Memoria
In termini molto generali, la memoria può essere intesa come la capacità di un sistema qualsiasi (un robot, un organismo, un individuo, un gruppo, un'istituzione, un'intera società) di ricevere, conservare e recuperare informazioni. L'ampiezza di questa definizione ci fa subito capire come molte discipline abbiano fatto della memoria un oggetto delle loro ricerche. I filosofi, da Platone a sant'Agostino, da Leibniz a Spinoza, fino a Bergson e molti altri, hanno speculato sulla memoria per oltre duemila anni. L'interesse scientifico per questo argomento ha tuttavia poco più di un secolo e l'origine può essere fatta risalire all'opera pionieristica di uno psicologo tedesco che scriveva verso la fine del XIX secolo, H. Ebbinghaus (v., 1885). Anche se nelle pagine che seguono ci soffermeremo in particolare sul modo in cui le scienze sociali (soprattutto la sociologia, l'antropologia e la storia) hanno affrontato lo studio della memoria, è utile richiamare brevemente i contributi che la biologia e la psicologia sperimentale hanno dato in questo campo, poiché, come risulterà chiaro in seguito, nello studio della memoria ricorrono alcune categorie concettuali che sono largamente comuni a discipline diverse.
Le discipline biologiche si occupano di memoria in due ambiti molti diversi: la genetica e la neurobiologia. Si può parlare di memoria genetica in almeno tre contesti: nell'ambito della teoria dell'evoluzione biologica (che studia il processo di differenziazione delle varie forme di vita dalle più semplici alle più complesse), nell'ambito della genetica delle popolazioni (che studia i processi di differenziazione, trasmissione e diffusione di determinati caratteri genetici in popolazioni diverse appartenenti alla stessa specie) e, infine, nell'ambito della genetica in senso stretto, che studia la trasmissione delle informazioni genetiche dai genitori alla prole. In ognuno di questi ambiti (specie, popolazioni, individui) si pongono problemi di formazione, selezione e trasmissione di insiemi (stocks) di informazioni racchiuse in codici genetici. Fin dal concepimento ogni individuo porta dentro di sé (nella sua memoria genetica) le informazioni necessarie a farlo diventare un membro della sua specie, un appartenente a una determinata popolazione e, infine, figlio o figlia di determinati genitori: quello che i biologi chiamano un genotipo. Dalla nascita in poi (e quasi certamente anche in ambiente prenatale), l'individuo incomincia a ricevere informazioni dall'ambiente in cui cresce, a elaborarle, conservarle e utilizzarle nel suo agire. Acquisisce, cioè, oltre alla memoria genetica di cui già dispone, una memoria prodotta dall'esperienza. Questa memoria, per così dire, acquisita, rientra nel campo di studio della neurobiologia e, più in generale, delle scienze che si occupano del cervello, dette appunto neuroscienze, un campo che ha visto negli ultimi decenni sviluppi assai consistenti. La ricerca sperimentale, condotta prevalentemente su animali da laboratorio, ha consentito di accertare che certi tipi di esperienza che conducono all'apprendimento di determinati tratti comportamentali (ad esempio evitare di beccare chicchi di grano dal sapore disgustoso da parte di pulcini appena nati) mettono in moto complessi processi biochimici ed elettrochimici nelle cellule nervose in modo tale che l'informazione ricevuta viene registrata, codificata e rievocata quando l'esperienza ripropone circostanze analoghe (v. Rose, 1992; v. Schmidt, 1991). Il sistema nervoso centrale (e in particolare il cervello per gli animali che ne sono dotati) non è quindi soltanto un luogo dove le informazioni vengono immagazzinate, ma un sistema complesso di interconnessioni in continua attività dove le informazioni vengono organizzate e rielaborate oltre che conservate.
I risultati degli studi sperimentali sulla memoria negli animali non possono certo essere automaticamente trasferiti nello studio della memoria umana: il cervello umano presenta non solo dimensioni maggiori, ma anche proprietà strutturali assai più complesse, le quali tuttavia restano ancora largamente oscure, se non altro per il fatto che la sperimentazione con esseri umani incontra degli ovvi ostacoli di natura etica. Inoltre la collaborazione tra neurobiologi che studiano il cervello e psicologi che studiano la mente presenta molte difficoltà di ordine epistemologico e metodologico. Ciò non toglie che la ricerca nelle aree di confine tra i due campi disciplinari possa generare in futuro risultati molto importanti.Anche in psicologia sperimentale, infatti, gli studi sulla memoria hanno visto uno straordinario sviluppo nei decenni più recenti, soprattutto in relazione alla diffusione dell'approccio cognitivista indirizzato in particolar modo ad analizzare i processi di apprendimento e di comprensione e a misurarne gli effetti. L'attenzione degli studiosi si è concentrata sui modi nei quali gli individui procedono all'immissione in memoria di informazioni (archiviazione) e al loro recupero (rievocazione). I risultati delle loro ricerche hanno condotto alla conclusione che si conserva in memoria ciò che è stato immagazzinato in modo ordinato; l'oblio, infatti, non dipende dall'affievolimento o dal deterioramento delle tracce mnestiche (come può avvenire, ad esempio, per effetto di processi chimico-fisici, all'inchiostro di stampa, a una pellicola fotografica, o agli impulsi magnetici di un dischetto da personal computer), ma dal cattivo funzionamento dei sistemi di codificazione che presiedono all'archiviazione e al recupero delle informazioni.
Gli studiosi sono abbastanza concordi nel distinguere una memoria a breve termine (MBT) e una memoria a lungo termine (MLT), detta anche memoria permanente. Nella memoria a breve termine le informazioni vengono immesse dal sistema della percezione, ma non vi si possono trattenere a lungo. Data la sua limitata capacità di ricezione ed elaborazione, la MBT trattiene, codifica e archivia una parte delle informazioni, che viene inviata nella MLT, mentre un'altra parte viene 'cancellata' per far posto a nuove informazioni. Sulla scorta, tra l'altro, delle ipotesi ricavate dalla grammatica generativa di Chomsky, la ricerca sperimentale ha infatti accertato che in memoria si conserva il prodotto di una codifica, la quale sottopone le informazioni a un trattamento in base a regole grammaticali e sintattiche. In altri termini, la nostra capacità di ricordare non è indipendente dalla nostra capacità di pensare e di comprendere facendo uso di strutture linguistiche.In seguito agli studi più recenti di Baddeley (v., 1986) il concetto di memoria a breve termine è stato sostituito con il concetto più complesso di memoria di lavoro. Questa funziona da centrale di regolazione e di controllo dei flussi di informazione in ingresso (input) e in uscita (output) dai magazzini della memoria. Per poter organizzare il materiale percettivo, infatti, la memoria di lavoro deve recuperare dalla memoria permanente i criteri in base ai quali procedere alle operazioni di selezione e di codifica, per poi rimandare alla memoria permanente le nuove informazioni così codificate in modo che possano essere facilmente recuperate quando occorre farne uso. Quello che è importante ritenere dagli studi psicologici sulla memoria è il fatto che in ogni stadio dei processi di memorizzazione entrano in gioco criteri selettivi i quali a loro volta dipendono sia da ciò che è stato memorizzato in precedenza (quindi dalle 'mappe cognitive' conservate nella memoria permanente), sia dal piano d'azione del soggetto, dalle aspettative e intenzioni che guidano la sua attenzione percettiva in una situazione specifica. Come hanno messo bene in luce le ricerche di Bartlett (v., 1932), la presenza di questi criteri selettivi fa in modo che i nostri ricordi non siano una replica delle nostre esperienze, ma una loro rielaborazione. La memoria risulta quindi, più che un deposito di tracce delle esperienze passate, una rete complessa di attività che ristrutturano costantemente il passato alla luce della situazione presente del soggetto e del suo piano d'azione indirizzato al futuro. Un risultato, questo, coerente con le conclusioni alle quali sono giunti i neurobiologi nello studio del cervello.
Gli psicologi studiano i meccanismi della memoria in relazione al funzionamento del sistema cervello-mente che gestisce i processi cognitivi. Gli studiosi dell'evoluzione biologica sostengono che il cervello umano non si è modificato sostanzialmente dall'avvento della specie Homo sapiens sapiens. La mente, invece, che funziona da interfaccia tra il cervello e il mondo della cultura simbolica ha probabilmente subito profonde modificazioni proprio in relazione ai cambiamenti intervenuti nella sfera della cultura. Questi cambiamenti hanno modificato radicalmente anche le forme della memoria culturale, intendendo con questo termine i modi di conservazione, selezione e trasmissione del sapere.Il primo grande spartiacque è senza dubbio rappresentato dal passaggio dalla cultura orale alla cultura scritta (v. Cardona, 1986; v. Leroi-Gourhan, 1964-1965; v. Ong, 1982). Prima dell'invenzione della scrittura la memoria non poteva che essere trasmessa oralmente. Ciò non vuol dire tuttavia che le culture orali non abbiano sviluppato sistemi di memoria anche assai elaborati. Basti pensare soltanto alla funzione delle genealogie, che consentono di stabilire i rapporti di discendenza sui quali si fonda il principio di legittimità nelle dinastie degli antichi imperi. Ma anche la ricerca antropologica è ricca di esempi che mettono in luce le funzioni sociali della memoria nelle società preletterate. Un caso particolarmente significativo di sistema di memorizzazione legato alle genealogie ci è fornito da Evans-Pritchard (v., 1940) nella sua famosa ricerca sui Nuer. I Nuer sono un popolo di pastori nel quale la ricchezza è costituita dal bestiame e dove quindi le obbligazioni che sorgono in occasione degli scambi matrimoniali (la dote dello sposo), oppure il risarcimento dovuto ai parenti per l'uccisione di una persona (guidrigildo), si misurano in capi di bestiame. I Nuer inoltre sono un popolo fortemente egualitario che non conosce forme di potere di tipo ereditario-dinastico. Per determinare e ricordare chi è obbligato con chi e per quanto tempo, essi hanno elaborato un sistema genealogico che comporta nello stesso tempo una forma istituzionalizzata sia di memoria sia di amnesia. I Nuer calcolano le generazioni sia dall'alto (partendo dagli antenati, i progenitori della tribù), sia dal basso. Partendo dall'alto calcolano di padre in figlio al massimo sei generazioni; queste rimangono fisse, nel senso che ogni individuo sa quali sono i suoi progenitori originari. Partendo dal basso calcolano però non più di cinque generazioni. In totale quindi le generazioni che vengono memorizzate non sono più di undici, soltanto che a ogni nuova generazione una generazione di antenati scompare (cade, per così dire, in un baratro istituzionalizzato di oblio), anche perché, dopo cinque generazioni, le obbligazioni contratte cadono, diremmo noi, in prescrizione. Questo sistema di memorizzazione evita che si consolidino nel tempo forme ereditarie di disuguaglianza (v. Douglas, 1986).
A parte i casi di società preletterate che hanno potuto essere studiate dagli etnologi e dagli antropologi in epoca moderna (e che ormai sono tutte praticamente scomparse o si sono trasformate per effetto del contatto con società letterate), quello che noi sappiamo delle società preletterate dell'antichità è dovuto al fatto che a un certo punto la tradizione orale, prima di interrompersi, è stata fissata in qualche testo scritto.Non solo i poemi omerici, ma neppure la Bibbia sarebbero arrivati fino a noi se inizialmente varie generazioni di mnemones (così erano chiamati nell'antica Grecia coloro che erano incaricati di tramandare il sapere) non avessero incamerato nelle cellule del loro cervello, cioè imparato a memoria, migliaia e migliaia di versi. Con la diffusione della scrittura (i primi testi giunti fino a noi risalgono alla fine del quarto millennio a.C., ma l'invenzione è senza dubbio molto precedente e si è diffusa solo lentamente), la conservazione e la trasmissione della memoria passa dallo mnemon allo scriba. La memoria cioè può avvalersi, come diremmo noi oggi, di un supporto materiale esterno al cervello umano e rimanere disponibile per le generazioni future finché si conserva il testo nel quale è depositata e, anche e soprattutto, la chiave interpretativa per poterlo decifrare.
I codici mesopotamici, dai quali possiamo ricavare indicazioni sulla organizzazione politico-giuridica di quegli imperi, le iscrizioni sui monumenti funerari che comunicano ai posteri la memoria delle opere del defunto, fino all'opera degli annalisti cinesi o romani che annotavano in ordine cronologico gli avvenimenti salienti della loro epoca, sono tutti esempi della grande svolta rappresentata dalla comparsa della scrittura.Il secondo grande spartiacque che ha modificato le forme della memoria sociale è senz'altro l'invenzione della stampa. Finché la cura della memoria era lasciata agli amanuensi e ai copisti che, soprattutto nei conventi, avevano trasferito i testi antichi dal papiro alla 'pergamena' (da Pergamo, dove era una delle biblioteche più antiche), la memoria culturale rimaneva comunque circoscritta a una cerchia ristrettissima di persone. La diffusione della stampa nell'Europa del Cinquecento fu estremamente rapida e, da allora, la memoria culturale è depositata negli archivi e nelle biblioteche a disposizione di tutti coloro che hanno voglia e capacità di utilizzarla. Le invenzioni della fotografia e della riproduzione sonora, che hanno permesso di fissare la memoria di immagini e suoni, sono fatti assai vicini ai nostri giorni, come pure l'invenzione del calcolatore elettronico che permette di conservare le informazioni, tanto linguistiche quanto iconiche e sonore, opportunamente codificate.
Tuttavia anche questa memoria è affidata a materiale fragile e facilmente deperibile (v. Gregory e Morelli, 1994). Soprattutto da quando verso la metà del secolo scorso si è incominciato a usare carta ricavata dalla pasta di legno per la stampa dei libri, si è affidata la memoria a un materiale assai più labile delle antiche tavolette di argilla, del papiro o della pergamena. Gli esperti calcolano che circa un quarto del patrimonio librario delle maggiori biblioteche del mondo è a rischio di estinzione, se non si troveranno sistemi efficaci per fermare il processo di acidificazione della carta o non si provvederà presto al trasferimento di intere biblioteche su microfilm o supporti magnetici, anch'essi, tuttavia, soggetti a rapido deterioramento. A parte il rapido deperimento fisico delle tracce magnetiche (che impone comunque una frequente e periodica copiatura), la rapida evoluzione tecnologica sia nel campo delle macchine (hardware) che in quello dei programmi di codifica e decodifica delle informazioni (software) pone il problema che in futuro potrebbe esserci preclusa la possibilità di accedere alle informazioni depositate nelle memorie elettroniche. Già questo succede oggi con testi memorizzati solo dieci anni fa con programmi e macchine ormai irrimediabilmente fuori uso. Archivisti e bibliotecari, soprattutto di fronte all'enorme massa di informazioni che vengono continuamente prodotte dalle più diverse fonti, dovranno decidere di volta in volta ciò che è destinato all'oblio e ciò che merita di essere conservato. Saranno loro i filtri della memoria culturale dell'umanità. Poiché non è pensabile l'istituzione di un 'Ministero mondiale della memoria' che, non si sa in base a quali criteri, stabilisca quello che merita di essere conservato per il futuro dell'umanità, oppure quello che può essere tranquillamente dimenticato, il destino della memoria culturale è affidato al caso, cioè a un numero grandissimo di decisioni prese da ogni archivista e bibliotecario in ogni angolo del mondo (v. Martinotti, 1994). Non dobbiamo allarmarci oltre misura per questi rischi di perdita della memoria: non tutto merita di essere ricordato, non possiamo sovraccaricare la memoria, soprattutto quella delle generazioni future, di informazioni inutili ed eccedenti. Per poter ricordare bisogna anche saper dimenticare (v. Wiehl, 1988).
Prima di affrontare la tematica della memoria sociale è necessario discutere alcune distinzioni concettuali per cercare di mettere ordine in un campo dove è facile la confusione. È noto come certe caratteristiche comportamentali della specie umana siano iscritte nel patrimonio genetico e si manifestino in quelli che la psicologia tardo-ottocentesca chiamava 'istinti'. Ora, vi sono molti altri tratti comportamentali che certo non sono trasmessi per via genetica, ma sono appresi culturalmente da pressoché tutti gli individui che nascono e crescono in una determinata cultura. Parliamo in questo caso di abitudini e tradizioni. In entrambi i casi si tratta di modelli di comportamento adottati nel passato che vengono trasmessi di generazione in generazione attraverso il processo di socializzazione. Nel corso di questo processo gli esseri umani apprendono a tappe accelerate gran parte di quello che la specie in generale, e la specifica società in particolare, hanno accumulato nel corso dell'evoluzione culturale, salvo quei tratti che sono stati scartati nei vari passaggi generazionali. Questa caratterizzazione tuttavia è ancora troppo generale. È infatti necessario introdurre qualche criterio per poter distinguere tra abitudini e tradizioni.
La gran parte del sapere trasmesso dal passato si presenta sotto forma di abitudine, vale a dire come un sapere che non richiede, per tradursi in azioni e comportamenti, processi di riflessione e di decisione. Le abitudini non sono istinti, in quanto sono costituite da informazioni apprese e non trasmesse geneticamente, ma hanno in comune con gli istinti il fatto che per venir attivate non richiedono il pensiero riflessivo. Evidentemente le abitudini sono di grande aiuto nella vita di tutti i giorni; se ogni nostro atto dovesse essere oggetto di riflessione e di scelta, ciò richiederebbe un tale dispendio di energie e di tempo da impedirci effettivamente di agire. Le abitudini liberano la nostra mente dai compiti di routine e permettono la concentrazione sugli atti che richiedono l'impiego di volontà e deliberazione. Si tratta, in altre parole, di modelli di comportamento che vengono attivati automaticamente, senza che noi abbiamo bisogno di richiamarli consapevolmente.
È evidente, tuttavia, che noi possiamo acquisire delle abitudini solo se possiamo dare largamente per scontata e affidabile la realtà che ci circonda, se possiamo assumere che nella maggior parte dei casi gli oggetti e le persone con le quali entriamo in rapporto non ci riserveranno delle sorprese, ma risponderanno alle aspettative che implicitamente nutriamo nei loro confronti. Le abitudini ci consentono di regolare il nostro comportamento senza essere consapevoli di seguire delle regole e senza sapere quali regole stiamo seguendo, e assumiamo tacitamente che anche gli altri facciano lo stesso. Senza quel particolare tipo di memoria incorporato nelle abitudini, la vita sociale sarebbe impossibile.Le abitudini vengono spesso confuse con le tradizioni. Lo stesso Max Weber, nel definire l'agire tradizionale nel primo capitolo di Economia e società, parla di un agire determinato "da un'abitudine alla quale ci si è assuefatti" ("durch eingelebte Gewohnheit"), anche se poi in un passo successivo della parte dedicata alla sociologia del diritto parla del passaggio tra costume (Sitte) e convenzione (Konvention) come di un processo di "formazione di tradizione" (Traditionsbildung) che presuppone l'assunzione consapevole di una norma dell'agire. Il passaggio, sempre secondo Weber, risulta comunque in ogni caso fluido (überall flüssig). Anche Edward Shils (v., 1981), che pure critica Weber per non aver adeguatamente distinto tra abitudine e tradizione, definisce poi la tradizione in termini molto generali come qualsiasi cosa che il passato lascia in eredità al presente, comprendendo quindi anche le abitudini.
Per uscire da questa confusione concettuale sembra opportuno riservare il termine 'tradizione' a quella parte della cultura che viene trasmessa di generazione in generazione in quanto ad essa viene consapevolmente attribuito un valore. Molti tratti culturali si estinguono nel tempo, per così dire, di morte naturale, senza che nessuno si preoccupi della loro scomparsa, perché risultano inadeguati come modelli per affrontare i problemi del presente. Se lasciano delle tracce, queste potranno essere conservate a futura memoria negli archivi, nei musei e nelle biblioteche (su questo torneremo in seguito). Le società, come gli individui, sono dotate della capacità di dimenticare e solo così possono affrontare con strumenti adeguati i nuovi problemi che continuamente si presentano.
Vi sono però altri tratti culturali la cui eventuale perdita viene valutata come una minaccia proprio perché a essi viene attribuito un valore; sono questi tratti che vengono a far parte della tradizione e rispetto ai quali vengono messe in atto pratiche consapevoli volte alla loro conservazione e trasmissione.
Questa distinzione, del resto, si riscontra anche nel linguaggio comune. A nessuno, ad esempio, verrebbe in mente di dire che nelle società moderne vi è una tradizione di insegnare ai bambini nelle scuole la lettura e la scrittura. Questa pratica è da noi così universalmente accettata e data per scontata che la riteniamo 'naturale' e infatti le abitudini vengono definite 'naturali' per indicare il fatto che non vengono messe in discussione, non sono cioè oggetto di deliberazione e di scelta. Diciamo, invece, non a caso, che vi è una tradizione dell'insegnamento delle lingue antiche (da noi il greco e il latino) proprio perché a questo insegnamento non viene attribuito un valore universale, ed esso, per essere mantenuto, richiede di essere deliberatamente difeso.
È pur vero che il confine tra abitudini e tradizioni resta fluido, sia perché vi sono pratiche difficilmente ascrivibili all'una o all'altra categoria (ad esempio, la celebrazione del Natale o della Pasqua hanno senza dubbio perso gran parte del loro significato tradizionale per trasformarsi in pratiche di routine), sia perché certe abitudini si possono trasformare in tradizioni e viceversa.
Tuttavia, la distinzione in termini analitici è importante per almeno due ragioni. Primo, perché permette di liberare il concetto di tradizione dalla contrapposizione tradizione-modernità. Se la tradizione è quella parte dell'eredità del passato che viene consapevolmente valorizzata nel presente, non solo non risulta in sé incompatibile con la modernità, ma può addirittura diventare un fattore che la favorisce (si veda, ad esempio, la rivitalizzazione in senso 'moderno' di tratti tradizionali della famiglia giapponese). Secondo, perché permette di riattualizzare una distinzione, già avanzata da Bergson, tra memoria volontaria, che richiede l'intervento di custodi, di interpreti e di mediatori, e memoria involontaria, la cui trasmissione avviene metaforicamente in modo 'naturale'.
Come abbiamo visto, in biologia si può parlare di memoria genetica sia individuale (iscritta nel patrimonio genetico trasmesso dai genitori ai figli), sia di una determinata popolazione, sia di un'intera specie (ad esempio, quella della specie Homo sapiens sapiens). Analogamente, oltre che della memoria individuale, i cui meccanismi sono stati studiati dalla psicologia sperimentale, si può parlare anche di una memoria di gruppo o, più in generale, di una memoria sociale, e ci si può chiedere quali siano i rapporti tra memoria individuale e memoria sociale.
Il primo studioso ad aver fornito un'analisi approfondita della memoria come fenomeno sociale è senza dubbio Maurice Halbwachs, un sociologo francese di scuola durkheimiana. Nel suo primo lavoro importante sull'argomento (Les cadres sociaux de la mémoire, del 1924) egli parte da una critica all'analisi filosofica che Bergson aveva condotto dei fenomeni della memoria. Per Bergson, accanto alla memoria che condividiamo coi nostri simili e con i membri dei gruppi ai quali apparteniamo, vi è una memoria squisitamente individuale, non riducibile e non riconducibile alla nostra esperienza sociale. Coerente con la propria impostazione durkheimiana, Halbwachs sostiene invece che anche i ricordi più individuali sono mediati dall'appartenenza di gruppo e possono essere rievocati solo attraverso le interazioni sociali con coloro che condividono gli stessi ricordi. Il passaggio dalla memoria individuale alla memoria collettiva avviene infatti attraverso la mediazione dei quadri sociali, cioè delle categorie a priori (il linguaggio, le rappresentazioni sociali dello spazio e del tempo, le classificazioni delle cose del mondo) che consentono sia la fissazione, sia la rievocazione dei ricordi. Nell'argomentare la sua tesi, Halbwachs si serve essenzialmente di un procedimento introspettivo che scava nei sottili meccanismi psichici della introiezione e della rievocazione per dimostrare che anche i processi psichici apparentemente più individuali sono socialmente prodotti. Almeno in questa sua prima formulazione, più che una sociologia della memoria, quella di Halbwachs appare quindi come una psicologia sociale del ricordo o, meglio, del ricordarsi.Nell'opera postuma, e incompiuta, sulla Mémoire collective del 1949 (Halbwachs morì a Buchenwald nel 1945) egli adotta un'impostazione più marcatamente sociologica. Accanto ai 'quadri sociali della memoria' appaiono in primo piano le forme oggettivate della memoria nelle quali si esprimono le identità di gruppo. In ogni società alla pluralità dei gruppi (classi, ceti, istituzioni, comunità di credenti, associazioni, famiglie, ecc.) corrispondono altrettante memorie collettive (versioni e ricostruzioni del passato proprio e dell'intera società) e si generano processi di gerarchizzazione dinamica dei quadri della memoria collettiva riconducibili ai conflitti, alle tensioni e ai compromessi all'interno di ogni singolo gruppo e tra i diversi gruppi. Halbwachs quindi indica come campo specifico di una sociologia della memoria lo studio delle pratiche sociali che conducono alla costruzione di queste memorie collettive, alla loro combinazione e influenza reciproca e al loro mutamento. Egli analizza una serie di ambiti dove queste pratiche danno luogo alla formazione di memorie collettive: la famiglia (il culto degli antenati, la ricostruzione dell'albero genealogico, la conservazione dell'albo delle fotografie di famiglia, la trasmissione di oggetti simbolici di generazione in generazione), il gruppo religioso (dove il corpo sacerdotale custodisce le sacre scritture, ne fornisce l'interpretazione ufficiale e gestisce l'apparato rituale che rinnova costantemente la memoria dei fedeli), il gruppo professionale (dove la memoria si conserva attraverso la trasmissione di un patrimonio di competenze e di simboli, come, ad esempio, il sistema della notazione musicale nel caso dei musicisti), la classe sociale (l'esempio è quello della classe operaia la cui memoria è subalterna e colonizzata in quanto riflette una condizione sociale di subordinazione).
Da questa sommaria ricostruzione di un pensiero in realtà assai articolato e complesso possiamo riassumere in tre punti il contributo di Halbwachs allo studio della memoria: 1) gli individui ricordano perché sono in grado di organizzare la memoria in base a criteri (i quadri sociali) che condividono con i loro simili; 2) la memoria non consente di rivivere il passato, ma di ricostruirlo in base alle esigenze del presente e alle aspettative/intenzioni del futuro; 3) la memoria è una componente essenziale dell'identità di gruppo. Quest'ultimo punto è evidentemente cruciale per un approccio sociologico allo studio della memoria.Che l'identità (quale che sia l'unità alla quale ci si riferisce) sia una costruzione temporale nella quale si combinano le dimensioni del passato, del presente e del futuro e che quindi la memoria, come pure le aspettative e il progetto, ne sia una componente essenziale, è un punto di partenza che non richiede in questa sede ulteriore approfondimento. Vi è un'immensa letteratura, anche assai eterogenea, che va dagli studi di psicopatologia clinica sull'amnesia (v., per tutti, Wilson, 1987; v. Parkin, 1987) agli studi filosofici sul concetto stesso di identità (v., per citare solo uno dei più recenti, la discussione contenuta in Parfit, 1984), che non lascia dubbi sull'esistenza di un nesso profondo tra memoria e identità, al punto che qualcuno tende perfino a confondere i due concetti. In realtà, però, l'identità di qualsiasi attore (individuo o gruppo) si estende in entrambe le dimensioni del passato e del futuro, ciò che varia è il rapporto tra memoria e aspettative/progetto. Vi sono gruppi nei quali l'appartenenza è determinata prevalentemente in base a criteri ascrittivi, ai quali si appartiene per nascita indipendentemente dalla volontà dei singoli membri, e che sviluppano la loro identità soprattutto nella dimensione della memoria, mentre vi sono altri gruppi, come ad esempio le associazioni finalizzate al conseguimento di uno scopo comune, che guardano più al progetto e al futuro che non al passato per definire la propria identità. Gruppi puramente ascrittivi, così come 'pure associazioni di scopo' (reine Zweckverbände, per riprendere l'espressione usata da Weber) rappresentano gli estremi di un continuo e quindi possono essere considerati dei 'tipi ideali'; i gruppi reali si collocano in genere in una posizione intermedia tra questi due estremi e mostrano un'interdipendenza più o meno stretta tra le dimensioni della memoria e del progetto.
Un esempio particolarmente illuminante del rapporto talvolta conflittuale tra memoria e progetto nella costruzione dell'identità collettiva è fornito dallo studio dei partiti politici nei sistemi democratici, fondati su libere elezioni. La strategia elettorale di un partito persegue un duplice fine: attirare consensi da elettori di altri partiti e da nuovi elettori, conservare il più possibile i consensi dei propri elettori tradizionali. Per fare questo le parole d'ordine nelle campagne elettorali devono contenere messaggi di due tipi: da un lato devono confermare la fiducia di chi è già stato convinto, dall'altro lato devono creare fiducia in chi non lo è ancora. Il primo tipo di messaggi deve fare appello alla tradizione e alla memoria collettiva del partito, il secondo deve porre l'accento sul progetto o sul programma per il futuro. In tempi 'normali' i due tipi di messaggi possono integrarsi ed equilibrarsi reciprocamente, mentre si pongono seri problemi quando il partito deve far fronte a una svolta strategica che mette in gioco la sua stessa identità (ad esempio, un cambiamento di alleanze). In questo caso la sua storia deve essere rivisitata, gli accenti e i silenzi spostati, così come devono essere modificati i programmi di indottrinamento per la formazione dei nuovi militanti. Questi processi non avvengono senza difficoltà, contrasti e resistenze interne che mettono a dura prova la fedeltà degli antichi militanti e sostenitori, alcuni dei quali non si riconosceranno più nella nuova entità che emerge dalla 'svolta' e abbandoneranno il partito. Le chances di sopravvivenza del partito dipenderanno dalla sua capacità di far fronte al problema della divaricazione tra memoria e progetto.
Un altro esempio particolarmente significativo per illustrare l'interdipendenza tra memoria e progetto è fornito dai processi di costruzione della memoria storica delle nazioni che si sono liberate nella seconda metà del XX secolo dal dominio coloniale. Si tratta spesso di nazioni la cui popolazione è di origine etnica assai eterogenea, la cui unità territoriale è il risultato della politica della potenza coloniale, il cui passato precoloniale si fonda quasi esclusivamente su una tradizione orale, le cui élites si sono formate prevalentemente nei luoghi della cultura occidentale e la cui indipendenza si è realizzata mediante una serie di confronti (talvolta anche militari) con la potenza coloniale. La mobilitazione delle forze disponibili nella lotta per l'indipendenza è in genere avvenuta attraverso l'elaborazione di una 'promessa', vale a dire di una rappresentazione del futuro possibile per la società postcoloniale.
Ottenuta l'indipendenza, le élites di questi paesi hanno senza dubbio dovuto far fronte a un problema di identità nazionale. Non solo hanno probabilmente adottato una bandiera e un inno nazionali (cioè dei simboli di unità), ma hanno anche provveduto a scrivere, o riscrivere, la storia nazionale, la quale, pressoché inevitabilmente, risulterà periodizzata in tre fasi: il passato precoloniale, l'epoca della dominazione straniera, la lotta per l'indipendenza. Le inevitabili tensioni e i conflitti del presente e il bisogno di legittimazione che le nuove élites avvertono presiedono a quest'opera di elaborazione dell'identità storica. È facile ipotizzare come il passato precoloniale venga ricostruito come l'età dell'oro e dell'armonia originaria, l'epoca coloniale come il periodo oscuro al quale far risalire le attuali divisioni e la fase della lotta per l'indipendenza come la fase della 'ri-nascita', culminata nel 'giorno dell'indipendenza' che verrà in seguito celebrato ritualmente come simbolo dell'unità. Questa versione della storia nazionale sarà quella che verrà insegnata nelle scuole alle nuove generazioni, affinché in esse si rinnovi e si rafforzi il senso dell'appartenenza comune.
Non si deve pensare tuttavia che l'uso della storia per la costruzione di memorie e identità collettive riguardi esclusivamente i 'paesi nuovi'. Anche negli Stati del Vecchio e del Nuovo Continente, da quelli di più antica (come la Gran Bretagna, la Francia, la Spagna) a quelli di più recente formazione (come gli Stati Uniti, la Germania e l'Italia), il rapporto tra storia, memoria e identità nazionali risulta quanto mai stretto.A questo proposito Eric J. Hobsbawm (v. Hobsbawm e Ranger, 1983, p. 1) propone di usare l'espressione "tradizioni inventate" per indicare quell'insieme di pratiche che tendono a inculcare valori e norme di comportamento attraverso la ripetizione di atti che implicano una continuità con un passato spesso del tutto immaginario, oppure radicalmente ricostruito e interpretato. Ciò si verifica soprattutto in quelle situazioni dove trasformazioni sociali rapide e improvvise indeboliscono la presa delle 'vecchie' tradizioni e impongono il ricorso a un passato 'mitico' per ricostruire il senso della continuità. In generale, ogni collettività umana, tanto più se organizzata in forma di Stato, ha bisogno di giustificare a sé e agli altri le ragioni della propria esistenza e della propria persistenza nel tempo, al di là del ricambio continuo dei membri che la compongono, soprattutto quando i processi di mutamento sociale sottopongono a tensione la stabilità del vincolo societario. Il ricorso alla storia e la trasformazione della storia in memoria collettiva rispondono a questo bisogno di legittimazione. Il rapporto tra storia e memoria è tuttavia assai problematico.
"Storia e memoria - scrive Le Goff (v. AA.VV., 1990, p. XVI) - si nutrono l'una dell'altra, ma non si confondono tra loro". Come abbiamo accennato nel capitolo precedente, la storia è ed è stata di fatto manipolata, e in molti casi letteralmente falsificata, dal potere politico per scopi ideologici di legittimazione. In particolare, i regimi totalitari che si sono succeduti nel XX secolo (fascismo, nazismo e stalinismo non si differenziano molto da questo punto di vista) hanno asservito brutalmente la storiografia per costruire qualche mitico passato, celebrare le proprie glorie e nascondere le proprie nefandezze. In questi casi la manipolazione della storia serve per manipolare la memoria. Nelle società pluralistiche e democratiche, dove i vari ambiti della vita sociale mantengono gradi variabili di reciproca autonomia, anche il lavoro dello storico gode di questa relativa autonomia ed è in grado di svincolarsi dalle richieste, implicite o esplicite, di legittimazione. "A fianco della storia manipolata dai vari poteri - scrive sempre Le Goff nel passo citato - bisogna continuare a costruire un sapere storico fondato sulla ricerca della verità". Significativo a questo proposito è il richiamo implicito ai principî deontologici e ai valori della comunità scientifica. Tra storia (intesa qui sempre come storiografia) e memoria è necessario che sia mantenuta una tensione, che non si generi identificazione. Il rigore critico del mestiere dello storico richiede intelligenza nella formulazione delle ipotesi, scrupolosità nella raccolta e nell'analisi delle fonti e nella valutazione della loro attendibilità, cautela nel suggerimento delle interpretazioni. La memoria, invece, risponde a esigenze e a criteri diversi. Come scrive Pierre Nora, "la memoria è la vita, sempre invariabilmente riferita a gruppi viventi e, a questo titolo, è in evoluzione permanente, aperta alla dialettica del ricordo e dell'amnesia, inconsapevole delle deformazioni che subisce, vulnerabile a tutte le utilizzazioni e manipolazioni, suscettibile di lunghe latenze e di improvvisi risvegli. La storia [invece] è la ricostruzione sempre problematica e incompleta di ciò che è stato" (v. Nora, 1984-1986, p. XIX).
Su un punto, tuttavia, storia e memoria inevitabilmente convergono, e spesso collidono: l'insegnamento della storia. Attraverso l'insegnamento della storia, infatti, assai più che attraverso altri tipi di insegnamento, non si trasmettono solo competenze e conoscenze, ma anche valori e atteggiamenti che hanno a che fare con la sfera civile e politica. Quale storia insegnare e come? La storia del genere umano e di tutte le grandi civiltà, oppure la storia della civiltà occidentale, dell'Europa, oppure soltanto la storia nazionale? Fino a quando risalire nell'antichità e nella preistoria, e fino a quando spingersi nella contemporaneità e nell'attualità? Restare ancorati alla tradizionale storia politico-militare, oppure allargare lo spettro alla storia economica, sociale, della cultura e delle mentalità? Quale 'memoria', in definitiva, affidare alle future generazioni e in funzione della formazione di quali 'identità collettive'? Non è certo questa la sede per discutere e tanto meno per tentare una risposta a questi interrogativi. Tuttavia, essi segnalano quanto sia problematico il rapporto tra storia e memoria e come solo criteri selettivi ancorati a qualche visione del presente e del futuro siano in grado di indirizzare la ricerca delle risposte.
Dalla rivoluzione industriale in poi, ma in realtà dall'inizio dei lunghi processi che questa rivoluzione hanno preparato nei secoli precedenti, le società moderne sono entrate in una fase in cui i mutamenti si succedono a ritmi sempre più accelerati. Più che quello di velocità, è il concetto di accelerazione ad essere in grado di descrivere adeguatamente i radicali cambiamenti che le nostre società hanno subito negli ultimi due secoli. Soltanto poche generazioni fa, la vita dei contadini nelle campagne non era poi così diversa da quella che avevano vissuto i loro predecessori anche mille anni prima. Ma anche nelle città, dove la dinamica sociale è stata da sempre più vivace che non nelle campagne, i cambiamenti erano difficilmente percepibili nell'arco di una singola vita. Il mondo che un individuo lasciava in eredità ai propri figli era quasi identico al mondo che aveva ricevuto in eredità dai genitori; nel corso di una vita umana (peraltro mediamente assai più breve della nostra), il mondo esterno restava pressoché immutato. La nostra esperienza è assai diversa. Noi vediamo il mondo cambiare incessantemente sotto i nostri occhi e solo la fantascienza ci aiuta a immaginare il mondo nel quale abiteranno i nostri figli e nipoti. Questa "grande trasformazione", come l'ha chiamata K. Polanyi, ha senz'altro modificato anche il nostro modo di percepire il tempo e le funzioni della memoria. Vivendo in un mondo che sappiamo provvisorio, in cui il futuro è incerto e il passato diventa rapidamente obsoleto, operiamo in una dimensione temporale essenzialmente centrata sul presente (v. Jedlowski, 1989). Nell'ansia del futuro, si pensi appunto al 'futurismo', il passato viene cancellato, quando non intenzionalmente negato. Eppure, proprio in questa situazione nasce, paradossalmente, un bisogno nuovo di memoria.
"Non si parla tanto di memoria che quando non ce n'è più [...] vi sono dei luoghi della memoria, perché non ci sono più ambienti della memoria", scrive P. Nora (v., 1984-1986, p. XVII) nell'introduzione a un'opera imponente sui luoghi della memoria della Francia repubblicana. Da Proust a Musil a Benjamin, la nostalgia del 'tempo perduto' è un tema ricorrente nella letteratura del Novecento. Ma anche in altri campi si afferma la tendenza alla conservazione delle tracce, dei manufatti, delle informazioni. Non vi è epoca che, come l'attuale, abbia sviluppato la stessa cura nella conservazione e nel restauro dei monumenti, così come nell'organizzazione di musei, archivi e biblioteche. Ogni epoca si è sovrapposta alle precedenti, spesso cancellandone le tracce; si pensi, per fare solo qualche esempio, all'uso che i latini hanno fatto dei templi greci o al 'rispetto' che gli architetti del barocco hanno mostrato nei confronti delle chiese gotiche, adattandole al loro nuovo modo di sentire lo spazio e la religiosità. Nell'epoca moderna si sviluppa invece una forma di 'culto' della memoria del tutto nuovo, che diventa un tratto caratteristico della modernità stessa e che assume forme diversissime e spesso anche contraddittorie: dalla ricostruzione 'filologica' di monumenti secondo il principio 'dov'era, com'era', al restauro delle opere d'arte, all'adozione imitativa di modelli e stili di epoche passate (ad esempio il neoclassico o il neogotico), dalla tutela dei 'centri storici' alla diffusione dell'antiquariato, dalla fondazione di musei per ogni tipo di vestigia all'interesse per la 'storia orale', fino alle forme più banali di collezionismo.
La ragione di questo culto del tutto moderno per la memoria non è difficile da spiegare. Si ricordi quanto abbiamo scritto sopra in merito alla distinzione tra abitudine e tradizione. In un'epoca, come l'attuale, di innovazioni continue in ogni ambito che modificano le pratiche stesse della vita quotidiana, il senso della continuità, indispensabile per mantenere stabile qualche elemento di identità nel flusso del mutamento, non può più fare affidamento sulla ripetizione spontanea e quasi automatica di modelli tramandati. La tradizione e la memoria diventano oggetto di azione consapevole e intenzionale, non tanto volta a ostacolare il mutamento quanto a evitare che il mutamento diventi, attraverso l'oblio del passato, un regresso a stadi più primitivi di civiltà. (V. anche Identità personale e collettiva; Istinto; Libro; Socializzazione; Tradizione).
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