Martino IV
Simon de Brie (o di Brion o di Mainpincien), familiare dei conti di Champagne, dovette studiare a Parigi prima di diventare - sembra su interessamento della corte - tesoriere del Capitolo reale di St-Martin di Tours; dal 1260 era consigliere del re di Francia Luigi IX e l'anno successivo succedette a Raoul Grosparmi come guardasigilli del re.
Fu uno dei tre membri del consiglio reale che il papa francese Urbano IV nominò cardinali il 24 dicembre 1261. I tre cardinali lasciarono Parigi il 22 marzo 1262, anche se la prima volta che la firma del novello cardinal prete del titolo di S. Cecilia compare su una bolla è il 13 novembre 1263. Simon de Brie fu quindi un esponente del partito francese che Urbano IV organizzò nella Curia romana e il suo specifico e delicato incarico fu quello di negoziare l'investitura di Carlo d'Angiò a re di Sicilia. Nel frattempo Carlo aveva ricevuto il titolo di senatore romano a vita. Il 3 maggio 1264 Simon fu nominato da Urbano IV legato pontificio presso s. Luigi; il suo mandato copriva anche la diocesi di Cambrai e Tournai, la Contea di Fiandra, la Contea di Provenza nonché gli altri territori di Carlo d'Angiò, le province ecclesiastiche di Lione, Embrun, Vienne, Tarentaise e Besançon. Il cardinale di S. Cecilia svolse l'incarico di legato pontificio tra il 1264 e il 1269 e poi tra il 1274 e il 1279, cioè sotto i successori di Urbano IV, morto nel 1264: dapprima il francese Clemente IV, poi, a partire dal concilio ecumenico di Lione del 1274, sotto gli altri. Urbano IV gli aveva affiancato l'arcivescovo di Cosenza e il legato d'Inghilterra e il suo primo e principale obiettivo era quello di far cadere rapidamente le resistenze di Carlo d'Angiò all'investitura della Sicilia, limitando al massimo gli onori che gli derivavano dal titolo di senatore a vita di Roma. Strategicamente, era stato previsto di legare l'uno all'altro i due fatti, anche se, per il Senato, venne proposta a Carlo la scelta tra due diverse formule, una delle quali era per lui decisamente vantaggiosa. In compenso, se Carlo non ne avesse accettata neppure una, avrebbe automaticamente rinunciato alla Corona di Sicilia. Il legato da una parte contrattò le richieste di Carlo, dall'altra cercò di eliminare gli ostacoli esterni, tra i quali primeggiava l'ostilità verso Carlo della regina di Francia, Margherita di Provenza. Inoltre, Simon de Brie si impegnò a cercare di vincolare le decime a favore dell'Angioino all'interno di una crociata che, visualizzando in Manfredi il nemico, usava ambiguamente la Sicilia sia come tappa necessaria per le conquiste oltremare, sia come obiettivo a sé stante nell'ottica di una liberazione definitiva dai sempre più vicini e preoccupanti Svevi. Contro Manfredi, infatti, era stata bandita una crociata: Urbano IV intensificò le sue lettere a Simon de Brie, mostrandogli una situazione italiana sempre più critica. A seguito di ciò, il legato ritenne di dover ampliare le concessioni pur di ottenere un aiuto immediato. Il 5 agosto 1264 erano cadute le obiezioni della casa reale francese e, finalmente, il 15 agosto si arrivò all'accordo. Il successo diplomatico di Simon de Brie era evidente e fu determinante per gli avvenimenti che seguirono. L'accordo in realtà fu definito sotto Clemente IV e passò quasi un anno prima che Carlo, raggiunta Roma, fosse investito del titolo di re di Sicilia (28 giugno 1265). Si apriva ora per il legato francese un altro fronte, non meno impegnativo: il finanziamento dell'impresa di Sicilia. Simon de Brie si dedicò al nuovo compito con grande accanimento, suscitando frequenti malcontenti e proteste e ottenendo risultati inferiori alle aspettative. In realtà, le casse pontificie erano vuote e le necessità del novello re di Sicilia grandi. Si cercavano soldi con ogni mezzo e da chiunque, Ordini esenti compresi (Ordini militari, Cistercensi, Certosini). In questa inesausta ricerca di fondi, si verificò un "incidente" che turbò i rapporti tra Clemente IV e il suo legato Simon de Brie: quest'ultimo, infatti, di sua iniziativa impegnò le decime raccolte per assoldare sul posto nuovi uomini, proprio quando il papa stava valutando l'ipotesi di un grande prestito unitario. Qualche tempo dopo, Clemente IV giunse a ipotecare dei beni della Chiesa romana presso i banchieri di Roma. Continuava, nel frattempo, l'azione politica e militare di Carlo, che si era ormai proposto come capo della fazione guelfa, nella penisola italiana, ma sia Gregorio X sia, più tardi, Niccolò III Orsini ostacolarono la politica angioina.
Determinante fu quindi per Carlo, a sei mesi dalla morte di Niccolò III, l'elezione di Simon de Brie al soglio pontificio (22 febbraio 1281): l'antico consigliere del re di Francia, legato pontificio e negoziatore dell'accordo con Carlo d'Angiò diveniva papa con il nome di Martino IV. L'elezione del nuovo papa era avvenuta proprio grazie alle pressioni dell'Angioino, che aveva potuto contare su molti fattori: in primo luogo l'ostilità agli Orsini manifestata dagli abitanti di Viterbo, dove si radunavano gli elettori pontifici, che giunsero ad imprigionare i cardinali Matteo e Giordano Orsini; inoltre l'ascesa della famiglia Annibaldi, tradizionalmente nemica degli Orsini, che vantava ora un podestà a Viterbo, oltre che l'iniziativa di un assalto al Campidoglio a Roma; infine esisteva un partito curiale a lui favorevole cui apparteneva Benedetto Caetani, il futuro Bonifacio VIII, che diventerà in seguito acerrimo nemico della casa reale francese. Il nuovo papa disapprovò le azioni intraprese contro i cardinali a seguito della morte del suo predecessore e, fattili liberare, lanciò l'interdetto contro la città di Viterbo; in seguito si stabilì ad Orvieto, dove fu consacrato (23 marzo 1281). Ciò non gli impedì di varare un cambiamento di rotta risoluto, riprendendo la politica filoangioina che era già stata dei francesi Urbano IV e Clemente IV. Cominciò con le nuove nomine cardinalizie: dei sette cardinali, quattro erano francesi, di cui tre di lingua "d'oïl" come lui e uno di lingua "d'oc", uno era inglese e solo due italiani, tra i quali fu nominato Benedetto Caetani. Inoltre ribaltò i tentativi di arginare Carlo d'Angiò che erano stati messi in atto dai suoi predecessori.
Era accaduto che Niccolò III nel 1278 avesse riottenuto per sé il titolo di senatore romano a vita, ma M., ricevuta la carica il 10 marzo 1281, la affidò subito a Carlo che a sua volta la delegò a suoi vicari. Inoltre il papa riaccreditò l'Angioino come capo della fazione guelfa in Romagna e negli Stati della Chiesa, allontanando il cardinale Latino da Firenze e dal vicariato di Toscana. Come vicario generale, venne nominato il canonista francese Guillaume Durand. Al tempo stesso diventò necessario impegnarsi in Romagna, territorio su cui, al tempo di Niccolò III, l'imperatore Rodolfo I d'Asburgo († 1291) aveva ceduto i propri diritti: i ghibellini italiani infatti cominciarono a sollevarsi. Il papa francese non esitò infine a troncare le trattative con l'imperatore bizantino Michele VIII Paleologo († 1282) che avevano già portato a una prima riappacificazione tra le due Chiese, latina e greca, nel corso del concilio ecumenico di Lione del 1274: il nuovo obiettivo era ora quello antico di Carlo, e cioè l'espansione nei Balcani e la rifondazione dell'Impero latino d'Oriente. A questo fine, Carlo aveva fatto sposare la figlia Beatrice al primogenito dell'imperatore latino d'Oriente, Filippo di Courtenay. A Orvieto, il 3 luglio 1281, venne stretta un'alleanza tra il papa, Carlo d'Angiò e Venezia, che era stata penalizzata nei suoi commerci dagli accordi del Paleologo con Genova. Malgrado le buone disposizioni dell'imperatore, M. lo scomunicò il 18 novembre. Al suo successore, Andronico II († 1328), non restò che decretare la fine dell'unione tra le due Chiese sancita dal concilio di Lione e, d'altra parte, avvicinarsi a Pietro III d'Aragona che, avendo sposato la figlia di Manfredi, Costanza, rappresentava implicitamente la causa sveva e antiangioina. Da parte sua, Carlo d'Angiò aveva maturato intese con Serbi, Bulgari e principi di Grecia e di Epiro e andava allestendo una flotta. Anche Pietro d'Aragona, con il pretesto di una crociata nell'Africa del nord, stava equipaggiando una grande flotta pronta in realtà ad intervenire in Sicilia con l'appoggio degli esuli siciliani filosvevi e con l'aiuto finanziario del "basileus".
Mentre fervevano i preparativi di "crociata" da entrambe le parti, accadde un fatto che interruppe bruscamente i sogni di espansione mediterranea di Carlo e che coinvolse la Chiesa in sempre più estenuanti e fallimentari tentativi di finanziare la causa angioina: i cosiddetti "Vespri siciliani", come verranno chiamati più tardi. La rivolta popolare contro i Francesi, occasionalmente sorta per sgarberie di alcuni di essi nei confronti di alcune donne siciliane, scoppiò durante una festa popolare presso la chiesa cistercense di S. Spirito a Palermo la sera del lunedì di Pasqua 30 marzo 1282 e si estese rapidamente a tutta l'isola. Il malcontento era essenzialmente dovuto alle vessazioni fiscali imposte da Carlo ai suoi sudditi, malgrado il papa gli avesse consigliato di mutare politica e di ritornare ai del resto non ben identificati "usi di re Guglielmo"; proprio per l'eccesso di pressione fiscale Federico II si era alienato l'appoggio di buona parte della popolazione. Un'altra ragione erano le spoliazioni di parte della nobiltà locale e si può aggiungere lo spostamento a Napoli della sede principale dell'Angioino. Presto i Siciliani cacciarono o massacrarono i Francesi, dopo di che, in quanto la Sicilia era un feudo della Chiesa, si appellarono al papa. M. però, nel maggio 1282, rifiutò di riprendere la sovranità diretta sull'isola, mantenendo l'appoggio all'Angioino. Il papa cercò d'altra parte di sedare la rivolta inviando, il 5 giugno, il cardinal legato Gerardo Bianchi da Parma con il compito di emanare una serie di "constitutiones"; tuttavia ciò non produsse alcun effetto significativo. Il rifiuto del papa nonché il fallimento militare di Carlo a Messina convinse i Siciliani a nominare re di Sicilia Pietro d'Aragona (4 settembre), che, dalla vicina costa africana, giunse rapidamente sull'isola da dove invece Carlo si allontanò. La reazione di M. fu decisa: il 18 novembre scomunicò l'Aragonese e il 21 marzo 1283 lo depose, in quanto l'Aragona era considerata feudo papale dal tempo di Innocenzo III. Il papa si oppose anche con fermezza all'ipotesi di duello-giudizio di Dio che Carlo aveva proposto a Pietro d'Aragona per il 1° giugno 1283 presso Bordeaux: in realtà i due contendenti non si sarebbero mai incontrati, accusandosi reciprocamente di aver mancato l'appuntamento. L'anno successivo fu segnato da un importante avvenimento: la disfatta navale degli Angioini nel golfo di Napoli (giugno) ad opera della flotta aragonese comandata da Ruggero di Lauria che fece prigioniero il figlio di Carlo d'Angiò, Carlo II lo Zoppo.
La politica antiaragonese del papa giunse al suo culmine nel 1285, quando, dopo una lunga trattativa, M. riuscì a convincere il re di Francia Filippo III ad assumere la guida della crociata contro Pietro d'Aragona. Già dal tempo della scomunica di Pietro, M. aveva mandato il legato Jean Cholet in Francia offrendo la Corona d'Aragona al figlio di Filippo. Il re non aveva accolto subito la proposta, che era invisa, sembra, sia al giovane Filippo il Bello, la cui madre era un'aragonese, sia al potente abate di St-Denis, Matthieu di Vendôme, e chiese al papa di essere finanziato, tra l'altro, con le decime del Regno per quattro anni. Solo il 20 febbraio 1284, il re, in accordo col consiglio, accettò la proposta del papa concedendo la Corona d'Aragona al suo secondogenito, Carlo di Valois. La crociata contro l'Aragonese fu un vero disastro per il re di Francia: debole militarmente e finanziariamente, non poté neppure contare sull'alleanza dei nobili aragonesi e infine trovò la morte nel 1285 a Perpignan, durante la crociata. A quel tempo, erano già morti sia lo zio Carlo d'Angiò (7 gennaio 1285) sia M. (a Perugia il 29 marzo 1285).
La dedizione assoluta di M. alla causa francese e angioina in particolare, che G. Galasso ha felicemente definito, con i dovuti accorgimenti, "visione carolingia" del papa (pp. 78-91), si manifestò coerentemente con l'apporto considerevole che M. diede al processo di canonizzazione di s. Luigi, morto nel 1270 e proclamato santo nel 1297.
L'iniziativa era stata di Gregorio X Visconti, che all'indomani del concilio di Lione domandò a Simon de Brie, allora suo legato in Francia, di avviare un'inchiesta segreta su re Luigi, inchiesta che Simon, che era stato familiare del re, avrebbe concluso in tempi brevissimi. La richiesta di Niccolò III al suo legato fu invece di un'indagine pubblica, per la quale Simon ebbe l'assistenza di quattro religiosi, di cui due appartenenti agli Ordini mendicanti, un francescano e un domenicano. Al momento della morte di Niccolò III, Simon aveva da poco concluso l'inchiesta e inviato il dossier. Tornando in Italia, a Reggio, Simon de Brie incontrò il celebre cronista Salimbene de Adam a cui il futuro M. disse che i miracoli raccolti erano già settantaquattro; da parte sua, Salimbene aggiunse quelli che accaddero a Parma e a Reggio Emilia quando passò la salma del re morto a Tunisi. L'elezione di Simon de Brie a papa ovviamente accelerò il processo: il 23 dicembre 1281 ebbe inizio l'ultima inchiesta che aveva il compito di indagare sulla vita, sui costumi e sui miracoli del re. L'arcivescovo di Rouen e i vescovi di Auxerre e di Spoleto nell'arco di circa un anno (maggio 1282-marzo 1283) raccolsero in Francia trecentotrenta testimonianze sui miracoli e trentotto sulla vita. Ma ancora una volta la morte del papa interruppe il processo. Infine, l'avo di Filippo il Bello sarà canonizzato proprio da Bonifacio VIII, presto avversario del re francese.
Un'altra iniziativa di M. riguardò gli Ordini mendicanti cui il papa era particolarmente legato: con la bolla Ad fructus uberes (13 dicembre 1281) il pontefice concesse loro il diritto di predicare liberamente con la sola autorizzazione del vescovo. Ciò provocò una reazione talmente intensa da parte del clero secolare che non soltanto i Frati mendicanti tesero naturalmente a non farne un uso sistematico, ma addirittura papa Bonifacio VIII si vide costretto a porre maggiori limiti al privilegio finché al concilio di Vienne (1311-1312) non fu abolito. M. non risiedette mai a Roma, secondo la tendenza dei papi del XIII secolo che disertarono quasi completamente la Sede romana preferendole città quali Orvieto, Perugia o Viterbo. Dante lo ricorda tra i golosi: "[...] e quella faccia / di là da lui più che l'altre trapunta / ebbe la santa Chiesa in le sue braccia: / dal Torso fu, e purga per digiuno / l'anguille di Bolsena e la vernaccia" (Purgatorio XXIV, vv. 20-4). Si noti infine che la scelta del nome Martino - forse da collegarsi al Capitolo reale di St-Martin di Tours di cui era stato tesoriere - ha indotto una "svista" circa la sequenza, in quanto i papi Marino I e Marino II sono stati confusi con Martino I. A M. succedette Giacomo Savelli con il nome di Onorio IV.
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