Abstract
Viene esaminato il regime giuridico della malattia del lavoratore, la principale tra le ipotesi di legittima sospensione della prestazione di lavoro subordinato. A partire dalla nozione giuslavoristica di malattia, l’istituto è ricostruito con riguardo al suo svolgersi dinamico nel rapporto, nonché dedicando particolare attenzione ai nodi maggiormente problematici.
La classicità della malattia, nel novero degli eventi sospensivi della prestazione di lavoro, si fa apprezzare tanto in senso qualitativo, essendo l’istituto finalizzato alla protezione di un bene di elevato rango costituzionale quale la salute del cittadino lavoratore, quanto su quello empirico, trattandosi dell’ipotesi di più frequente realizzazione nella dinamica quotidiana delle relazioni di lavoro.
Quelli di malattia e di salute, nondimeno, non sono concetti perfettamente speculari. Come fissato una volta per tutte nel Preambolo costitutivo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, «la salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non consiste solamente in una assenza di malattia o di infermità».
Per converso, per la scienza e per la pratica mediche, è malattia una qualsiasi alterazione morfologica e/o funzionale di una o più parti dell’organismo, o dell’organismo in toto. Questa definizione ha rappresentato un termine di riferimento imprescindibile per il diritto, il quale ha peraltro elaborato, di ritorno, una pluralità di nozioni di malattia, più o meno tributari della definizione portante, ma mai totalmente coincidenti con essa.
Ai fini giuslavoristici rileva, segnatamente, l’art. 2110 c.c., il quale però si limita a enunciare l’evento malattia, senza definirlo. Il relativo onere è così passato agli interpreti, fra i quali è emerso, da tempo, il riferimento ad una nozione più ristretta di quella medica e/o medico-legale, tale da comprendere non ogni alterazione dello stato psico-fisico del lavoratore, ma esclusivamente quelle situazioni nelle quali l’infermità determini, per intrinseca gravità e/o per incidenza sulle mansioni normalmente svolte dal dipendente, una concreta ed attuale (seppure transitoria) incapacità al lavoro del medesimo (v., ad es., Cass., 26.11.2014, n. 25162). Questa nozione si è affermata anche sul piano previdenziale (art. 2, co. 1, l. 29.2.1980, n. 33).
In sé, la questione definitoria si pone negli stessi termini per la malattia di origine professionale, anch’essa compresa nell’ambito precettivo dell’art. 2110 c.c. Peraltro, data la presenza trainante di un dispositivo di assicurazione obbligatoria (d.P.R. 30.6.1965, n. 1124), la rilevanza privatistica di queste malattie, per i benefici che di solito ne derivano (ad es., un periodo di comporto più lungo), è spesso condizionata, talora per esplicita previsione di contratto collettivo, talaltra in via di mero fatto, al riconoscimento delle medesime da parte dell’INAIL, fatta salva la verifica giudiziale.
Per altro verso, il passaggio ormai acquisito a un sistema “misto”, che lascia al lavoratore la facoltà di provare (in primis verso INAIL) l’eziologia professionale di ogni malattia, pur se non tabellata, o se derivante da lavorazioni non tabellate, ha riproposto il problema dell’individuazione dell’evento assicurato, fermo restandone l’aggancio al concetto di inabilità al lavoro (art. 68, d.P.R. n. 1124/1965).
La questione si pone in termini non diversi per l’infortunio del lavoratore subordinato, che si distingue dalla malattia (comune o professionale) per la causa violenta che l’ha determinato, ma che è ad essa accomunato sotto il profilo dell’inabilità al lavoro (qui anche permanente) del soggetto che ne è vittima. Un’ulteriore distinzione è quella tra l’infortunio extra-lavorativo, di solito equiparato dai contratti collettivi alla malattia comune, e quello sul lavoro (cioè occasionato dal lavoro), normalmente equiparato, sulla scia della corrispondente assicurazione sociale, alla malattia professionale.
Le ragioni che hanno portato in auge il concetto di “incapacità al lavoro” sono, al fondo, interne alla disciplina. È concettualmente congruo che in un rapporto obbligatorio incentrato sull’utilizzazione continuativa delle energie lavorative della persona del debitore, il primo criterio di delimitazione delle ipotesi di legittima esenzione (per motivi di salute) dalla prestazione di lavoro non possa che guardare alle situazioni nelle quali il lavoratore non sia ragionevolmente in grado di svolgere, ostandovi le sue condizioni fisiche o psichiche, tale prestazione, se non mettendo in pericolo la propria salute (v. Del Punta, R., La sospensione del rapporto di lavoro, Milano, 1992, 40 ss.; Pandolfo, A., La malattia nel rapporto di lavoro, Milano, 1991, 142 ss.).
Ciò al di là del ricorrere di vere e proprie condizioni di impossibilità di prestare, una categoria alla quale si è fatto a lungo riferimento per inveterata abitudine civilistica, ma che è stata pressoché abbandonata anche perché non appropriata alla situazione (che infatti si è talora suggerito di inquadrare in termini di mera “inesigibilità”).
Ne segue che, se vi sono malattie che determinano fatalmente un impedimento a svolgere qualunque tipo di lavoro, ve ne sono numerose altre (v. Zilio Grandi, G., La sospensione del rapporto, ne Il lavoro subordinato, in Trattato di diritto privato, Carinci, F., a cura di, Torino, 2007, 485 ss., qui 493) la cui idoneità inabilitante è dipendente dalle mansioni assegnate al lavoratore, ed altre ancora, anche di non lieve entità, che sono normalmente (ma non necessariamente) prive di rilevanza diretta nel rapporto di lavoro (si pensi ai disturbi cardiaci meno gravi, ad alcuni disturbi cronici dell’apparato circolatorio, alle forme più comuni di menomazione della vista, ai disturbi sessuali, ad ulcere gastriche in fasi non acute, alle malattie dentarie meno impellenti).
Il fatto che nel corpo dell’art. 2110 la conservazione del posto sia garantita al lavoratore malato o infortunato soltanto per un periodo delimitato di tempo ha consentito, altresì, di attribuire allo stato di malattia o di infortunio il necessario attributo della “temporaneità” (rapportabile, se si vuole, alla categoria dell’impossibilità parziale ratione temporis), realizzandosi altrimenti la diversa (per il diritto, più che per il senso comune) condizione dell’inidoneità. come tale definitiva, al lavoro (sulla distinzione tra i due eventi, v. Cass., 20.2.2013, n. 4206; sulla licenziabilità per giustificato motivo oggettivo del lavoratore inidoneo, v. Cass., 2.7.2009, n. 15500), riconducibile ad un’impossibilità definitiva della prestazione, a sua volta filtrata sul piano lavoristico (ma all’ulteriore condizione dell’inutilizzabilità aliunde del dipendente) tramite il giustificato motivo obiettivo di licenziamento.
È infrequente, anche se non eccezionale, che il problema dell’effettività dell’incapacità al lavoro si ponga nell’esperienza giudiziaria. Segnali in tale direzione, a partire da alcuni vicende esemplari (come quella della centralinista col mignolo ingessato: Pret. Milano, 3.2.1989, in Riv. it. dir. lav., 1989, II, 298), hanno iniziato tuttavia a registrarsi sin dagli anni ’80 del secolo scorso, quasi sempre per il tramite di inferenze logiche desunte dall’acclarato svolgimento di altre attività (lavorative o di altra natura) da parte del lavoratore malato.
È in circolazione, nella materia, anche un’altra nozione di malattia, non del tutto coincidente con quella sin qui discussa. Ne è fonte non l’art. 2110, bensì l’art. 2109 c.c., letto alla luce della sent. 30.12.1987, n. 616, della Corte costituzionale, che ha dichiarato la parziale illegittimità della disposizione, nella parte in cui non prevede che la malattia insorta durante il periodo di ferie ne sospende il decorso. Piuttosto che l’incapacità al lavoro, rileva, a questi fini, una sorta di “incapacità al riposo”, vale a dire l’incompatibilità dell’evento morboso con la funzione di recupero delle energie psico-fisiche propria dell’istituto feriale (v., ad es., Cass., 6.4.2006, n. 8016).
Resta irrisolto, a monte del problema – quasi irresolubile – dell’inefficacia degli accertamenti, il nodo di come identificare il livello di gravità che deve avere la malattia dotata di effetti sospensivi. Dopo iniziali tentativi fuori misura i contratti collettivi si sono di massima affidati, pragmaticamente, a soglie temporali minime di durata della malattia (ad es., tre giorni).
Il procedimento di accertamento della malattia si suddivide in due fasi: quella (necessaria) rivolta a portare a debita conoscenza il datore di lavoro della sopravvenienza della malattia, tramite la comunicazione e la certificazione della medesima, e quella (eventuale) del controllo attivato dal datore di lavoro o dall’ente previdenziale assicuratore della malattia comune.
La fonte dell’obbligo di comunicazione della malattia (di solito a breve, ad es. entro ventiquattro ore, ed anche con modalità informali), al di là della sua rispondenza al generale dovere di correttezza, è la contrattazione collettiva, di solito di livello nazionale.
È sempre quest’ultima, altresì, ad abilitare il lavoratore a provare (interinalmente) la malattia procurando al datore di lavoro, ed eventualmente all’INPS qualora il lavoratore vi sia assicurato contro le malattie comuni, ai fini della giustificazione dell’assenza dal lavoro e del conseguimento delle correlate prestazioni retributive e/o previdenziali, una certificazione sanitaria rilasciata dal medico di fiducia o da un qualsiasi medico. E ciò nonostante che detta certificazione sia dotata di una valenza probatoria non nulla (essendo il medico pur sempre un professionista con un dovere deontologico), ma realisticamente debole (a maggior ragione da quando i medici si sentono sotto la spada di Damocle delle azioni giudiziali per responsabilità sanitaria).
Il certificato medico non costituisce soltanto lo strumento per soddisfare un onere probatorio (avente a oggetto l’evento malattia), che il lavoratore può comunque assolvere in qualsiasi momento (anche, al limite, in giudizio), ma è anche il contenuto di un obbligo, concernente un comportamento strumentale con rilevanza organizzativa, e da adempiere entro termini prescritti dai contratti collettivi (di solito due-tre giorni dall’inizio della malattia), a prescindere dal fatto che la malattia possa essere nota altrimenti al datore di lavoro.
Qualora gli obblighi in discorso non siano rispettati (e salvo che il lavoratore sia stato materialmente impossibilitato a rispettarli: v., ad es., il caso di Cass., 14.10.2010, n. 21215), la relativa assenza dal lavoro è di solito qualificata dai contratti collettivi come ingiustificata, con la conseguente applicabilità delle sanzioni disciplinari previste (sino al licenziamento) per tale ipotesi (in aggiunta alla possibile trattenuta della retribuzione, non come sanzione ma in applicazione del principio di corrispettività). Tali sanzioni prescindono dall’effettività dello stato di malattia, per cui non sono scongiurabili, a rigore, offrendo la prova anche incontrovertibile di tale stato (ferma la necessità, per il datore di lavoro, di tenere conto di tutti gli elementi, anche soggettivi, del caso, nel valutare la proporzionalità della sanzione disciplinare da adottare).
È oggi stabilito, peraltro, che una volta visitato il lavoratore, deve essere il medico di fiducia a tramettere il certificato per via telematica all’INPS (che gestisce il relativo sistema informatico) e al datore di lavoro (art. 25, l. 4.11.2010, n. 183, per i lavoratori privati, e art. 55 septies, co. 2, d.lgs. 30.3.2001, n. 165, per quelli pubblici). Pertanto, quel che il lavoratore deve fare è recarsi dal medico e, a valle, comunicare al datore di lavoro il numero di protocollo del certificato, in modo da consentirgli di visionarlo sul sito dell’INPS. Esce invece dalla sfera dell’obbligo la materiale trasmissione del certificato, che deve essere effettuata da un terzo qualificato quale il medico.
Il certificato di malattia destinato all’INPS contiene sia la diagnosi che la prognosi rese dal medico curante (art. 2, co. 1, l. n. 33/1980), mentre la certificazione o attestazione per il datore di lavoro reca esclusivamente la prognosi della malattia (co. 2).
Questa regola, pensata per proteggere la riservatezza del lavoratore, è stata criticata dalla dottrina (v., ad es., Ichino, P., Diritto alla riservatezza e diritto al segreto nel rapporto di lavoro, Milano, 1979, 95-96), in quanto la mancata conoscenza (se non, talora, in via ufficiosa) della natura della malattia sottrae al datore di lavoro buona parte della sua legittima facoltà di valutazione circa la sussistenza dello stato di incapacità e la congruità della prognosi accusata dal lavoratore.
In alcune evenienze, peraltro, può essere lo stesso lavoratore ad avere interesse a rendere nota al datore di lavoro la natura della malattia, ad es. per usufruire di particolari termini di comporto, come quelli previsti in caso di neoplasie (Cass., 19.12.2001, n. 14475).
Il datore di lavoro, cui sia stata tempestivamente comunicata e certificata una malattia, ha la possibilità di accettare la certificazione, senza neppure disporre una visita di controllo, o viceversa di contestarne l’attendibilità.
A questo ultimo fine, anzitutto, non è imprescindibile passare per l’espletamento di una visita “fiscale” di controllo, che pure rappresenta la soluzione più prudente, e di fatto (al di là dei suoi incerti, e di solito frustranti, esiti) la più seguita. Possono darsi, infatti, casi nei quali il datore di lavoro, senza aver disposto la visita di controllo, ha a disposizione e/o si procura elementi che gli permettono di considerare inattendibile il certificato di parte, rendendo possibile, di conseguenza, la comminazione di sanzioni disciplinari, motivate dall’assenza ingiustificata del lavoratore come conseguenza dell’assunta non veridicità della malattia (v. Cass., 25.11.2014, n. 25162).
È anzitutto, il caso di certificati formalmente irregolari o comunque esteriormente inattendibili, se non falsi (un problema che la modalità telematica dovrebbe aver neutralizzato). V’è poi, per il datore di lavoro, la possibilità almeno teorica di contestare la congruità della prognosi recata dalla certificazione (anche se ciò è rischioso, sinché si ignora la diagnosi).
Ma più frequente è che il datore di lavoro ritenga di desumere l’insussistenza della malattia, e quindi l’inattendibilità della relativa certificazione medica, da circostanze extrasanitarie (come il comportamento tenuto dal lavoratore anteriormente alla collocazione in malattia: v., ad es., Trib. Milano, 3.7.1991, in Riv. it. dir. lav., 1992, II, 396), dalle quali tragga, presuntivamente, tale conseguenza.
L’elemento fattuale che più ricorre in queste controversie è lo svolgimento, da parte del lavoratore, di altre attività (lavorative, sportive, ricreative, ecc.) in pendenza dello stato di malattia, la cui valenza può essere duplice (Cass., 28.2.2014, n. 4869): a) può dimostrare che il lavoratore non era effettivamente malato, o comunque incapace di lavorare, e dunque che la sua assenza dal lavoro era da ritenersi ingiustificata; b) anche ammessa l’autenticità della malattia, può rivelare la violazione dell’obbligo, incombente sul lavoratore nell’ambito dei doveri preparatori all’adempimento e in correlazione con i principi di correttezza e buona fede, di non pregiudicare il recupero delle proprie energie lavorative.
Ciò implica che ad essere precluso non è lo svolgimento di qualunque attività bensì esclusivamente quello di attività incompatibili con lo stato di malattia denunciato (v., per prima, Cass., 16.6.1976, n. 2244), e dunque tali da comportare un ritardo della guarigione (v., ex multis, Cass., 6.12.2012, n. 21938; Cass., 14.9.2012, n. 15476), del quale è ulteriormente dibattuto se debba essere effettivo (in questa logica, nel caso di una lavoratrice afflitta da coliche addominali che aveva partecipato ad una trasmissione televisiva come cantante amatoriale, il cui licenziamento è stato reputato illegittimo perché la guarigione non aveva patito ritardi, v. Cass., 27.2.2008, n. 5106) ovvero, secondo una più rigorosa valutazione ex ante, meramente potenziale (Cass., 5.8.2014, n. 17625; Cass., 21.4.2009, n. 9474).
Le informazioni sullo svolgimento di altre attività possono essere acquisite tramite appositi accertamenti extrasanitari, come quelli condotti a mezzo di agenzie investigative, o anche da addetti alla vigilanza aziendale (v. Cass., 26.2.1994, n. 1974), sulla liceità dei quali, anche al cospetto dell’art. 8, l. 20.5.1970, n. 300, non vi sono più dubbi nella giurisprudenza (v., ex multis, Cass., 26.11.2014, n. 25162).
L’art. 5 della l. n. 300/1970 fa divieto al datore di lavoro di disporre visite di controllo, sull’infermità per malattia o infortunio o sull’idoneità fisica del lavoratore dipendente, tramite medici di propria fiducia.
In applicazione della norma, che è presidio di imparzialità, il datore di lavoro è obbligato a servirsi dei medici dell’Azienda USL o dell’INPS, mentre l’INAIL è competente per gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali.
Tuttavia, per quanto attiene alle visite di idoneità, la norma si può ritenere implicitamente abrogata dall’art. 41, co. 2, lett. b), d.lgs. 9.4.2008, n. 81, che affida tali visite al medico competente (con la possibilità di impugnarne l’esito dinanzi ad un organo di vigilanza costituito presso l’Azienda USL).
La violazione del divieto imperativo ex art. 5 comporta l’inutilizzabilità degli accertamenti irritualmente effettuati, nonché l’applicazione della sanzione penale di cui al susseguente art. 38.
D’altronde, l’esigenza di rendere più efficienti i controlli ha indotto a imporre al lavoratore malato o infortunato non sul lavoro (Cass., 30.1.2002, n. 1247) un obbligo di reperibilità domiciliare, autonomamente sanzionato, all’interno di fasce orarie distese su quattro ore (10-12 e 17-19) giornaliere (art. 5, l. 11.11.1983, n. 638), elevate a sette (9-13 e 15-18) per i lavoratori pubblici (art. 55 septies, co. 5, d.lgs. n. 165/2001, come integrato dal decreto del Ministro per la funzione pubblica 18.12.2009, n. 206).
Essendo l’oggetto dell’obbligo la reperibilità domiciliare all’interno delle fasce, durante le assenze per malattia anche di un solo giorno, l’illecito non è sanabile, a rigore, dalla successiva sottoposizione alla visita ambulatoriale cui il lavoratore non reperito sia stato – come da prassi – invitato a presentarsi (fermo che se il lavoratore si sottrae anche ad essa aggrava la propria posizione probatoria: Cass., 20.3.2007, n. 6618).
La giurisprudenza ha altresì precisato la latitudine dell’obbligo, che include il fatto di rendersi disponibile al controllo fiscale, tramite l’adozione di ragionevoli accorgimenti atti a consentire al medico di rintracciarlo ed al malato di rispondere al suo accesso (Cass., 25.3.2002, n. 4233).
Il lavoratore può legittimamente assentarsi da casa nelle fasce facendo valere un “giustificato motivo”, letto in modo ampio dalla giurisprudenza (v., ad es., Cass., 9.3.2010, n. 5718), anche se di solito con la richiesta al lavoratore di provare di non essersi potuto recare, ad es. presso un ambulatorio medico o in farmacia, in un altro momento della giornata.
In caso di inosservanza non giustificata dell’obbligo, il lavoratore decade da qualunque trattamento economico di malattia (sia privato che pubblico) per il 100 per cento per i primi dieci giorni, e – a condizione che sia incorso in una seconda assenza domiciliare: C. cost., 26.1.1988, n. 78 – per il 50 per cento fino al termine del periodo di assenza.
Si ritengono di solito irrogabili, inoltre, sanzioni disciplinari ulteriori (conservative), purché sia stato predeterminato il relativo illecito da parte del contratto collettivo.
Infine, una volta effettuata la visita di controllo, è pacifico che il certificato del medico pubblico non costituisce prova legale della sussistenza e della prognosi della malattia, e può essere quindi sindacato nell’eventuale giudizio, formalmente con pari valore rispetto alla certificazione “di parte” (Cass., 1.10.1991, n. 10190). Potranno altresì essere di ausilio per il giudice, pur senza essere decisive, le risultanze della CTU di solito disposta in questi casi.
Il sistema privilegia, quindi, il valore della giustizia probatoria rispetto a quello della certezza, il che dovrebbe influenzare, a monte, le aspettative e i comportamenti delle parti.
Atteso che, durante una malattia o un infortunio, l’attuazione del rapporto di lavoro non si può considerare sospesa, ma soltanto modificata, continuano a prodursi diritti e obblighi per entrambe le parti.
In particolare, l’art. 2110, co. 1, prevede l’obbligo del datore di lavoro di corrispondere al lavoratore malato o infortunato, nei limiti quantitativi e temporali previsti da leggi, contratti collettivi, usi o equità, e nelle situazioni non coperte da fondi equivalenti di previdenza o di assistenza, la retribuzione o un’indennità.
Sulla base della concezione ormai affermatasi, in connessione alle riflessioni teoriche in punto di aggiornamento del principio di corrispettività, in dottrina come in giurisprudenza, il trattamento di malattia ha natura retributiva, dovendosi leggere la norma in commento come l’espressione di una deroga all’art. 1463, c.c., giustificata dalla funzione sociale assolta dalla retribuzione (v., per tutti, Treu, T., Onerosità e corrispettività nel contratto di lavoro, Milano, 1968, spec. cap. IV).
La concreta determinazione del trattamento “privatistico” di malattia è operata, di base, dai contratti collettivi, ai quali la disposizione rinvia; essi prevedono un obbligo retributivo esclusivo, là dove manca la copertura previdenziale (per i soggetti esclusi dall’assicurazione, come gli impiegati ed i quadri dell’industria, i dirigenti, i lavoratori del credito e delle assicurazioni, o per i primi tre giorni di “carenza” assicurativa), ovvero integrativo dell’indennità corrisposta dall’INPS, sino a raggiungere l’80-100 per cento della normale retribuzione. Un regime analogo, ma più favorevole, vale per l’infortunio sul lavoro e la malattia professionale.
Dispone il co. 3 dell’art. 2110 che durante la malattia o l’infortunio si ha decorso dell’anzianità di servizio ai fini dei vari diritti per cui essa rileva, siano essi di genesi legale o contrattuale (ad es. scatti periodici di anzianità e mensilità aggiuntive); il che è confermato, per il trattamento di fine rapporto, dall’art. 2120, co. 3, c.c.
Il co. 2 dell’art. 2110 stabilisce che il lavoratore malato od infortunato, anche in prova (Cass., 10.10.2006, n. 21698), ha diritto di assentarsi e di conservare il posto di lavoro per un periodo (cd. di comporto), la cui determinazione è lasciata ad altre fonti, individuate nelle leggi speciali, nei contratti collettivi, negli usi e nell’equità.
Secondo l’opinione tradizionale, tale regime è derogatorio rispetto al diritto comune dei contratti, in quanto impedisce che l’impossibilità della prestazione conduca alla risoluzione del rapporto, entro limiti temporali commisurati, oltre che all’interesse del datore di lavoro a ricevere la prestazione (art. 1464 c.c.), ad un’istanza di tutela della salute del lavoratore, che non può trovare riconoscimento nel diritto comune.
La funzione di determinare il periodo di comporto è assolta, di regola, dai contratti collettivi, che contengono previsioni variamente congegnate (e con termini di comporto diversificati, in ragione di fattori eterogenei, come l’anzianità del dipendente, la particolare natura o gravità della malattia, ecc.), ma riconducibili ai modelli base del comporto secco e del comporto frazionato o per sommatoria. Di solito, sono previsti un comporto per la malattia comune e l’infortunio extralavorativo, ed uno distinto e più lungo (talora coincidente con l’intera durata dello stato di inabilità) per l’infortunio sul lavoro e la malattia professionale.
Alla luce degli sviluppi della contrattazione collettiva di categoria, si può considerare superato (ma tuttora interessante in un’ottica ricostruttiva) il dibattito svoltosi negli anni ’70 del secolo scorso sulla riconducibilità della cd. eccessiva morbilità al giustificato motivo obiettivo di licenziamento, sebbene a comporto non superato (per una ricostruzione, v. Del Punta, R., op.cit., 256 ss.); un problema che si poneva soprattutto nei settori produttivi (tra cui, all’epoca, il metalmeccanico) i cui contratti collettivi contenevano esclusivamente clausole di comporto secco.
Il superamento di questo indirizzo è stato realizzato (a parte lo sconcertante ripescaggio della tesi dell’eccessiva morbilità, apparentemente ignaro di quanto accaduto nel frattempo, da parte di Cass., 4.9.2014, n. 18678) dalle Sezioni Unite (v. le sent. 29.3.1980, nn. 2072-4), cui si è uniformata la giurisprudenza successiva. Secondo la ricostruzione da esse proposta, posto che l’art. 2110 riguarda anche il succedersi di più malattie discontinue, qualora il contratto collettivo preveda soltanto un comporto secco si ha una lacuna di disciplina che deve essere colmata dal giudice facendo ricorso alle fonti suppletive previste dallo stesso art. 2110, e cioè, in mancanza di usi, determinando il comporto per sommatoria in via di equità.
Un’equità, peraltro, proposta non nell’accezione classica di giustizia del caso singolo, bensì come fonte di indicazioni generali (“normative”), che si sono condensate nell’utilizzazione, come termine interno del comporto per sommatoria (cioè la soglia complessiva di durata delle assenze), di quello previsto dal contratto collettivo per il comporto secco, e nel riferimento, come termine esterno (l’arco temporale di computo delle assenze), ad un periodo di tre anni (la durata media di un contratto collettivo), calcolato a ritroso dalla data del licenziamento.
In base al co. 2 dell’art. 2110, il lavoratore malato ha diritto non soltanto di assentarsi dal lavoro, ma anche di non essere licenziato durante il periodo di comporto.
La violazione di tale divieto comporta, secondo la giurisprudenza, l’inefficacia temporanea del recesso datoriale sino al termine della malattia od all’esaurimento del comporto (Cass., 4.7.2001, n. 9037). A tale principio corrisponde quello, altrettanto consolidato, per cui l’insorgenza di uno stato di malattia ha un effetto sospensivo sul decorso del preavviso lavorato di un licenziamento già irrogato (Cass., 11.4.2005, n. 7369).
Fanno eccezione al divieto le ipotesi della giusta causa posta in essere dal lavoratore (Cass., 6.8.2001, n. 10881), della cessazione totale dell’attività d’impresa e dell’estinzione del rapporto per naturale scadenza del termine.
È da segnalare il principio giurisprudenziale per cui non sono computabili, ai fini del comporto, le malattie causate dalla violazione dell’obbligo di sicurezza ex art. 2087, c.c. (Cass., 7.11.2013, n. 25072).
Il lavoratore cui sta per scadere il comporto (che il datore di lavoro non è tenuto ad avvertirlo) può evitare tale esito domandando di essere collocato in ferie, o richiedendo un’aspettativa non retribuita, ove prevista dal contratto collettivo.
Una volta avvenuto il superamento del periodo, il lavoratore è liberamente licenziabile, salvo il preavviso (di massima non lavorato, a meno che il dipendente non sia rientrato, nel frattempo, in servizio). L’ipotesi di recesso in discorso è reputata, infatti, di natura speciale, tanto che in essa la “giustificazione” del licenziamento è insita nel prolungamento dell’assenza oltre il comporto.
Ferma la facoltà di esercitare il recesso nel perdurare dell’assenza, il licenziamento può essere disposto anche se il dipendente è tornato, nelle more, in servizio, purché non sia trascorso un tempo eccessivo dalla scadenza del comporto, tale da configurare non un mero (e tollerato) spatium deliberandi, bensì una rinuncia implicita al recesso (Cass., 28.3.2011, n. 7037).
Qualora il licenziamento risulti sbagliato, per qualunque motivo (erroneità del calcolo, inclusione di periodi di malattia non computabili, ingiustificato diniego delle ferie o dell’aspettativa che siano state richieste, ecc.), per i lavoratori assunti prima del d.lgs. 4.3.2015, n. 23 (istitutivo del contratto “a tutele crescenti”) la sanzione applicabile è la tutela ripristinatoria attenuata ex art. 18, co. 7, l. n. 300/1970, nonché, per i datori di lavoro di piccole dimensioni, la tutela obbligatoria ex art. 8, l. 15.7.1966, n. 604 (Cass., 2.7.2009, n. 15501).
Diversamente, per gli assunti a tempo indeterminato dal 7.3.2015, il d.lgs. n. 23/2015 tace circa la sorte del licenziamento per malattia illegittimo. Per cui si è incerti tra ritenere applicabile a tale licenziamento il nuovo regime quasi generale di tutela nel caso di licenziamento illegittimo, che comporta l’attribuzione di un’indennità pari a due mensilità per anno di servizio (art. 3, co. 1), o la sanzione della nullità cd. “di diritto comune”, da cui discende la ricostituzione piena del rapporto di lavoro con le conseguenze retributive che ne seguono.
Art. 32, Cost.; art. 2110, c.c.; art. 53 d.P.R. 30.6.1965, n. 1124; art. 5 l. 20.5.1970, n. 300; art. 2 l. 29.2.1980, n. 33; art. 5 l. 11.11.1983, n. 638; art. 55 septies e 55 opties d.lgs. 30.3.2001, n. 165.
Calafà, L., Congedi e rapporto di lavoro, Padova, 2004; Del Punta, R., La sospensione del rapporto di lavoro, in Comm. c.c. Schlesinger, sub artt. 2110 e 2111, Milano, 1992; De Matteis, A., Infortuni sul lavoro e malattie professionali, Milano, 2011; Loy, G., La capacità fisica nel rapporto di lavoro, Milano, 1993; Ludovico, G., Tutela previdenziale per gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali e responsabilità civile del datore di lavoro, Milano, 2012; Pandolfo, A., La malattia nel rapporto di lavoro, Milano, 1991; Rusciano, M., Sospensione del rapporto di lavoro, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1993; Zilio Grandi, G., La sospensione del rapporto, ne Il lavoro subordinato, in Tratt. Bessone, Carinci, F., a cura di, Torino, 2007, 485 ss.