Vedi Libia dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
La lunga fase di transizione della Libia, iniziata con il conflitto civile e il crollo del regime di Mu’ammar Gheddafi nell’ottobre del 2011, si sta rilevando molto complessa e irta d’ostacoli, benché le elezioni per il congresso nazionale che si sono tenute il 7 luglio 2012, abbiano avuto un relativo successo. La Libia ha vissuto nel corso del 2013 la peggior crisi politica ed economica della sua recente storia. L’autorità centrale, che faticosamente ha cercato di affermarsi sul vasto e sottopopolato territorio libico, è apparsa progressivamente disintegrarsi per le divisioni politiche interne e per il confuso quadro istituzionale. Il nuovo sistema parlamentare sorto in seguito alle elezioni è andato via via perdendo legittimità agli occhi non soltanto delle fazioni libiche, ma anche dei cittadini che non hanno avvertito progressivi miglioramenti in termini economici e, soprattutto, di sicurezza.
Il maggior problema nella stabilizzazione è costituito del reinserimento o smantellamento delle milizie che si erano formate durante la guerra civile. Nel corso del 2012-13 il paese è rapidamente divenuto il teatro operativo di formazioni estremiste apertamente ostili a una struttura statuale secolare. Talvolta questi gruppi hanno apertamente aderito alla lotta jihadista (in chiave locale o regionale), talvolta hanno assunto attività tipiche dello stato come il controllo territoriale o l’assistenza sociale. L’unità della Libia appare progressivamente più precaria poiché le forze centrifughe, locali (le singole città) o regionali (alcune fazioni della Cirenaica e del Fezzan che hanno dichiarato le rispettive autonomie e cercano di controllare le risorse), hanno acquisito sempre maggior rilevanza. Il 30 dicembre 2013 le agenzie giornalistiche internazionali riferivano che l’esercito controllava ormai soltanto la capitale. A questa situazione semianarchica si è sommata, dall’estate 2013, anche la crisi dell’industria energetica. Diversi gruppi di miliziani e le guardie preposte al controllo degli impianti, per diverse ragioni politiche ed economiche e con tempi diversi, hanno imposto l’interruzione delle infrastrutture e determinato così il collasso delle esportazioni libiche. All’inizio del 2014 il problema non sembra risolto e si prospettano scenari inquietanti per il futuro economico di un paese potenzialmente molto ricco.
Dal punto di vista politico e geopolitico, quindi, la frammentazione politica, la precaria situazione di sicurezza e la permeabilità dei propri confini a molteplici traffici rendono la Libia post Gheddafi un paese molto diverso da quello conosciuto sotto i quarantadue anni di regime del Colonnello.
La già crescente preoccupazione dei paesi europei e degli Stati Uniti, ai quali il nuovo governo libico sembra guardare come principale referente internazionale, ha toccato il suo apice quando il primo ministro libico Ali Zeidan è stato rapito e rilasciato in poche ore, il 10 ottobre 2013, a opera di un gruppo di miliziani radicali. Nel corso del 2013, inoltre, la situazione regionale, con l’intervento francese in Mali, il rovesciamento del governo di Mohammed Mursi in Egitto e la continua tensione in Siria, si è ulteriormente aggravata. I paesi occidentali hanno accresciuto l’attenzione verso la stabilizzazione del paese e il rafforzamento della legittimità della fragile autorità nazionale, accompagnando con maggior convinzione il processo di democratizzazione della Libia a iniziare dalle elezioni per l’assemblea costituente che dovrebbero tenersi nel 2014. Al G8 del 17-18 giugno 2013, tenutosi a Lough Erne in Irlanda del Nord, è stato deciso che l’intervento occidentale sia focalizzato in particolare sulla formazione di alcune migliaia di poliziotti e militari libici in diversi paesi. Se il ruolo delle grandi potenze e di quelle regionali è stato determinante nella caduta del regime di Mu’ammar Gheddafi, il mancato rapido coordinamento nella fase di ricostruzione del paese ha notevolmente contribuito alla difficile fase attuale.
Per quanto riguarda gli orientamenti internazionali, dal colpo di stato di Mu’ammar Gheddafi nel 1969, la Libia ha storicamente improntato la propria politica estera su due direttrici: l’antimperialismo (spesso interpretato in chiave antioccidentale, ma talvolta, in passato, anche antisovietica) e il panarabismo, divenuto poi panafricanismo una volta deluse le ambizioni di leadership del mondo arabo. Entrambe sono state funzionali anche al perseguimento di obiettivi di legittimazione e stabilità interna: l’individuazione di nemici comuni e la creazione di una ‘missione’ nazionale avrebbero dovuto cementare la debole identità libica. Il nuovo governo ha abbandonato questa linea. Dopo i decenni di isolamento internazionale, le nuove élite libiche, parte delle quali formatesi in esilio all’estero, sembrano voler guidare il paese verso una piena integrazione nella comunità internazionale.
La popolazione libica conta solo 6,1 milioni di persone: la densità demografica è molto bassa e la maggior parte della popolazione vive sulla costa e si concentra soprattutto nelle zone di Tripoli e Bengasi. La crescita della popolazione è sostenuta (il tasso di crescita tra il 2005 e il 2010 è stato del 2%) e la fascia giovanile (tra zero e 30 anni) è maggioritaria.
I libici sono prevalentemente di etnia araba e berbera, ma esistono anche significative minoranze tribali Tuareg e Tebu. Circa il 10% della popolazione è costituito da immigrati, provenienti per la maggior parte dall’Africa subsahariana. Si stima che circa il 97% dei libici sia musulmano sunnita; ai pochi non musulmani sotto il regime di Gheddafi era consentito di praticare la loro fede con relativa libertà. Dalla caduta del regime ci sono stati frequenti attacchi contro luoghi signficativi per occidentali e cristiani, ma anche contro i santuari del sufismo da parte di gruppi salafiti jihadisti.
La Libia è stata per lungo tempo un paese di immigrazione, per l’elevata domanda di manodopera nei settori del petrolio e del gas e in quello dell’edilizia. Il paese ha attratto immigrati provenienti in prevalenza dai vicini stati dell’Africa subsahariana e, in misura minore, dal Nord Africa. Inoltre, la Libia è tuttora un paese di transito per gli immigrati provenienti dall’Africa subsahariana (Sudan, Ciad e Niger) e diretti in Europa. Di qui l’interesse dell’Italia, ma anche dell’Unione Europea (Eu), a porre un freno al fenomeno migratorio, stipulando con il paese africano accordi in grado di delegare a Tripoli stessa le prime competenze in materia di pattugliamento delle coste. In questo modo, la Libia si è trasformata di recente in una sorta di paese ‘cuscinetto’. Il Trattato di amicizia italo-libico e l’accordo traEu e Libia dell’ottobre 2010, ribaditi dal nuovo governo libico, hanno mirato al rafforzamento dei controlli della frontiera marittima da parte della Libia ed esternalizzato parte delle responsabilità nella riduzione della pressione migratoria. Tuttavia, le condizioni degli immigrati in Libia sono state aspramente criticate da alcune organizzazioni che si occupano di diritti
umani: la Libia non dispone di una legislazione adeguata per la tutela dei rifugiati e dei richiedenti asilo e, pur non esistendo dati ufficiali sul traffico di esseri umani da e verso il paese, l’ingente afflusso di immigrati irregolari e la stretta dei controlli alle frontiere ha creato spesso condizioni di vita insostenibili. La crisi libica del 2011 ha implicato un relativo e momentaneo aumento dell’immigrazione proveniente dal paese, e condizioni di vita assai difficili per le minoranze nere all’interno del paese, considerate sostenitrici del regime di Gheddafi. Nel corso del 2013 l’Italia ha dato il via all’operazione militare umanitaria ‘Mare nostrum’ per il pattugliamento con quattro navi della marina della zona di mare italiana e internazionale tra Italia e Libia.
L’economia libica dipende dai proventi del settore degli idrocarburi, che vi contribuiscono per circa due terzi del pil nominale. Il paese possiede vasti giacimenti di petrolio e di gas, ed esporta tali prodotti verso l’Italia – maggiore partner commerciale, che assorbe il 70% delle esportazioni totali di gas e il 35% di quelle petrolifere – la Germania, la Spagna e la Francia.
In particolare la Libia vanta ingenti riserve di greggio accertate: circa 44 miliardi di barili, le maggiori d’Africa e tra le più vaste in assoluto. La Libia non ha però la tecnologia necessaria a sviluppare il settore degli idrocarburi e rimane quindi dipendente dagli investimenti provenienti dall’estero: per questo, la svolta moderata nella politica estera libica impressa al paese da Gheddafi nella prima parte degli anni Duemila ha offerto alle imprese straniere le garanzie necessarie perché potessero insediarsi con minori preoccupazioni. Tuttavia, la mutevole politica di Gheddafi, che ha per esempio paventato la nazionalizzazione del settore degli idrocarburi, le condizioni piuttosto sfavorevoli imposte dal governo libico alle compagnie internazionali e, infine, le condizioni di sicurezza instabili che caratterizzano il paese nel post-Gheddafi, creano incertezze e scoraggiano gli investitori. Tra i principali investitori un ruolo di rilievo è ricoperto dall’Italia, e in particolare da Eni. I legami con l’ex colonia italiana, una volta ripresi, sono divenuti negli ultimi anni molto stretti.
Il conflitto civile del 2011 ha comportato per lunga parte dell’anno un blocco delle esportazioni di petrolio e gas e, quindi, una drastica diminuzione delle entrate e del PIL annuale (-61%). A cominciare da ottobre 2011 la produzione petrolifera libica è tornata a crescere e ha quasi raggiunto alla fine del 2012 i livelli pre-guerra, ossia circa 1,5 milioni di barili al giorno. Tuttavia, l’attuale situazione d’instabilità del paese sta avendo forti ripercussioni anche sul fondamentale settore produttivo dell’energia. Dall’inizio di giugno 2013, l’estrazione di idrocarburi ha subito gravi interruzioni perché oggetto di scioperi serrati dei lavoratori del settore e delle guardie preposte al controllo delle infrastrutture o perché colpiti da sabotaggi delle milizie armate. Alla fine del 2013 la produzione complessiva di greggio libico era pari a un quarto di quella dei primi mesi dell’anno.
Particolarmente preoccupante è la situazione degli impianti in Cirenaica, dove le rivendicazioni economiche si fondono a quelle politiche relative all’autonomia della regione. Con lo scopo di non inimicarsi le compagnie petrolifere internazionali, sempre più incerte sulla loro permanenza per la mancanza di sicurezza, il governo libico ha nel corso del 2013 annunciato la revisione al ribasso dei contratti di esplorazione ed estrazione, pur di promuovere gli investimenti. Nella Libia di Gheddafi gli operatori stranieri si erano comunque sempre scontrati con le moltissime limitazioni poste loro dal regime. Più generalmente i problemi dell’economia libica rimangono legati alla forte dipendenza dal settore energetico, alla necessità di differenziazione economica, all’alto tasso di disoccupazione, in particolare quella giovanile, e al bisogno di tecnologie adeguate e investimenti esteri. La nuova dirigenza libica è impegnata a premiare il rischio di operare in un paese con una difficile situazione politica ma il suo scarso controllo del territorio compromette qualsiasi tentativo.
La Libia di Gheddafi, nonostante l’assenza di libertà politiche e civili, possedeva un livello di sviluppo umano relativamente elevato rispetto ai vicini africani. Il tasso di alfabetizzazione per esempio raggiungeva il 100% tra i giovani; le condizioni dei servizi sanitari generici offerti alla popolazione erano sufficienti: in base ai dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, il 97% della popolazione aveva accesso alle strutture sanitarie, ma soltanto il 54,4% all’acqua potabile. La mortalità infantile era piuttosto bassa (17 su 1000 nati). Quanto alla parità di genere, Gheddafi aveva cercato, almeno pubblicamente, di promuovere lo status della donna rispetto alla cultura tradizionale e di scoraggiare la discriminazione. Nel 2012 il Ntc ha cercato per legge di riservare una quota di seggi a donne alle elezioni di luglio, ma ha dovuto rinunciare inserendo solamente l’obbligo di alternanza di sesso tra i candidati della quota proporzionale, il che ha assegnato alle donne complessivamente 80 seggi. La situazione è invece da sempre critica per quanto concerne i diritti civili e politici. L’attività politica sotto il regime di Gheddafi è sempre stata molto controllata, la libertà di assemblea era consentita solo alle manifestazioni filogovernative, non vi erano sindacati indipendenti e la corruzione era piuttosto diffusa. La Libia post-regime aveva offerto, in una prima fase, dati incoraggianti. Alle elezioni di luglio 2012 ha concorso il numero record di 140 partiti registrati, ma le formazioni politiche sono state più di 350. Le elezioni hanno prodotto un congresso molto eterogeneo dal punto di vista politico. Il sistema elettorale ha permesso l’elezione con il sistema maggioritario su circoscrizioni locali di 120 membri indipendenti che rispondono quindi più alla comunità di appartenenza che a qualche partito. Tra i partiti ha ottenuto una maggioranza relativa l’alleanza laica guidata dall’ex primo ministro del governo transitorio Mahmud Jibril, che ha avuto la meglio sulle forze legate alla Fratellanza musulmana e a diverse altre formazioni islamiste, anche se queste hanno poi riguadagnato consensi tra gli eletti indipendenti.
Nella nuova Libia il pluralismo sembrava essere garantito, come la libertà d’espressione: nel giro di pochi mesi erano sorti moltissimi media, gruppi civili, associazioni e sindacati. Tuttavia, nell’ultimo anno e mezzo, le libertà civili e i diritti politici sono stati fortemente limitati da minacce, agguati personali e intimidazioni, perlopiù esercitate da radicali islamici, ma anche dalle milizie che gestiscono singole aree. Su questo piano bisognerà attendere sviluppi positivi dalla futura Costituzione e il ritorno del territorio sotto il controllo dell’autorità centrale. Il maggior pericolo potrebbe derivare da gruppi salafiti e jihadisti che non riconoscano come legittima l’attuale transizione politica e l’istituzione di questi princìpi.
Con la fine della Guerra fredda e il conseguente collasso dell’Unione Sovietica, la Libia ha dovuto in parte rivedere i propri piani per la difesa, dal momento che Mosca aveva storicamente rappresentato il fornitore privilegiato di Tripoli in ottica antioccidentale (con un trasferimento di armi pari a circa 25 miliardi di dollari tra il 1970 e il 1989). Complice la caduta del sistema sovietico e dell’alleanza tra i due paesi, Tripoli si è trovata senza un’industria della difesa all’avanguardia e nella necessità di ammodernare il proprio apparato militare, per la progressiva obsolescenza delle armi e delle tecnologie di cui era dotata. Contemporaneamente, la fine dell’isolamento internazionale all’inizio del 21° secolo ha consentito a Tripoli di fare leva in misura sempre maggiore sulla sua influenza economica, soprattutto grazie all’esportazione delle sue ingenti risorse petrolifere, e di diminuire la portata delle sue strategie di deterrenza militare (al tempo stesso meno necessarie, vista la distensione avvenuta a livello regionale e internazionale). Così, nel 2003, la Libia aveva scelto di rinunciare ai suoi programmi di sviluppo di armi di distruzione di massa. D’altro canto il paese poteva recentemente contare su contratti per la fornitura di armi e per il trasferimento di tecnologia militare stipulati non solo con la Russia, ma anche con altri paesi, tra cui l’Ucraina, l’Italia e la Francia. Le sanzioni al regime di Gheddafi nel marzo 2011 hanno imposto l’embargo su qualsiasi tipo di armamento, mentre l’intervento Nato ha eliminato buona parte delle forze armate terrestri e aeree del regime. Dopo la fine del conflitto si è registrato inoltre un flusso piuttosto rilevante di armamenti in uscita dal paese e diretto ad aree conflittuali africane e mediorientali. La Libia ha una forte necessità di ricostituire le proprie forze armate anche dal punto di vista dei mezzi e delle strutture, tuttavia sinora ciò le è stato impedito proprio dalle limitazioni ancora esistenti nel quadro delle sanzioni Un. Diversi paesi occidentali, primo fra tutti gli Stati Uniti ma anche l’Italia, stanno invece collaborando con il governo libico nella costituzione e nell’addestramento delle forze di polizia e dell’esercito.
La Libia di Gheddafi aveva mirato nell’ultimo decennio a un ruolo di primo piano all’interno della regione africana, e lo stesso colonnello aveva più volte dichiarato che il suo paese voleva essere un punto di riferimento per tutti i paesi dell’area. Lo strumento che Tripoli aveva utilizzato per aumentare la sua influenza sul continente era stata l’Unione Africana (Au), organizzazione all’interno della quale la Libia ricopriva un ruolo di rilievo. La nuova Libia non pare affatto interessata ad attuare una politica simile, concentrandosi innanzitutto sul rafforzamento dei carenti controllialle frontiere, causa del proliferare di traffici di armi, di persone e di droga. In particolare su questo fronte è da rilevare come il ritorno nel Mali di decine di ribelli tuareg che avevano combattuto a fianco delle milizie pro-Gheddafi durante la rivoluzione libica e il riarmo di Aqim (al-Qaida nel Maghreb Islamico), proprio grazie all’arsenale del regime libico, abbiano costituito una delle cause di instabilità del Mali e la conseguente presa del potere nei territori settentrionali del Mali stesso a opera delle milizie islamiche. Secondo diverse fonti, nel 2012, 20.000 missili portatili antiaerei erano ancora nelle mani delle milizie.
‘La giornata della collera’ del 17 febbraio 2011 ha dato il via alla rivolta contro il regime di Gheddafi. Dal punto di vista militare, in poche settimane, grazie alle defezioni di parte dell’esercito libico, all’occupazione di caserme e armerie, e con il sostegno di diversi paesi occidentali e mediorientali, i rivoltosi si sono organizzati in gruppi armati. Dal punto di vista politico, invece, gli insorti si sono costituiti in un consiglio nazionale transitorio (NTC), con a capo l’ex ministro della giustizia Mustafa Abdel Jalil. Tuttavia non sono riusciti prontamente a prendere il controllo della capitale e della maggior parte della Tripolitania, a causa del consenso di cui ancora godeva il regime in molte zone del paese. Il risultato del mancato successo della rivolta è stato lo scoppio di una vera guerra civile nel paese. La dura repressione dell’esercito e delle milizie del regime, e una situazione di sempre più evidente prevalenza delle forze di Gheddafi su quelle disorganizzate e mal equipaggiate del NTC, hanno indotto il consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ad adottare prima, il 26 febbraio, un regime di sanzioni contro Tripoli, che includesse l’embargo agli armamenti, la proibizione a Gheddafi e ai membri della sua famiglia di uscire dal paese e il congelamento dei beni del colonnello all’estero; poi, il 17 marzo, su iniziativa francese e inglese, a prendere una risoluzione che autorizzasse la comunità internazionale a istituire una no fly zone e a utilizzare ‘tutti i mezzi necessari’, tranne l’occupazione militare, per proteggere i civili e imporre un cessate il fuoco. Nei giorni successivi sono iniziate le operazioni di no fly zone unitamente al bombardamento di obiettivi militari e strategici da parte di alcuni paesi occidentali, come Francia, Regno Unito e Stati Uniti, e di alcuni paesi arabi, come Qatar ed Emirati Arabi Uniti (UAE). In seguito le operazioni militari sono state poste sotto il comando della NATO nella missione denominata ‘Unified Protector’, a cui ha preso pienamente parte anche l’Italia, da sempre primo partner commerciale di Tripoli. Proprio sul piano politico-diplomatico, la comunità internazionale si è trovata a dover gestire il problema del comando delle operazioni e del suo passaggio dalla coalizione dei volenterosi alla NATO, con la Francia che ha continuato a spingere per la costituzione di un ‘direttorio’ al di fuori dell’alleanza che ne stabilisse l’orientamento politico. Si è poi trovata una soluzione che ha fatto rientrare il pieno controllo e la gestione della missione in ambito NATO, con quartier generale a Napoli.
Con l’implementazione della no fly zone, le ostilità a terra sono continuate su due fronti principali: quello orientale della Cirenaica, e quello di Misurata, città ribelle all’interno della Tripolitania, terza cittadina in ordine di grandezza della Libia. Se l’intervento internazionale ha aiutato le milizie dei ribelli a rafforzare le posizioni in Cirenaica, distruggendo le colonne di blindati del regime (le cui truppe hanno poi cambiato tattica, utilizzando mezzi più agili e confondendosi con gli insorti), a Misurata il supporto aereo è stato inferiore a causa dell’alto rischio di danni collaterali, trattandosi di condurre raid in territorio urbano. I raid aerei sono continuati costantemente per settimane con il chiaro obiettivo del collasso del regime e la sua sostituzione con il NTC. Tra la fine di agosto e l’inizio di settembre 2011 le forze militari dei ribelli, in particolare le milizie berbere del Nafusa, sono riuscite a entrare a Tripoli e a occupare buona parte della Tripolitania. Dopo le difficoltà incontrate all’interno del NTC nella formazione di un nuovo governo che includesse le diverse anime della rivolta, le ultime sacche di resistenza dei lealisti, concentrate nelle cittadine di Bani Walid e Sirte, sono state in buona parte sopraffatte a metà ottobre 2011. Il 20 ottobre 2011 Gheddafi è stato ucciso proprio a Sirte, sua città natale.
In seguito al colpo di stato di Gheddafi nel 1969, la Libia assunse ufficialmente la forma di governo della Jamahiriyah. Si tratta di un termine arabo coniato da Gheddafi stesso, che nelle sue intenzioni voleva significare ‘governo delle masse’. Ufficialmente Gheddafi non ricopriva alcun ruolo all’interno del paese, ma de facto è stato il capo di stato e il comandante delle forze armate. Il sistema istituzionale libico si basava sul cosiddetto ‘Libro verde’, scritto da Gheddafi e pubblicato nel 1975, in cui egli rigettava i tradizionali sistemi democratici e partitici. Il 7 luglio 2012 i libici sono tornati alle urne dopo 42 anni di regime per eleggere i 200 membri del congresso. Secondo i dati UNDP, su un totale di circa 3,5 milioni di aventi diritto si sono registrati per il voto circa 2,8 milioni di persone e hanno votato 1.764.840 persone, il 50% circa degli aventi diritto e il 63% di coloro che si erano registrati.
A seguito dello scoppio del conflitto, il governo italiano aveva sospeso l’accordo firmato il 30 agosto del 2008 tra Italia e Libia nella città libica di Bengasi e ratificato dai rispettivi paesi tra il febbraio e il marzo del 2009. Secondo le disposizioni previste dal Trattato, l’Italia si impegnava a pagare 5 miliardi di dollari alla Libia in 20 anni come compensazione per la colonizzazione italiana, da destinare al finanziamento della costruzione di infrastrutture. Nel gennaio 2012 la ‘Tripoli Declaration’, il comunicato congiunto finale, firmata dall’ex presidente del consiglio Mario Monti e dal primo ministro del governo provvisorio libico Abdel Raheem al-Keib, a seguito del vertice bilaterale tenutosi nella capitale libica, ha stabilito una parziale revisione del Trattato e ha genericamente confermato le relazioni di amicizia tra i due paesi.