreb islamico), proprio grazie all’arsenale del regime libico, abbiano costituito una delle cause di instabilità del Mali e la conseguente presa di potere nei territori settentrionali del Mali stesso a opera delle milizie islamiche.
Le novità più recenti sul piano della sicurezza si sono registrate negli ultimi mesi del 2014 con quella che molti media internazionali hanno annunciato come la penetrazione di Is in Libia. In realtà il panorama jihadista in Libia è molto variegato poiché molti altri gruppi salafiti-jihadista sembrano avere un santuario in Libia, compresi Aqim, gruppi egiziani e tunisini. Varie formazioni dichiaratamente jihadiste sono comparse sulla scena libica dal 2012 e si sono progressivamente rafforzate con lo sgretolarsi dello stato libico. Tra questi vi sono certamente gruppi che cercano di imporre la costituzione di un califfato in Libia anche attraverso l’uso della forza. Ansar al-Sharia Libia, responsabile dell’uccisione dell’ambasciatore americano Christopher Stevens nel settembre del 2012, resta la forza militare più cospicua nell’est del paese, in particolare nella città di Bengasi dove è attualmente contrastata dalle forze militari di Haftar, ed è stata designata prima dal Dipartimento di stato americano, poi dall’Un come organizzazione terroristica.
Quando il 14 febbraio 2014 l’ex generale Khalifa Belqasim Haftar lanciò alla televisione libica un proclama contro il parlamento poiché, a suo giudizio, le forze della Fratellanza musulmana se ne erano progressivamente impadronite ribaltando il risultato elettorale del 2012, l’evento sembrò un goffo tentativo di colpo di stato da parte di un personaggio semi-sconosciuto. Nel corso del 2014, tuttavia il generale Haftar è stato capace di ritagliarsi un ruolo importante nella lotta ai gruppi radicali islamici nel paese, raccogliendo parziale consenso all’interno e l’appoggio esterno dell’Egitto. Il generale è una figura con poche luci e molte ombre. Nel disastroso conflitto tra Ciad e Libia fu uno dei comandanti dell’esercito di Gheddafi. Il leader gli imputo responsabilità della débâcle e fu quindi costretto all’esilio negli Stati Uniti dove venne probabilmente messo sotto l’ala protettrice della Cia durante gli anni Novanta. Rientrato in patria nel 2011 per sostenere la rivolta libica, non riuscì a ritagliarsi un ruolo di profilo nel nuovo esercito fin quando non venne reintegrato completamente dal governo di Tobruk che gli ha affidato di fatto la responsabilità delle forze armate e della lotta in Cirenaica
Il 7 luglio 2012 i libici sono tornati alle urne dopo 42 anni di regime per eleggere i 200 membri del congresso. Secondo i dati Undp, su un totale di circa 3,5 milioni di aventi diritto si sono registrati per il voto circa 2,8 milioni di persone e hanno votato 1.764.840 persone, il 50% circa degli aventi diritto e il 63% di coloro che si erano registrati. É stato un risultato storico, sorprendente per un paese senza alcuna dimestichezza con la democrazia. Nel corso di pochi mesi, è apparsa netta la disillusione verso il processo di transizione. Il Congresso generale, preda di trasformismi e vittima di interessi personali e localistici, non solo è scivolato in mano alle formazioni islamiste ma è stato incapace di reale governo. Le elezioni del febbraio 2014 per l’Assemblea costituente 2014 e quelle del giugno successivo per la Camera dei rappresentanti hanno visto un’affluenza nettamente inferiore, ponendo forti dubbi sul grado di legittimità di queste istituzioni agli occhi dei libici. Alle ultime elezioni hanno votato poco più di 500.000 persone (meno del 20% degli aventi diritto). Diversi seggi non sono stati assegnati perché sia la Fratellanza musulmana che parte delle minoranze, tra le quali quelle berbere e tuareg, hanno boicottato il voto. Dopo l’abbandono della capitale nell’agosto 2014 da parte della Camera dei rappresentanti e il ritorno del Congresso, la Libia vive quindi la surreale contemporanea presenza di tre organismi di rappresentanza poiché anche l’assemblea costituzionale continua a riunirsi ad al-Beida come previsto inizialmente
‘La giornata della collera’ del 17 febbraio 2011 ha dato il via alla rivolta contro il regime di Gheddafi. Dal punto di vista militare, in poche settimane, grazie alle defezioni di parte dell’esercito libico, all’occupazione di caserme e armerie, e con il sostegno di diversi paesi occidentali e mediorientali, i rivoltosi si sono organizzati in gruppi armati. Dal punto di vista politico, invece, gli insorti si sono costituiti in un consiglio nazionale transitorio (Ntc), con a capo l’ex ministro della giustizia Mustafa Abdel Jalil. Tuttavia non sono riusciti prontamente a prendere il controllo della capitale e della maggior parte della Tripolitania, a causa del consenso di cui ancora godeva il regime in molte zone del paese. Il risultato del mancato successo della rivolta è stato lo scoppio di una vera guerra civile nel paese. La dura repressione dell’esercito e delle milizie del regime, e una situazione di sempre più evidente prevalenza delle forze di Gheddafi su quelle disorganizzate e mal equipaggiate del Ntc, hanno indotto il Consiglio di Sicurezza dell’Un ad adottare prima, il 26 febbraio, un regime di sanzioni contro Tripoli, che includesse l’embargo agli armamenti, la proibizione a Gheddafi e ai membri della sua famiglia di uscire dal paese e il congelamento dei beni del colonnello all’estero; poi, il 17 marzo, su iniziativa francese e inglese, a prendere una risoluzione che autorizzasse la comunità internazionale a istituire una no-fly zone e a utilizzare ‘tutti i mezzi necessari’, tranne l’occupazione militare, per proteggere i civili e imporre un cessate il fuoco. Nei giorni successivi sono iniziate le operazioni di no-fly zone unitamente al bombardamento di obiettivi militari e strategici da parte di alcuni paesi occidentali, come Francia, Regno Unito e Stati Uniti, e di alcuni paesi arabi, come Qatar ed Emirati Arabi Uniti (Uae). In seguito le operazioni militari sono state poste sotto il comando della Nato nella missione denominata ‘Unified Protector’, cui ha preso pienamente parte anche l’Italia, da sempre primo partner commerciale di Tripoli. Proprio sul piano politico-diplomatico, la comunità internazionale si è trovata a dover gestire il problema del comando delle operazioni e del suo passaggio dalla coalizione dei volenterosi alla Nato, con la Francia che ha continuato a spingere per la costituzione di un ‘direttorio’ al di fuori dell’alleanza che ne stabilisse l’orientamento politico. Si è poi trovata una soluzione che ha fatto rientrare il pieno controllo e la gestione della missione in ambito Nato, con quartier generale a Napoli.
Con l’implementazione della no-fly zone, le ostilità a terra sono continuate su due fronti principali: quello orientale della Cirenaica, e quello di Misurata, città ribelle all’interno della Tripolitania, terza cittadina in ordine di grandezza della Libia. Se l’intervento internazionale ha aiutato le milizie dei ribelli a rafforzare le posizioni in Cirenaica, distruggendo le colonne di blindati del regime (le cui truppe hanno poi cambiato tattica, utilizzando mezzi più agili e confondendosi con gli insorti), a Misurata il supporto aereo è stato inferiore a causa dell’alto rischio di danni collaterali, trattandosi di condurre raid in territorio urbano. I raid aerei sono continuati costantemente per settimane con il chiaro obiettivo del collasso del regime e la sua sostituzione con il Ntc. Tra la fine di agosto e l’inizio di settembre 2011 le forze militari dei ribelli, in particolare le milizie berbere del Nafusa, sono riuscite a entrare a Tripoli e a occupare buona parte della Tripolitania. Dopo le difficoltà incontrate all’interno del Ntc nella formazione di un nuovo governo che includesse le diverse anime della rivolta, le ultime sacche di resistenza dei lealisti, concentrate nelle cittadine di Bani Walid e Sirte, sono state in buona parte sopraffatte a metà ottobre 2011. Il 20 ottobre 2011 Gheddafi è stato ucciso proprio a Sirte, sua città natale.