Matrimonio dello straniero irregolare
Con una decisione certamente controversa e che non mancherà di far discutere, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 116, co. 1, c.c., come modificato dall’art. 1, co. 15, l. 15.7.2009, n. 94 (contenente Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), limitatamente alle parole «nonché un documento attestante la regolarità del soggiorno nel territorio italiano»1. La questione è stata sollevata dal Tribunale di Catania con riferimento agli articoli 2, 3, 29, 31 e 117, co. 1, Cost., in una causa originata dal diniego opposto dall’ufficiale dello stato civile alla celebrazione del matrimonio tra una cittadina italiana e un cittadino marocchino (i quali avevano chiesto al detto ufficiale dello stato civile di procedere alla pubblicazione della celebrazione del matrimonio, producendo la documentazione prevista dalla allora vigente formulazione dell’art. 116 c.c.), in considerazione della mancanza di un «documento attestante la regolarità del permesso di soggiorno del cittadino marocchino» (così come previsto dall’attuale art. 116 c.c., novellato dalla l. n. 94/2009, entrata nel frattempo in vigore nell’ambito degli interventi legislativi sull’immigrazione come ius superveniens). Il Giudice rimettente ha ritenuto la norma codicistica, nell’attuale versione, contrastante: con l’art. 2 Cost., che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità; con l’art. 3 Cost., per violazione del principio di eguaglianza e di ragionevolezza; con l’art. 29 Cost., per violazione del diritto fondamentale a contrarre liberamente matrimonio e di eguaglianza morale e giuridica dei coniugi sui quali è ordinato il sistema del matrimonio nel vigente ordinamento giuridico; con l’art. 31 Cost., perché interpone un serio ostacolo alla realizzazione del diritto fondamentale a contrarre matrimonio; con l’art. 117, co. 1, Cost., in relazione all’art. 12 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). Si precisa, da parte del Giudice a quo, che il matrimonio costituisce espressione della libertà e dell’autonomia della persona, ed il diritto di contrarre liberamente matrimonio è oggetto della tutela di cui agli artt. 2, 3 e 29 Cost., in quanto rientra nei diritti inviolabili dell’uomo, caratterizzati dall’universalità. Inoltre, l’art. 31 Cost., nel sancire che la Repubblica agevola la formazione della famiglia, «esclude la legittimità di limitazioni di qualsiasi tipo alla libertà matrimoniale »2. La libertà di contrarre matrimonio – sempre secondo il Tribunale di Catania - troverebbe fondamento anche in altre fonti. A questo riguardo richiama l’art. 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, il già citato art. 12 della CEDU e l’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7.12.2000 e successivamente recepita dal Trattato di Lisbona, modificativo del Trattato sull’Unione europea e del Trattato che istituisce la Comunità europea, entrato in vigore il 1º dicembre 2009. Da parte sua, la difesa del Ministero dell’interno ribatte che la libertà di contrarre matrimonio e di scegliere il coniuge attiene alla sfera individuale del singolo, sulla quale lo Stato, in linea di massima, non potrebbe/dovrebbe interferire, salvo che non vi siano interessi prevalenti incompatibili, quali potrebbero essere la salute pubblica, la sicurezza e l’ordine pubblico. In tal senso, il legislatore, nella propria discrezionalità, aveva la facoltà di considerare «lo status di ‘clandestino’» come «una situazione giuridica soggettiva valutabile negativamente in punto di ordine pubblico e sicurezza» e, pertanto, sufficiente a giustificare la limitazione del diritto a contrarre matrimonio. In un giudizio di bilanciamento di interessi – secondo la difesa pubblica – le prerogative dello Stato volte a tutelare la sovranità dei confini territoriali ed a controllare i flussi migratori, anche per evitare matrimoni di comodo, siano prevalenti e legittimino la scelta legislativa di limitare il diritto a contrarre matrimonio delle persone che non risultino in regola con le norme che disciplinano l’ingresso ed il soggiorno nel territorio nazionale, richiamandosi la precedente giurisprudenza costituzionale3. Gli argomenti svolti dal Giudice a quo hanno fatto breccia nella Corte che, s’è detto in apertura, ha ritenuto fondata la censura con una motivazione che si snoda nei seguenti punti, dopo aver premesso che la norma impugnata va collocata nel sistema, alla luce delle modifiche introdotte dal legislatore in merito ai requisiti necessari per l’acquisto della cittadinanza a seguito di matrimonio dello straniero con il cittadino italiano, disciplinati con l. 5.2.1992, n. 91 e successiva l. 94/2009 che, al fine di ridurre il fenomeno dei cosiddetti «matrimoni di comodo», ha sostituito l’art. 5 l. n. 91/1992, prevedendo: al co. 1, che «il coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano può acquistare la cittadinanza italiana quando, dopo il matrimonio, risieda legalmente da almeno due anni nel territorio della Repubblica, oppure dopo tre anni dalla data del matrimonio se residente all’estero, qualora», al momento dell’adozione del decreto di acquisto della cittadinanza, «non sia intervenuto lo scioglimento, l’annullamento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio e non sussista la separazione personale dei coniugi»; al successivo co. 2, che i termini sono, peraltro, «ridotti della metà in presenza di figli nati o adottati dai coniugi ». La Corte si riporta innanzitutto alla sua giurisprudenza che aveva riconosciuto la legittimità delle norme, non palesemente irragionevoli e non contrastanti con obblighi internazionali, che regolino l’ingresso e la permanenza di stranieri extracomunitari in Italia4. Tali norme – afferma, tuttavia, la Corte – devono costituire pur sempre il risultato di un ragionevole e proporzionato bilanciamento tra i diversi interessi, di rango costituzionale, implicati dalle scelte legislative in materia di disciplina dell’immigrazione, specialmente quando esse siano suscettibili di incidere sul godimento di diritti fondamentali, tra i quali certamente rientra quello «di contrarre matrimonio, discendente dagli articoli 2 e 29 della Costituzione, ed espressamente enunciato nell’articolo 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e nell’articolo 12 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali»5. Benché la ratio della disposizione censurata – proprio alla luce della normativa intesa a contrastare la prassi dei cosiddetti «matrimoni di comodo» – possa essere rinvenuta nella necessità di «garantire il presidio e la tutela delle frontiere ed il controllo dei flussi migratori», la Corte ritiene non proporzionato a tale obiettivo il sacrificio imposto alla libertà di contrarre matrimonio non solo degli stranieri ma, in definitiva, anche dei cittadini italiani che intendano coniugarsi con i primi, con la conseguenza che il bilanciamento tra i vari interessi di rilievo costituzionale coinvolti deve necessariamente tenere anche conto della posizione giuridica di chi intende contrarre matrimonio con lo straniero6. Vi è poi la violazione dell’art. 117, co. 1, Cost., richiamandosi in proposito un recente intervento della Corte europea dei diritti dell’uomo sulla normativa del Regno Unito in tema di capacità matrimoniale degli stranieri7, in cui la Corte europea ha affermato che il margine di apprezzamento riservato agli Stati non può estendersi fino al punto di introdurre una limitazione generale, automatica e indiscriminata, ad un diritto fondamentale garantito dalla Convenzione8. Secondo i giudici di Strasburgo, pertanto, la previsione di un divieto generale, senza che sia prevista alcuna indagine riguardo alla genuinità del matrimonio, è lesiva del diritto di cui all’art. 12 della Convenzione. A tale tendenza si uniforma anche la Corte costituzionale, dichiarando l’illegittimità costituzionale della disposizione in esame.
1 C. cost. 25.7.2011, n. 245 (Pres. ed est. Quaranta), in Gazzetta Ufficiale n. 8, prima serie speciale, 27.7.2011.
2 Il Giudice rimettente ricorda che l’assunzione del vincolo matrimoniale non può che essere (e rimanere) frutto di una libera scelta autoresponsabile, attenendo ai diritti intrinseci ed essenziali della persona umana ed alle sue fondamentali istanze, sottraendosi pertanto a ogni forma di condizionamento indiretto, ancorché eventualmente imposto dall’ordinamento (come si desumerebbe da molteplici precedenti nella giurisprudenza costituzionale: C. cost. n. 445/2002, n. 187/2000, n. 189/1991, n. 123/1990, n. 73/1987, n. 179/1976, n. 27/1969).
3 In particolare, la sentenza della Consulta n. 250/2010 che, nel riconoscere al legislatore la discrezionalità di definire quali condotte costituiscano o meno fatti aventi rilevanza penale, sembra aver «affermato la sussistenza di una discrezionalità del legislatore nel qualificare la situazione di ‘clandestinità’ come rilevante in punto di tutela dell’ordine pubblico».
4 Cfr. le sentenze n. 61/2011, n. 187/2010 e n. 306/2008.
5 È la sentenza della C. cost. n. 445/2002.
6 La Corte richiama poi il d.lgs. 25.7.1998, n. 286 (recante il testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) già disciplina alcuni istituti volti a contrastare i cosiddetti «matrimoni di comodo». In particolare, l’art. 30, co. 1 bis, del d.lgs. n. 286/1998 prevede: con riguardo agli stranieri regolarmente soggiornanti ad altro titolo da almeno un anno che abbiano contratto matrimonio nel territorio dello Stato con cittadini italiani o di uno Stato membro dell’Unione europea, ovvero con cittadini stranieri regolarmente soggiornanti, che il permesso di soggiorno «è immediatamente revocato qualora sia accertato che al matrimonio non è seguita l’effettiva convivenza salvo che dal matrimonio sia nata prole»; con riguardo allo straniero che ha fatto ingresso in Italia con visto di ingresso per ricongiungimento familiare, ovvero con visto di ingresso al seguito del proprio familiare nei casi previsti dall’articolo 29, del medesimo d.lgs., o con visto di ingresso per ricongiungimento al figlio minore, che la richiesta di rilascio ovvero di rinnovo del permesso di soggiorno «è rigettata e il permesso di soggiorno è revocato se è accertato che il matrimonio o l’adozione hanno avuto luogo allo scopo esclusivo di permettere all’interessato di soggiornare nel territorio dello Stato».
7 Sentenza 14.12.2010, O’Donoghue and Others v. The United Kingdom.
8 § 89 della richiamata sentenza.