manga
Il fumetto del Sol Levante
Importato in Giappone a metà Ottocento dalla stampa occidentale, il fumetto ha assunto il nome manga («immagini capricciose»), in omaggio a una forma di pittura nazionale. Strettamente legati al patrimonio culturale e ai costumi di vita giapponesi, i manga hanno riscosso un grande successo in patria e nel corso del tempo sono riusciti a imporre il proprio modello grafico e contenutistico, condizionando l’intera produzione di fumetti, dagli album ai film di animazione
Alla fine del 19° secolo il tè proveniente dal Giappone veniva stivato nelle navi in pacchi sistemati in sacchi di iuta. Come carta da imballo erano spesso utilizzate le prove malriuscite di stampe a colori della scuola pittorica giapponese Ukiyo-e; alcune di esse finirono nelle mani di artisti europei, che rimasero affascinati dalla tecnica dei maestri del Sol Levante. Questi stimoli giunti dal lontano Pacifico, reinterpretati da un punto di vista occidentale, influenzarono nuovi modi di dipingere, tra i quali l’impressionismo.
Tra le stampe giunte in Francia ve ne erano alcune del grande pittore e incisore giapponese Hokusai. Molte erano a colori, altre invece in bianco e nero e contenevano disegni dai soggetti più disparati: gente al lavoro, aquiloni, navi, animali, paesaggi. Insomma, le stampe ritraevano quello che Hokusai aveva sotto gli occhi quando era preso dal capriccio di disegnare e per questo l’artista le battezzò manga «immagini capricciose» (pubblicandole tra il 1814 e il 1849). Il termine diventò presto di uso comune per designare un’illustrazione leggera e gradevole.
Nel 1854, dopo che il paese del Sol Levante aveva vissuto per secoli in totale isolamento impedendo l’accesso agli stranieri, le navi da guerra dell’ammiraglio statunitense Matthew Calbrath Perry indussero il Giappone (v. anche Giappone, storia del), se non proprio con la forza con metodi comunque molto persuasivi, ad aprirsi al libero scambio di persone e di merci. Fu l’inizio del cosiddetto periodo della modernizzazione: i Giapponesi vennero d’improvviso in contatto con lo sconosciuto mondo occidentale, e ne rimasero affascinati.
Tra le tante cose, essi apprezzarono anche le riviste umoristiche illustrate, molto popolari nell’Europa e negli Stati Uniti dell’Ottocento. Nel 1862 iniziò le pubblicazioni il Tokyo Punch, su imitazione del famoso settimanale Punch inglese; come il suo modello, pubblicava vignette satiriche battezzate manga come i disegni di Hokusai. Più tardi vennero importati alcuni fumetti americani, tra cui Arcibaldo e Petronilla, e i Giapponesi scoprirono anche questa tecnica narrativa.
I pionieri del fumetto del Sol Levante – anch’esso chiamato manga – furono Kitazawa Rakuten, che si ispirò ai modelli occidentali, e Takemoto Ippei, che portò invece avanti le tradizioni grafiche del proprio paese. Tra l’inizio del Novecento e il 1941 – anno in cui il Giappone entrò in guerra – uscirono centinaia di serie, interpretate da diversi personaggi come la ragazzina Tonda ;Haneko (1912), il cane-soldato ;Norakuro (1931), il robot Tanko Tankuro (1934).
Il vero boom dei fumetti giapponesi ebbe inizio, però, soltanto dopo la fine del conflitto, quando il Giappone fu occupato dalle truppe statunitensi, le quali si erano portate dietro i propri fumetti e i film di Topolino, Paperino e Braccio di Ferro. Fu in quel periodo che uscirono le prime opere di Osamu Tezuka, il grande autore di Astroboy, il quale non solo firmò migliaia di storie, ma, a partire dal 1963, produsse e realizzò anche molti disegni animati (eiga manga) a esse ispirati, inaugurando il trasferimento dei fumetti dalla pagina alla pellicola cinematografica.
Fu grazie alle opere di Tezuka che i manga assunsero le caratteristiche attuali: storie lunghissime, a volte di migliaia di pagine, pubblicate dapprima a puntate in settimanali stampati su pessima carta destinati a essere gettati via, poi raccolte in eleganti volumi da conservare.
I manga prendono nomi diversi a seconda delle categorie di lettori cui sono destinati: shonen manga per ragazzi, shojo manga per ragazze (tra i quali ricordiamo la principessa Zaffiro di Osamu Tezuka), e via dicendo a seconda che i lettori siano bambini o bambine, uomini o donne adulti. I generi sono numerosi e, a loro volta, divisi in infinite sottocategorie. Gli jidaimono sono racconti storici ambientati nel Giappone medievale, come nel caso di Yu degli spettri, interpretati da samurai (guerrieri al servizio di un signorotto locale), ronin (samurai senza padrone), ninja (abili killer che svolgevano il ‘lavoro sporco’ per conto dei samurai). I shojo manga, per le ragazze, raccontano soprattutto storie sentimentali interpretate da bambine come Candy Candy o adolescenti (come Sailor Moon) o bellissimi ragazzi un po’ effeminati, chiamati bishonen; alcune storie si svolgono nel passato, come Lady Oscar, ambientato nella Francia del Settecento.
Un sottogenere è quello delle maghette, ragazzine specializzate in incantesimi come Sally la Maga, e delle piccole aliene, come Lamu.
I fumetti sportivi toccano ogni genere di competizione, compreso il baseball (popolarissimo in Giappone), il calcio, la pallavolo e il wrestling (L’Uomo Tigre). I manga di fantascienza si occupano di tutte le tematiche del genere; un popolare filone è dedicato ai robot giganti come il famoso Grande Mazinga, un altro a vicende ambientate in un mondo reso desertico e selvaggio dagli effetti di una guerra atomica (Ken il Guerriero), un altro ancora alle tentate invasioni di giganteschi mostri alieni. I manga dell’orrore raccontano soprattutto macabre storie di fantasmi orientali, particolarmente vendicativi; i manga polizieschi annoverano come protagonisti sia gli investigatori, sia i loro nemici, come il simpatico mascalzone Lupin III, o come i temibili yakuza, mafiosi giapponesi dal corpo completamente coperto di tatuaggi.
Al mondo del lavoro sono dedicati molti manga, i cui eroi svolgono con enorme dedizione professioni all’apparenza poco eccitanti (per esempio il preparatore di sushi, tartine di riso avvolte in un’alga e sormontate da pezzetti di pesce crudo). Nei manga espressamente dedicati ai bambini ricorrono piccole creature fantastiche come i Pokémon. Altri manga si occupano di umorismo e di satira; altri ancora di tematiche adulte o addirittura vietate ai minori.
Occhi grandi importati. Se trascuriamo il fatto che si leggono al contrario (la copertina di un fumetto giapponese si trova dove da noi si trova la quarta di copertina, e le storie si leggono a partire dalla vignetta a destra in alto) in quanto i Giapponesi scrivevano anticamente da destra a sinistra, a prima vista i manga sembrano simili ai fumetti occidentali: raccontano infatti una storia facendo uso di immagini in sequenze commentate da nuvolette.
A un’osservazione un po’ più attenta si nota però che la somiglianza è soltanto formale. Il disegno dei manga ha ripreso dall’Occidente alcune caratteristiche – per esempio i famosi ‘occhi grandi’, rielaborati da quelli dei personaggi di Walt Disney –, ma risente soprattutto dell’influenza di espressioni artistiche locali. Come i personaggi degli Ukiyo-e, quelli dei manga non sono né del tutto realistici né del tutto caricaturali: sono realizzati in uno stile inconfondibile ‘a mezzo’ tra i due. Le vignette sono impaginate in modo molto libero e, sempre come nelle stampe ottocentesche, contengono ampi spazi completamente vuoti o completamente neri.
I codici visivi. Nel fumetto occidentale siamo abituati a determinati codici visivi che accettiamo tranquillamente anche se, a ben vedere, non hanno rispondenze con la realtà: per esempio nessuno schizza grosse gocce di sudore quando è emozionato, né solleva nuvolette di polvere quando corre su un pavimento lucidissimo. I manga hanno altri codici, ugualmente fantasiosi: non è raro, per esempio, che in una storia di carattere avventuroso un personaggio rappresentato in modo quasi realistico, d’improvviso – quando si arrabbia, grida o si trova in una situazione imbarazzante – si trasformi in un’esasperata caricatura di sé stesso, cambiando di dimensione e di proporzioni. Qualcosa del genere accadeva nel tradizionale spettacolo teatrale del no, in cui le emozioni dei protagonisti erano sottolineate dall’uso di maschere grottesche.
Gli effetti sonori. Nei nostri fumetti gli effetti sonori sono solitamente onomatopee, ovvero tentativi di trasformare rumori in parole leggibili. In effetti un fucile che spara emette un suono abbastanza simile a bang, e un corpo pesante che cade emette un suono abbastanza simile a tunf. In Giappone i suoni del fumetto – scritti, ovviamente, in caratteri giapponesi – non hanno rapporti con quelli reali: un pugno fa bakki, za è il vento ed esiste persino il suono del silenzio, shin!
I fumetti occidentali contengono molto parlato, mentre il testo dei manga è ridotto al minimo e la storia è raccontata essenzialmente attraverso le immagini, con l’uso di lunghe sequenze mute, di primi piani, di campi lunghi, di zoomate su un particolare: per questo una breve azione può portare via un sorprendente numero di pagine.
L’uso di determinate pause, di precise esclamazioni, di determinati ritmi deriva dal cinema, che l’ha ereditato a sua volta dal teatro nelle sue forme più tradizionali: il no, il kabuki, genere teatrale derivato dal no, e il kamishibai, spettacolo popolare messo in scena da cantastorie ambulanti in cui le vicende venivano raccontate con l’ausilio di immagini disegnate su tabelloni, un po’ come negli spettacoli dei nostri cantastorie.
Molti elementi delle trame, siano esse di serie umoristiche o avventurose, derivano dalla psicologia, dalle tradizioni e dalle abitudini anche lavorative degli abitanti del Sol Levante. In quasi ogni storia emergeil ‘bisogno di riuscire’ contrapposto alla ‘vergogna’ di non avercela fatta; a provare questi sentimenti possono essere anche personaggi negativi, come l’assassino professionista Golgo 13, che sente un vero e proprio dovere morale di portare a termine con successo i suoi truci delitti.
A volte il bisogno di riuscire è collettivo: come nelle aziende giapponesi, i singoli elementi di un gruppo diventano invincibili una volta messi insieme. I gruppi sono spesso composti da cinque personaggi: perché proprio questo numero? Perché nel Giappone feudale ogni villaggio aveva cinque rappresentanti che tenevano i contatti con il signorotto locale, e questa antica tradizione è stata ripresa dal fumetto. Insomma: per apprezzare fino in fondo le sfumature dei manga, occorrerebbe conoscere fino in fondo la cultura giapponese. Forse proprio a causa di queste caratteristiche per più di settant’anni i manga e le relative versioni animate non sono stati distribuiti al di fuori del Giappone.
Qualche cartone di produzione nipponica – tra cui Le tredici fatiche di Ercolino, 009 Joe Tempesta, Duecentomila leghe sotto i mari, Gli allegri pirati dell’Isola del Tesoro – era uscito sui grandi schermi a partire dalla metà del Novecento, ma non aveva ottenuto molto successo. Poi, alla fine degli anni Settanta, le reti televisive occidentali – prima tra tutte la RAI – scoprirono che nel paese del Sol Levante si producevano moltissimi disegni animati per la TV e cominciarono a importarli; i primi titoli furono Vic il Vichingo e Heidi – realizzati in coproduzione con la Germania, e quindi abbastanza nella ‘norma’ occidentale.
Poi venne il robot gigante della serie Goldrake, una novità assoluta che scatenò l’entusiasmo in un’intera generazione di spettatori.
Il successo di Goldrake segnò l’inizio di una vera e propria invasione: in meno di dieci anni, nel nostro paese fu mandata in onda la quasi totalità dei programmi realizzati in Giappone nell’arco di trent’anni.
Qualcuno gridò allo scandalo per la presenza di quei prodotti così diversi da quelli abituali: come i fumetti, infatti, anche i disegni animati sono legati alla cultura del Sol Levante e molti, non comprendendone le sfumature, li ritenevano violenti e diseducativi oltre che ‘disegnati male’. I ragazzi, invece, li apprezzarono enormemente, forse proprio per la loro carica trasgressiva. Presto si scoprì che la maggior parte dei cartoni era ispirata a serie a fumetti, e anche i manga cominciarono a venire importati e tradotti. Ora i fumetti giapponesi sono diffusi in tutto il mondo e hanno contribuito, tra l’altro, a far conoscere i diversi aspetti di un paese prima di allora noto soltanto per i ciliegi in fiore, per i samurai e perché i nomi dei suoi abitanti si prestano a giochi di parole come «Tofuso Lamoto».
Così come le stampe dell’Ukiyo-e avevano influenzato i pittori occidentali del 19° secolo, i fumetti giapponesi hanno influenzato molti autori occidentali dei nostri giorni: sta, infatti, nascendo un nuovo stile che mescola il meglio delle due scuole e che ha generato personaggi di grande successo internazionale come il fumetto Witch, disegnato per la Disney dagli italiani Alessandro Barbucci e Barbara Canepa.