Lo spazio religioso a Roma
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
A Roma i tempi dei culti non sono meno stabiliti dei luoghi in cui essi devono essere celebrati: che sia un templum, la casa del dio per eccellenza; il focolare della domus, intorno al quale il pater familias esercita quotidianamente il culto domestico; o il crocicchio, dove si celebra annualmente la festa in onore dei Lari; persino l’imperium del console è soggetto ad una demarcazione spaziale: il pomerium che divide l’urbs dall’ager, dove hanno luogo le attività militari e le pratiche religiose riguardanti la guerra, come la devotio e l’evocatio.
Dopo la grande catastrofe rappresentata dall’incendio gallico e la riconquista della città a opera di Marco Furio Camillo (390 a.C.), Tito Livio, il grande storico di età augustea, racconta che i Romani dibatterono a lungo sull’opportunità di abbandonare Roma, ormai sfigurata dalle devastazioni, e trasferirsi nella vicina città di Veio. Camillo pronunciò allora un lungo discorso allo scopo di persuadere i suoi concittadini dell’impossibilità di un simile gesto. Tutto il monologo, costruito dall’autore per il suo personaggio, è incentrato sull’ordinamento religioso dello spazio urbano, considerato come causa prima della grandezza e dell’eternità di Roma.
Ma possiamo essere certi che tale prospettiva era caratteristica dell’habitus mentale dell’uomo romano, per il quale Veio non avrebbe mai potuto sostituire Roma: semplicemente perché “essere Romani” significava “essere a Roma”, un luogo straordinario e fuori dal comune, dove accanto al popolo degli uomini, vive silenzioso e potente un popolo di dèi che sorveglia, protegge e ammonisce. A Roma infatti ogni dio ha la sua casa (templum, fanum, sacellum ecc.), e ogni casa la sua storia. Di qui l’eccezionale quantità di feste religiose del calendario romano, la cui celebrazione evoca lungo il ciclo annuale le grandi esperienze della storia romana riportandole, per così dire, a vivere nei punti nevralgici della topografia sacra, a partire dalla piana del foro, dove si addensa la maggior parte dei templi e dei santuari.
Tito Livio
Ab urbe condita libri, Libro V, cap. LII
Vedendo la straordinaria importanza che ha nelle vicende umane il culto o il disprezzo della divinità, non vi accorgete, o Quiriti, dell’empietà che ci prepariamo a compiere appena scampati al naufragio della precedente colpa e sconfitta? Abbiamo una città fondata dopo aver preso gli auspìci e aver tenuto conto degli augúri. Non c’è luogo in essa che non sia pieno di culti religiosi e di dèi; i giorni in cui si tengono i sacrifici annuali non sono meno stabiliti dei luoghi in cui questi devono essere compiuti. Quiriti, state per abbandonare tutti questi dèi pubblici e privati? […] E per non passare in rassegna tutte le singole forme di riti e di dèi, credete forse che nel banchetto di Giove il pulvinare potrebbe essere allestito in un altro luogo che non sia il Campidoglio? E che cosa dovrei dire del sacro fuoco di Vesta e della statua che come garanzia di dominio è custodita in quel tempio? Che cosa sarà dei vostri ancili, O Marte Gradivo, e tu, padre Quirino? Si pensa dunque di abbandonare in un luogo profano tutti questi oggetti sacri, antichi quanto la città, ed alcuni ancora più antichi della sua stessa fondazione? […] Ma stiamo parlando dei sacri riti e dei templi: che diremo poi dei sacerdoti? Non vi viene in mente quale grande sacrilegio si sta per commettere? Quella, quella sola è la sede delle vestali, dalla quale nessun motivo le ha mai smosse se non l’occupazione nemica della città; il flamine di Giove non può rimanere nemmeno per una notte fuori di Roma senza commettere sacrilegio. Siete sul punto di fare di questi sacerdoti dei Veienti anziché dei Romani e le tue vestali, o Vesta, ti abbandoneranno e il flamine abitando fuori dalla città ogni notte compirà un così grande sacrilegio contro se stesso e la repubblica? E tutti quegli altri atti che dobbiamo compiere dopo aver preso gli auspìci, quasi tutti dentro la cerchia del pomerium, a quanta dimenticanza, a quale trascuratezza li condanniamo? I comizi curiati, che riguardano le questioni militari, e i comizi centuriati, con i quali create i consoli e i tribuni militari, dove si possono tenere, prendendo gli auspìci, se non là dove la consuetudine ha stabilito? Anche questi trasporteremo a Veio? O il popolo per la celebrazione dei comizi si radunerà ancora, nonostante il grave disagio, in questa città che gli dèi e gli uomini avranno abbandonata?
T. Livio, Ab urbe condita libri, trad. redaz.
Il sentimento religioso dei Romani non si esercita soltanto pubblicamente, all’aperto, insieme agli altri cittadini. Esistono in effetti almeno altri due luoghi specificatamente religiosi nel sistema spaziale romano, vale a dire il focolare domestico (focus) e il crocicchio (compitum). Come il focolare pubblico, custodito nel tempio di Vesta, deve rimanere sempre acceso ed essere perpetuamente accudito dalle vestali, allo stesso modo il focolare domestico, quasi fosse una cosa viva, ha bisogno delle cure dei membri della famiglia, in particolar modo del capofamiglia (pater familias), vero e proprio sacerdote della religione domestica; poiché non può essere spento viene ricoperto ogni sera e ravvivato ogni mattina. Qui si bruciano le offerte per il Genio e i Penati, vino per il primo, incenso per i secondi. Ma, cosa ancora più importante, il focolare è sede del Lar familiaris, la divinità protettrice della casa.
Il crocicchio costituisce si può dire l’altra faccia del focolare, è il suo alter ego esterno. In quanto fulcro spaziale e culturale del quartiere (vicus), esso costituisce l’anello di congiunzione fra la dimensione privata e quella pubblica, fra la familia e la comunità dei cives. Qui infatti si incontrano le singole vie, qui si uniscono le case o le rispettive proprietà, qui sorge un piccolo altare dove i vicini celebrano, tra la fine di dicembre e l’inizio di gennaio, in un giorno che varia di anno in anno, un sacrificio in onore dei Lares compitales, i Lari dei crocicchi (Compitalia).
In latino i termini atti a indicare la casa del dio sono diversi: delubrum, aedes, ma soprattutto templum. I templa sono infatti gli edifici consacrati alle divinità, dove si trovano i loro simulacri e i cittadini sono chiamati a celebrare il loro culto. Ma ancor prima di questo significato, poi sopravvissuto nelle lingue romanze, il termine templum indica uno spazio celeste (templum in aere) o terrestre (templum in terra) di forma quadrangolare, ritualmente definito dall’augure, all’interno del quale l’augure stesso è chiamato ad osservare attraverso il volo degli uccelli il manifestarsi della volontà divina. Non è chiaro quale sia il rapporto fra templum in aere e templum in terra, se l’uno sia una proiezione dell’altro o viceversa, né come fossero nel dettaglio colti e interpretati i segni religiosi che si mostravano al loro interno. Quel che è certo è che ogni templum ha bisogno di un augure che lo crei.
L’augure (augur) è il sacerdote incaricato di interpretare a nome dell’auspicante i segni celesti. Costui, secondo la preziosa testimonianza di Varrone (De lingua latina 6, 53), delimitava con la sua parola i confini delle aree per l’osservazione di tali segni. Le parole (verba) pronunciate dall’augure non erano evidentemente parole “normali”: erano verba effata, parole cioè in grado di realizzare il contenuto del loro enunciato nel momento stesso in cui venivano pronunciate. Il loro effetto sulla realtà era immediato. I confini del templum, infatti, cominciavano a esistere a partire dalla loro definizione. Non a caso il termine che in latino indica propriamente l’area del tempio e che poi per metonimia passa a indicare il tempio stesso, divenendo quindi quasi un sinonimo di templum, è fanum, che Varrone fa derivare dal verbo fari (effatus, di cui abbiamo parlato sopra, è il participio passato di un composto di fari), in quanto i pontifices nel consacrare il fanum ne “enunciano” (fati sint) i confini (De lingua latina 6, 54). Insomma la parola dell’augure è una parola talmente potente da essere in grado di incidere lo spazio, di tagliarlo, di imprimergli la forma del templum. All’interno di questo strano osservatorio a cielo aperto gli àuguri si concentravano sull’oggetto del loro studio, ossia gli auguria.
Il termine augurium, derivato come augur dal verbo augeo, “aumento”, “accresco”, indica “il presagio favorevole, quello con cui gli dèi decretano l’esito fausto e il successo di un’impresa sottoposta al loro giudizio tramite un procedimento divinatorio” (Maurizio Bettini, Alle soglie dell’autorità, introduzione a Bruce Lincoln, L’autorità, Einaudi, 2000, p. XXV). Ma il significato più vicino all’etimologia sembrerebbe essere un altro: quello di “accrescimento” prodotto dalla divinità, su sollecitazione del sacerdote, in una certa categoria di oggetti. E infatti l’inauguratio, come rivela la documentazione in nostro possesso, più che una ricerca di consenso o di “benedizione” divina, è una vera e propria pratica rituale volta a “ingrandire”, ad “accrescere” la natura di un individuo (cfr. l’inauguratio di alcuni preti a vita, in particolare quella del re Numa che aveva anche funzioni religiose descritta da Livio in I, 18), o di un luogo (cfr. le espressioni inaugurare urbem, inaugurare templa ecc.), assicurandogli così il successo necessario allo svolgimento della sua funzione.
L’inauguratio di un tempio non può essere cancellata che da una exauguratio, ossia da un rito uguale e contrario. Così accadde per gli antichi altari (fana e sacella) che sorgevano anticamente sulla cima del Campidoglio e che al tempo di Tarquinio il Superbo furono sconsacrati per lasciare l’intera area libera per la costruzione del nuovo tempio di Giove Ottimo Massimo. Quando invece a dover essere cancellata è una città intera, si utilizza un rito opposto e speculare al rito di fondazione: “Infatti, per exaugurare” sono parole di Servio, un tardo commentatore di Virgilio “e abbattere le città si utilizza l’aratro, in modo tale che esse vengano distrutte con lo stesso rito con il quale erano state costruite” (Servio, Ad Aeneidem, 4, 212).
È noto che il primo atto di fondazione di una città romana consisteva nel tracciare, secondo un rito probabilmente di derivazione etrusca, un solco circolare che ne delimitasse il perimetro più esterno, lungo il quale poi sarebbero state innalzate le mura urbane (sulcus primigenius). A una certa distanza dal solco, al suo interno, si ergeva una seconda frontiera, appena marcata sulla superficie del terreno da una serie di cippi terminali disposti a intervalli regolari l’uno dall’altro.
Questo era quello che i Romani chiamavano pomerium: una sorta di linea immaginaria, quasi incorporea e impalpabile se confrontata con la consistenza della cinta muraria, ma estremamente importante dal punto di vista politico e religioso. Esso infatti costituisce il confine dell’urbs, la parte più interna della città, la sola inaugurata e in quanto tale soggetta a uno statuto del tutto particolare, che la distingue da qualunque altro luogo compreso il territorio immediatamente adiacente ad essa, il cosiddetto ager effatus (che pure condivide con l’urbs il fatto di essere stato “bonificato” da impurità di natura religiosa, cioè liberatus, e delimitato dalla parola potente degli àuguri, appunto effatus).
Di qui la necessità di una particolare delimitazione, e la funzione del pomerium: separare due spazi eterogenei dal punto di vista giuridico-religioso, urbs e ager appunto, che implicano per loro natura l’esercizio di due forme di potere alternative e complementari, quali l’imperium militiae (potere militare) e l’imperium domi (il potere civile).
L’attraversamento del pomerium che può essere realizzato solo previa consultazione augurale, determina infatti il passaggio da una forma di imperium all’altro. E poiché al potere militare è riconosciuta una natura fondamentalmente opposta a quella del potere civile, lo spazio della pace deve restare rigorosamente separato dallo spazio della guerra. Pertanto l’area inaugurata compresa all’interno del pomerium, non può e non deve essere contaminata dalla morte; e ciò è possibile solo se resta demilitarizzata. Per questo all’interno dell’urbs non possono essere né bruciati, né seppelliti i cadaveri, né l’esercito può entrare in armi, se non in occasione del trionfo. D’altra parte l’imperium militiae che, per questa ragione, è esercitato solo fuori dal pomerium, ne costituisce anche la difesa. Poiché infatti l’anello pomeriale e il perimetro delle mura sono separati da uno spazio intercalare più o meno ampio, (ager effatus), qualora la città fosse stata assediata l’esercito poteva essere guidato dal suo comandante (imperator) e agire liberamente lungo questa fascia anulare a protezione dell’urbs, senza per questo comprometterne l’integrità rituale.
Servio
Ad Aeneidem, V, 755
Catone afferma che originariamente era costume tracciare il perimetro della città con l’aratro: i fondatori aggiogavano un toro a destra e una vacca dalla parte interna e cinti secondo il rito gabino, cioè con una parte della toga che scendeva sul capo, con un’altra che cingeva la vita, tenevano la stiva piegata, perché tutte le zolle di terra cadessero all’interno. E con un solco così tracciato designavano il percorso delle mura, avendo cura di alzare l’aratro lì dove avevano intenzione di costruire le porte.
Servio, Ad Aeneidem, trad. redaz.
Marco Terenzio Varrone
De lingua latina, Libro V, 143
Nel Lazio molti fondavano i villaggi secondo il rito etrusco, cioè avendo aggiogato dei buoi, un toro e una vacca all’interno; tracciavano intorno un solco con l’aratro (facevano questo per motivi religiosi dopo aver preso gli auspìci) per essere protetti da una fossa e da un muro. Il luogo da cui estraevano la terra la chiamavano fossa e la terra gettata all’interno muro. Il cerchio che veniva a formarsi dietro questi due elementi (la fossa e il muro simbolici) costituiva il principio della città e poiché si trovava dietro il muro (post murum) era chiamato pomerio e lì finivano gli auspìci urbani. Cippi del pomerio si trovano intorno ad Aricia ed intorno a Roma. Per questo motivo anche i villaggi che prima erano circoscritti con l’aratro, dal cerchio (orbe) e dal manico dell’aratro (urvo) sono chiamate città (urbes). E infatti tutte le nostre colonie nelle antiche lettere sono scritte urbes, perché fondate come Roma. Perciò sia le colonie che le città sono fondate poiché sono poste all’interno del pomerio.
Varrone, De lingua latina, trad. redaz.
Plutarco
Le vite di Teseo e Romolo , XI, 2-5
[Romolo] scavò una fossa di forma circolare nella zona dove ora è il comizio, per deporvi le primizie di tutto quanto era utile secondo consuetudine o necessario secondo natura. Ed infine ciascuno, portando un po’ di terra dal paese da cui proveniva, la gettò dentro e la mescolò insieme. Chiamano questa fossa con lo stesso nome che danno al cielo, mundus. Poi considerando questo punto come centro, tracciarono il perimetro della città. Il fondatore attaccò al suo aratro un vomere di bronzo, vi aggiogò un bue e una mucca, ed egli stesso li conduceva, tracciando un solco profondo lungo la linea di confine. Era compito di quanti lo seguivano rivoltare all’interno del solco le zolle che l’aratro sollevava e stare attenti che nessuna restasse fuori. Con questo tracciato dunque fissano il percorso delle mura, e con una forma sincopata lo chiamano pomerium, che vuol dire dopo o dietro il muro; dove intendono mettere una porta, tirano fuori il vomere, sollevano l’aratro e lasciano uno spazio in mezzo. Per questo motivo considerano sacra tutta la cinta muraria ad eccezione delle porte; considerando sacre anche le porte, non era possibile fare entrare e uscire senza timore religioso le cose necessarie e tuttavia impure.
Plutarco, Le vite di Teseo e Romolo , a cura di C. Ampolo e M. Manfredini, Milano, Mondadori, 1993
L’ager, fuori dal pomerium, è dunque lo spazio adibito alla guerra e alle sue attività, comprese le pratiche religiose ad essa connesse. Tra queste rivestono un particolare interesse la devotio e l’evocatio, per mezzo delle quali i Romani erano in grado di invocare gli dèi (propri o altrui) per scongiurare un pericolo o ottenerne aiuto militare. La devotio è una particolare forma di voto per cui un comandante militare, mediante la recitazione di una formula (carmen) e una serie di atti rituali ben precisi, si offre alle divinità infere quale vittima sacrificale, chiedendo in cambio la vittoria per il suo esercito e la disfatta dei nemici. Si tratta in sostanza di una procedura rituale straordinaria che attiva un meccanismo di scambio per cui le divinità che ricevono in anticipo un’offerta (la vita del comandante) si vengono a trovare in una posizione di “mancanza” che le costringe a ricambiare e a fare così la volontà di chi ha dato avvio alla transazione. In effetti, come mostra il racconto liviano della devotio per noi meglio documentata, quella compiuta dal console Publio Decio Mure nel 340 a. C. contro i Latini, l’efficacia del rito risiede non tanto o non solo nel potere magico-incantatorio delle parole pronunciate dal soggetto, quanto piuttosto nel principio di natura economica del do ut des, del dare per ricevere.
Tito Livio
Ab urbe condita libri, Libro VIII, cap. IX
I consoli romani prima di far uscire in campo l’esercito compirono i sacrifici. Si dice che l’aruspice mostrasse a Decio la testa del fegato staccata nella parte familiare: per il resto la vittima era gradita agli dèi; Manlio aveva avuto ottimi presagi. “Allora va bene”, disse Decio “se il collega ha avuto presagi favorevoli”. Ordinate le schiere come innanzi si è detto, avanzarono a battaglia; Manlio comandava l’ala destra, Decio la sinistra. Dapprima si combatteva da tutte e due le parti con forze uguali e con lo stesso ardore; ma poi all’ala sinistra gli astati romani, non potendo resistere alla pressione dei Latini, si ritirarono presso i principi. In quel momento di trepidazione, il console Decio chiama a gran voce Marco Valerio. “Suvvia dunque, pubblico pontefice del popolo romano, suggeriscimi le parole con le quali devo immolarmi per la salvezza delle legioni”. Il Pontefice gli ordinò di indossare la toga pretesta e di dire, col capo velato, levando la mano di sotto la toga fino a toccare il mento, ritto su un giavellotto posto sotto i suoi piedi. “O Giano, o Giove, o Marte padre, o Quirino, o Bellona, o Lari, o dei Novensili, o dèi Indigeti, o dèi che avete potere su di noi e sui nemici, e voi, o dèi Mani, vi prego, vi supplico, vi chiedo e mi riprometto la grazia che voi accordiate propizi al popolo romano dei Quiriti potenza e vittoria, e rechiate terrore spaventoso e morte ai nemici del popolo romano dei Quiriti. Così come ho espressamente dichiarato, io immolo insieme con me agli dèi Mani e alla Terra, per la Repubblica del popolo romano dei Quiriti, per l’esercito, per le legioni, per le milizie ausiliarie del popolo romano dei Quiriti, le legioni e le milizie ausiliare dei nemici”.
Dopo aver innalzato questa preghiera ordina ai littori di andare da Tito Manlio e di annunziare sollecitamente al collega che egli si era immolato per l’esercito. Quindi con la toga cinta alla maniera dei Gabini, balzò armato a cavallo, e si lanciò in mezzo ai nemici sotto gli occhi di entrambi gli eserciti, apparendo loro d’aspetto alquanto più maestoso di quello umano, quasi fosse inviato dal cielo come vittima espiatoria di tutta la collera degli dèi, per stornare la rovina dai suoi e per riversarla sui nemici. Così il terrore e lo sbigottimento che egli portava con sé scompigliò dapprima l’avanguardia dei Latini; poi si diffuse in tutto l’esercito. Una cosa fu evidentissima, che ovunque egli si spinse con il cavallo, ivi gli uomini erano sbigottiti, non altrimenti che se fossero colpiti da un influsso maligno; dove poi cadde crivellato dai dardi, di là le coorti dei Latini, indubbiamente in preda al terrore, fuggirono lasciando per largo tratto dietro di sé il deserto. Nello stesso tempo i Romani, sgombrati gli animi da ogni religioso timore, s’avventarono come se allora per la prima volta fosse stato dato il segnale.
T. Livio, Ab urbe condita libri, trad. it. di M. Scandola, Milano, BUR, 2000
L’evocatio, come dichiara il nome stesso, consiste invece nell’“evocare” mediante una formula specifica (certum carmen) le divinità tutelari di una città nemica, invitandole ad abbandonare gli assediati in cambio di un nuovo tempio e un nuovo culto a Roma. È probabile, anche se non specificato da Macrobio, un erudito della fine del IV secolo, al quale dobbiamo le informazioni più dettagliate a riguardo, che in caso di rifiuto la divinità fosse trattata come prigioniera alla stregua degli abitanti. D’altra parte l’unico caso certo documentato da fonti annalistiche, e filtrato attraverso il racconto di Livio, è quello della Giunone Regina di Veio, evocata da Marco Furio Camillo nel 396 a. C. al termine di un lungo assedio.
Macrobio
Saturnalia, Libro III, cap. IX
È noto che tutte le città si trovano sotto la protezione di un dio. Fu usanza dei Romani, segreta e sconosciuta a molti, che, quando assediavano una città nemica e confidavano di poterla ormai conquistare, ne chiamassero fuori gli dèi protettori con una determinata formula di evocazione; e ciò o perché ritenevano di non potere altrimenti conquistare la città o, anche se fosse possibile, giudicavano sacrilegio prendere prigionieri gli dèi. Questo è anche il motivo per cui i Romani vollero che rimanesse ignoto il dio sotto la cui protezione è posta la città di Roma […]. Però bisogna stare attenti a non incorrere anche noi nell’errore commesso da alcuni, ritenendo che un’unica formula servisse per evocare gli dèi di una città e renderla maledetta. Nel libro V delle Curiosità di Sammonico Sereno ho trovato l’una e l’altra formula di incantesimo: ed egli dichiara di averle rinvenute in un antichissimo libro di un certo Furio. Ed ecco la formula usata per evocare gli dèi quando si cinge d’assedio una città: “Se v’è un dio o una dea sotto la cui protezione si trova il popolo e lo stato cartaginese, e te soprattutto che accogliesti sotto la tua protezione questa città e questo popolo, io prego e venero, e vi chiedo questa grazia: abbandonate il popolo e lo stato cartaginese, lasciate i loro luoghi, templi riti e città, allontanatevi da essi e incutete al popolo e allo stato timore, paura, oblio, e venite propizi a Roma da me e dai miei, e i nostri luoghi, templi, riti e città siano a voi più graditi e cari, e siate propizi a me, al popolo romano e ai miei soldati. Se farete ciò in modo che sappiamo e comprendiamo, vi prometto in voto templi e giochi”. A queste parole bisogna far seguire immolazione di vittime e consultazioni di visceri per ottenere assicurazione.
Macrobio, Saturnalia, trad. it. di N. Marinone, Torino, UTET, 1997
Tito Livio
Ab urbe condita, Libro V, cap. XXII
Quando già le umane ricchezze erano state portate via da Veio, allora cominciarono a rimuovere i doni votivi degli dèi e gli dèi stessi, ma più in atto di adoratori che di saccheggiatori. Infatti, giovani scelti da tutto l’esercito, ai quali era stato affidato l’incarico di trasportare a Roma Giunone regina, dopo essersi lavati e purificati, in candida veste, entrarono riverenti nel tempio, accostando dapprima religiosamente le mani, perché secondo il costume degli Etruschi quella statua non era solito toccarla altri che un sacerdote di una determinata stirpe. Poi, avendo detto uno di loro, sia perché mosso da divina ispirazione, sia per scherzare giovanilmente: “Vuoi venire a Roma, Giunone?”, gli altri gridarono che la dea aveva annuito. S’aggiunse in seguito alla leggenda il particolare che era stata udita anche la sua voce che diceva di si; quel che sappiamo di certo è che essa fu rimossa dalla sua sede senza grande impiego di mezzi, che fu leggera e facile a trasportarsi, come se venisse dietro da sé, e che arrivò intatta sull’Aventino, sua eterna sede, dove l’avevano chiamata le preghiere del dittatore romano, e dove poi le consacrò un tempio lo stesso Camillo, che glielo aveva promesso in voto.
T. Livio, Ab urbe condita, trad. it. di M. Scandola, Milano, BUR, 1996