Vescovo di Licopoli nel Basso Egitto (m. 326 circa), autore dello scisma detto meleziano, sorto dal suo atteggiamento durante la persecuzione di Diocleziano tra il 305 e il 306: mentre molti vescovi erano in prigione, e Pietro, vescovo di Alessandria, era nascosto, M. si arrogò il diritto di ordinare preti e vescovi nelle comunità private dei loro pastori. Quando poi (306) Pietro riammise i lapsi nella Chiesa, M. si oppose pubblicamente al vescovo di Alessandria; deposto, organizzò la "chiesa dei martiri" secondo la concezione rigoristica della Chiesa che fa riavvicinare il suo scisma al donatismo, al quale pure è unito dal fatto di essere stato un movimento che reclutava i suoi adepti specie nell'elemento indigeno di lingua copta. Inaspritasi la persecuzione, M. fu condannato ai lavori forzati in Palestina (308-309); tornato nel 311, benché scomunicato da Pietro di Alessandria, continuò a fare ordinazioni considerandosi capo della "chiesa dei martiri", indipendente dalla giurisdizione del patriarcato alessandrino. Lo scisma continuò, e vani riuscirono i tentativi di pacificazione compiuti da Osio, vescovo di Cordova, in nome di Costantino, e nel Concilio di Nicea (325), che sostanzialmente riconobbe valide le ordinazioni fatte da M.; questo, prima di morire, consacrò vescovo di Menfi Giovanni Arcaf, riaccendendo così la lotta nella stessa Alessandria, ove al vescovo Alessandro succedeva Atanasio. Contro questo comune e formidabile avversario, meleziani e ariani si unirono. Confusi con gli ariani, i meleziani non lasciarono più grandi tracce nella storia. Ma lo scisma, che rivela il contrasto in Egitto tra l'elemento indigeno e quello totalmente grecizzato, serve a far comprendere meglio le vicende posteriori del cristianesimo egiziano.