Massimo Severo Giannini
Giannini è stato lo studioso che ha maggiormente contribuito alla conoscenza del diritto amministrativo e al suo sviluppo, nonché a forgiare gli strumenti concettuali del suo studio, con un’opera ineguagliata per mole, per vastità di campi toccati, per ampiezza di analisi, ricchezza di temi studiati, da quelli costituzionali a quelli amministrativi, a quelli finanziari: si può dire che non vi sia tema che non abbia coltivato, lasciando un segno duraturo. Ha dato origine alla svolta anticoncettualistica e antiformalistica, al ridimensionamento della dogmatica postpandettistica, all’abbandono dell’ideologismo allora dominanti. Ha costantemente combattuto l’astrattismo, invitando a trarre le conclusioni dall’esame del ‘reale’. Continuatore e rivoluzionario, ha legato tradizione e modernità, innovando analisi e tecniche di analisi. Sostenitore della tesi dell’unità del diritto, ha continuamente tessuto legami tra diritto amministrativo, diritto costituzionale, diritto privato e diritto commerciale. Convinto che lo studio delle organizzazioni pubbliche faccia parte, in ultima analisi, dello studio della società, ha legato gli studi giuridici a quelli politologici e sociologici. Sicuro che l’opera del giurista non è quella soltanto dell’interprete di norme date, ma anche quella del critico e del progettista di norme e istituzioni, si è fortemente impegnato come giurista-riformatore.
Massimo Severo Giannini, nato a Roma l’8 marzo 1915 e ivi morto il 24 gennaio 2000, figlio di Amedeo Giannini (1886-1960; studioso di diritto della navigazione, ambasciatore e consigliere di Stato), allievo della facoltà giuridica romana, dove si era laureato con Guido Zanobini, seguì l’insegnamento di Santi Romano, a sua volta maestro dello Zanobini.
Ha insegnato dal 1936 al 1985, salvo la parentesi degli anni 1938-46. Professore a Sassari per tre anni, fino al 1939, per incarico; poi straordinario nella stessa università (fino al 1940), ordinario a Perugia (fino al 1953), a Pisa (fino al 1959) e, infine, a Roma. Ha insegnato anche il diritto finanziario e la scienza delle finanze (a Sassari dal 1936 al 1939 e a Perugia dal 1946), il diritto costituzionale (a Perugia dal 1940 e a Roma nel 1983-84), il diritto ecclesiastico (a Pisa, dal 1953 al 1956) e la teoria generale del diritto (sempre a Pisa, dal 1956 al 1959). Ha insegnato, dal 1961 al 1980 e dal 1986 in poi, al Corso di perfezionamento in scienze amministrative dell’Università di Roma.
Oltre a svolgere un’intensa attività di organizzazione culturale in Italia e all’estero, ha fatto parte di molte commissioni ministeriali. Nel 1945-46, è stato capo di gabinetto del ministro per la Costituente e dal 1946 al 1948 capo dell’ufficio legislativo del ministero dell’Industria. Nel 1979-80, è stato ministro della Funzione pubblica. Ha esercitato la professione legale. Ha pubblicato scritti anche su periodici di cultura generale, come «Società» e «Nord e Sud». Ha collaborato, con articoli apparsi nel 1972-73, a «Il Giorno» ed è stato un apprezzato public intellectual, pronunciandosi su tutte le questioni più importanti relative allo Stato, e così contribuendo a reimmettere la cultura giuridico-amministrativa nell’alveo della cultura generale del Paese.
Quando Giannini iniziò gli studi, il diritto amministrativo attraversava una delle maggiori crisi della sua breve storia. Da un lato, il contesto del fascismo non era favorevole ad aperture e innovazioni, anzi induceva coloro che non sposavano gli orientamenti fascistici a rintanarsi in una stretta difesa legalistica del diritto, a rifiutare interpretazioni extra-testuali, a valorizzare le norme dello Stato liberale autoritario, piuttosto che quelle del nuovo regime. Dall’altro, l’insegnamento di Vittorio Emanuele Orlando – il richiamo ai giuristi di coltivare solo il diritto, il positivismo, il germanesimo, il privatismo, la Konstruktionjurisprudenz – era divenuto una scolastica e aveva prodotto una chiusura disciplinare, rendendo gli studi di diritto pubblico asfittici e disattenti alla realtà stessa del diritto positivo. Il fondatore della scuola italiana di diritto pubblico, Orlando, nel 1933 notava che «la scienza [….] passa una crisi assai grave» (lettera riprodotta in Garibaldi 1983, p. 391). Il diritto amministrativo era ridotto a «una sorta di tecnologia dell’atto amministrativo» (Pajno 2011, p. 326).
In questa situazione Giannini iniziò la sua attività scientifica nel 1939. Egli ha fatto parte della quarta generazione di giuristi dell’Italia unita, se si ascrivono alla prima Orlando, alla seconda il suo allievo Romano (che fu, insieme con Zanobini, il mentore di Giannini) e alla terza Zanobini. Giannini si impose subito sulla scena del diritto con due voluminose e importanti ricerche e uno studio sulla scienza stessa, di cui subito segnalò le condizioni critiche. Poi, per un sessantennio, fino alla sua morte, nel 2000 (ma, principalmente, nel periodo in cui fu attivo nell’insegnamento, 1939-85), svolse un ruolo fondamentale nella vita del diritto italiano e, in particolare, fu l’autore della rinascita della cultura amministrativa.
Allievo, dunque, di Zanobini e di Romano, Giannini discende, quindi, direttamente dalla scuola italiana di diritto pubblico, che ha quale capostipite Orlando. Quest’ultimo aveva indicato il metodo di studio in alcuni scritti del periodo 1889-97, quello in cui era stato più attivo scientificamente (dal 1897, sarà deputato, poi ministro e presidente del Consiglio). Orlando aveva rilevato che i giuristi italiani erano troppo inclini a riflessioni politologiche e sociologiche, troppo poco capaci di mettere insieme conoscenze pratiche e analisi teoriche. Aveva indicato una strada, quella del diritto privato, a sua volta ispirato alla reinterpretazione del diritto romano operata dalla pandettistica tedesca, specialmente da Friedrich Carl von Savigny. Aveva messo l’accento sull’analisi sistematica. Aveva chiamato i giuristi a interessarsi delle istituzioni del nuovo Stato italiano, ponendone le fondamenta concettuali e collocando al centro la nozione di interesse pubblico.
Impegnatosi Orlando nella vita politica, prese il suo posto il suo allievo Romano, la cui attività scientifica principale si colloca nel periodo 1901-18 (dal 1928 al 1944 sarà presidente del Consiglio di Stato). Romano si allontanò dalla concezione normativistica del diritto con l’opera sull’ordinamento giuridico, del 1917-18, nella quale riprendeva e sviluppava la concezione istituzionalistica e che ebbe una grande influenza nella cultura italiana, di stretta impronta positivistico-normativa, perché allargava il compito del giurista, portandolo a esaminare anche aspetti quali l’organizzazione, la disciplina dei rapporti sociali, le pratiche amministrative.
Su questo albero genealogico si è innestata l’opera di Giannini. Questi ha assorbito dalla sua scuola la capacità di adoperare i ferri del mestiere, pur riconoscendo i limiti della tradizione. Infatti, fin dall’inizio dei suoi studi, Giannini prese posizione critica nei confronti di tutti e tre gli apporti principali della cultura allora predominante. Osservò che quella orlandiana non era l’indicazione di un metodo, ma solo la descrizione di un cammino da percorrere. Notò che la tesi dell’ordinamento giuridico era embrionale, restando a metà tra sociologia e diritto. Rilevò che l’attenzione per il concetto di interesse pubblico come vincolo finalistico dell’attività pubblica era errato, essendo compresenti nell’ordinamento più interessi pubblici in conflitto tra di loro.
Inoltre, notò che, se la scuola pubblicistica italiana aveva raggiunto risultati soddisfacenti sotto il profilo del metodo, aveva, tuttavia, tralasciato di studiare le innovazioni normative più importanti del terzo e quarto decennio del 20° sec., dalla nazionalizzazione delle acque e delle miniere alla pubblicizzazione delle banche, dal controllo pubblico del credito alla statizzazione della istruzione elementare, alla moltiplicazione degli enti pubblici, allo sviluppo delle società pubbliche, alla programmazione e al dirigismo, alla disciplina degli impianti industriali, alla disciplina dei beni culturali e alla legge urbanistica, alla nuova legislazione sanitaria. Oggi possiamo dire che in questa disattenzione per gli sviluppi del diritto dell’epoca vi era sia una componente culturale (l’astrattismo proprio dell'impostazione concettualistica e dogmatica), sia una componente politica (il rifiuto delle istituzioni del fascismo, nella speranza che queste potessero essere rapidamente superate). Rilevato questo «difetto di problematiche», Giannini si accinse subito a studiare questi nuovi svolgimenti delle istituzioni che, contrariamente alle aspettative, erano destinati a durare molto a lungo nella fase repubblicana della storia dello Stato italiano.
Come osservato, il contributo dato da Giannini alle scienze giuridiche è stato molto ampio. È, quindi, difficile riassumerne in pochi tratti le linee fondamentali. Può dirsi che esso verta su questi campi principali: le nozioni di base del diritto pubblico; l’innesto dell’amministrazione nella costituzione; i principali capitoli del diritto amministrativo; la scienza del diritto pubblico e il suo metodo.
Le nozioni di base del diritto pubblico, quelle almeno considerate principali nel sec. 20° (ordinamento giuridico, Stato, rapporti tra ordine giuridico pubblico e ordini privati), sono state oggetto di importanti messe a punto di Giannini. Questi, partendo dall’osservazione del carattere ‘liminale’ della nozione utilizzata dal suo maestro Romano, ne ha approfondito la natura e le componenti, oltre a farne applicazione. Degli ordinamenti giuridici gli elementi essenziali, secondo Giannini, sono tre: plurisoggettività, organizzazione, normazione. Solo così si comprende la portata anti-normativistica del concetto che Giannini, poi, applicherà all’ordinamento del credito, vedendovi un esempio di ordinamento sezionale.
Lo studio dello Stato, con Giannini, subisce una modificazione radicale. Mentre la cultura giuridica era in precedenza partita dallo Stato-persona, Giannini è partito dalla sua composizione reale, osservando che il principale mutamento dello Stato è prodotto dall’allargamento del suffragio che consente la rappresentanza di più classi nello Stato e lo porta a diventare «Stato sociale» (formula, peraltro, da lui criticata), a causa della progressione della legislazione di protezione sociale richiesta dalle classi subalterne, una volta che queste hanno avuto accesso al potere pubblico. Lo Stato – continua Giannini – abbandona anche la forma dell’organizzazione compatta, per assumere quella dell'organizzazione disaggregata, dovuta alla penetrazione di nuovi interessi pubblici, ognuno affidato a una diversa autorità. Quanto al rapporto pubblico/privato, Giannini è stato, sul piano analitico, critico del ‘privatismo’ degli studiosi del diritto pubblico; sul piano ricostruttivo, acuto analista della formazione di un diritto comune ai poteri pubblici e ai privati.
In secondo luogo, Giannini è lo studioso che più sistematicamente ha tratto le conseguenze della costituzionalizzazione delle ‘teste di capitolo’ del diritto amministrativo. Ha osservato che la Costituzione agisce come garanzia contro le turbative politiche dell’amministrazione, ponendola al servizio della nazione e separando governo da amministrazione. Ha segnalato prima la formazione del diritto amministrativo intorno alla dialettica autorità-libertà, poi la sua trasformazione in un diritto ‘corale’, con il riconoscimento costituzionale di diritti privati nei confronti della pubblica amministrazione, la nascita di poteri pubblici non statali e l’applicazione del diritto privato all’amministrazione. Ha esaminato la rottura della nozione unitaria di interesse pubblico, che dà luogo alla formazione di una pluralità di interessi pubblici, anche tra loro in conflitto. Donde l’abbandono della nozione monistica dello Stato-ente e la tesi della discrezionalità amministrativa come ponderazione di interessi.
In terzo luogo, Giannini ha contribuito alla ri-sistematizzazione dei principali concetti e nozioni del diritto amministrativo: rottura dell’unità della figura dell’ente pubblico (con la creazione di associazioni pubbliche, enti strumentali, enti di servizio, enti di disciplina di settore, enti pubblici imprenditoriali, enti privati d’interesse pubblico); riconfigurazione della proprietà pubblica, tripartita – riprendendo figure dell’esperienza medievale – in proprietà collettiva, proprietà divisa, proprietà individuale; critica della teoria dei contratti amministrativi, con il riconoscimento che i contratti della pubblica amministrazione sono regolati dalle norme comuni, salvo l’oggetto e le forme di scelta del contraente (evidenza pubblica); analisi dell'estensione della contrattualità all’impiego pubblico e della sua confluenza (parziale) nel diritto del lavoro; separazione tra atto amministrativo e provvedimento amministrativo, nel quale ultimo solo si manifesta la imperatività; formazione di una periferia autonoma, comuni e poi regioni (di cui Giannini ha studiato le nozioni di base: autogoverno, autonomia, autoamministrazione, decentramento); critica del dualismo giurisdizionale e proposta della sua semplificazione, con affidamento al giudice ordinario delle sole controversie relative all’amministrazione agente come privato; analisi delle figure sintomatiche dell’eccesso di potere come forma di controllo dell’intera azione amministrativa, non del solo provvedimento.
Infine, quanto al metodo, Giannini, pur partendo dalla concezione del diritto amministrativo come sistema, ha poi attenuato e storicizzato la costruzione sistematica, criticando l’ipotesi della atemporalità di alcuni principi fondamentali (definiti da ultimo «invarianti»). Il metodo di Giannini è stato avvicinato al cubismo, per la sua scomposizione e ricomposizione dei piani, e la sua abilità nel penetrare dai lati più diversi uno stesso oggetto (Cassese 1971, p. 131).
Giannini è stato maestro – è stato rilevato (D’Alberti 2011, p. 319) – nella capacità di trarre dall'analisi della complessità una costruzione concettualmente rigorosa. Per cui è stato definito storicista e razionalista (Cassese 2000b, p. 7), oppure realista e razionalista (D’Alberti 2011, p. 319). Anzi, accanto al profilo storico, sempre presente nei suoi studi giuridici, Giannini ha anche contribuito alla storiografia di intere materie, come la vicenda europea della contrapposizione tra sistemi a formazione comune e sistemi a formazione pubblica, quelle italiane dei rapporti tra governo e amministrazione, dell’impresa pubblica, dei poteri locali, dell’intervento pubblico nelle aree sottosviluppate, della scienza giuridica amministrativistica (in Italia e all’estero) e costituzionalistica, specialmente nelle biografie intellettuali di Piero Calamandrei, Federico Cammeo, Zanobini, Costantino Mortati.
Le prime due opere di Giannini sono quelle, ambedue del 1939, sull’interpretazione dell’atto amministrativo e sul potere discrezionale. Si dibatteva allora della concezione stretta e di quella ampia di legalità, quest’ultima comportando l’interpretazione delle vecchie leggi alla luce di atti quali la ‘Carta del lavoro’ e, quindi, un adeguamento della vecchia legalità prefascista. Giannini distinse norme sull’interpretazione da norme sull’operazione interpretativa, sostenendo che queste ultime possono disporre sia interpretazioni testuali, sia interpretazioni extra-testuali, mentre le prime sono vincolate all’atto come esternato.
Anche il libro sul potere discrezionale si innestava in una situazione caratterizzata da forti carenze, perché la discrezionalità veniva allora definita attività libera nel fine, o completamento di concetti imprecisi, o applicazione di norme non giuridiche. Giannini osservò che non esistono interessi pubblici isolati, ma che il diritto amministrativo è influenzato dal pluralismo, per cui il potere discrezionale consiste nella ponderazione di interessi pubblici, secondo una concezione non meccanicistica. Il libro sul potere discrezionale era uno studio sulla law in action: muoveva dall’esame della giurisprudenza e teneva conto della letteratura americana.
Solo un anno dopo, Giannini svilupperà la sua prolusione sassarese in un lungo saggio, ricostruttivo della storia della scienza del diritto amministrativo e critico del difetto di attenzione degli amministrativisti per i mutamenti del diritto positivo.
Seguiranno a questo felicissimo esordio molti lavori saggistici, di commento, critici. Ma sono da segnalare principalmente i quattro lavori generali sul diritto amministrativo, le ‘lezioni’ del 1950, quelle del 1960-64, il ‘corso’ del 1965 e il ‘diritto amministrativo’ del 1970, importanti non solo per la ricostruzione completissima, che supera la tradizionale distinzione tra parte generale e parte speciale, ma anche per l’impegno nella progressiva definizione dell’architettura d’insieme (profili storici e generali, organizzazione, attività), che supera la tradizionale ripetizione nel diritto amministrativo della sistematica privatistica (soggetti, situazioni soggettive, rapporti, atti).
Tra le moltissime opere, vanno poi segnalate le principali ‘voci’ relative al diritto amministrativo dell’Enciclopedia del diritto, scritte tra il 1958 e il 1981, il Diritto pubblico dell’economia (1977), in cui viene prospettata una nuova impostazione dell’ala marciante del diritto amministrativo, l’Introduzione al diritto costituzionale (1984), importante per l’attenzione rivolta alla ricostruzione dell’architettura costituzionale, il volume su Il pubblico potere (1986), che analizza in forma sintetica i maggiori cambiamenti subiti dallo Stato.
Nonostante che – come accade a molti novatori – le sue interpretazioni e idee siano state rifiutate o poco seguite in una prima fase, si può dire che oggi la cultura giuridica adoperi costantemente costrutti concettuali e strumenti ermeneutici risalenti a Giannini, in ogni campo, dai beni culturali agli enti pubblici, dalla tutela dell’ambiente ai contratti delle pubbliche amministrazioni, dal controllo del credito ai procedimenti ablatori, dall’impiego pubblico alla proprietà pubblica. Ma il lascito di Giannini va al di là di questo puntuale utilizzo di paradigmi e concetti. Riguarda anche l’evidenziamento delle disfunzioni, delle contraddizioni, dei limiti di fondo del diritto amministrativo e l’interesse per i rimedi con cui superarli (D’Alberti 2011, p. 322). Riguarda l’abbandono del purismo, della esclusione del ‘non giuridico’, del dogmatismo. Riguarda il superamento della visione del diritto pubblico e di quello privato come due mondi separati. Riguarda l’accettazione dell’idea che gli schemi logici si modificano in relazione al diritto positivo e l’abbandono della concezione secondo la quale il diritto positivo potrebbe essere incapsulato in schemi logici.
Da ultimo, a Giannini si deve un patrimonio importante, quello che consiste nell’aver riannodato i fili del diritto pubblico con la cultura generale, fili spezzati dalla chiusura orlandiana, che conduceva non solo allo specialismo, ma anche alla separazione dei cultori di diritto pubblico rispetto alla cultura generale, quella politologica, quella sociologica, quella storica, quella economica. In questa direzione è stata importante la redazione del Rapporto, presentato da Giannini ministro nel 1979. In esso le amministrazioni pubbliche venivano considerate, secondo il modello economico, come appartenenti al settore terziario dei servizi. Vi si affrontava il problema dell’aziendalistica pubblica, della produttività, dei costi, delle tecnologie, dei mezzi e del personale, delle strutture e dei controlli. Il problema amministrativo veniva così portato all’attenzione del grande pubblico e della ‘classe politica’.
Rispetto alle culture giuridico-amministrative predominanti nel mondo, quella francese, quella tedesca e quella anglosassone, l’opera di Giannini presenta caratteri peculiari, che accentuano l’originalità del suo pensiero. Nonostante che il diritto amministrativo e la sua scienza fossero nati in Francia, a cavallo della Rivoluzione, la cultura francese era, nella seconda metà del 20° se., asfittica, rinchiusa in se stessa (mentre Giannini è stato attento a tutti i movimenti legislativi e culturali stranieri), attirata prevalentemente dalla giurisprudenza, legata a schemi statalistici (mentre Giannini è andato oltre il diritto applicato dai giudici e oltre lo Stato). Diritto e cultura tedeschi, a loro volta, erano prigionieri della dogmatica tradizionale, quella di Carl Friedrich von Gerber, Paul Laband e Otto Mayer, dalla quale Giannini ha saputo liberarsi, sia pur non completamente. Infine, cultura e diritto, nei Paesi anglosassoni, seguivano strade divergenti, la prima attenta soltanto al judge-made law, il secondo aperto alle influenze della cultura organizzativo-manageriale e dell’economia. Giannini ha saputo vedere i limiti della prima e, nello stesso tempo, attingere a piene mani dal secondo (basti ricordare l’attenzione da lui prestata alla riforma dei poteri locali nel Regno Unito).
Egli è stato come pochi legato alla tradizione e innovatore allo stesso tempo. Ebbe modo di intravedere ciò che sarebbe accaduto dopo di lui, la fine della concezione nazionale dei diritti, con lo sviluppo di un’area di ricerca europea e poi globale; il superamento della mera comparazione giuridica, che resta sulla concezione positiva e nazionalistica del diritto (mentre bisogna riconoscere le radici comuni e i contesti diversi, studiare la circolazione degli istituti e delle culture, esaminare gli influssi reciproci, analizzare la formazione di istituzioni sovrastatali, che mettono in circolo culture e diritti, aggiungere alla comparazione orizzontale, di ordinamenti equiparati, la comparazione verticale, di ordinamenti sovrapposti); l’affermazione di una pluralità di metodi giuridici, ciascuno dettato dal singolo tema da studiare, la commistione di studio giuridico e di studio non giuridico delle istituzioni (le analisi di scienza politica del diritto, l’analisi economica del diritto).
Scritti, 10 voll., Milano 2000-2008 (non vi sono pubblicati i corsi e le lezioni).
S. Cassese, Cultura e politica del diritto amministrativo, Bologna 1971.
L. Garibaldi, Mussolini e il professore. Vita e diari di Carlo Alberto Biggini, Milano 1983.
S. Cassese, In onore di Massimo Severo Giannini, «Rivista trimestrale di diritto pubblico», 1988, 2, pp. 303-41.
S. Cassese, C. Franchini, L. Torchia, Bibliografia degli scritti di Massimo Severo Giannini, in Scritti in onore di Massimo Severo Giannini, 1° vol., Milano 1988, pp. XV-LXVIII (bibliografia non completa).
S. Cassese, L’opera di Massimo Severo Giannini negli anni Trenta, «Materiali per una storia della cultura giuridica», 1990, 2, pp. 111-26.
S. Cassese, Lo ‘Stato pluriclasse’ in Massimo Severo Giannini, in L’unità del diritto, a cura di S. Cassese, G. Carcaterra, M. D’Alberti, A. Bixio, Bologna 1994, pp. 11-50.
S. Cassese, Giannini e la rinascita del diritto amministrativo, «Giornale di diritto amministrativo», 1997, 6, pp. 580-89.
S. Cassese, Giannini: l’uomo e il lascito scientifico, «Rivista trimestrale di diritto pubblico», 2000a, 4, pp. 955-65.
S. Cassese, Storicismo e storiografia nell’opera di Massimo Severo Giannini, «Le carte e la storia», 2000b, 2, pp. 7-11.
P. Grossi, Scienza giuridica italiana. Un profilo storico (1860–1950), Milano 2000, pp. 229 e segg., 299 e segg.
G. Melis, Ciò che gli storici debbono a Massimo Severo Giannini, «Le carte e la storia», 2000, 2, pp. 12-17.
«Rivista trimestrale di diritto pubblico», 2000, 4, nr. monografico:Vita ed opere di Massimo Severo Giannini, pp. 955-1376.
A. Sandulli, Costruire lo Stato. La scienza del diritto amministrativo in Italia (1800-1945), Milano 2009, p. 251.
Massimo Severo Giannini, a cura di S. Cassese, Bari-Roma 2010.
M. D’Alberti, Massimo Severo Giannini: realista e cartesiano, «Giornale di diritto amministrativo», 2011, 3, pp. 319-325.
A. Pajno, Massimo Severo Giannini e l’interpretazione della complessità, «Giornale di diritto amministrativo», 2011, 3, pp. 325-331.