Marginalità sociale
La nozione di marginalità sociale riflette l'idea che l'organizzazione della società sia fondata non solo sulla disuguaglianza riguardo all'accesso alle ricompense sociali o sulla gerarchizzazione delle posizioni sociali (com'è supposto, per esempio, dalle teorie della stratificazione sociale), ma anche sull'esistenza di gradi diversi di integrazione sociale. È un soggetto marginale (sia esso un gruppo o un individuo) chi è distante dal centro del sistema sociale cui appartiene (occupa cioè una posizione periferica) ed è prossimo ai confini che separano tale sistema dall'ambiente esterno (o da altri sistemi). La nozione rinvia così da un lato all'esistenza di un confine che separa il sistema dall'ambiente, oppure diversi sistemi tra loro, dall'altro lato all'esistenza di gradi diversi di integrazione all'interno di tali confini.
Proprio perché si colloca lungo l'asse integrazione/esclusione, la marginalità sociale rappresenta una dimensione analitica distinta rispetto ai rapporti di classe o alle differenze di ceto. Ne costituiscono una prova i conflitti di volta in volta osservati tra gruppi sociali subordinati ma inseriti stabilmente nella società (per esempio i lavoratori dipendenti regolari) e gruppi marginali che premono per una loro partecipazione più stabile al sistema (come i disoccupati o i giovani in cerca di occupazione). Allo stesso modo la nozione di marginalità è distinta da quella di povertà economica, quantunque esista una stretta correlazione tra i due fenomeni: mentre la prima riguarda il tipo di inclusione nel sistema, la seconda concerne più limitatamente l'accesso al sistema di distribuzione delle ricompense economiche.
Un punto critico della riflessione sulla marginalità sociale è rappresentato dal rapporto esistente tra tale fenomeno e la struttura della disuguaglianza sociale. Come vedremo successivamente, alcune teorie hanno interpretato la marginalità come una conseguenza indotta dalla struttura dominante dei rapporti di classe. Anche senza adottare tale interpretazione, è comunque innegabile che la marginalità abbia radici profonde nelle disuguaglianze presenti in una determinata società: non solo perché i soggetti marginali provengono in gran parte dai gruppi sociali più svantaggiati, ma anche perché la fisionomia stessa della marginalità sociale riflette puntualmente gli squilibri e le differenziazioni della struttura economica e sociale della società. Altre teorie tuttavia, sottolineando il carattere multidimensionale della marginalità, hanno negato la possibilità di ricondurla alla semplice dimensione economica, sino ad ammettere che esistano forme di marginalità senza povertà o con un grado di povertà minore di quello sperimentato da alcuni settori di popolazione 'integrata' (il caso più eclatante è forse quello degli Ebrei).
La marginalità può essere considerata come una delle posizioni intermedie di una scala che vede ai suoi estremi le due figure opposte dell'integrato e dell'escluso. Tuttavia alla figura del marginale viene generalmente attribuita una qualità specifica, derivante dal fatto paradossale di appartenere di diritto a una certa categoria e al tempo stesso essere escluso sia dalle decisioni e dal godimento delle risorse, sia dalle garanzie assicurate alla maggioranza degli altri appartenenti al sistema (v. Gallino, 1993). Un esempio significativo è dato da quella parte della popolazione attiva, di dimensioni variabili nel tempo, che, pur avendo requisiti idonei e disponibilità soggettiva, non trova, per complessi motivi, un'occupazione lavorativa, oppure la trova soltanto a condizioni sfavorevoli e per limitati periodi di tempo. Proprio questa posizione 'liminale' ha contribuito alla formazione di rappresentazioni sociali della marginalità che ne hanno enfatizzato di volta in volta i potenziali di devianza (in quanto area sottratta al controllo sociale), di innovazione sociale (v. Park, 1928), di opposizione all'ordine costituito. D'altra parte proprio l'elevato simbolismo della figura del marginale ha ostacolato lo sviluppo di un'adeguata riflessione critica sulla dimensione soggettiva della marginalità sociale.Le scienze sociali hanno espresso nel complesso due nozioni diverse, seppure non opposte, di marginalità sociale. La prima definisce la marginalità in base all'esclusione dall'accesso ai processi fondamentali di un dato sistema sociale - di tipo produttivo, decisionale e distributivo; essa dunque costituisce una posizione residuale, funzionalmente scollegata dai processi fondamentali di produzione e riproduzione sociale. La seconda nozione definisce invece la marginalità come una posizione di sradicamento sociale e di status incerto, causata dalla transizione da un'appartenenza all'altra, dall'emergere di nuove forme di esclusione sociale (su base etnica, territoriale, ecc.), oppure dall'esperienza moderna della differenziazione sociale e della 'pluriappartenenza'.
Queste due nozioni hanno trovato accentuazioni diverse nella riflessione teorica. La prima è dominante negli studi funzionalisti, in quelli marxisti e nelle teorie tradizionali del mutamento sociale. In generale tutte le teorie che hanno assunto una visione determinista ed evoluzionista dello sviluppo sociale, in particolare quelle che hanno insistito sulla nozione di modernizzazione, hanno condiviso una concezione residuale della marginalità sociale. La seconda nozione ha trovato maggiore attenzione negli studi sulle implicazioni culturali o psicologiche dei processi di differenziazione sociale, a partire dalla celebre analisi di Robert E. Park sull'"uomo marginale" (v. Park, 1928). La distinzione tra queste due nozioni non riflette tuttavia quella tra aspetti 'strutturali' (o oggettivi) e aspetti 'psicologici' (o soggettivi) della marginalità (v. ad esempio Gallino, 1993), ma rinvia piuttosto a due diverse concezioni dell'integrazione sociale: la prima fondata sull'idea della società come un corpo coerente e omogeneo, basato sull'interdipendenza e su valori collettivi unificanti oppure sull'esistenza di un ordine economico e politico dominante; la seconda fondata sull'idea di un equilibrio instabile tra elementi o sottosistemi eterogenei e fondamentalmente irriducibili l'uno all'altro.
Nelle società premoderne o tradizionali la marginalità sociale costituiva un fenomeno limitato, riguardante quasi esclusivamente singoli individui, e pertanto scarsamente riconosciuto. L'eventuale esistenza di gruppi collocati ai margini della società non era percepita come problematica, nonostante che la grande maggioranza della popolazione sperimentasse una situazione di povertà e di esclusione dal godimento di benefici e di diritti. La povertà nasceva dalla durezza delle condizioni di lavoro e dall'esercizio di abusi e di violenze nei confronti delle classi subordinate. Tuttavia, fatta eccezione per i periodi di carestia, la scarsità delle risorse materiali era compensata dalla stabilità lavorativa e dall'esistenza di un solido tessuto di legami sociali (v. Castel, 1991). Per quanto venissero sfruttati e disprezzati, i lavoratori manuali erano considerati parte integrante del corpo sociale (v. Geremek, 1979). La loro indigenza non nasceva dall'esclusione permanente dal mondo del lavoro né dall'indebolirsi dei loro legami sociali, ma rifletteva piuttosto un ordinamento sociale complessivo retto da leggi considerate 'naturali'. Costituiva pertanto un fatto scontato e privo di rilevanza sociale.
Le rare situazioni di marginalità presenti nelle società tradizionali si generavano soprattutto dal rifiuto, non tanto teorico quanto pratico, dei principî e delle forme di dipendenza su cui si basava l'organizzazione di tali società. L'esempio più tipico è dato dalla figura del vagabondo che, rifiutando di sottostare ai legami di dipendenza insiti nell'obbligo del lavoro, si poneva quasi automaticamente al di fuori delle norme che regolavano la vita sociale. A differenza dell'individuo che non lavorava perché impedito da disabilità di tipo fisico o mentale, e che per questo meritava il sostegno sociale, il vagabondo che si rifiutava di lavorare pur essendo nelle condizioni di farlo costituiva una sfida radicale alle concezioni etiche della società tradizionale, e finiva così per essere isolato e divenire il bersaglio di politiche repressive e persecutorie.
Altre forme di marginalità frequenti nelle società tradizionali erano quelle causate da discriminazioni di tipo religioso ed etnico: la segregazione coatta degli Ebrei, che cominciò a diffondersi nel XV secolo e fu definitivamente abolita soltanto da Napoleone, ne costituisce il caso paradigmatico. Altri esempi sono costituiti dalle numerose misure finalizzate a combattere le eresie religiose oppure ad impedire la contaminazione tra individui di religioni o razze diverse. Anche i portatori di specifiche malattie (come i lebbrosi e i malati di peste) erano soggetti a forme di segregazione spaziale, non solo per il timore del contagio ma anche perché ritenuti responsabili del loro stato. Nel complesso, tuttavia, la marginalità è restata in queste società un fenomeno quantitativamente circoscritto, riconosciuto soprattutto nelle sue dimensioni morali e individuali (o di piccolo gruppo), e trattato prevalentemente mediante strategie di esclusione finalizzate al rafforzamento della coesione della società e della sua cultura dominante.Il passaggio verso la società moderna procede di pari passo con la marginalizzazione di grandi masse sociali e con il progressivo riconoscimento della dimensione sociale, non più esclusivamente individuale o di piccolo gruppo, della marginalità. La rottura dei legami tradizionali conseguente alla rivoluzione industriale provoca da un lato la pauperizzazione di una quantità di lavoratori manuali quale non si era mai riscontrata in precedenza, dall'altro la distruzione del loro ambiente e dei loro riferimenti spaziali e sociali. La marginalità appare dunque "come il costo sociale della modernizzazione, come parte integrante dei processi dell'accumulazione originaria del capitale" (v. Geremek, 1979, p. 763). La comparsa del lavoratore salariato, disponibile a offrire il proprio lavoro alle condizioni poste dal mercato, coincide con lo sradicamento di una massa di lavoratori manuali ormai sciolti dai legami feudali e con il loro progressivo adattamento alle nuove esigenze del sistema capitalistico.La modernizzazione produce così una forma tipica di marginalità, rappresentata non solo dalla persistenza di gruppi sociali tradizionali che oppongono resistenza alla "grande trasformazione" (v. Polanyi, 1944) indotta dall'avvento dell'economia capitalistica, ma anche dalla compresenza di aree di sottosviluppo difficilmente integrabili nel nuovo sistema. La nozione di marginalità è stata utilizzata in questo senso anche per interpretare le opposizioni tra rurale e urbano da un lato, tra paesi dipendenti e paesi sviluppati dall'altro (v. Cardoso, 1976).
Progressivamente la dimensione sociale della marginalità trova finalmente riconoscimento a livello culturale e nell'azione dello Stato. La progressiva estensione dei diritti civili, politici e sociali a segmenti sempre più estesi di popolazione - avvenuta a partire dal XIX secolo con l'introduzione del suffragio universale maschile e delle prime misure di protezione sociale - segnala la crescente consapevolezza della limitata integrazione sociale di una parte non trascurabile della società. Lo sviluppo dei moderni sistemi di welfare ha costituito la principale strategia di risposta alla diffusione di una marginalità sociale interpretata come "l'antitesi della modernità" (v. Castel, 1991), la sopravvivenza di aree sociali tradizionali che non partecipano ai benefici dello sviluppo economico.In questo quadro la marginalità sociale appare ancora un fenomeno residuale e transitorio, dovuto a fattori congiunturali, come le crisi cicliche dell'economia, oppure all'indisponibilità soggettiva ad accettare l'inevitabile sradicamento dalla struttura tradizionale richiesto dalla modernità. L'estensione dei programmi di welfare sembra rendere possibile l'integrazione sociale di gran parte della popolazione, compresi quei gruppi che, più o meno temporaneamente, si trovano esclusi dal processo di modernizzazione (ad esempio, perché sprovvisti di una qualificazione professionale adeguata). Per questi ultimi il superamento della marginalità diviene soprattutto un problema di adattamento, il cui fallimento può essere imputato a patologie individuali oppure alla persistenza di subculture segregate (per esempio, il fatto di appartenere a minoranze razziali o religiose). Le manifestazioni più evidenti della marginalità restano il nomadismo e l'internamento in istituzioni totali (manicomi, prigioni, cronicari, ecc.).
La fiducia nella capacità della modernizzazione di risolvere o quantomeno limitare la marginalità e l'esclusione sociale viene però notevolmente incrinata dalle difficoltà in cui si dibattono le cosiddette 'società industriali avanzate'. In un contesto caratterizzato da sempre più evidenti "limiti sociali allo sviluppo" (v. Hirsch, 1976) la marginalità sociale non solo diventa più visibile che in passato, ma si configura come un segno permanente della crisi strutturale della società industriale.I fattori specifici che contribuiscono all'emergere di questa nuova forma storica della marginalità sono molteplici. In primo luogo vanno considerati la contrazione del settore dell'occupazione stabile e il parallelo aumento del lavoro precario e instabile. Lo sviluppo delle attività produttive terziarie va infatti di pari passo con l'aumento della disoccupazione industriale da un lato e la progressiva precarizzazione dell'attività lavorativa dall'altro. La crescita dei lavori irregolari e temporanei influisce soprattutto sulle nuove generazioni, alle quali sempre più spesso manca la prospettiva di una carriera lavorativa all'insegna della stabilità e della garanzia del posto.
Un secondo elemento è rappresentato dall'indebolimento progressivo delle strutture sociali familiari e territoriali che nella società industriale avevano assicurato protezione e integrazione agli elementi più deboli (v. Castel, 1991). La crisi dell'istituzione familiare da un lato (segnalata dall'aumento dei divorzi e dalla crescita dei nuclei familiari con un solo genitore) e dall'altro lo smembramento del ricco tessuto di aiuti reciproci e di sostegno ai soggetti più deboli, caratteristico dei quartieri a insediamento popolare, hanno nel complesso aumentato i rischi di esclusione sociale e hanno alimentato la costituzione di vere e proprie sacche di nuova marginalità, in cui ricadono non solo soggetti tradizionalmente esclusi dai benefici dello sviluppo ma anche nuovi soggetti: giovani inoccupati, famiglie monoparentali, individui senza fissa dimora e via dicendo.
Un terzo elemento è infine costituito dalla crisi fiscale causata dalle politiche di welfare, peraltro sempre più manifestamente inadeguate a fronteggiare le nuove forme di emarginazione. Se da un lato i vincoli di bilancio rendono ormai irrealistica ogni ulteriore espansione degli interventi sociali a favore dei gruppi marginali, dall'altro si evidenzia uno scarto sempre più ampio tra la sanzione formale dei diritti sociali (che vengono riconosciuti sulla base dello status di cittadini) e l'esclusione dalla loro effettiva fruizione di quote molto consistenti della popolazione. Si passa così da politiche finalizzate all'integrazione sociale, cioè a un definitivo assorbimento della condizione di marginalità, a politiche di semplice inserimento, il cui scopo è solo l'attenuazione degli aspetti più gravi dell'esclusione e non quello di tentare una vera e propria reintegrazione sociale.
Come conseguenza dei processi qui sinteticamente delineati emergono dunque nelle società tardocapitalistiche nuove forme di marginalità sociale, i cui tratti tipici sono i seguenti: a) la marginalità sembra essere meno facilmente localizzabile nelle aree periferiche; essa non è più "racchiudibile in confini rigidamente delimitati che permettono di ritagliare con sicurezza i punti critici del tessuto urbano" bensì "attraversa non univocamente, ma verticalmente e trasversalmente, più spazi sociali, ambiti di vita, luoghi fisici prodotti" (v. Barbano, 1982, p. 28); il degrado sociale cui sono soggetti i centri storici di molte cittadine illustra efficacemente questo fatto; b) assistiamo oggi a una "trasformazione in senso adattivo-funzionale della marginalità sociale" (v. Paci, 1982), nel senso che la moltiplicazione dei meccanismi di distribuzione delle risorse favorisce lo sviluppo di condizioni marginali caratterizzate non tanto dalla cumulazione dei fattori di esclusione (quale può essere esemplificata dalla figura paradigmatica del 'barbone', un individuo cioè senza casa, senza lavoro e senza diritti politici) quanto dall'accesso differenziato e limitato a diversi sistemi distributivi e a diversi ambiti sociali e istituzionali; si pensi ad esempio alla progressiva marginalizzazione della popolazione anziana urbana a basso reddito, per la quale l'accesso a una pensione di entità ridotta è accompagnato spesso da isolamento sociale, trasferimento forzato in quartieri anonimi, indebolimento dei legami familiari; c) infine, nelle società contemporanee si amplia l'area della "vulnerabilità sociale" (v. Castel, 1991), in cui ricadono soggetti per i quali la marginalità non costituisce una condizione di partenza quanto l'esito di eventi precipitanti che si innestano su una situazione precedente di instabilità e di indebolimento dei legami sociali (si pensi, ad esempio, ai figli di coppie separate, ai disoccupati di lungo periodo, agli anziani soli); la marginalità finisce così, almeno in parte, di costituire un carattere ascritto per divenire una posizione acquisita.
Queste nuove fenomenologie richiedono, per essere comprese appieno, una nuova concettualizzazione della marginalità, che sottolinei maggiormente il carattere mobile e processuale delle sue manifestazioni più recenti. Prima di addentrarci su questo terreno, va tuttavia ricordato che la dinamica storica delineata è quella caratteristica delle società che hanno conosciuto il processo di industrializzazione nel secolo scorso e stanno affrontando ora le difficoltà insite nella transizione verso sistemi postindustriali. In realtà la marginalità non costituisce un fenomeno esclusivo delle società di prima industrializzazione: anche i paesi del Terzo Mondo hanno infatti conosciuto, e conoscono tuttora, rilevanti fenomeni di emarginazione. Basti pensare allo sviluppo enorme delle favelas e delle bidonvilles ai margini delle megalopoli, o al fenomeno dei bambini abbandonati. Il caso maggiormente studiato è rappresentato dai paesi dell'America Latina, ma analoghi processi sono osservabili in tutti i paesi soggetti a un modello di sviluppo economico di tipo dipendente (v. Cardoso, 1976). Alla base della marginalità sociale presente in questi paesi sta proprio il carattere dipendente e disarticolato del loro sviluppo economico, che ha contribuito al formarsi di un ampio numero di individui permanentemente esclusi dal mercato del lavoro, per i quali non appare credibile alcuna ipotesi di graduale riassorbimento all'interno del settore industriale modernizzato. Alcuni autori (v. Quijano, 1976), considerando l'esistenza di una massa di individui marginali strutturalmente non integrabili nel settore modernizzato dell'economia, sono pervenuti a identificare come specifico di questi paesi un modello di sviluppo dualistico, fondato sulla separazione tra due settori, uno centrale e uno periferico, tra cui non esistono legami funzionali se non il fatto di essere entrambi originati dal carattere dipendente del sistema economico.
Diversi sono i fattori che sono stati richiamati nella teoria per spiegare la marginalità sociale. Germani (v., 1976) propone di distinguere cinque ordini di fattori: a) fattori d'ordine economico, inerenti principalmente alla struttura del mercato del lavoro e alla sua capacità di assorbimento della forza lavoro; b) fattori d'ordine politico, riguardanti le forme e le condizioni di limitazione della partecipazione politica; c) fattori d'ordine culturale, relativi ai processi di differenziazione culturale, alla sovrapposizione di culture nel medesimo contesto territoriale e sociale, all'esistenza di minoranze subculturali; d) fattori d'ordine psicosociale, come l'incapacità di adattamento o il ritardo nell'acquisizione e adozione dei modelli moderni di comportamento; e) fattori d'ordine demografico, legati soprattutto all'osservazione del ritmo di crescita della popolazione in rapporto alla capacità di assorbimento del mercato del lavoro.Pur nella varietà delle sue manifestazioni, la marginalità viene generalmente collegata allo sviluppo della società moderna (sia nella sua versione originale che in quelle osservabili nei paesi del Terzo Mondo). È quindi possibile affermare che la marginalità sociale trovi le sue origini strutturali nell'insieme dei processi economici, politici e culturali che hanno accompagnato l'emergere, lo svilupparsi e il maturare della società moderna. La sua presenza segnala appunto che tale processo non è avvenuto senza incontrare punti di resistenza e senza generare fenomeni sociali disfunzionali e in contraddizione con la sua stessa dinamica evolutiva. Tuttavia, come abbiamo mostrato in precedenza, solo nella società contemporanea, in coincidenza con la crisi dei sistemi industriali avanzati e il progressivo aggravarsi dello squilibrio tra Nord e Sud del mondo, la marginalità sociale diviene un fenomeno permanente e potenzialmente esplosivo. Pur restando all'interno di questo quadro interpretativo, le basi strutturali della marginalità sono state individuate dalle diverse teorie in modo diverso. Gli studi di impostazione funzionalista hanno evidenziato soprattutto il carattere multidimensionale e residuale della marginalità. Nell'analisi di Gino Germani la marginalità viene definita come "la non partecipazione in quelle sfere che si considerano dover essere incluse nel raggio di azione e/o di accesso dell'individuo o del gruppo" (v. Germani, 1976, p. 37). Essa viene definita in rapporto a una concezione normativa dei diritti civili, politici e sociali che corrispondono allo status di cittadino, cui non consegue per alcuni la possibilità effettiva di esercitare tali diritti. La marginalità in questo senso resta un fenomeno residuale, definito in negativo dall'impossibilità di esercitare un determinato insieme di ruoli sociali normativamente codificati. I suoi contenuti fondanti sono la patologicità e l'asocialità, mentre la sua origine strutturale viene ricercata nelle disfunzioni del sistema sociale.
A questa concezione si oppongono numerosissimi studi di impostazione marxista, sorti soprattutto negli anni settanta, sull'onda dell'analisi dei modelli di sviluppo dipendente delle economie sudamericane (v. Turnaturi, 1976). La marginalità non viene considerata in questi studi come un aspetto disfunzionale, ma è invece interpretata come l'espressione delle contraddizioni strutturali del capitalismo, un fenomeno, quindi, la cui origine è prettamente economica e che risulta funzionale alla riproduzione del sistema dominante. Secondo questa impostazione, lo sviluppo del mercato del lavoro in paesi a economia dipendente genera una manodopera eccedente che non è in grado, come invece è supposto nella teoria marxiana dell'esercito industriale di riserva, di entrare in competizione con i settori occupati. Si tratta quindi di una manodopera che "non contribuisce o contribuisce in modo irrisorio all'accumulazione di capitale e allo sviluppo economico nazionale" (v. Paci, 1982, p. 132), impegnata prevalentemente in occupazioni di minima produttività e bassa qualificazione, nell'autoconsumo e nella sussistenza domestica. La sua collocazione marginale è data dal fatto di produrre attività che, non essendo rilevanti per il funzionamento del sistema dominante, possono essere soppresse senza ripercussioni significative a livello economico. Tuttavia la loro esistenza costituisce il prodotto storico dello sviluppo dell'economia capitalistica.
L'osservazione delle dinamiche occupazionali dei paesi occidentali ha condotto alcuni studiosi a utilizzare il concetto marxista di marginalità per indicare la massa crescente di popolazione - costituita prevalentemente da forza lavoro periferica, cioè donne, giovani, minoranze etniche o razziali - che viene strutturalmente e progressivamente allocata in settori a bassa produttività e a bassi standard occupazionali e salariali. In buona parte questa massa di popolazione trova nell'assistenza fornita dai programmi statali di welfare la risorsa fondamentale per la sua sopravvivenza, in questo modo precipitando però in una posizione di dipendenza assistenziale dallo Stato (v. Piven e Cloward, 1971).
Pur ponendosi come alternative le une alle altre, le interpretazioni funzionaliste e quelle marxiste condividono l'assunto che la marginalità costituisca l'esito dell'esclusione di alcuni strati sociali dai processi produttivi, decisionali e distributivi fondamentali della società. Che costituisca l'antitesi della modernità oppure il suo prodotto, essa viene comunque definita in negativo, per la sua residualità o per la sua eccedenza, per il mancato accesso a risorse fondamentali piuttosto che per la mancata partecipazione ai processi economici centrali.
Questa visione residuale sembra marcatamente inadeguata a cogliere i nuovi aspetti che la marginalità assume nelle società a capitalismo avanzato. In questi contesti, come abbiamo detto, la disarticolazione dei processi economici e sociali rende sempre più difficile l'individuazione di un settore marginale, qualora esso venga definito tale per la sua distanza o perifericità rispetto a sistemi che appaiono sempre più decentrati e sprovvisti di logiche coerenti e omogenee di funzionamento. La scomparsa del centro, evocata dalle teorie della complessità sociale e dall'insistenza con cui le analisi economiche e sociali più recenti indicano la prevalenza di dinamiche di frammentazione e di differenziazione, sembra colpire un concetto, qual è quello di marginalità, che è sorto e si è affermato proprio a partire dal riconoscimento dell'esistenza di una logica integrativa del sistema dominante. Si assiste così alla progressiva dissolvenza teorica del concetto e al parallelo ricorso a termini che mettono in evidenza la dimensione processuale della marginalità (come il concetto di esclusione sociale) oppure ad aspetti più specifici (come quello della povertà economica).
Al di là dei problemi terminologici, resta l'interrogativo se il concetto di marginalità, una volta depurato degli assunti deterministici che l'hanno sinora caratterizzato, possa essere utile per l'analisi di società, come quelle contemporanee, in cui i fenomeni dell'esclusione sociale sembrano ancora più ampi e radicali che in quelle del passato. Come afferma efficacemente Alain Touraine, "oggi il problema non è più quello di essere up or down ma in or out: quelli che sono in lo vogliono essere, altrimenti si ritroverebbero nel vuoto sociale" (v. Touraine, 1991, p. 14). Un nuovo approccio deve tuttavia partire dalla considerazione dei tre aspetti che, come abbiamo detto, qualificano la marginalità nella società contemporanea: la delocalizzazione, la multidimensionalità e il carattere acquisito. L'elemento strutturale cui tale concettualizzazione dovrebbe riferirsi non può più essere rappresentato da una nozione determinista dello sviluppo della società, bensì dal riconoscimento del carattere frammentato e disarticolato delle società contemporanee.
La marginalità non può allora essere spiegata facendo esclusivo riferimento alla logica interna del modo di produzione capitalistico; essa si fonda invece sulla mancanza di coordinamento tra i diversi processi economici e sociali della società contemporanea (v. Touraine, 1991). La marginalità sociale non è altro che il segnale della disarticolazione della nostra società e dell'asincronia esistente nell'evoluzione dei diversi sottosistemi che la compongono. Il marginale, in base a questa idea, non è più rappresentato soltanto dalle categorie residuali o eccedenti già individuate dagli studiosi funzionalisti e dai marxisti, ma anche da chi si trova collocato strutturalmente nel punto di snodo tra i diversi sottosistemi, sul confine mobile e incerto che distingue, mai in modo definitivo, l'integrazione dall'esclusione.
Le teorie che definiscono la marginalità in termini residuali hanno considerato gli atteggiamenti e i comportamenti dei soggetti marginali in tre modi distinti: come segnali di anomia, come manifestazioni subculturali, oppure come forme di opposizione all'ordine dominante.
Nel primo caso la marginalità viene considerata come l'effetto della disgregazione e dello sfilacciamento dei legami sociali, una situazione da cui è facile emergano condotte devianti e personalità disturbate. La malattia mentale, la tossicodipendenza, la microdelinquenza, l'aggregazione di bande giovanili che adottano stili aggressivi, l'estremismo politico e il terrorismo sono alcuni dei fenomeni che spesso sono stati interpretati come conseguenza, più o meno diretta, della marginalità sociale.
Nella seconda accezione i comportamenti marginali sono interpretati come segnali dell'esistenza di gruppi di popolazione, non integrati culturalmente, che sviluppano una subcultura separata da quella dominante. L'esempio più evidente di questa forma di marginalità è dato dai ghetti urbani, ovvero dalle aree in cui vive segregata sotto l'aspetto residenziale una popolazione differenziata, per caratteristiche etniche, razziali o linguistiche, dal resto degli abitanti. Il ghetto rappresenta, secondo la nota analisi di Wirth (v., 1928), il modo attraverso cui alcuni gruppi di popolazione cercano di conservare le proprie peculiari forme di cultura e di mantenere la specificità e l'unicità delle proprie concezioni di vita. Tuttavia il ghetto costituisce anche una forma di esclusione che, pur non impedendo completamente il contatto, riduce i rapporti con l'esterno a relazioni secondarie e formali di tipo meramente adattivo: "il ghetto è una comunità chiusa, che si perpetua e si rinnova con l'infusione di un minimo di influenze esterne" (ibid.; tr. it., p. 180). La comunità del ghetto, come non è capace di un'azione collettiva su vasta scala, così non sviluppa atteggiamenti o condotte ostili nei confronti del resto della popolazione; la segregazione infatti, salvaguardando l'identità differenziata e la solidarietà del gruppo, rende possibile la reciproca tolleranza tra gruppi sociali diversi, e in definitiva consente, se non la piena integrazione sociale, l'adattamento sociale.
La terza accezione è stata elaborata dagli studiosi marxisti, che si sono a lungo interrogati sul potenziale di conflittualità sociale insito nella massa sempre crescente di soggetti marginali. Per molti autori la marginalità costituisce una forma di adattamento sociale caratterizzata dalla sua relativa non strutturazione e dalla sua eteronomia, e come tale non è integrabile in alcuno schema del conflitto di classe. Secondo altri autori, invece, nei sistemi moderni la marginalità può consolidarsi in minoranze visibili in grado di provocare tensioni conflittuali nei confronti dell'ordine costituito (si pensi come esempio ai disoccupati oppure ai pensionati a basso reddito). In un caso come nell'altro, tuttavia, la marginalità resta il segnale dei limiti di sviluppo del capitalismo, e quindi un terreno privilegiato di analisi delle sue contraddizioni strutturali.
In generale, conformemente ai loro assunti teorici, le interpretazioni tradizionali oscillano tra una visione anomica e destrutturata della soggettività marginale - colta nei suoi aspetti di alienazione, eteronomia e passività - e l'immagine di una comunità marginale coesa al suo interno, gerarchicamente subordinata ai gruppi dominanti e conflittuale con essi. Alla base di questa oscillazione sta la distinzione analitica tra la dimensione individuale della marginalità, segnata dalla mancanza di appartenenza e dalla disfunzionalità del suo ruolo sociale, e la dimensione collettiva, caratterizzata dall'emergere di identità parziali che vengono facilmente assimilate, più che integrate, nell'ambito del sistema sociale complessivo.
La problematicità di queste interpretazioni emerge quando si considerano le più recenti fenomenologie della marginalità sociale. Secondo Paci "la differenziazione dei meccanismi di distribuzione delle risorse [...], dando luogo ad una complicazione delle condizioni di marginalità, erode, a livello della percezione soggettiva e dell'esperienza quotidiana, la compattezza e la visibilità della condizione di marginalità" (v. Paci, 1982, p. 243). Per esempio, grazie allo sviluppo dei moderni sistemi di protezione sociale, in molti paesi le conseguenze sociali e politiche della disoccupazione vengono oggi attutite; anche se i sussidi pubblici costituiscono un rimedio palliativo e temporaneo, essi indubbiamente evitano spesso lo sviluppo di azioni pubbliche di protesta. Analogamente, le nuove forme di esclusione sociale e territoriale sembrano assumere caratteristiche differenziate rispetto ai ghetti tradizionali, in quanto non si basano su alcuna unità culturale né elaborano forme subculturali o conflittuali di identificazione collettiva. Nella marginalità odierna possono per esempio combinarsi esclusione sociale e assimilazione culturale: "se gli individui sono spesso socialmente esclusi attraverso la disoccupazione, non sono però esclusi dal consumo e dalla produzione culturale. [...] Il paradosso di queste popolazioni è dunque che esse sembrano più direttamente colpite dalla marginalità, a causa della loro maggiore fragilità, ma nello stesso tempo meglio adattate ai processi di modernizzazione" (v. Lapeyronnie, 1990, cit. in Tosi, 1994).
Dunque il destino soggettivo del marginale odierno, stretto tra la mancanza di identificazioni collettive subculturali e il rischio dell'anomia individuale, sembra segnato dalla perdita di riferimenti e dalla sospensione tra integrazione ed esclusione sociale. La nuova marginalità, al pari della periferia delle metropoli moderne, è così rappresentata da "questa zona di grandi incertezze e tensioni dove le persone non sanno se sono prossime a finire dalla parte degli integrati o dalla parte degli esclusi" (v. Touraine, 1991). In ben altro contesto storico e culturale, è questa la stessa situazione psicologica in cui si trova l'"uomo marginale" di Park, l'individuo che vive all'incrocio di più culture, "sul margine di due culture e due società, che mai si compenetrano e si fondono del tutto" (v. Park, 1928, p. 892). Ciò che caratterizza l'uomo marginale è l'esperienza della non appartenenza, dell'impossibilità permanente dell'integrazione, e quindi la necessità di sviluppare relazioni con gli altri sempre e solo di tipo adattivo. L'inserimento parziale e temporaneo nei circuiti di distribuzione delle risorse e lo smarrimento di legami sociali saldi ne costituiscono i tratti distintivi, non solo nei confronti del mondo degli integrati, ma anche nei confronti delle figure tradizionali della marginalità. (V. anche Assistenza sociale; Devianza; Povertà).
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