DE RISO, Matteo
Nacque probabilmente a Messina nella prima metà del sec. XIII.
Apparteneva ad una famiglia ricca e potente della quale non conosciamo le origini e la provenienza, ma che non sembra facesse parte delle casate di Messina più illustri per antica nobiltà. Si trattava comunque di un gruppo parentale assai vasto, bene inserito nel novero dei maggiorenti locali che, raggiunti per censo o per nobiltà i vertici del potere, tendevano "a diventare oligarchia, a serrarsi in corpo, a monopolizzare a proprio vantaggio interessi commerciali e cittadini" (Pieri, La storia di Messina, p. 103). 1 De Riso anzi, i cui antenati erano stati verosimilmente armatori e mercanti, che con i traffici e con gli scambi avevano costruito e consolidato le proprie fortune e che in epoca angioina si erano ormai trasformati in proprietari terrieri e aristocratici cittadini, erano a capo di una vasta consorteria che deteneva nella città dello Stretto un dominio esteso e incontrastato. Essi erano inoltre particolarmente favoriti da Carlo d'Angiò al quale avevano assicurato già durante la crisi del 1267-69 totale e indiscussa fedeltà.
Nulla conosciamo dell'infanzia e della giovinezza del D.: ci è noto però che nella tarda estate del 1268, allorché una flotta di galee messinesi e provenzali aveva cercato senza esito di fermare nelle acque di Milazzo il contingente pisano che tentava di riconquistare alla causa di Corradino le ultime piazze rimaste in Sicilia fedeli a Carlo d'Angiò, il D. poté dare prova di coraggio e non comune perizia marinara. Dice infatti Saba Malaspina che in quella occasione i Messinesi armarono rapidamente nove galee, delle quali "fecerunt praeposituni quemdam Matthaeum de Riso, civem Messanae, nautani audacem et securum in mari inter omnes alios de civitate praedicta" (c. IV, p. 270). A nulla valsero però l'audacia e il valore del comandante: nello scontro con l'armata pisana le navi peloritane vennero catturate e i Messinesi si diedero pavidamente alla fuga (ibid.).
Malgrado la pesante disfatta, il D. dovette comunque dimostrare energica personalità che, anche in virtù del rango familiare e del favore acquistato in quella circostanza agli occhi del sovrano, contribuì ad avviarlo verso una brillante carriera politica. Già nell'anno successivo risulta essere uno dei protontini di Messina, vale a dire uno dei magistrati competenti nel dirimere le questioni connesse con problemi di diritto marittimo e navale.
Sembra, anzi, che ricoprendo tale carica egli abbia dato il via a pesanti rappresaglie contro quanti considerava nemici del sovrano, in particolare contro pisani e toscani in genere, nei cui confronti erano stati emanati pesanti provvedimenti. Non sono rari però gli interventi di Carlo d'Angiò in favore di personaggi che, benché provenissero dalla suddetta regione, gli avevano dimostrato sicura fedeltà. Il 4 sett. 1269 il re scriveva per esempio allo stratigoto di Messina perché disponesse restituzione a Giunta Salimbeni, mercante di San Gimignano, dei beni di cui era stato spogliato dai protontini della città, il D. appunto, e il figlio del defunto Bongiovanni de Falcone. Il Salimbeni lamentava che, giunto a Messina da Agrigento, da dove era partito a causa dei tumulti antiangioini, gli erano state sottratte, proprio "quod esset pisanus", 20 onze d'oro, 40 libbre di zafferano e altre merci (Registri Cancelleria angioina, V, doc. 136, p. 132). Il 17 settembre dello stesso anno il sovrano era costretto a prendere analogo provvedimento in favore di Manno Uguccione, mercante senese devoto alla causa angioina, che, approdato a Trapani su una imbarcazione catalana, era stato arrestato e privato dei suoi beni dal D. in esecuzione di un regio decreto contro navi pisane o di altra parte avversa (ibid., doc. 6, p. 102).La carriera del D. era comunque solo agli inizi: le notizie superstiti sono tali da avvalorare l'impressione che il suo peso e il suo prestigio nella gestione politica e amministrativa del Regno andassero aumentando proporzionalmente con il consolidarsi del potere del sovrano. Di lì a qualche mese era diventato infatti anche protontino di Sicilia e di Calabria, incarico che avrebbe conservato per diversi anni e che lo avrebbe visto impegnato in molteplici operazioni. Fu tra l'altro chiamato a risolvere non pochi dei problemi logistici che pressavano re Carlo, impegnato nel luglio 1270 -nel contesto della crociata che il fratello Luigi IX di Francia aveva bandito per riconquistare i luoghi santi - in un lungo assedio di Tunisi, il cui sovrano, tributario del re di Sicilia fin da epoca normanna, si rifiutava da qualche tempo di versare quanto doveva. Sarebbe stato proprio il D., anzi, a recarsi qualche mese dopo a Tunisi quale ambasciatore dell'Angioino per riscuotere le somme dovute dal principe Mostanser Billah, al quale il re di Sicilia era riuscito a imporre non solo il pagamento di quanto gli spettava per i cinque anni trascorsi, ma il doppio del tributo per quelli successivi (Amari, La guerra, p. 127). E sarà ancora lui, insieme con Giacomo de Taxi, priore dell'ospedale di S. Giovanni di Gerusalemme di Messina, e con il miles Giovanni da Lentini, a consegnare al sovrano il 3 sett. 1272, il 18 apr. 1273 e il 5 maggio successivo, le rate che il principe musulmano versava ormai in conformità agli accordi raggiunti (Registri Cancelleria angioina, X, doc. 1, p. 213; doc. 1793 p. 50; doc. 709, p. 190).
L'influenza del D. nella città dello Stretto, il credito e la popolarità di cui godeva certamente fra i suoi concittadini trovavano valido fondamento anche nella fitta rete di interessi che era riuscito a tessere nel contesto urbano e in cui si mescolavano e si fondevano funzioni pubbliche, affari privati, mire di ascesa sociale. Le testimonianze che lo riguardano, senz'altro frammentarie e tali da non permettere una puntuale ricostruzione della sua vita e delle sue attività, ne attestano infatti la presenza in momenti significativi della realtà messinese di quegli anni. Nel 1272 riceveva l'incarico, insieme con Ruggero Sclavo, di provvedere alla riparazione dell'arsenale di Messina in modo da consentirne l'affibilità a dieci galee e di prendere le misure necessarie per la costruzione di tre nuovi edifici in quello di Siracusa (ibid., doc. 45, p. 223). Si trattava di un provvedimento che va annoverato in quel vasto progetto di ristrutturazione degli arsenali del Regno cui dava il via Carlo d'Angiò, preoccupato che le navi della flotta, rimanendo allo scoperto, potessero essere danneggiate con gravi perdite per l'Erario regio. Contemporaneamente risulta impegnato a dirimere una delicata vicenda fra l'abate del monastero di S. Maria di Valle Josaphat, sempre di Messina, e il nobilis Filippo de Tucciaco, ammiraglio del Regno, in merito a certi beni terrieri di proprietà dell'ente monastico che l'ufficiale regio, entrato in carica, aveva requisito, asserendo essere di sua pertinenza ratione amiratie, cioè in virtù dell'ammiragliato (ibid., VIII, doc. 34, p. 34).
Sembra comunque che già da qualche anno il D. fosse riuscito a mettere a segno un colpo di prim'ordine in quel sottile gioco delle parti in cui finivano per coincidere interessi della monarchia e aspirazioni dei ceti abbienti cittadini. A partire dal 1270 infatti egli viene indicato come miles, cioè come facente parte a pieno titolo della classe feudale del Regno. E se raccontando gli avvenimenti del 1268 Saba Malaspina lo aveva genericamente designato quemdam, l'essere entrato nelle file dell'aristocrazia va ascritto senza dubbio a capacità personali, alle quali vanno sommati il prestigio e la solidità finanziaria della famiglia e, non ultima, la tendenza del potere centrale a favorire quegli elementi che riuscivano a ottenere consensi e a diventare punta di diamante nell'attuazione di precisi disegni politici. Ed è fuor di dubbio che tutto ciò coincideva col dichiarato impegno espansionistico di Carlo d'Angiò, ben disposto, pur di raggiungere i suoi scopi, a soddisfare le ambizioni nobiliari dei ceti economicamente più forti.
Dal 1270 iniziò per il D. un processo di consolidamento della sua autorità: gia protontino di Calabria e di Sicilia, egli fu nominato nel 1273 custode del tesoro regio nel castello di Trani e, poco dopo, insieme col giudice Giovanni Carbono di Pescara, "magister portulanus et procurator per totam Siciliam" (ibid., X, doc. 109, p. 30; doc. 267, p. 54).
Al progressivo inserimento fra le più alte cariche del Regno faceva da contrappunto la ferma ostinazione con cui il D. si introduceva nel giro dei potentati economici e finanziari, intorno ai quali ruotavano interessi e capitali e un composito ambiente di imprenditori e professionisti. Nel 1275 lo ritroviamo fra coloro che mutuavano somme considerevoli al tesoriere del Regno: in particolare egli diventava creditore della Corona per 100 onze d'oro (ibid., XIII, doc. 444, p. 152). Qualche mese dopo locava alla Curia regia una grossa nave di sua proprietà con la quale i maestri portulani e procuratori di Sicilia inviavano da Trapani a Bugia 1.630 salme di frumento. Anche in questo caso erano implicati nella medesima operazione esponenti politici assai in vista e di sicura consistenza economica (ibid., XIV, doc. 148, p. 88). Alla luce di quanto già detto non desta sorpresa la disinvolta manovra finanziaria con la quale riusciva ad aggiudicarsi per l'anno della VI indizione (settembre 1277-agosto 1278) la gabella della Secrezia e quella dei diritti e proventi del sale per la Sicilia, sottratte nella gara d'appalto al giudice Pellegrino Maraldo, suo concittadino, a Giovanni Gastaldo e a Giovanni Pironto di Ravello, che avevano costituito una società. Risultava vincente infatti l'offerta del D. di 18.857 onze, 4 tari e 13 grana, 2.304 salme e 3 tumuli di frumento; 890 salme e 2 tumuli di orzo; 508 salme di vino: vale a dire 200 onze in più della somma proposta dal giudice Pellegrino e, per la gabella del sale, 400 onze oltre a quelle che avrebbero pagato Bartolomeo Aconzaioco e Lorenzo Rufolo, maestri portulani e procuratori dell'isola (ibid., XIX, doc. 98, p. 122; doc. 101, pp. 124 s.). E non è tutto: risalgono al 1278-79 talune notizie che testimoniano la sua attività, insieme con Rainaldo de Bonito e Nicolao de Ebdemonia, quale maestro zecchiere della Zecca di Messina (ibid., XX, doc. 664, p. 249; XXI, doc. 186, p. 279; doc. 279, p. 291).
Purtroppo i dati superstiti sulla consistenza del patrimonio del D. e della sua famiglia sono generici e lacunosi e provengono per di più dagli ordini di confisca contro traditori e ribelli emanati da Pietro d'Aragona dopo il suo arrivo nell'isola. Sappiamo per certo che aveva moglie e figli e almeno tre fratelli, di cui due, Riccardo e Baldo, implicati come lui nella tragica vicenda del Vespro. Alla moglie veniva restituita nel 1283 la dote e la parte che le spettava degli averi del marito (De rebus, doc. DCLXXXV, p. 615), i beni mobili e immobili appartenenti ai figli venivano invece confiscati e devoluti alla Curia (ibid., doc. LXXXIX, p. 83). Doveva trattarsi comunque di un patrimonio di ingenti proporzioni, accumulato anche attraverso operazioni talvolta poco chiare. Come quella, per esempio, condotta a termine insieme con il fratello Nicoloso, con il quale il D. aveva sottratto consistenti beni feudali sia al Demanio sia a privati; beni che Carlo d'Angiò nel 1279 ordinava allo stratigoto di Messina di revocare alla Curia (Registri Cancelleria angioina, XXI, doc. 53, p. 259).
La fedeltà e la devozione alla causa angioina si sarebbero rivelate letali tanto al D. che ad altri membri della sua famiglia. Nell'aprile 1282 infatti, quando la rivolta, scoppiata a Palermo il 31 marzo, si era già estesa in buona parte del territorio isolano e rischiava di esplodere repentinamente anche a Messina, il D., che si trovava alla corte di Carlo, faceva rapidamente ritorno in città, dove metteva in atto tutto il suo prestigio e la sua forza di persuasione nel tentativo di indurre i concittadini a tenere salda la fede verso la monarchia. Nel caotico susseguirsi degli avvenimenti che videro i Francesi darsi alla fuga davanti alla incontenibile sollevazione popolare, il D. e quanti come lui non vollero aderire al programma dei rivoltosi pagarono con la vita l'estremo lealismo alla Corona. Alla fine di giugno, allorché si sparse nella città la notizia della sconfitta dei Messinesi ad opera di Carlo che cercava di ripristinare l'ordine destabilizzato, esplose la rabbia popolare contro i De Riso, considerati i rappresentanti stessi del sovrano (Bartolomeo da Neocastro, Historia, p. 24). Mentre gli altri della famiglia si salvavano con la fuga, il D. e il fratello Baldo, già prigionieri nel castello di Matagrifone, vennero passati per le armi e i loro corpi, nudi, trascinati per la città.
Fonti e Bibl.: Bartolomeo da Neocastro, Historia Sicula (1250-1293), in Rer. Ital. Script., 2 ed., XIII, 3, a cura di G. Paladino, pp. 19 ss., 24; Cod. diplomatico dei re aragonesi di Sicilia, a cura di G. La Mantia, in Docc. per serv. alla storia di Sicilia, s. 1, XXIII, Palermo 1917, doc. CXIV, pp. 221 s.; De rebus Regni Siciliae (9 sett. 1282-26 ag. 1283). Documenti inediti estratti dall'Archivio della Corona d'Aragona, a cura di G. Silvestri, ibid., s. 1, V, Palermo 1882-1892, ad Indicem; Appendice, ad Indicem; Registri della Cancelleria angioina, a cura di R. Filangieri, Napoli 1950-1974, ad Indices;Sabae Malaspinae Rerum Sicularum historia (1250-1285), in G. Del Re, Cronisti e scrittori sincroni napoletani, II, Napoli 1868, p. 270; C. Minieri Riccio, Elenco degli uffiziali governativi del Reame di Sicilia e delle diverse città rette da Carlo I d'Angiò, Napoli 1875, pp. 22, 31; Id., Il regno di Carlo I d'Angiò negli anni 1271 e 1272, Napoli 1875, pp. 71, 113; Id., Nuovi studi riguardanti la dominazione angioina nel Regno di Sicilia, Napoli 1876, pp. 4, 22, 33; G. Romano, Messina nel Vespro siciliano, in Atti della R. Accademia Peloritana, XIV (1899-1900), pp. 225 s.; P. Pieri, La storia di Messina nello sviluppo della sua vita comunale, Messina 1939, pp. 103, 108; E. Pontieri, Ricerche sulla crisi della monarchia siciliana nel secolo XIII, Napoli 1950, pp. 189, 195, 198, 259 ss.; M. Amari, La guerra del Vespro siciliano, a cura di F. Giunta, Palermo 1969, I, pp. 86, 127, 191 ss., 207; J. Zurita, Anales de Aragón, a cura di A. Canellas Lopez, Zaragoza 1977, II, p. 67; C. Martino, La Valle di Milazzo fra età agioina e aragonese, in Medioevo. Saggi e rassegne, IV (1978), p. 41; I. Peri, Uomini città e campagne in Sicilia dall'XI al XIII secolo, Bari 1978, pp. 269 s.; E. Pispisa, Messina nel Trecento. Politica, economia, società, Messina 1980, pp. 24-27, 69; E. Sicardi, Introduzione, in Due cronache del Vespro in volgare siciliano del secolo XIII, in Rer. Ital. Script., 2 ed., XXXIV [1935], pp. XXII, CXLIX; S. Tramontana, La Sicilia dall'insediamento normanno al Vespro (1061-1282), in Storia della Sicilia, III, Napoli 1980, p. 288.