Materie prime
1. Premessa
di Alberto Quadrio Curzio
Le materie prime sono mezzi di produzione e beni di consumo che derivano direttamente dalle risorse naturali senza subire processi di lavorazione e trasformazione o subendoli in misura limitata.In questa definizione vi è una certa arbitrarietà, in quanto il confine fra la categoria delle materie prime e quella dei prodotti lavorati è spesso sottile. Il problema è stato frequentemente risolto con classificazioni convenzionali.Le materie prime possono derivare da risorse rinnovabili (come il grano e il legno) o da risorse non rinnovabili (come il rame). Tutte le risorse possono esaurirsi, anche quelle rinnovabili, se il loro consumo è eccessivo; quelle rinnovabili possono essere ricostituite talvolta su lunghi periodi di tempo con processi naturali, mentre quelle non rinnovabili possono essere solo parzialmente ricostituite con processi artificiali di riciclaggio.
La disponibilità delle materie prime dipende sempre, ovviamente, da quella delle risorse naturali da cui derivano. Ma il rapporto fra materie prime e risorse naturali non si riduce a questo ed è più complesso: infatti il forte utilizzo di alcune materie prime, e quindi un esagerato sfruttamento di determinate risorse naturali, generano effetti ambientali negativi. Basti l'esempio del legno: le foreste, da cui il legno proviene, sono risorse rinnovabili, sia pure molto lentamente; la deforestazione, però, produce effetti negativi, forse irreversibili, sull'atmosfera, cioè su un'altra risorsa naturale. Anche l'inquinamento di risorse naturali e ambientali - per esempio di corsi d'acqua - comporta un consumo indiretto di materie prime - l'acqua in questo caso - derivante dalla produzione (inquinamento industriale) e dal consumo (inquinamento civile).
Nella nostra analisi toccheremo solo marginalmente i problemi dell'ambiente e dell'inquinamento concentrandoci sulle materie prime utilizzate direttamente nei processi di produzione e di consumo. Dovremo invece accennare ai nessi tra risorse naturali e materie prime, in quanto tali argomenti sono quelli principalmente trattati dalla teoria economica, dopodiché esamineremo: a) la dinamica di lungo periodo dei consumi industriali di materie prime e le loro relazioni con lo sviluppo economico; b) il commercio internazionale di materie prime; c) il funzionamento dei mercati delle materie prime, con i collegati problemi di instabilità e declino dei prezzi reali nel lungo periodo; d) le politiche internazionali per le materie prime; e) il ruolo dell'innovazione tecnologica e del riciclo dei materiali.
2. Teoria economica
di Alberto Quadrio Curzio
La teoria economica si è posta spesso i problemi delle materie prime e delle risorse naturali (e della rendita) pur con una certa discontinuità e lasciando perciò anche ampie lacune. Nella teoria economica si possono distinguere almeno cinque filoni relativi alle materie prime e alle risorse naturali: a) quello della dinamica classica, che oscilla tra le concezioni di scarsità assoluta e scarsità relativa; b) quello neoclassico e marginalista di tipo microeconomico sulla scarsità statica generale e sull'uso ottimo delle risorse; c) quello dinamico macroeconomico e quello multisettoriale, postclassico e postkeynesiano, con accumulazione priva di vincoli da risorse; d) quello strutturale uniperiodale e dinamico che evidenzia delle scarsità relative complesse e tecnologiche; e) quello dei modelli globali a scarsità relative o assolute 'misurabili'.Vediamo brevemente questi filoni di analisi.
Le premesse della dinamica classica, ai fini che qui interessano, stanno nella scuola fisiocratica e in particolare nel pensiero di François Quesnay (v., 1758), per il quale l'agricoltura è la sola fonte di prodotto netto e la classe agricola è la sola produttiva. Il sistema economico è stazionario non a causa di risorse naturali scarse, ma per l'assenza di un processo di accumulazione.
Con la scuola classica (1776-1870, circa) la terra, le risorse naturali e le materie prime assumono un ruolo diverso. Adam Smith (v., 1776) afferma la centralità della divisione del lavoro e della capacità creativa degli esseri umani, che si sviluppa assai più nella manifattura che nell'agricoltura. L'agricoltura e la terra hanno un ruolo importante ma secondario nel determinare la ricchezza di una nazione.
David Ricardo attribuisce invece alle materie prime agricole e alla 'terra' un ruolo ben più rilevante. Nella sua opera fondamentale (v. Ricardo, 1817) molte sono le proposizioni che riguardano la terra, l'agricoltura e il grano, ma due sono centrali. La prima è che il prezzo del grano è determinato dalle condizioni di produzione della terra meno fertile e questo, data l'omogeneità del saggio di profitto, fa sorgere la rendita su tutte le terre più fertili. La seconda è che l'accumulazione comporta l'uso di terre via via meno fertili (o meno produttive) e questo rallenta tutto il processo di crescita economica fino a determinare uno 'stato stazionario' in cui la crescita cessa. Ricardo, pur non disconoscendo il ruolo del progresso tecnico, alla fine reputa che esso compensi la decrescente fertilità della terra portando così allo stato stazionario. Egli apre la strada a una concezione di scarsità relativa della 'terra' e delle risorse naturali.
Robert Malthus, in due sue opere fondamentali (v. Malthus, 1798 e 1815), ritiene che tra prodotti alimentari e popolazione vi sia un divario strutturale crescente in quanto i primi crescono in proporzione aritmetica mentre la popolazione cresce in proporzione geometrica. Ne deduce un principio di scarsità assoluta delle risorse naturali e delle materie prime agricole con tutte le sue pessimistiche conseguenze.In generale, e pur trascurando altri importanti autori come J.S. Mill e K. Marx, si può dire che il periodo classico si chiude intorno al 1870 con la consapevolezza che il problema dell'agricoltura, delle materie prime, delle risorse naturali e delle loro scarsità ha grande rilevanza sia per la dinamica e la crescita economica, sia per la distribuzione del reddito e le rendite, sia per la formazione dei prezzi (v. Quadrio Curzio, 1987 e 1993).
In linea generale la teoria marginalista e neoclassica pura (1871-1936) ha un approccio molto diverso da quello della scuola classica ai problemi della scarsità delle materie prime e delle risorse naturali. Tutti i fattori produttivi vengono considerati scarsi dai marginalisti in una visione statica che si interessa dell'ottima allocazione delle risorse. Ci sono tuttavia dei filoni interni all'impostazione marginalistica e neoclassica che trattano specificamente di materie prime. Massimo esponente di uno dei più importanti di questi filoni è Jevons con la sua opera sul carbone (v. Jevons, 1865), nella quale argomentò che il rapido esaurimento del carbone britannico e il suo rincaro avrebbero danneggiato l'industria britannica facendole perdere competitività rispetto ad altri paesi più dotati di risorse naturali.L'altro importante filone della teoria marginalista-neoclassica, rivolto alla specificità dei problemi delle materie prime e delle risorse naturali, è quello che inizia con il saggio di Harold Hotelling (v., 1931). Dalla constatazione che molte risorse non rinnovabili o rinnovabili solo su lunghi periodi sono sfruttate troppo rapidamente, nasce il problema di regolare l'utilizzo di tali risorse, per determinare quali siano i tassi di utilizzo delle risorse che rendono massimo il benessere sociale e quali le forme di mercato che meglio contribuiscono a raggiungerlo.
Con gli anni trenta e quaranta di questo secolo la scienza economica ritorna a interessarsi con una certa ampiezza dei fenomeni dinamici, pur non trascurati da economisti complessi e poliedrici come A. Marshall (v., 1890) e J. A. Schumpeter (v., 1912). Quest'ultimo indica, per esempio, nella scoperta di nuove fonti di materie prime una delle cinque principali modalità dell'innovazione.Molte sono le cause che spingono a un ritorno dell'interesse per la dinamica, che poi si sviluppa secondo due principali linee: quella macroeconomica, che si ricollega all'opera di R. Harrod (v., 1939 e 1948), e quella multisettoriale, che si ricollega all'opera di J. von Neumann (v., 1937) e W. Leontief (v., 1941 e 1951²).
In questa linea si studiano l'accumulazione, la dinamica della forza lavoro e del capitale, il progresso tecnico; ma si trascurano del tutto o quasi le risorse naturali e le materie prime; fanno eccezione a questa tendenza gli studi di J. V. Robinson (v., 1956) e di J.E. Meade (v., 1961).In generale, questi modelli si configurano come teorie dinamiche senza scarsità naturali e in tal modo appaiono limitati nella lettura della realtà storica.
Il ritorno a un inserimento organico delle risorse naturali e delle materie prime in modelli multisettoriali avviene con il fondamentale contributo di P. Sraffa (v., 1960), seguito da altri tra cui A. Quadrio Curzio (v., 1987 e 1990, per una sintesi dei lavori dal 1967 al 1990).
Sraffa inserisce le risorse naturali e le materie prime in un modello uniperiodale, individuando il loro ruolo nella determinazione dei prezzi di tutte le merci e nella distribuzione del reddito, segnatamente per la formazione della rendita. La sua teoria circolare della produzione di merci a mezzo di merci viene così 'interrotta' da mezzi di produzione non prodotti, come la terra. Questa interruzione complica notevolmente la sua teoria, come Quadrio Curzio ha dimostrato sia in un modello uniperiodale sia in un modello dinamico dove, a causa delle risorse naturali e delle materie prime, la crescita non segue più le traiettorie massime alla von Neumann, ma dei percorsi a saggi di crescita variabili.Da queste impostazioni discende la nozione di risorse naturali come fattore di 'scarsità tecnologica', in quanto sono la tecnologia e le sue variazioni che stabiliscono la vera misura della scarsità di una risorsa naturale.
Anche, ma non solo, in seguito alle crisi da materie prime, specie petrolifere, nacquero nei primi anni settanta i cosiddetti 'modelli globali' che hanno prodotto previsioni a lungo termine sull'esaurimento delle risorse e sul possibile collasso economico-demografico del pianeta. Con ampio uso di metodi simulativi e di dinamica dei sistemi, furono elaborati molti modelli (per una rassegna v. Cole, 1977; v. Richardson, 1978; v. Fortis, 1981) e alcuni, come quello del Club di Roma, giunsero a prime conclusioni catastrofiche sul futuro del pianeta, via via corrette da altri modelli tra i quali quello dell'ONU curato da Leontief (v., 1977).
3. Le principali materie prime
di Marco Fortis
Le classificazioni delle materie prime non energetiche più comunemente adottate in ambito internazionale prevedono, pur con varie differenziazioni, una distinzione in due grandi categorie: materie prime agricolo-alimentari e materie prime industriali (v. UNCTAD, 1986-1992).
Le principali materie prime agricolo-alimentari vengono distinte in vari gruppi: cereali (tra cui frumento, mais, riso), semi oleosi e oli (tra cui semi e oli di soia, di palma, di colza, ecc.), bevande tropicali (caffè, cacao, tè) e zucchero, carni, prodotti lattiero-caseari, tabacco.Le principali materie prime industriali non alimentari vengono normalmente classificate in due grandi categorie: le materie prime agricolo-industriali e i minerali e metalli. Le materie prime agricolo-industriali comprendono: gomma naturale, cotone, lana, seta, juta, sisal, pelli, legno, per limitarci ai principali prodotti. I minerali e metalli comprendono: minerali metalliferi e non (ad esempio bauxite, minerali di rame, rocce fosfatiche), metalli ferrosi (tra cui ferro, ghisa e acciaio) e metalli non ferrosi (rame, piombo, zinco, alluminio, stagno e nickel). I metalli preziosi (oro, argento, platino, palladio), pur essendo talora considerati separatamente, rientrano nella sottocategoria dei metalli non ferrosi.Ciascuno di tali gruppi e prodotti presenta, oltre che specificità merceologiche, anche notevoli differenze in termini di distribuzione geografica di produzione e consumo e di caratteristiche tecnico-economiche dei mercati (v. Grilli, 1982; v. Zoboli, 1992).
4. Materie prime industriali, sistemi produttivi, dinamica economica
di Marco Fortis
Gli impieghi e i consumi di materie prime industriali non alimentari sono, e sono stati considerati anche in passato, importanti indicatori delle caratteristiche della dinamica economica e del cambiamento strutturale (v. Tougan-Baranowsky, 1913; v. Spiethoff, 1923⁴) analizzato dal punto di vista storico-teorico. A fini di indagine è opportuno introdurre e utilizzare la categoria delle materie prime-materiali industriali (MPMI), che, oltre alle già citate principali materie prime industriali non alimentari, comprende materiali di fatto equiparabili, per le loro caratteristiche standard e la loro ampia diffusione nei processi produttivi, a prodotti di base, benché derivati da prime lavorazioni delle materie prime accolte nelle categorie di cui al capitolo 3 (v. Fortis, Competizione..., 1993). Possono essere inclusi nelle MPMI le pelli lavorate, la carta e il cartone o i pannelli di legno (tra le MPMI di derivazione agricolo-forestale); il cemento e il vetro (tra i derivati della lavorazione dei minerali non metalliferi); i semilavorati di rame e alluminio (tra i prodotti della prima trasformazione dei metalli non ferrosi); le materie plastiche (tra i derivati degli idrocarburi) e in particolare le cinque principali termoplastiche: il polietilene a bassa densità, il polietilene ad alta densità, il polipropilene, il cloruro di polivinile (pvc) e il polistirolo. Naturalmente la categoria delle MPMI è estensibile fino a comprendere anche possibili nuovi materiali, come i compositi, i materiali ceramici, le plastiche ingegneristiche, ecc.
Di norma le statistiche sui consumi di MPMI sono statistiche di consumo apparente (v. Fortis, 1988), così definite per un dato anno t:
CAt = Pt + It - Et + DS
(CA=consumo apparente; P=produzione; I=importazioni; E=esportazioni; DS=variazione, positiva o negativa, delle scorte rispetto al tempo t-1).
Le statistiche di consumo apparente misurano il consumo di una data MPMI ai suoi primi stadi di trasformazione e non il suo consumo finale a livello di sistema economico complessivo, grandezza che è praticamente impossibile misurare. Ad esempio il consumo apparente di rame raffinato di un qualunque paese è semplicemente il consumo effettuato dalle sue industrie nazionali produttrici di semilavorati di rame (fili, tubi, barre, laminati) e non quello della sua intera popolazione. Tuttavia i consumi apparenti di MPMI costituiscono generalmente delle buone approssimazioni dei consumi finali effettivi di MPMI a livello di sistemi economici nazionali. Solo quando ci si trova in presenza di paesi con attività di trasformazione per l'export di rilievo assolutamente eccezionale vi è una forte divergenza tra i dati di consumo apparente di una data MPMI e il suo consumo finale interno. Ad esempio il consumo apparente di materie plastiche di Taiwan e quello del Belgio sono senza alcun dubbio entrambi assai più elevati dei corrispondenti consumi finali interni per effetto di forti specializzazioni nazionali in produzioni ad alta intensità di materie plastiche, come giocattoli, casalinghi, tappeti, ecc. Questi casi sono tuttavia limitati, per cui si può affermare che i consumi apparenti delle varie MPMI costituiscono normalmente dei buoni indicatori del livello generale di sviluppo industriale ed economico dei vari paesi.
Le principali MPMI, in relazione alla rilevanza che esse assumono nel moderno processo di industrializzazione durante i suoi vari stadi (v. Fortis, i contributi del 1993), sono state distinte in quattro grandi categorie o 'generazioni' di MPMI dominanti nelle varie fasi dello sviluppo.
1. Le MPMI della prima generazione (cotone, lana, pelli) sono quelle che - nella prospettiva storica dello sviluppo economico - risultano generalmente prevalenti durante il 'decollo' dell'attività industriale di una nazione, per usare la terminologia degli stadi della crescita proposta da Rostow (v., 1960).
2. Le MPMI della seconda generazione (ferro e acciaio, rame, piombo e zinco, legno, gomma naturale e sintetica, cemento) trovano il loro più intenso sviluppo in termini di consumi industriali e civili a cavallo tra lo stadio della 'maturità tecnologica' e le prime fasi dello stadio del 'consumo di massa'. Lo stadio della 'maturità tecnologica' di un paese, secondo Rostow (v., 1960), è un periodo di transizione successivo al 'decollo', fortemente caratterizzato da investimenti in opere infrastrutturali (ferrovie, edilizia, elettrificazione, ecc.), mentre lo stadio del 'consumo di massa', passo ulteriore nell'evoluzione dei paesi più avanzati, è caratterizzato dall'esplosione della domanda di beni di largo consumo, in special modo dell'industria meccanica (auto, apparecchi radio e TV, elettrodomestici, ecc.).
3. Le MPMI della terza generazione (alluminio, carta e cartone, materie plastiche) sono quelle dominanti nelle fasi più mature del 'consumo di massa', allorché si assiste a un'espansione non solo quantitativa ma anche qualitativa delle produzioni industriali (sia dei beni di consumo sia dei beni di investimento), nonché all'affermarsi dei servizi correlati alla distribuzione sul mercato di un sempre maggior numero di prodotti di largo consumo (attraverso imballaggi, depliantistica, pubblicità, trasporti, negozi, supermercati, ecc.).
4. Le MPMI della quarta generazione (materiali compositi, ceramici, nuovi polimeri) sono i materiali del futuro, ancora in una fase embrionale e per i quali le statistiche sono ancora poco significative e omogenee.Il ruolo delle MPMI di diversa generazione nelle varie fasi dello sviluppo, tenendo presente le teorie sugli stadi della crescita e sui development patterns (v. Hoffmann, 1931; v. Rostow, 1960; v. Chenery e Taylor, 1968), appare di rilevante interesse storico e analitico. La figura 1 riassume in modo emblematico la successione delle MPMI dominanti nelle varie fasi dello sviluppo industriale degli Stati Uniti dal 1863 al 1986, attraverso la dinamica dell'intensità d'uso (IU) delle varie MPMI (rapporto tra il consumo di ciascuna MPMI e l'indice della produzione industriale complessiva). Si può notare come le IU delle diverse MPMI presentino un caratteristico andamento a U rovesciata e come gli apici delle varie curve coincidano con il momento storico di affermazione di ciascuno stadio della crescita. La fase ascendente dell'IU del cotone coincide con la fase del take-off americano, in cui l'industria tessile era largamente dominante. Analogamente il periodo di crescita dell'IU della ghisa rispecchia il periodo della transizione verso la 'maturità tecnologica', con lo sviluppo delle ferrovie e delle produzioni metalmeccaniche. Le fasi espansive e gli apici delle curve di IU del rame, dell'alluminio e delle materie plastiche si ricollegano invece alle tre successive ondate di espansione dello stadio del 'consumo di massa': quella degli anni venti, quella del periodo 19501970 e quella degli anni ottanta. Le prime due fasi appaiono separate dalla grande depressione degli anni trenta e dalla seconda guerra mondiale, mentre le ultime due risultano invece separate dalle crisi petrolifere degli anni settanta. A parte gli Stati Uniti, è stato dimostrato sul piano storico che lo spostamento dalle MPMI della prima generazione a quelle delle generazioni successive è una caratteristica del processo di sviluppo industriale ed economico di tutti i maggiori paesi avanzati (v. Fortis, Stadi..., 1993).
Sulla base dei dati relativi al 1990 e della ripartizione delle MPMI dominanti nei vari stadi dello sviluppo economico nelle categorie illustrate nel paragrafo precedente, è possibile - esprimendo le statistiche sui consumi delle principali MPMI in dollari a prezzi 1990 - ottenere con buona approssimazione una misura degli attuali livelli di sviluppo dei paesi avanzati, di quelli ex comunisti dell'Europa orientale e di quelli in via di sviluppo, fatta in termini di consumi pro capite di MPMI di diversa generazione tecnologico-industriale. I risultati a cui si perviene escludendo le MPMI di prevalente impiego nell'edilizia, come il cemento e il legno, si possono riassumere come segue (v. tab. I).
A. I paesi avanzati a più alto reddito presentano consumi aggregati pro capite annui di MPMI della terza generazione (alluminio, carta e cartone, materie plastiche) superiori ai 190-200 dollari. Gli Stati Uniti sono nettamente al primo posto nella graduatoria con 387 dollari, seguiti da Giappone (314 dollari), Svizzera (306 dollari), Svezia (305 dollari), Germania (280 dollari), Canada (278 dollari) e Olanda (257 dollari). L'Italia è più indietro con 193 dollari, preceduta anche da Francia (216 dollari), Australia (211 dollari) e Regno Unito (209 dollari). I paesi avanzati a medio reddito, come la Spagna (153 dollari), seguono ancora più staccati. Nessun paese ex comunista dell'Europa orientale presenta un consumo pro capite di MPMI della terza generazione superiore ai 150 dollari, a riprova che in quelle nazioni lo stadio del 'consumo di massa' non si è ancora affermato. La ex Cecoslovacchia è il primo dei paesi dell'ex Comecon per consumo pro capite di MPMI della terza generazione con 132 dollari, seguita dall'Ungheria (119 dollari). Molto più distanziate, superate anche da alcuni paesi in via di sviluppo emergenti, risultano la Bulgaria (84 dollari), l'ex URSS (50 dollari), la Romania (37 dollari) e la Polonia (36 dollari). Quanto ai paesi in via di sviluppo, essi presentano situazioni molto differenti: si va dalla Corea del Sud, i cui consumi pro capite di MPMI della terza generazione, anche a causa delle forti attività di trasformazione per l'esportazione, hanno già raggiunto la ragguardevole cifra di 172 dollari, ai principali paesi latinoamericani (con consumi pro capite intorno ai 40-50 dollari), alla Turchia (30 dollari), alla Cina (18 dollari). Chiudono la classifica India e Pakistan (4 dollari). È poi il caso di ricordare che la maggior parte dei paesi africani non rientra neppure in questa graduatoria. Tali paesi non presentano infatti consumi significativi di MPMI della terza e nemmeno della seconda generazione, a riprova dello stato di forte arretratezza del continente africano nel suo complesso.
B. Tutti i paesi più avanzati e anche tutti gli ex paesi comunisti dell'Europa orientale presentano consumi pro capite di MPMI della seconda generazione (acciaio, rame, piombo, zinco, gomma) superiori ai 100 dollari. I paesi con i più forti consumi pro capite di MPMI di questa categoria sono quelli con le più rilevanti attività produttive nella meccanica, in particolare pesante, e nei mezzi di trasporto, come il Giappone (primo in questa graduatoria con 353 dollari), la Germania (240 dollari), l'Italia (222 dollari), la Svezia (216 dollari), gli Stati Uniti (197 dollari), il Canada (190 dollari) e, tra gli ex paesi comunisti dell'Europa orientale, l'ex Cecoslovacchia (270 dollari) e l'ex URSS (217 dollari). Tra i paesi in via di sviluppo spicca ancora la Corea del Sud, che presenta un consumo pro capite di MPMI della seconda generazione pari a 226 dollari.
C. Tutti i paesi più avanzati presentano un consumo pro capite di MPMI della prima generazione (cotone, lana, pelli) inferiore ai 20-30 dollari. Unica eccezione l'Italia, con 57 dollari, a causa della sua forte specializzazione nei settori tessile e dell'abbigliamento e delle pelli e calzature. Tra gli ex paesi comunisti dell'Europa orientale occupa una rilevante posizione in questa graduatoria l'ex Cecoslovacchia, al primo posto con 59 dollari, mentre tra i paesi in via di sviluppo i più elevati consumi pro capite di MPMI della prima generazione si hanno nella Corea del Sud (54 dollari) e in Argentina (35 dollari), entrambe grandi produttrici nella filiera pelli-cuoio-calzature, nella Turchia (29 dollari) e nel Pakistan (24 dollari), due paesi specializzati nella lavorazione del cotone.
Le serie storiche sui consumi di MPMI sono state talvolta utilizzate per studiare la dinamica delle produzioni industriali e i cicli economici dei vari paesi. L'importanza degli indicatori fisici dello sviluppo è stata d'altra parte sottolineata recentemente anche da Fuà (v., 1993).
Come ricordato anche da Schumpeter (v., 1939), fu Spiethoff (v., 1923⁴) ad adoperare per primo il 'parametro del consumo di ferro' come strumento analitico. Già Tougan-Baranowsky nel suo Les crises industrielles en Angleterre (1913) era ricorso a indicatori fisici come le produzioni e i consumi di carbone, cotone e ferro per inquadrare particolari fasi dello sviluppo industriale. Spiethoff lo fece tuttavia in modo più sistematico. In particolare Spiethoff utilizzò il consumo di ferro come indicatore fondamentale per analizzare l'evoluzione della struttura industriale e i cicli di prosperità e di recessione della Germania e di altri paesi nell'arco temporale 1822-1913. In base alla dinamica del consumo di ferro, egli ritenne di poter collocare il periodo di consolidamento della crescita industriale e tecnologica della Germania negli anni settanta dell'Ottocento: "Il consumo del ferro nel 1873 aumentò a 71,5 kg pro capite contro i 32,6 nel 1866. Sono questi gli anni della rivoluzione industriale in Germania" (v. Spiethoff, 1923⁴).Più recentemente Fortis (v., 1988 e Competizione..., 1993) ha esaminato la dinamica della produzione industriale degli Stati Uniti dal 1900 alla fine degli anni ottanta confrontandola con quella dei consumi di metalli non ferrosi e gomma. La domanda di queste MPMI presenta interessanti sincronie con l'andamento annuale della produzione industriale americana: in particolare il consumo di rame raffinato coglie o anticipa pressoché tutti i punti di massimo e di minimo dei cicli della produzione manifatturiera statunitense nell'arco dell'intero periodo esaminato. L'analisi ha messo inoltre in evidenza l'enorme impatto prodotto negli anni venti dall'avvento delle nuove produzioni per il 'consumo di massa' sui livelli di consumo delle principali MPMI. Interessante è inoltre il confronto, effettuato da Jastram (v., 1982), tra la dinamica di lungo periodo della produzione industriale statunitense e quella del consumo di argento. L'autore ha sottolineato la coincidenza tra due fasi di forte espansione del consumo di argento, la prima verificatasi tra il 1900 e il 1910 e la seconda negli anni della seconda guerra mondiale e immediatamente successivi, e due momenti cruciali dello sviluppo industriale americano: l'elettrificazione e la nascita dell'elettronica.
Fortis (v., 1984, 1988 e Competizione..., 1993), ha anche proposto una rilettura delle fasi di trasformazione dell'economia italiana e della sua cronologia ciclica nel secondo dopoguerra alla luce dell'evoluzione annuale dei consumi delle principali MPMI. I risultati di tale analisi, ottenuti attraverso indicatori non tradizionali, confermano la portata delle grandi trasformazioni avvenute durante la fase del cosiddetto 'miracolo economico' e appaiono in linea con la cronologia ciclica proposta da Fuà (v., 1981), secondo cui l'economia italiana ha presentato dal 1945 al 1975 "quattro onde cicliche della produzione industriale e degli investimenti" con punte di minimo negli anni 1952, 1958, 1964, 1971 e 1975.
La dinamica storica dei consumi di MPMI consente di evidenziare l'evoluzione delle varie aree geografiche e dei rapporti di forza tra i sistemi industriali nazionali. Per quanto riguarda gli anni più recenti l'analisi dei consumi di MPMI ha messo inoltre in luce il ruolo dei paesi di nuova industrializzazione, o paesi emergenti, nell'ambito di una nuova divisione internazionale del lavoro.L'approccio non è certamente nuovo. Mulhall (v., 1892) ha raccolto delle statistiche molto dettagliate sul consumo mondiale di cotone, che confermano il ruolo nettamente dominante della Gran Bretagna come potenza manifatturiera nel periodo 1830-1860. Fino al termine di tale periodo la Gran Bretagna rappresentava da sola oltre la metà del consumo mondiale di cotone. Ancora nel 1870, come dimostrato dai dati di Tougan-Baranowsky (v., 1913), la produzione britannica di ferro, pari a 6 milioni di tonnellate, era da sola superiore a quella complessiva di Stati Uniti, Germania, Francia e Russia. Negli anni 1880-1910 comincia il declino del Regno Unito, che viene scavalcato nella produzione e nei consumi di diverse MPMI non solo dagli Stati Uniti, che diventano la prima potenza economica mondiale, ma anche dalla Germania: ciò accade per la produzione di ferro (v. Tougan-Baranowsky, 1913, e Spiethoff, 1923⁴) e anche per alcune produzioni chimiche di base, ad esempio quella di acido solforico (v. Svennilson, 1954). In linea con quanto emerge dagli indicatori fisici basati sui consumi di MPMI, la Gran Bretagna, alla vigilia del primo conflitto mondiale, risulta in effetti sopravanzata dalla Germania nelle produzioni siderurgiche, meccaniche e chimiche misurate attraverso i tradizionali indicatori basati sul valore aggiunto, mentre conserva ancora la supremazia europea nella lavorazione del cotone e nella produzione di carbone (v. Svennilson, 1954).
Nel 1955, secondo le stime di Paretti e Bloch (v., 1956), la produzione industriale complessiva degli Stati Uniti risultava di oltre 2/3 superiore a quella dell'Europa occidentale. I due autori, per dimostrare la bontà di questo rapporto stimato attraverso grandezze di tipo monetario, introdussero come termini di confronto anche due indicatori fisici: il consumo di energia e quello di acciaio. Posta l'Europa occidentale uguale a 100, gli indici relativi agli Stati Uniti risultarono pari a 176 per il consumo di energia e a 150 per quello di acciaio. In seguito Maizels (v., 1963) ha calcolato, partendo dai consumi fisici dei singoli metalli, serie storiche relative ai consumi nazionali complessivi di metalli (acciaio+metalli non ferrosi) in dollari costanti, che mettono in risalto, anche in termini di consumi pro capite, la superiorità manifatturiera di Stati Uniti e Canada rispetto ai principali paesi europei nel corso del periodo 1929-1959. Fortis (v., Competizione..., 1993) ha analizzato recentemente i nuovi rapporti di forza tra i sistemi manifatturieri delle principali aree geoeconomiche utilizzando i consumi di un ampio paniere di MPMI. La tabella II, a partire dalle variazioni delle quote medie di consumo mondiale di MPMI di ciascuna area, sintetizza efficacemente il processo storico di spostamento del baricentro della produzione manifatturiera mondiale dapprima dall'Europa verso il Nordamerica nel periodo 1920-1950, e più recentemente dal Nordamerica verso i paesi asiatici del Pacifico e l'Oceania. Accanto al Giappone sono venuti emergendo, a partire dagli anni settanta, nuovi paesi manifatturieri come Taiwan, la Corea del Sud, Hong Kong, Singapore e la stessa Cina, i cui consumi di MPMI sono aumentati sensibilmente.
5. Commercio internazionale e materie prime
di Roberto Zoboli
All'inizio di questo secolo le materie prime in complesso (inclusi i combustibili, classificazione UNCTAD) rappresentavano oltre il 60% delle esportazioni mondiali in valore. Esse costituivano per i paesi in via di sviluppo il 95% delle esportazioni totali. Solo dopo la seconda guerra mondiale, con la progressiva espansione del commercio di manufatti, il peso relativo delle materie prime si è notevolmente ridimensionato. Nel periodo 1970-1991 la quota delle materie prime non energetiche sul commercio mondiale si è ridotta dal 27 al 15% (quella di tutte le materie prime dal 36 al 25%). Queste tendenze si sono affermate esclusivamente a causa della formidabile crescita del commercio internazionale di manufatti, poiché il commercio di materie prime (export) è cresciuto di quasi sei volte in valore nel ventennio considerato, fino a superare i 520 miliardi di dollari nel 1991.
Nell'ambito degli scambi mondiali di materie prime hanno un peso dominante i paesi sviluppati (v. tab. III). Alla fine degli anni ottanta tale gruppo di paesi copriva oltre il 70% dell'import totale di materie prime e oltre due terzi dell'export mondiale degli stessi prodotti: oltre la metà degli scambi avveniva tra paesi sviluppati.Giappone e Unione Europea sono le due grandi regioni industrializzate con il maggior deficit commerciale per le materie prime e operano come principali poli di attivazione degli scambi mondiali. Alla fine degli anni ottanta queste due aree coprivano il 55% circa dell'import mondiale di materie prime agricolo-alimentari e di minerali e metalli. Anche per l'import di materie prime agricolo-alimentari l'importanza di tali aree è dominante (oltre la metà del totale mondiale), ma per questi prodotti la UE copre anche il 40% delle esportazioni mondiali. In complesso i paesi sviluppati presentano un deficit commerciale per le materie prime pari a circa 30 miliardi di dollari.
L'Italia è uno dei paesi sviluppati a maggior dipendenza strutturale dalle materie prime importate. Alla fine degli anni ottanta essa era il quarto maggior importatore mondiale di materie prime dopo Giappone, Stati Uniti e Germania Federale, ma risultava seconda solo al Giappone in termini di peso dell'import di materie prime sull'import totale. Gli oltre 47.000 miliardi di importazioni di materie prime non energetiche (per circa metà materie prime industriali e per l'altra metà materie prime alimentari) corrispondevano a quasi il doppio delle importazioni di materie prime energetiche (24.000 miliardi circa) (v. Zoboli, 1992).
Di scarso rilievo nel commercio totale di materie prime sono i flussi tra paesi socialisti o ex socialisti (al massimo il 4% del totale mondiale), per i quali, tuttavia, tali prodotti rappresentano una posta attiva di bilancia commerciale (circa 5 miliardi di dollari). Le trasformazioni in atto nei primi anni novanta sembrano capaci di condurre a una maggior partecipazione dei paesi ex socialisti al commercio di materie prime. In particolare, la Russia, già grande esportatore mondiale di alcune materie prime energetiche (petrolio, gas naturale) e industriali (metalli preziosi) e grande importatore di materie prime alimentari (grano, zucchero), potrebbe aumentare notevolmente in futuro il suo peso relativo negli scambi di materie prime.Un flusso di scambi relativamente importante è quello che origina dai paesi in via di sviluppo in direzione dei paesi industriali. Nonostante le sue notevoli implicazioni per le relazioni internazionali e le politiche di sviluppo, tale flusso rappresentava alla fine degli anni ottanta solo il 17% del commercio mondiale di materie prime. Per comprendere come il suo rilievo non sia decisivo si può ricordare che il flusso commerciale inverso, originante dai paesi sviluppati verso i paesi in via di sviluppo, raggiunge circa il 12% del totale mondiale. Relativamente modesti sono inoltre gli scambi di materie prime che avvengono tra paesi in via di sviluppo (circa il 6% degli scambi totali), anche se essi sono in sensibile crescita. Nell'ultimo ventennio i paesi in via di sviluppo hanno tendenzialmente accresciuto, per effetto dello sviluppo economico, il loro peso relativo come importatori di materie prime industriali oltreché alimentari. I paesi in via di sviluppo in complesso hanno per le materie prime una bilancia commerciale attiva per circa 33 miliardi di dollari. Interessanti tendenze si sono manifestate nell'ultimo ventennio in termini di aumento del grado di trasformazione delle materie prime esportate dai paesi in via di sviluppo verso i paesi industriali. Nel caso del settore cotoniero, ad esempio, alla metà degli anni settanta l'export dai paesi in via di sviluppo ai paesi sviluppati era costituito per il 60% da cotone grezzo e solo per il 29% da tessuti; nel 1989 la quota dei tessuti era di oltre il 40% e quella del cotone grezzo si era ridotta al 28%. Non si tratta tuttavia di tendenze univoche, essendovi anche importanti settori in cui l'aspirazione storica dei paesi in via di sviluppo ad aumentare il grado di trasformazione delle materie prime esportate rimane ampiamente frustrata. Negli ultimi due decenni il fenomeno dei paesi di nuova industrializzazione ha peraltro mostrato che vari paesi in via di sviluppo hanno avuto successo nello sviluppo di trasformazioni industriali per l'export basate su materie prime importate piuttosto che su materie prime ottenute dalle proprie risorse naturali.
Sebbene l'export di materie prime dei paesi in via di sviluppo rappresenti una quota non grande del commercio mondiale di tali prodotti, esso mantiene ancora quella importanza che lo rende oggetto da decenni di una ripetuta attenzione a vari livelli. La ragione risiede essenzialmente nell'elevato e strutturale grado di dipendenza di molte economie in via di sviluppo dalle esportazioni di materie prime. Sebbene tale dipendenza si sia ridotta negli ultimi decenni, ancora sul finire degli anni ottanta le materie prime non energetiche rappresentavano più del 70% dell'export totale per 52 paesi in via di sviluppo e tale quota era superiore al 90% in 27 di tali paesi. In molti di questi casi gran parte dell'export dipende da una o da poche materie prime. Per 13 paesi in via di sviluppo a basso reddito, inoltre, l'export di materie prime è pari a più del 25% del PIL.
La relazione tra dipendenza dalle materie prime e sviluppo economico dei paesi produttori è da tempo uno dei punti più controversi dell'economia dello sviluppo. Pur essendo impossibile riassumere il vasto dibattito che si è sviluppato sull'argomento (v. Myint, 1971; v. Grilli, 1982; v. Grilli e Yang, 1989), si può ricordare l'esistenza di almeno due visioni generali contrapposte. La prima, basata sulla teoria dei vantaggi comparati e sulle sue varianti, attribuisce alla partecipazione al commercio internazionale, in qualunque settore operata, un ruolo positivo per lo sviluppo dei paesi emergenti. La seconda visione generale tende invece a conclusioni opposte sulla base di varie ragioni addotte, tra le quali la non equa distribuzione dei guadagni del commercio tra paesi in via di sviluppo e paesi sviluppati, l'eccesso di specializzazione nella allocazione delle risorse, l'eccessiva sensibilità all'andamento dei mercati mondiali. Nonostante la notevole disponibilità di basi empiriche per decidere della validità delle diverse posizioni, queste incontrano ancora notevoli difficoltà di prova a causa dell'impossibilità di isolare l'effetto dell'export di materie prime sullo sviluppo economico.Queste diverse concezioni generali, e i sottostanti problemi concreti dei paesi in via di sviluppo nelle diverse fasi dell'economia mondiale, trovano un terreno comune di analisi in tre vaste tematiche: l'instabilità dei prezzi internazionali delle materie prime; le tendenze storiche dei prezzi in termini reali o delle loro ragioni di scambio rispetto ai manufatti; le politiche internazionali delle materie prime.
6. I prezzi internazionali
di Roberto Zoboli
I mercati delle materie prime vengono in genere considerati come prototipi reali dei classici mercati competitivi governati dall'interazione tra domanda e offerta. In realtà le forme di mercato osservabili per le diverse materie prime coprono quasi l'intera gamma delle possibilità, variando dalla concorrenza atomistica, per alcuni prodotti agricoli, fino alle varie forme di oligopolio e al monopolio quasi puro, come nel caso dei diamanti. Pervasive sono inoltre varie forme di controllo dei governi sulla produzione, sui prezzi, sul commercio estero di tali prodotti. Ciò nonostante i mercati delle materie prime rispondono alle caratteristiche dei mercati a prezzi flessibili, in cui la formazione dei prezzi nel breve periodo risponde alle relazioni tra domanda e offerta e solo nel lungo periodo alle variazioni dei costi di produzione (v. Sylos Labini, 1984). Le evidenze econometriche confermano che, seppure con varianti specifiche per i diversi mercati, la generalità delle materie prime risponde effettivamente al modello dei prezzi flessibili (v. Labys e Pollack, 1984; v. Guvenen, 1988). Tali analisi indicano inoltre che nel breve periodo assumono notevole importanza sia le scorte, che operano come ammortizzatori o amplificatori degli impulsi di domanda e offerta, sia le aspettative sulle variabili di mercato.
La comune osservazione dei diversi mercati conferma la coesistenza di strutture di mercato lontane dalla concorrenza e di prezzi flessibili. Nel caso di molti metalli non ferrosi, ad esempio, vi sono elevate concentrazioni geografiche della produzione in paesi dove operano imprese di Stato che hanno il monopolio dell'offerta, e opera inoltre un numero ristretto di grandi multinazionali con base nei paesi sviluppati (v. Radetzki, 1987 e 1990). Tuttavia la determinazione dei prezzi dei metalli nel breve periodo sembra rispondere bene, dal lato dell'offerta, al modello dei mercati concorrenziali, in cui a variazioni dei prezzi mondiali corrisponde l'entrata (l'uscita) di porzioni di offerta (miniere economicamente sfruttabili) per le quali quei prezzi stanno al di sopra (al di sotto) dei costi medi variabili (v. Epple e Londregon, 1993).
Diversi fattori generali concorrono al prevalere del modello dei prezzi flessibili per la maggior parte delle materie prime, e spiegano anche perché i prezzi possano risultare notevolmente instabili: a) per la maggior parte delle materie prime prevale un'elevata standardizzazione merceologica; numerosi gradi e qualità di prodotto sono sostituibili entro una gamma definita ma spesso molto ampia; b) esiste talvolta sostituibilità tra diverse materie prime dello stesso gruppo, come nel caso degli oli alimentari per i quali si può parlare di un unico mercato mondiale in cui i mercati dei singoli oli interagiscono (relativamente elevata elasticità incrociata domanda-prezzi); c) i mercati delle materie prime hanno estensione propriamente mondiale; per molte materie prime la quota della produzione commerciata a livello internazionale è molto elevata e superiore alla media dei manufatti; per la gomma naturale e il nichel, ad esempio, tale quota supera l'80%, per il caffè, il cacao, lo stagno supera il 70%, e per la lana, lo zinco e l'alluminio non è inferiore al 40%; d) le principali materie prime sono trattate in un ampio sistema di borse merci internazionali, di cui molte già attive dal secolo scorso sia per le contrattazioni sul fisico che sui futures; e) sui prezzi delle materie prime influiscono domande precauzionali e speculative, originate tanto dagli operatori quanto da investitori internazionali, che in alcune fasi rendono i mercati delle materie prime dei mercati 'quasi finanziari'; tali domande, favorite anche dall'esistenza dei mercati organizzati, corrispondono alla ricerca di guadagni sulle variazioni dei prezzi, e sono molto sensibili sia alle aspettative che alle variabili macroeconomiche, come i tassi di cambio (essendo i prezzi in genere quotati in dollari), i tassi di interesse (essendo questi i costi di opportunità dell'investimento 'finanziario' in materie prime), i tassi di inflazione (essendo rilevanti i guadagni reali).
Una serie di stime condotte per endogenizzare i prezzi delle materie prime nel modello mondiale INTERLINK utilizzato dall'OECD conferma che diverse variabili macroeconomiche hanno influenza sui prezzi internazionali, e in particolare: la crescita dei paesi OECD, l'inflazione negli stessi paesi, i tassi di interesse, il prezzo del petrolio, il tasso di cambio del dollaro (v. Holtham e altri, 1985; v. Holtham e Durand, 1987).
Specifici fattori strutturali di instabilità esistono inoltre sia per le materie prime agricole che per quelle industriali. La relativa rigidità dell'offerta nel breve periodo favorisce l'instabilità per le materie prime minerarie e agro-industriali, la cui domanda riflette fedelmente il ciclo economico dei paesi industriali. Secondo alcune stime, oltre la metà delle variazioni di breve periodo dei prezzi delle materie prime industriali dipende dalle oscillazioni cicliche dell'attività economica nei paesi industriali. Nello stesso modo si spiega anche la notevole sintonia di movimento tra i prezzi di materie prime che non hanno relazioni dirette dal punto di vista tecnico ed economico. Le materie prime alimentari, caratterizzate da fluttuazioni della domanda relativamente ridotte, trovano nei fenomeni climatici un fattore strutturale di instabilità dei prezzi. Nel caso delle materie prime agricole a produzione differita o a ciclo pluriennale (ad esempio, il caffè, il cacao, il tè, le banane, gli agrumi e molte altre), gli effetti degli shocks climatici su offerta e prezzi possono protrarsi per anni, come nel caso delle gelate nelle regioni caffeicole del Brasile, che determinano fasi di improvvisa ascesa dei prezzi seguite da prolungate fasi di depressione.
Date tali caratteristiche, per tutto il periodo postbellico e fino ai primi anni ottanta, i prezzi di riferimento internazionale delle materie prime hanno avuto indici di instabilità maggiori sia rispetto ai prezzi dei manufatti che rispetto ai prezzi al consumo (v. tab. IV). Tale instabilità costituisce una preoccupazione storica tanto per i paesi produttori che per quelli consumatori. Sull'instabilità dei prezzi delle materie prime in riferimento al problema costi-prezzi-distribuzione nel settore manifatturiero si era soffermato ampiamente Kalecki (v., 1939 e 1954). Sylos Labini (v., 1979 e 1984) ha esaminato a più riprese le relazioni di breve e di lungo periodo tra prezzi delle materie prime e prezzi industriali, suggerendo che gli effetti inflazionistici, potenziali e reali, delle oscillazioni dei prezzi delle materie prime dipendano da una differenza fondamentale tra i meccanismi di formazione dei prezzi nei due tipi di mercati. Il prevalere di forme oligopolistiche nei mercati dei manufatti, in cui i prezzi sono funzione dei costi diretti di produzione (inclusi quelli per le materie prime), unito alla relativa rigidità dei salari nei paesi industriali e alla concorrenza internazionale, fa sì che la trasmissione degli aumenti dei prezzi delle materie prime ai prezzi dei manufatti sia piena, mentre lo è assai meno quella delle cadute degli stessi prezzi. In tal modo le variazioni di breve periodo dei prezzi delle materie prime influenzano anche il trend dei prezzi dei manufatti, e questi ultimi tendono a crescere più dei primi.Per paesi in via di sviluppo altamente dipendenti dalle materie prime l'instabilità è fonte di effetti negativi sull'efficienza d'uso delle risorse. Nelle fasi di aumento delle quotazioni i paesi produttori tendono a realizzare programmi espansivi che generano offerta solo con ritardo, quando i prezzi possono essere non remunerativi a causa di mutate condizioni di domanda o perché gli stessi programmi espansivi in più paesi hanno creato eccesso di offerta mondiale. Questo tipo di squilibri dinamici è esperienza comune, anche recente, sia per singoli mercati che per l'insieme delle materie prime. Nel caso dei paesi in via di sviluppo produttori è tuttavia opportuno distinguere tra instabilità dei prezzi e instabilità dei ricavi dalle esportazioni di materie prime. I secondi dipendono anche dagli andamenti delle quantità esportate. Spesso è stata proprio l'instabilità di queste ultime, che tende a seguire ciclicamente quella dei prezzi, che ha comportato impulsi alterni e gravi difficoltà nei paesi produttori (v. Grilli e Yang, 1989).
Negli anni settanta i fenomeni di instabilità dei mercati delle materie prime si sono manifestati in modo esasperato. Dopo la dichiarazione di inconvertibilità del dollaro in oro del 1971 e in corrispondenza delle due crisi petrolifere, i prezzi delle materie prime hanno avuto due ampi cicli di ascesa e successiva caduta. Un primo aumento si è avuto tra la fine del 1972 e la fine del 1974 quando i prezzi mondiali (indice UNCTAD) sono cresciuti del 140% circa. Nell'anno successivo si erano già ridotti del 38% circa. Tra la fine del 1977 e la fine del 1980 i prezzi hanno registrato un aumento del 65% per poi ridursi del 43% circa nei due anni successivi. La spiegazione di queste due fasi, oltre che in particolari condizioni dei singoli mercati, risiede soprattutto nelle allora turbolente condizioni dell'economia mondiale, determinate dalla crisi energetica, dalla libera fluttuazione dei cambi, dall'inflazione crescente, dalle politiche dei tassi di interesse. Questo disordine è stato a sua volta influenzato anche dai prezzi delle materie prime. Nel decennio in esame, alimentate da un'abbondante liquidità internazionale, hanno operato anche importanti domande speculative di oro e materie prime, il cui acquisto era considerato un attraente investimento reale (v. Sylos Labini, 1984; v. Quadrio Curzio, 1983).
I rilevanti cambiamenti dell'economia mondiale negli anni ottanta (ascesa del dollaro nella prima parte, crescita economica regolare, inflazione in calo, caduta del prezzo del petrolio nel 1986) hanno causato una progressiva discesa dei prezzi internazionali delle materie prime ai quali sono mancate forze generali di sostegno (v. Quadrio Curzio e Zoboli, 1985 e 1986). La crisi delle materie prime è proseguita nei primi anni novanta, quando neppure la guerra del Golfo è stata in grado di frenare i continui ridimensionamenti dei prezzi nominali e reali. Questi ultimi erano nel 1993 al livello minimo del periodo postbellico. Gli anni ottanta e l'inizio degli anni novanta hanno visto ridursi anche i coefficienti di instabilità dei prezzi rispetto al ventennio precedente e addirittura rispetto ai prezzi dei manufatti (v. tab. IV).
Su tali andamenti degli anni ottanta hanno influito anche le reazioni agli avvenimenti degli anni settanta, e cioè gli ampliamenti dell'offerta, i sensibili risparmi dal lato della domanda e l'innovazione tecnologica. I paesi industriali avanzati hanno realizzato un esteso cambiamento tecnologico e della struttura produttiva, modellato in parte sulle scarsità degli anni settanta con fenomeni di 'de-energizzazione' e 'de-materializzazione' dei processi produttivi e dei prodotti (v. World Resources Institute, 1992).
Tali eventi hanno riproposto il problema dei paesi in via di sviluppo fortemente dipendenti dalle materie prime. L'aspettativa di trasferimenti internazionali di ricchezza e di rendite di scarsità sulle materie prime, maturata negli anni settanta, è stata vanificata. Anche se negli anni ottanta la situazione dei paesi in via di sviluppo è più differenziata, la questione della dipendenza dalle materie prime rimane di grande rilievo, poiché tende a coincidere con il problema della povertà, divenuto, secondo autorevoli valutazioni, il principale problema dell'economia mondiale (v. Tinbergen, 1992; v. World Bank, 1991).
I trends storici dei prezzi reali delle materie prime o dei prezzi relativi materie prime/manufatti (net barter terms of trade) costituiscono una questione classica per l'analisi economica per almeno due motivi. Il primo è che l'andamento delle ragioni di scambio tra materie prime e manufatti nel lungo periodo è un terreno di verifica dei vantaggi di partecipazione al commercio internazionale da parte dei paesi in via di sviluppo produttori di materie prime. Il secondo è che la stessa variabile offre la possibilità di verificare una delle ipotesi più discusse dell'economia classica, quella della crescente scarsità di materie prime prodotte da risorse naturali.
A partire dalle analisi di Prebish (v., 1950) e Singer (v., 1950), le numerose stime dei trends di lungo periodo dei prezzi reali delle materie prime - ottenuti deflazionando i prezzi nominali con quelli dei manufatti - sembrano propendere per l'esistenza di un declino storico, ma risultano in realtà scarsamente conclusive. Quello che tali analisi consentono di escludere è un tendenziale aumento dei prezzi relativi materie prime/manufatti nel lungo periodo. Per il periodo postbellico i dati sembrano confermare chiaramente tale conclusione.
Tra le analisi recenti, quella di Scandizzo e Diakossavas (v., 1986) sul periodo 1900-1982 giunge alla conclusione che vi sono indizi di un declino storico dei net barter terms of trade ma, più che di un trend, si tratterebbe di un ciclo molto lungo, difficile tuttavia da caratterizzare a causa della inadeguatezza delle serie statistiche. Le analisi di Grilli e Yang (v., 1989), basate su un'ampia ricostruzione originale delle serie storiche dei prezzi, indicano che, tra il 1900 e il 1986, il prezzo reale delle materie prime non energetiche è diminuito dello 0,6% l'anno in media (0,5% se si includono le energetiche), confermando il segno ma non l'entità delle stime compiute in altri lavori. Inoltre per alcuni prodotti, come le bevande tropicali e i metalli, dagli anni quaranta si rilevano tendenze di segno positivo.
I vari studi sottolineano tuttavia che, dal punto di vista dei paesi in via di sviluppo esportatori, il possibile declino storico dei prezzi reali delle materie prime non implica un corrispondente declino del reddito reale delle esportazioni. Quest'ultimo dipende infatti anche dalle quantità esportate. Ancora Grilli e Yang (v., 1989) evidenziano che le esportazioni di materie prime dei paesi in via di sviluppo sono cresciute notevolmente nel corso di questo secolo. Ciò ha determinato una crescita continua del potere di acquisto totale dell'export di materie prime (income terms of trade) anche in presenza di prezzi reali unitari declinanti o non crescenti.Il supposto declino storico dei prezzi reali delle materie prime è un risultato che contraddice le visioni di scarsità assoluta delle risorse naturali degli economisti classici (Ricardo, Mill, Torrens) fatte proprie successivamente anche da Keynes (v. cap. 2). Le analisi empiriche hanno quindi aggiunto elementi a un dibattito che ha visto il prevalere alterno di diverse conclusioni (v. Zoboli, 1991). Ad esse vanno aggiunte le numerose analisi rivolte specificatamente ai prezzi reali delle materie prime come indicatori di scarsità (v. ad esempio Slade, 1982).
7. Le politiche delle materie prime
di Roberto Zoboli
Ritenendo che le ampie fluttuazioni dei prezzi delle materie prime costituissero un serio disturbo per l'economia mondiale, Keynes (v., 1974) sostenne a più riprese che il riordino postbellico dovesse prevedere sistemi di intervento basati su scorte di stabilizzazione (buffer stocks).La realizzazione di tali sistemi, centrati su accordi internazionali tra paesi produttori e consumatori, ha avuto fino a oggi uno sviluppo tormentato e controverso. Dopo i vari tentativi di accordo tra produttori, cartelli e altre forme di intervento unilaterale sui mercati mondiali delle materie prime fatti tra le due guerre (v. Gordon-Ashworth, 1984), una prima codifica degli accordi tra produttori e consumatori fu attuata nel 1948 con la Carta dell'Avana. Alcuni accordi tra paesi produttori e consumatori (ad esempio gli accordi riguardanti il caffè e lo stagno) iniziarono a svilupparsi negli anni cinquanta e trovarono nel decennio successivo un riferimento istituzionale nell'UNCTAD. Quest'ultima, tuttavia, ha focalizzato la propria attenzione sugli accordi solo dopo la prima crisi petrolifera e i successivi tentativi di creazione di cartelli per varie materie prime. Nel 1974 le Nazioni Unite adottarono la risoluzione sul Programma Integrato per le Materie Prime (Integrated Program for Commodities, IPC). Essa prevedeva la creazione di un Fondo Comune per il finanziamento di buffer stocks che costituivano lo strumento operativo di accordi volti a mantenere entro determinate fasce di oscillazione i prezzi internazionali dei prodotti di maggior interesse per i paesi in via di sviluppo. Le due conferenze di Ginevra del 1977 hanno subito mostrato le grandi difficoltà di realizzazione del programma per le materie prime. Al trattato per il Fondo Comune in seno all'UNCTAD si è giunti solo nel 1980. Esso tuttavia è divenuto operativo (ma senza tutti i requisiti tecnici) soltanto nel 1988, poiché per tutti gli anni ottanta non si sono raggiunti il numero necessario dei paesi ratificanti e i finanziamenti previsti. A tutt'oggi la realizzazione dell'IPC è in una fase di sostanziale stallo.
Numerose sono state le critiche all'azione dell'UNCTAD, e tra queste anche quella di aver trascurato una più attenta analisi del funzionamento di mercati instabili e speculativi come quelli delle materie prime (v. Ghosh e altri, 1987). L'unico accordo internazionale che ha ricevuto un significativo impulso dall'UNCTAD è stato quello sulla gomma naturale. Gli altri più importanti accordi tra produttori e consumatori, operativi già a partire dagli anni sessanta (gli accordi riguardanti il caffè, il cacao, lo zucchero, lo stagno), hanno avuto vita in gran parte autonoma, con vicende travagliate ma anche con qualche successo. Nati per i mercati più conflittuali, gli accordi hanno riportato il conflitto a un diverso livello senza risolverlo. L'obiettivo di stabilizzazione è stato infatti interpretato dai paesi produttori come fissazione di prezzi alti e trasferimento di ricchezza, e dai consumatori come fissazione di prezzi bassi e protezione contro scarsità di offerta.Anche a causa dei cambiamenti dei mercati (v. § 6b), gli anni ottanta sono stati una fase negativa per gli accordi. Quello sullo stagno è cessato traumaticamente nel 1985, mentre quello sul caffè, tra i più solidi e positivi, ha lasciato il posto a un regime di libero mercato a partire dal 1989 per riprendere una certa operatività solo nel 1994. L'accordo sul cacao ha inoltre attraversato difficoltà di negoziazione e funzionamento, mentre una certa capacità operativa ha mantenuto quello sulla gomma.
Le questioni riguardanti le materie prime rientrano nelle problematiche generali delle politiche commerciali e hanno quindi avuto, seppure a fasi alterne, un qualche rilievo nei negoziati GATT. L'Uruguay round (1986-1994) ha affrontato numerose questioni riguardanti diversi settori delle materie prime (v. Finger e Olechowski, 1987; v. UNCTAD, 1989), ma si è occupato soprattutto di due grandi settori delle materie prime: agricoltura e tessile-abbigliamento.
La protezione del settore agricolo tramite l'intervento pubblico ha radici storiche lontane, ma ha raggiunto la sua massima estensione negli ultimi decenni. Nonostante ciò, e per un implicito consenso dei maggiori paesi sviluppati, l'agricoltura era stata sempre tenuta ai margini del GATT. Tra gli anni settanta e i primi anni ottanta, la rilevante crescita delle capacità produttive agricole mondiali, sotto la spinta delle politiche stesse e dell'innovazione tecnologica, ha condotto a una situazione eccedentaria dei mercati internazionali e a un profondo conflitto tra i grandi esportatori tradizionali (Stati Uniti in testa) e la Comunità Europea, divenuta esportatore netto per i cereali e i prodotti della zootecnia. Posta tra le principali aree di discussione dell'Uruguay round, l'agricoltura è stata uno dei maggiori ostacoli alla conclusione dei negoziati. Il cosiddetto 'compromesso di Washington' tra CEE e Stati Uniti in materia agricola del dicembre 1993, cui ha fatto seguito nell'aprile 1994 la conclusione dei negoziati GATT, ha segnato un sostanziale successo della posizione statunitense per una vasta riduzione dei sostegni all'agricoltura nella UE e negli altri paesi industriali. Tale conclusione va nello stesso senso della profonda riforma della politica agricola comunitaria, avviata nel 1992, che dovrebbe segnare il progressivo abbandono degli interventi sui prezzi di mercato a favore di altri strumenti di sostegno, principalmente integrazioni di reddito agli agricoltori (v. Lechi e Ferretto, 1993).
Negli anni ottanta vi è stata un'ampia produzione di modelli quantitativi destinati a valutare i complessi effetti economici delle politiche agricole e delle loro modifiche (v. Zoboli, 1993; v. Parikh e altri, 1988; v. OECD, 1989-1990). I modelli indicano chiaramente che la liberalizzazione più o meno completa del commercio agricolo internazionale determinerebbe perdite all'agricoltura della UE e del Giappone, e un esteso ridisegno della produzione e del commercio agricolo mondiali a favore dei grandi esportatori agricoli tradizionali. In generale, quindi, assai rilevanti si presentano gli aspetti di distribuzione dei vantaggi della liberalizzazione tra le agricolture dei diversi paesi e tra agricoltura e altri settori dell'economia.
Ampio spazio nei negoziati dell'Uruguay round è stato dedicato anche al settore tessile-abbigliamento. A differenza di quanto avvenuto nel settore agricolo, la protezione del settore tessile-abbigliamento si è sviluppata in seno al GATT dopo essere stata inizialmente concepita come eccezione temporanea alle regole dell'accordo. Le prime restrizioni al commercio tessile originano da un accordo dei primi anni sessanta poi rinnovato fino al 1974, quando gli subentrò il primo Accordo Multifibre (Multifiber Agreement, MFA). Nel 1986 è entrato in vigore il quarto MFA, che doveva protrarsi fino al 1991 e che ha comportato una notevole estensione dei meccanismi di regolazione. Il MFA configura un sistema estremamente complesso di restrizioni commerciali, basato su limiti all'import e all'export, negoziati bilateralmente e variabili di anno in anno, destinati a rallentare la crescita delle esportazioni a basso prezzo provenienti dai paesi in via di sviluppo verso i paesi sviluppati. A conclusione dell'Uruguay round è stato concordato l'abbandono definitivo del MFA insieme a un regime di transizione verso un sistema compatibile con il GATT stesso.
La valutazione dei concreti effetti dei MFA sull'evoluzione del commercio nel settore tessilea-bbigliamento risulta difficoltosa, data la varietà dei cambiamenti intervenuti negli scambi internazionali in questo settore, divenuto negli anni ottanta uno dei più globali attraverso estese politiche di rilocalizzazione delle fasi di lavorazione e investimenti diretti all'estero (v. Grilli e Sassoon, 1990).
8. Il ruolo dell'innovazione tecnologica: sviluppi recenti
di Roberto Zoboli
L'innovazione tecnologica ha sempre avuto notevoli effetti sulle materie prime (v. Ray, 1983; v. Rosenberg e Mowery, 1989). L'attuale quadro delle innovazioni rilevanti per i materiali è tanto vasto e qualitativamente nuovo da configurare una 'rivoluzione dei materiali' (v. Forester, 1988; v. OECD, 1990). Il centro di attrazione dei cambiamenti sono i cosiddetti 'nuovi materiali' o 'materiali avanzati' (metalli migliorati e leghe, materiali ceramici, plastiche ingegneristiche, materiali compositi), ma tali sviluppi presentano implicazioni complesse anche per i materiali tradizionali. L'antitesi tra vecchi e nuovi materiali è infatti debole quando si guarda agli aspetti economici e di mercato, poiché assume rilievo preminente il cambiamento dei modelli di domanda e di offerta dei materiali (v. Cohendet e Ledoux, 1992; v. Theulen, 1989). Nel modello precedente gli anni settanta l'offerta di materiali seguiva i criteri della standardizzazione, delle economie di scala e della competizione di prezzo, e la domanda era caratterizzata dall'elevata crescita, dall'uso di pochi materiali per pochi impieghi, dalla progettazione in funzione dei materiali. A partire dagli anni settanta si è andati verso un rovesciamento di tale modello: la domanda appare dominata dalla progettazione 'per funzioni', dall'ottimizzazione del rapporto costi/prestazioni, dalla richiesta di un'ampia varietà di materiali sempre più concepiti in base all'utilizzazione finale. L'offerta tende quindi ad adeguarsi, proponendo una varietà crescente e una elevata flessibilità delle caratteristiche dei materiali. Tale cambiamento, sebbene sia reso possibile dall'innovazione e dallo sviluppo dei nuovi materiali, tende in realtà a investire tutti i tipi di materiali industriali, e rende obsoleti o innovativi non tanto i materiali in sé quanto le combinazioni materiale-processo-prodotto-impiego. Questi cambiamenti hanno già avuto notevoli impatti sui grandi produttori di materiali tradizionali, come le multinazionali metallurgiche, conducendo all'adozione di strategie marcatamente 'multimateriali', e hanno inoltre stimolato programmi di ricerca e sviluppo sia nazionali che comunitari (EURAM, RACE, BRITE, BIOTECHNOLOGIE).
Negli ultimi trent'anni l'agricoltura mondiale è stata soggetta a grandi cambiamenti tecnologici. Insieme alla meccanizzazione e agli inputs chimici, le innovazioni della genetica vegetale sono state alla base di formidabili progressi produttivi. Si stima infatti che oltre il 90% dell'intero incremento di produzione mondiale tra il 1950 e il 1990 sia da attribuire all'incremento delle rese per ettaro, indotto dalle nuove varietà colturali. L'agricoltura ha quindi assunto le caratteristiche di un complesso sistema agro-tecnologico (v. Antonelli e Quadrio Curzio, 1988).
Sul finire degli anni settanta si è sviluppata un'importante generazione di innovazioni tecnologiche, raggruppate sotto la definizione di 'nuove biotecnologie', originate da scoperte fondamentali nei campi del DNA ricombinante e della fusione cellulare. Esse hanno nella farmaceutica il campo di maggior sviluppo, ma importanti vengono valutati gli impatti potenziali su agricoltura, energia e chimica. Nel caso delle materie prime agricole, tuttavia, le biotecnologie rimangono ancora una rivoluzione annunciata. In almeno 23 ampie aree dell'agro-industria ci si attende che tali innovazioni abbiano forte impatto, ma nessun prodotto derivante da modificazione genetica vera e propria era in commercio in questi settori ancora nel 1991 (v. OECD, 1992). Nonostante la grande difficoltà pratica di prevedere quando e come tale rivoluzione scientifica avrà effetto sulle materie prime agricole, le analisi tecnologiche sono concordi nell'indicare che essa potrà creare un enorme potenziale di incremento della produttività agricola e una riduzione dei costi di produzione, contribuendo inoltre al miglioramento qualitativo dei prodotti.
Una delle caratteristiche importanti delle biotecnologie di varia generazione applicate o applicabili alle materie prime agricole è che esse hanno bisogno di apporti di materiale genetico di origine selvatica localizzato per lo più nei paesi in via di sviluppo tropicali; tuttavia tali tecnologie sono prerogativa delle industrie dei paesi sviluppati. Lo sviluppo delle biotecnologie agricole si incrocia quindi in modo complesso con le problematiche dello sviluppo e della conservazione della biodiversità. I forti contrasti tra paesi in via di sviluppo e paesi sviluppati, emersi intorno alla Convenzione sulla biodiversità nell'ambito della United Nations Conference on Environment and Development (Rio de Janeiro, 1992), sono indicativi della difficoltà di soluzione di questo complesso gioco di interessi (v. Quadrio Curzio, Fortis e Zoboli, 1994).
Un particolare insieme di innovazioni più o meno recenti che ha effetti sulle materie prime è quello rivolto al recupero e riciclaggio dei materiali. Per molte materie prime industriali il riciclo rappresenta da tempo una realtà significativa. Nel caso del piombo, ad esempio, la produzione secondaria (ottenuta da seconda fusione) rappresenta poco meno della metà dell'intera produzione mondiale, mentre il recupero di rottami di rame è pari al 40% circa del consumo mondiale di rame raffinato. Nel settore del legno la quantità di scarti di lavorazione reimpiegati nella produzione è più che triplicata nell'ultimo ventennio, con un tasso di recupero già superiore al 60% nei primi anni ottanta e in continuo aumento.
Lo sviluppo delle materie prime secondarie è ovviamente influenzato dai mercati 'primari' ed è favorito da alti prezzi relativi delle materie prime. Le relazioni tra mercati 'primari' e 'secondari' sono però complesse. Nel breve periodo i prezzi e l'offerta dei materiali secondari risentono delle oscillazioni dei mercati delle materie prime primarie e oscillano quindi anch'essi; a loro volta i prezzi delle materie prime primarie subiscono influenze dalla disponibilità di materiali secondari, la cui offerta potenziale dipende dallo stesso consumo di materiali (primari o da riciclo) avvenuto in tempi precedenti. Per vari prodotti, come i metalli, le potenzialità di riciclo sono legate a tempi di obsolescenza dei prodotti che possono estendersi per decenni, e in ogni caso la 'miniera' del materiale secondario ha caratteristiche assai diverse da quella del primario.
Estese politiche pubbliche di recupero-riciclo dei materiali e scarti sono state avviate intensamente negli anni settanta e ottanta nei paesi avanzati, sotto la spinta prima degli alti prezzi delle materie prime e successivamente con finalità principalmente ambientali. Nonostante le tecnologie di riciclaggio siano anch'esse in parte inquinanti e un rigoroso bilancio economico-ambientale appaia difficile, il riciclo risparmia costi di smaltimento dei materiali e risorse naturali originarie. Il risparmio di energia rispetto alle produzioni primarie viene ad esempio stimato superiore al 90% per l'alluminio secondario, fino al 70% per la carta e al 30% per il vetro. Le politiche di recupero, in particolare dai rifiuti solidi urbani, impostate nei paesi industriali hanno dato risultati interessanti nel corso degli anni ottanta e i tassi di recupero per i più importanti gruppi di materiali sono relativamente elevati (v. tab. V). Negli ultimi anni innovative politiche di recupero dai rifiuti solidi urbani sono state avviate in molti paesi europei, specie a causa della continua crescita dei rifiuti da imballaggio (v. Quadrio Curzio, Prosperetti e Zoboli, 1994). Il sistema tedesco impostato nei primi anni novanta, che prevede il recupero degli imballaggi usati a carico dei produttori di beni di consumo, l'esperienza dei consorzi francesi, quella dei consorzi obbligatori in Italia e una direttiva comunitaria da tempo in discussione propongono obiettivi di recupero e riciclo molto ambiziosi, che alcuni considerano superiori a quelli ottimali. (V. anche Commercio; Economia internazionale; Innovazioni tecnologiche e organizzative; Oro; Prezzi; Risorse naturali; Sottosviluppo).
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