Militari
Guerre, soldati, comandanti militari sono sempre esistiti. I soldati, sebbene riluttanti, spesso sono stati costretti a prendere le armi dalla loro posizione di inferiorità nella struttura sociale. I comandanti sono stati, altrettanto spesso, coloro che si trovavano in una posizione sociale elevata, coloro che avevano abbastanza denaro per comprarsi il cavallo e le armi e per mantenere uno o più scudieri, oppure, più raramente, coloro che avevano mostrato particolare coraggio. I famosi condottieri rinascimentali, quando non erano nobili e ricchi, si pagavano cavalli, armi e scudieri grazie alla loro incessante attività di mercenari al servizio dei principi. In un certo senso, alcuni fra quei condottieri furono i primi a fare dell'esercizio delle armi un vero e proprio mestiere. Furono i primi militari di professione. In effetti, però, se si vuole utilizzare la terminologia in maniera appropriata e precisa, quel mestiere militare non possedeva ancora tutte le caratteristiche necessarie per costituirsi in specifica professione militare, con carriera propria del tutto separata dalle attività civili. Infatti molti condottieri erano principi ovvero puntavano a diventare principi. Il passaggio da nobile a condottiero era altrettanto facile di quello da condottiero a nobile e, più raramente, a principe. Fu necessario attendere il prodursi di un importante insieme di condizioni affinché si potesse parlare propriamente di professione militare. Come molti altri fenomeni, la nascita della professione militare trova il suo fondamento nel processo di modernizzazione iniziato verso la fine del XVIII secolo, che produsse una separazione chiara e netta fra la sfera civile e la sfera militare.
Alcuni autori situano il luogo di nascita della moderna professione militare in Prussia e ne individuano la data nel 6 agosto 1808. Fu allora che un decreto del governo prussiano stabilì i criteri per la nomina degli ufficiali. Il titolo nobiliare veniva messo in secondo piano rispetto all'istruzione e alle competenze, al valore e all'acume. Affinché venissero impartite e trasmesse le conoscenze militari di base venne fondata nel 1810 a Berlino la prima vera e propria Kriegsakademie. La Prussia rispondeva così concretamente alle numerose umiliazioni subite sui campi di guerra da parte delle armate napoleoniche, guidate talvolta da uomini di coraggio e di acume, che avevano tratto dal loro zaino il bastone di maresciallo, secondo la famosa espressione attribuita a Napoleone Buonaparte. Paradossalmente la Francia creò le sue scuole militari soltanto dopo la Prussia e dopo la sconfitta di Napoleone, egli stesso, come si ricorderà, diventato generale a soli 24 anni per il valore dimostrato sul campo. Nel 1818 L. Gouvion-Saint-Cyr fondò l'accademia che porta tuttora il suo nome.
Favoriti dallo splendido isolamento insulare, gli Inglesi si rifiutarono a lungo di riconoscere la necessità di professionalizzare l'attività militare. D'altronde le truppe inglesi erano state sconfitte ed espulse dalle colonie americane da eserciti di non professionisti e da comandanti, a cominciare da George Washington, tutt'altro che professionalizzati. Ancora nel 1850, con terminologia che diventerà celebre, il duca di Cambridge si oppose al sistema prussiano, affermando che "l'ufficiale britannico dovrebbe essere prima un gentiluomo e in secondo luogo un ufficiale" (v. Huntington, 1957, p. 43). Quanto al caso italiano, anzi piemontese, la prima accademia militare per ufficiali venne fondata nel 1815, seguita nel 1850 dalla Scuola militare di fanteria di Ivrea e nel 1852 dalla Scuola di cavalleria di Pinerolo.
La fondazione di scuole militari alle quali avevano accesso anche allievi provenienti dalle classi inferiori non significò affatto, in nessun paese europeo, che la nobiltà non continuasse a godere di significativi privilegi sia nell'accesso che nelle promozioni. Però, da un lato, la nobiltà non fu più in grado di soddisfare da sola il bisogno di ufficiali preparati in tempi nei quali le guerre erano molto frequenti; dall'altro, la disponibilità di armi relativamente a buon mercato consentiva di allargare facilmente e proficuamente la cerchia di reclutamento. Ciononostante, in Inghilterra, in Italia e, in particolare, in Germania i nobili continuarono, almeno fino alla prima guerra mondiale, a costituire una parte rilevante del corpo ufficiali. Basterà una cifra: nel 1911 il 67% degli ufficiali tedeschi era di origine nobiliare. La cosiddetta democratizzazione dei corpi ufficiali, vale a dire non soltanto la loro apertura formale ai settori medio-bassi della società, ma la presenza sostanziale fra gli ufficiali di grado elevato di elementi provenienti da quei settori sociali, è in Europa essenzialmente un fenomeno del secondo dopoguerra. Va peraltro fatto salvo, comprensibilmente, il caso sovietico, non soltanto in conseguenza della Rivoluzione bolscevica quanto per le epurazioni staliniane degli anni trenta, che eliminarono dalle forze armate sovietiche tutti i rimanenti ufficiali di origine nobiliare.Il rapporto complessivo fra professionalizzazione e democratizzazione fu considerevolmente e significativamente diverso per quel che riguarda il continente latino-americano. Anzitutto, la professionalizzazione cominciò più tardi con esplicito riferimento a quanto succedeva in Europa e come suo riflesso. Con qualche influenza inglese, specialmente sulla marina, è l'Argentina a dare il via alle scuole militari. Ma è il Cile a effettuare un salto di qualità facendo affidamento, a partire dal 1890, su istruttori tedeschi. Si innescò così una competizione su scala continentale che portò il Perù ad appellarsi ai Francesi nel 1896, cosa che fece anche il Brasile nel 1905 - e a tutt'oggi la più famosa accademia militare brasiliana viene denominata la 'Sorbona' -, e infine portò l'Argentina a ricorrere ai Tedeschi nel 1912 per perfezionare il suo apparato militare. Anche se il metodo tedesco plasmò in maniera indelebile le forze armate cilene, in particolare l'esercito, nel secondo dopoguerra, per ragioni facilmente comprensibili di lotta al comunismo su scala mondiale, gli Stati Uniti, i loro attachés militari, le loro scuole di specializzazione hanno esercitato un'influenza decisiva sulla preparazione tecnica e, forse ancor più, sulla visione politica di molti fra gli ufficiali latino-americani che sono giunti ai gradi più elevati.
Aprendosi anche alle classi sociali medio-basse, la professione militare si è in qualche modo democratizzata un po' dovunque nel mondo. Tuttavia è bene intendersi sul significato che assume in questo contesto il processo di democratizzazione e sulle sue effettive conseguenze. In primo luogo va rilevato come, anche se teoricamente i collegi e le scuole militari sono aperti a tutti i settori della popolazione, molti di questi settori hanno continuato a nutrire grande, e giustificata, diffidenza nei confronti della professione e dell'organizzazione militare. Là dove, infatti, i militari siano stati frequentemente impiegati in operazioni di repressione del malcontento popolare, è evidente che l'organizzazione militare non riuscirà ad attrarre gli esponenti più attivi e più combattivi di quei ceti. In larga misura, in effetti, la democratizzazione della professione militare ha dato luogo quasi esclusivamente a un afflusso significativo nell'organizzazione militare di allievi provenienti dalle classi medie e dalla piccola borghesia provinciale. Un po' dappertutto, in Europa e in America Latina, che sono le aree per le quali disponiamo di serie storiche di dati attendibili, la composizione sociale della professione militare rispecchia quella del pubblico impiego in generale. Insomma, al di là della sua consistenza numerica, la classe operaia è ampiamente sottorappresentata fra gli ufficiali. In generale, tale classe non indirizza i suoi figli verso la professione militare. Volendo concludere con una generalizzazione di vasta portata, l'origine sociale degli ufficiali europei e latino-americani si trova nella piccola borghesia prevalentemente provinciale; vi è inoltre una non disprezzabile percentuale di autoreclutamento, vale a dire di figli di ufficiali e di sottufficiali, i quali ultimi godono dunque di una relativa promozione sociale. Altrove, in particolare in Asia e in Africa, la situazione è molto più difficile da definire, anche perché è più complicato applicare gli strumenti tradizionali per l'analisi e la classificazione delle classi sociali. Per lo più, comunque, in entrambi i continenti l'accesso alla professione militare ha costituito e costituisce una promozione sociale (e politica).
A sua volta, la democratizzazione non deve essere analizzata in termini puramente sociologici. Almeno in via d'ipotesi, comporta conseguenze politiche. In particolare, è stato sostenuto che se il corpo ufficiale diventa sociologicamente differenziato, più rappresentativo della società e comunque più aperto, saranno i suoi atteggiamenti politici a cambiare di conseguenza. Come vedremo in seguito, questa inferenza non è facilmente provabile poiché debbono essere presi in considerazione altri fattori e, in special modo, l'interazione fra l'organizzazione militare e la sfera politica. Qui basterà sottolineare che, in quanto inserita all'interno di un'istituzione sostanzialmente chiusa come sono le forze armate, la professione militare si nutre anche di regole, di valori, di atteggiamenti e, se si vuole, di ideali che quella stessa istituzione produce al suo interno e fa valere, e non soltanto di quelli che provengono dall'esterno. Insomma, la democratizzazione dell'accesso alla professione militare non coincide necessariamente con una democratizzazione della visione politica del corpo ufficiali e non la produce automaticamente.
Ancor prima che le attività militari si trasformassero in professione militare vera e propria, si poteva già parlare di militarismo. Ma il presupposto essenziale del militarismo è l'esistenza di una differenziazione, per quanto limitata, fra la sfera civile e la sfera militare. Non esiste una definizione di militarismo accettata da tutti gli studiosi, anche se vi è accordo sul fatto che esso denoti il prevalere dei valori, degli ideali e degli interessi militari su quelli civili (v. Vagts, 1937): l'aggressività e la bellicosità tipicamente militari prevarrebbero sulla moderazione e sul pacifismo presumibilmente tipici della sfera civile; la gerarchia e l'ordine militare avrebbero il sopravvento sull'eguaglianza e sul disordine civile; l'efficienza sull'inefficienza, e così via. Come è immediatamente rilevabile, le categorie sopra utilizzate non sono adeguatamente discriminanti, spesso si sovrappongono e non si oppongono affatto. Nessuna organizzazione civile può permettersi il lusso di fare a meno di ordine e di gerarchia, di non operare con efficienza, di non sapersi strutturare per difendere e promuovere i suoi valori, i suoi ideali, i suoi interessi. Appare di gran lunga più corretto e più utile riservare il termine militarismo a quelle modalità operative che pongano l'accento sulla forza e sulle pallottole e non sul dialogo e sui voti, e a quelle società che siano caratterizzate dal prevalere di una visione orientata non soltanto all'accettazione della guerra come fenomeno inevitabile, ma alla sua esaltazione come fenomeno positivo. Naturalmente ci si aspetta che società di questo tipo attribuiscano grande prestigio alle organizzazioni militari e agli ufficiali, conferiscano loro un controllo esclusivo o quasi sulle attività intese a preparare la guerra, destinino una parte consistente del bilancio dello Stato agli stipendi degli ufficiali e alla modernizzazione degli armamenti. Prestigio, potere, risorse per le organizzazioni militari sono gli indicatori più forti di una società che si militarizza, nella quale il militarismo si afferma ovvero si è già affermato.Il classico esempio moderno di militarismo è costituito dal Giappone.
Metà dei primi ministri del periodo 1885-1945 furono militari. Tutte le 86 cariche ministeriali riguardanti la guerra e la difesa furono affidate a ufficiali. Il ministro degli Interni in 11 governi e il ministro degli Esteri in 14 governi su 43 furono ufficiali. Il 28% dei ministeri civili fu affidato a ufficiali. All'incirca la metà del bilancio dello Stato, ancora in tempo di pace, fu destinata a spese militari. Il Giappone imperiale, con la sua esaltazione dei samurai e dei kamikaze, è probabilmente l'esempio contemporaneo più calzante di un regime militarista. Come è noto, tutto questo potere militare sfociò nell'aggressione di Pearl Harbor il 7 dicembre 1941 e nella disastrosa sconfitta del Giappone imperiale.
L'altro esempio significativo di militarismo all'opera è costituito dalla Germania imperiale e hitleriana (1871-1945). Peraltro, in questo caso la potente organizzazione militare tedesca non ebbe neppure bisogno di esercitare il potere politico in prima persona, e tuttavia le più importanti scelte di politica estera furono largamente condizionate dalle preferenze dei militari. La casta degli ufficiali prussiani mantenne alto il suo prestigio sociale e stretto il suo controllo su risorse abbondanti per il bilancio della difesa. Riuscì a far passare nell'opinione pubblica tedesca l'interpretazione della sconfitta nella prima guerra mondiale come dovuta a una 'pugnalata alle spalle' di alcuni settori della società e della politica. Infine, nonostante l'elezione e la rielezione di uno dei suoi rappresentanti, il feldmaresciallo von Hindenburg, alla presidenza della Repubblica di Weimar, negò ogni legittimità al primo esperimento di reale democrazia nel sistema politico tedesco, contribuendo così in misura significativa al suo fallimento.
Nel periodo successivo all'ascesa di Hitler al potere l'addensarsi di imminenti pericoli di guerra, accompagnato dalla crescente preparazione dei vari Stati alla guerra guerreggiata, indusse un autorevole politologo statunitense a chiedersi se quei preparativi non comportassero conseguenze durature per la distribuzione del potere nei sistemi politici. Laddove Auguste Comte e Herbert Spencer avevano pronosticato il passaggio in più stadi da società militari a società industriali, e Karl Marx e Nikolaj Lenin, con accentuazioni diverse, avevano sostenuto che la distruzione del capitalismo avrebbe costituito il prerequisito indispensabile per la sconfitta dell'imperialismo e per la scomparsa delle guerre, Harold D. Lasswell (v., 1941 e 1962) sottolineò che il processo storico sembrava andare in ben diversa direzione. Egli formulò l'ipotesi che le tendenze di sviluppo dei sistemi politici fra le due guerre andassero verso la costruzione di Stati-caserma o guarnigione. Per ragioni chiaramente funzionali, in quegli Stati non potevano che essere gli specialisti della violenza ad acquisire ed esercitare il potere politico. Essi avrebbero rapidamente controllato la propaganda, la violenza, i beni e le prassi sociali. Avrebbero imposto la loro disciplina, organizzato la società, orientato l'economia. I nuovi militari non sarebbero stati soltanto capaci di maneggiare armi sofisticate, ma si sarebbero rivelati managers della coercizione. Di conseguenza, sarebbero cambiati i sistemi di valore e di gratificazione sociale. Questa quasi irresistibile ascesa delle élites militari avrebbe trovato una conferma almeno parziale nello scatenamento della seconda guerra mondiale, ma Lasswell era in realtà molto più interessato ai mutamenti indotti all'interno delle singole società dalle élites militari e militariste che agli effetti e ai contraccolpi della guerra. Infatti, riprendendo la sua tesi circa vent'anni dopo, Lasswell ritenne di dover ribadire e sottolineare che permaneva molto acuto il rischio dell'affermarsi e del consolidarsi di Stati-guarnigione, a partire dagli Stati Uniti e dall'Unione Sovietica, in termini di fortissima presenza decisionale delle élites militari e anche a causa dell'equilibrio del terrore nucleare. Era, inoltre, possibile che le due superpotenze irradiassero il loro modello influenzando le élites militari di altri paesi. L'accentramento del potere politico e l'importanza delle organizzazioni militari nello scontro allora definito, non da Lasswell, di civiltà, non potevano che accrescere peso e ruolo delle élites militari. La smilitarizzazione del mondo e la trasformazione degli eserciti in forze di polizia internazionali, pure auspicabili fin da allora, apparivano in quella fase esiti alquanto improbabili.
È significativo il fatto che, più o meno nel periodo in cui Lasswell scriveva il seguito del suo articolo, due grandi democrazie occidentali avevano affidato la più alta carica esecutiva a un generale, rispettivamente gli Stati Uniti a Dwight Eisenhower (1952-1960) e la Francia a Charles de Gaulle (1958-1969). Tuttavia, per quanto ufficiali valorosi e coraggiosi, né l'uno né l'altro potrebbero essere definiti 'specialisti della violenza' né essere considerati rappresentativi delle élites di nascenti o consolidati Stati-guarnigione. Ciononostante, almeno su un punto la tesi di Lasswell trovava conferma: quei due generali erano diventati gli uomini più eminenti, più affidabili, più popolari, e a essi la democrazia statunitense e quella francese decisero di ricorrere in circostanze politiche più o meno difficili. Un conto, però, erano la visibilità e la popolarità dei due generali, sicuramente dovute alla loro brillante carriera di capi militari, un conto ben diverso furono i loro comportamenti quali governanti, forse più o meno benevolmente paternalistici, certamente non antidemocratici e nient'affatto orientati all'alimentazione e al potenziamento di eventuali tendenze militariste. Semmai, il caso statunitense e quello francese sollevavano un quesito controintuitivo. Come mai, pur dotate di strumenti e risorse tali da controllare qualsiasi sistema politico, le forze armate in quanto tali non intervengono più di frequente nel processo decisionale dei loro paesi o, addirittura, non conquistano e non esercitano in proprio il potere politico? Come mai, in sostanza, neppure Eisenhower e de Gaulle militarizzarono le loro società e scelsero invece di togliersi l'uniforme per esercitare il potere politico secondo i più classici canoni della democrazia?
Qualsiasi risposta adeguata al quesito appena sollevato deve fondarsi su una serie di distinzioni. La prima e più importante è quella fra il ruolo politico dei militari e il loro intervento in politica. Infatti, i militari possono acquisire un ruolo politico tanto significativo e gratificante da non avere alcuna necessità di intervenire apertamente nella sfera politica. Le loro esigenze professionali e organizzative possono essere adeguatamente soddisfatte dalla partecipazione abituale al processo decisionale. Naturalmente, un conto è asserire, come ad esempio fece il sociologo C. Wright Mills, che i militari costituiscono parte integrante dell'élite del potere degli Stati Uniti d'America, un conto ben diverso è provare che le cose stanno effettivamente così e non piuttosto che sono i civili a controllare i militari assegnando loro compiti e ruoli precisi e invalicabili. Militari soddisfatti del potere esercitato, del prestigio goduto e delle risorse a loro disposizione non hanno motivazioni per tentare un intervento diretto nella sfera politica. Ma un intervento di questo genere sarebbe ugualmente impraticabile da militari che, per quanto insoddisfatti, siano strettamente controllati dai civili e si considerino privi degli strumenti, delle risorse e delle capacità per valicare i confini del ruolo loro attribuito. Fissiamo così quello che è probabilmente il punto più importante di qualsiasi analisi del ruolo politico dei militari.In ogni sistema politico il ruolo svolto dai militari e il potere da loro esercitato derivano esclusivamente dall'interazione tra l'organizzazione militare e il potere dei civili. Neppure organizzazioni militari estese, potenti, coese, specializzate possono permettersi il lusso di intervenire contro governi civili legittimi, che godono del consenso popolare, che manifestano capacità operative, quand'anche questi governi agiscano deliberatamente per il contenimento e per la riduzione del potere e delle risorse dell'organizzazione militare. Il ruolo politico e l'intervento politico dei militari sono, in estrema sintesi, analizzabili e comprensibili esclusivamente con riferimento alle interazioni delle organizzazioni militari e dei corpi ufficiali con le rispettive sfere politiche civili. Poiché, comunque, i militari hanno le armi e i civili no, è utile interrogarsi sulle modalità con le quali i civili mettono e tengono sotto controllo il potere dei militari.
Potremmo prendere le mosse dalla famosa espressione di Mao Zedong: "Il potere esce dalla canna del fucile", purché non ne tralasciamo la seconda parte: "è il partito che controlla il fucile". In effetti, è interessante osservare come i militari non siano mai intervenuti apertamente con un colpo di Stato nei regimi comunisti, se si eccettua il più stretto compagno d'armi di Mao, il capo di Stato Maggiore Lin Biao, che tentò questo intervento nel 1970 e fallì. L'esempio che si avvicina di più a un colpo di Stato è la presa del potere politico a opera del generale Jaruzelski in Polonia, il 13 dicembre 1981, in accordo con l'ala dura del Partito comunista polacco e al fine di evitare un sicuramente più grave intervento militare sovietico.In generale, comunque, i regimi comunisti hanno costituito un esempio concreto di controllo dei civili sui militari esercitato grazie alla forza dell'ideologia. Samuel P. Huntington definisce questo controllo dei civili sui militari 'controllo soggettivo'. I militari si assoggettano a uno specifico gruppo di civili in cambio della compartecipazione alle decisioni, al fine di ottenere potere, prestigio e risorse. Essi entrano, infatti, a far parte a pieno titolo dell'élite dominante dei regimi comunisti. In qualche misura, non molto differente è stato il caso dei regimi fascisti (Italia, Spagna, Portogallo). In questi regimi le forze armate non sono mai state del tutto fascistizzate, ma hanno accettato il regime autoritario quale si era venuto configurando, e hanno anche contribuito alla sua costruzione, sia per motivazioni in senso lato ideologiche che per i vantaggi di potere, di prestigio, di risorse che ne hanno tratto e - come dimostra il collasso del regime portoghese nel 1974 - finché sono riusciti a trarre questi necessari vantaggi.
È possibile un altro tipo di controllo dei civili sui militari definito 'oggettivo', che si dà quando i militari accettano la divisione politica e sociale del lavoro e si professionalizzano per conseguire al meglio gli obiettivi della difesa nazionale posti e interpretati alla luce dell'interesse nazionale così come formulato e riformulato dai civili, cioè dai politici legittimamente eletti. Huntington mette icasticamente a confronto i due tipi di controllo: "Il controllo civile soggettivo consegue il suo scopo civilizzando i militari, rendendoli lo specchio dello Stato (partecipi delle sue tensioni e in esse coinvolti). Il controllo civile oggettivo consegue il suo scopo militarizzando i militari, rendendoli strumento dello Stato" (v. Huntington, 1957, p. 83). Naturalmente, quanto più i militari sono partecipi delle tensioni politiche, tanto più è probabile che intervengano nella sfera politica. Quanto più i militari si reputano strumento dello Stato, tanto più improbabile sarà il loro intervento nella sfera politica.La seconda distinzione di ordine generale e di grande portata è che un conto è la presenza di qualche militare nella sfera politica, un conto ancora è l'intervento dei militari in politica, e un conto molto diverso è il governo dei militari. I casi, ad esempio, di Pétain in Francia, capo del regime autoritario di Vichy sottomesso agli invasori tedeschi (giugno 1940-agosto 1944), e di Badoglio, capo di un governo di transizione di breve durata (luglio 1943-giugno 1944) dopo la caduta del fascismo, pur concernendo il vertice del sistema politico, non segnalano la militarizzazione dei rispettivi regimi né l'esistenza di un cospicuo potere politico dei militari. Vero è che, a fronte del disordine nella sfera politica e delle divisioni nel potere civile, molte organizzazioni militari hanno esibito una notevole propensione all'intervento diretto in politica. Però poche organizzazioni militari hanno le motivazioni, la compattezza, le competenze per trasformarsi in governi. Inoltre, sia la dinamica complessiva che le conseguenze immediate dell'intervento introducono all'interno delle organizzazioni militari contrasti e dissensi di entità tale che possono essere risolti soltanto con il ritorno nelle caserme. Pertanto, la terza considerazione è che, quand'anche le organizzazioni militari riuscissero a creare stabili governi militari, raramente sarebbero in grado di dar vita a veri e propri regimi di durata tale da plasmare almeno una generazione politica e rendere quindi impraticabile il ritorno dei civili ai loro passati comportamenti politici e governativi, presumibilmente causa dell'intervento dei militari. L'ultima considerazione generale consegue dalle precedenti.
Se i militari mostrano qualche riluttanza a governare e sono consapevoli della loro incapacità di costruire nuovi regimi politici, spesso il loro problema principale, una volta intervenuti nella sfera politica, consiste nell'abbandonarla con il minor costo possibile. Ciò rilevato, è peraltro vero che organizzazioni militari molto diverse fra loro sono intervenute nelle rispettive sfere politiche nei luoghi più diversi. Un po' dovunque hanno creato governi militari e hanno tentato di costruire regimi militari. È possibile fornire una spiegazione generale relativamente convincente di questo fenomeno soltanto se si procede ad adeguate periodizzazioni.
Sulla scia di Huntington è opportuno definire 'pretorianesimo' il fenomeno generale dell'intervento dei militari in politica, con riferimento alle guardie della Roma imperiale che si sollevavano con grande frequenza cercando di proiettare i loro comandanti al vertice dell'Impero. Due tipi di spiegazioni sono stati avanzati per comprendere il fenomeno dell'intervento dei militari in politica nei tempi moderni, nelle sue caratteristiche costitutive e nella sua dinamica. Lo studioso inglese Samuel E. Finer (v., 1962) ha suggerito che la variabile decisiva cui guardare è rappresentata dal livello della cultura politica. Questo livello è definito in base: 1) alla legittimità politica e morale dei governanti, che consente loro di chiedere che si accettino e si attuino le loro decisioni; 2) al riconoscimento dell'autorevolezza delle procedure e degli organismi di rappresentanza e di governo e al consenso che essi ottengono; 3) al coinvolgimento dei cittadini nel sistema politico e al loro attaccamento alle istituzioni. Nei paesi con cultura politica matura, dove i governanti sono legittimi, le istituzioni sono dotate di autorevolezza e i cittadini sono coinvolti nel loro funzionamento, qualsiasi intervento dei militari sarebbe assolutamente impensabile. Non avrebbe nessuna legittimità e incontrerebbe notevole resistenza. Nei paesi con cultura politica sviluppata i militari possono trovare spazio per il loro intervento quasi esclusivamente se si producono crisi politiche nel trasferimento del potere politico da un gruppo di civili a un altro. Non potrebbero, comunque, governare se non per un periodo eccezionalmente transitorio e breve. Nei paesi di cultura politica bassa le istituzioni e le procedure sono costantemente messe in questione e, quindi, i militari svolgono un ruolo di protagonisti assumendo frequentemente cariche di governo, anche le più elevate. Infine, nei paesi con cultura politica minima i governi possono ignorare l'opinione pubblica, che è quasi inesistente, ma di conseguenza non possono farvi affidamento per difendersi dagli interventi dei militari che sono, infatti, frequentissimi nelle più diverse fattispecie. In sintesi, qualora intervenissero, i militari non otterrebbero nessuna legittimità per un loro governo nel primo gruppo di paesi. Incontrerebbero considerevole opposizione nel secondo gruppo, opererebbero con poche difficoltà nel terzo, e il problema del loro ruolo non avrebbe particolare importanza politica nel quarto gruppo di paesi. È curioso notare come Finer, attento analista comparato, non sappia collocare il caso italiano - né quello fascista né quello del dopoguerra - in nessuna delle categorie menzionate.
Pochi anni dopo la pubblicazione di questa interpretazione dell'intervento politico dei militari, il politologo statunitense Huntington ha indirizzato l'attenzione sulle variabili politico-istituzionali, affermando recisamente che le cause degli interventi militari non sono militari, ma politiche. Utilizzando la spiegazione di Huntington (v., 1968) e combinandola con altri apporti (in particolare v. Nordlinger, 1977; v. Perlmutter, 1977), si può pervenire a una serie di generalizzazioni che mettono in relazione la natura delle organizzazioni militari e la costituzione della sfera politica. La variabile esplicativa più importante è rappresentata, secondo Huntington, dalla partecipazione politica. Non molto dissimile dalla variabile 'cultura politica', il tasso di partecipazione politica ha il vantaggio di poter essere precisamente valutato e persino misurato. Nei paesi dove la partecipazione politica è ristretta a pochi gruppi e il potere politico è nelle mani di poche persone, cricche e clan, gli ufficiali sono attori politici come gli altri. Tuttavia, poiché dispongono delle armi, essi possono intervenire con facilità inversamente proporzionale ai rischi. I loro interventi sono effettivamente frequenti e, incontrando scarsa resistenza da parte dei civili, non richiedono grande ricorso alla violenza. Per lo più, gli ufficiali interventisti si limitano a trasferire il potere dai civili sgraditi a quelli graditi, che potrebbero aver fatto pressioni su di loro per ottenerne l'intervento. Qualche volta i comandanti militari di più alto livello ottengono come ricompensa cariche politiche di vertice oppure vengono nominati ambasciatori. Gli ufficiali non puntano a governare da soli, vuoi perché sanno di non avere sufficiente legittimità, vuoi perché sono consapevoli di non avere neppure la necessaria competenza. I confini fra la sfera politica e quella militare sono e rimangono abbastanza vaghi e facilmente valicabili. È questo il modello del pretorianesimo oligarchico, così definito perché la partecipazione è limitata a pochi settori della società. I militari sono storicamente intervenuti anche in società nelle quali la partecipazione politica era estesa alle classi medie. Huntington definisce questo modello pretorianesimo radicale poiché, in special modo in America Latina, quelli radicali sono stati i tipici partiti delle classi medie soprattutto urbane. L'intervento militare è ovviamente più difficile, anche perché quei settori delle classi medie contro i quali esso è diretto hanno la possibilità di opporre una resistenza anche armata, che determinerà spargimento di sangue. Neppure in questo caso i militari decideranno di governare in proprio, anche se la loro preparazione tecnica è sicuramente migliorata. Gli interventi militari avvengono per lo più poco prima oppure poco dopo le elezioni. Con l'intervento preventivo i militari mirano a bloccare l'annunciata e temuta vittoria di partiti delle classi medie che siano loro ostili. Creano un governo, spesso misto e con ampia partecipazione di civili, per riportare il paese alle urne nell'arco di sei mesi-un anno dopo aver messo fuorilegge il partito sgradito ed esiliato i suoi leaders. Con l'intervento successivo alle elezioni i militari privano della vittoria il partito sgradito, spesso adducendo come motivazione il ricorso a brogli elettorali e a intimidazioni. Il governo da loro creato è transitorio e serve anche in questo caso a preparare nuove elezioni avendo cura di impedire la partecipazione di potenziali vincitori sgraditi. Ciò che più temono i militari in questa fase sono i partiti delle classi medie, che vogliono estendere la partecipazione politica e intendono mobilitare le classi popolari. Si è parlato, a questo proposito, di colpi di Stato delle classi medie poiché gli ufficiali, oramai sociologicamente appartenenti a queste classi, difendono, insieme al loro status e ai loro privilegi, anche il potere politico di quel partito della classe media che si oppone a un'ulteriore espansione della partecipazione politica. Questi colpi di Stato hanno caratterizzato la storia dell'America Latina per almeno un trentennio, dal 1930 al 1960, fase in cui le classi medie strappavano il potere politico ai latifondisti e se lo contendevano reciprocamente.
Il terzo modello è definito pretorianesimo di massa. È tale in quanto si caratterizza per la partecipazione più ampia possibile di tutti i gruppi sociali. Nel pretorianesimo di massa ciascun gruppo si mobilita ed entra nell'arena politica sfruttando le risorse a sua disposizione. Come scrive brillantemente Huntington, i ricchi corrompono, gli studenti tumultuano, gli operai scioperano, i militari fanno i colpi di Stato. Poiché la società è molto mobilitata, questi colpi di Stato non possono risultare incruenti. Il livello di violenza dei militari dipende dalla resistenza dei civili: se i civili sono organizzati in partiti popolari, gli scontri saranno molto sanguinosi e la repressione durissima. Cosicché ai militari non basterà più occupare il governo per qualche mese e poi restituire il potere ai civili graditi. I loro politici civili preferiti, se ve ne sono, possono essere troppo deboli per vincere le elezioni contro i dirigenti e i candidati dei partiti popolari. Inoltre, a questo punto del loro sviluppo, è probabile che almeno alcune organizzazioni militari abbiano acquisito conoscenze e competenze tali che, unite a una maggiore fiducia in se stesse, le spingano e le motivino a governare da sole. Sostenute da un'ideologia di sviluppo nazionale e di repressione nei confronti dei nemici interni, le forze armate possono decidere di costruire dei veri e propri regimi militari. Non si pongono più il problema del quando e del come restituire il potere politico ai civili. Se la loro organizzazione mantiene la fiducia in se stessa e produce risultati, i militari resteranno al potere tutto il tempo da loro ritenuto necessario per ristrutturare la società, per rendere impossibili future sfide popolari. È stato il caso, in una sequenza in parte determinata dalla forza delle organizzazioni popolari, in parte dalla fiducia in se stesse delle forze armate, della Corea del Sud (1959-1979), del Brasile (1964-1982), dell'Indonesia (dal 1968), del Perù (1968-1980), del Cile (1973-1990), dell'Uruguay (1973-1985) e, in misura minore, dell'Argentina (1976-1983). Come si vede, tranne che nel caso dell'Indonesia, dove peraltro la commistione militari-civili è sempre stata considerevole, nessuno di questi regimi militari - così definiti sia perché gli ufficiali controllano direttamente tutte le cariche rilevanti, sia perché non si fissa nessuna data precisa per la restituzione del potere ai civili - ha avuto una durata superiore ai vent'anni. Per quanto tecnicamente più competenti che nel passato, le forze armate latino-americane non sono riuscite a mantenersi al potere oltre un numero tutto sommato limitato di anni. Probabilmente, al di fuori dell'America Latina, il caso più interessante di ripetuti tentativi di orientare il sistema politico verso direzioni gradite è stato quello dei militari turchi. All'origine della Turchia odierna sta il decisivo e storico successo ottenuto proprio dall'organizzazione militare guidata da Kemāl Atatürk nel conquistarne l'indipendenza nel 1923. Dopodiché, però, in particolare in seguito alla seconda guerra mondiale e alla democratizzazione del sistema politico, gli ufficiali turchi si sono trovati sempre più spesso a promuovere e a difendere interessi conservatori in una sequenza di colpi di Stato con cadenza decennale: 27 maggio 1960, 12 marzo 1971, 12 settembre 1980. Incapaci di ristrutturare il sistema escludendo definitivamente gruppi e partiti sgraditi, il loro tentativo di riequilibrarne il potere ottiene solo temporaneamente successo: di qui la necessità di un nuovo intervento che acuisce le tensioni e impedisce la stabilità politica.
Altrove, in particolare in parecchi sistemi politici dell'Africa, la sequenza di colpi di Stato militari e di governi militari di breve durata, in una grande confusione di ruoli con alcuni settori politici, sembra senza fine. Perché, dunque, i governi militari non durano? Cosa producono sul piano economico e politico? E con quali procedure abbandonano, più o meno volontariamente, il potere?
Per quanto frequenti, gli interventi militari in politica non sono affatto indolori per le stesse organizzazioni militari. Tranne che nel pretorianesimo oligarchico, quando una guarnigione riottosa, un generale popolare, un gruppo di ufficiali ambiziosi può sollevarsi in armi, effettuare un pronunciamento contro i civili al governo senza troppe difficoltà, andare al governo per un breve periodo di tempo e ritirarsi in buon ordine, in tutti gli altri casi l'intervento militare richiede preparazione e coordinamento e implica tensioni e problemi. Infatti, se esistono sempre ufficiali insoddisfatti e potenzialmente golpisti, esistono anche ufficiali costituzionalisti, che tengono sia alle loro prospettive di carriera che al loro prestigio e quindi si oppongono a un intervento in politica che, inevitabilmente, metterebbe a rischio il loro prestigio e in questione una carriera basata sulle promozioni per anzianità e non per favoritismi politici. L'ago della bilancia è costituito dai militari almeno apparentemente apolitici che possono appoggiare ora gli uni, i golpisti, ora gli altri, i costituzionalisti, anche a seconda delle sfide che vengono dal potere politico civile e delle loro aspettative di carriera. Abitualmente, per convincere gli apolitici, è necessario che l'intervento militare si qualifichi come istituzionale, vale a dire venga guidato dal generale di più alto grado, i cui ordini non possano essere disattesi, e venga preferibilmente appoggiato da tutte le forze armate.
Tuttavia alle prime difficoltà e ai primi insuccessi, sempre alquanto probabili, gli ufficiali apolitici ritirano la loro delega e premono per un ritorno rapido nelle caserme. Ciò che più conta ai loro occhi, e ancor più agli occhi dei costituzionalisti, è che l'integrità dell'organizzazione militare non venga messa a repentaglio da un prolungamento dell'intervento o dai conflitti con i civili, soprattutto se questi conflitti assumono caratteristiche di guerriglia interna e di repressione sanguinosa. Ciononostante, il ritorno nelle caserme non è affatto facile, in particolar modo se il governo militare è rimasto in carica per qualche anno e ha davvero puntellato il suo potere con ferocia repressiva. Qualche volta l'organizzazione militare si divide e allora il suo sganciamento dal potere politico avverrà quasi come una rotta. Ma questo è molto raro e riguarda organizzazioni militari deboli come, ad esempio, quelle africane e, soltanto in parte, quelle dell'America centrale. Se l'organizzazione militare non si divide, allora contratterà il suo rientro nelle caserme cercando di proteggere gli ufficiali che hanno esercitato il potere, che sono spesso quelli di più alto grado, rifiutando qualsiasi responsabilità penale, opponendosi ai processi, minacciando nuovi interventi. Questi negoziati hanno avuto successo in Brasile, in Cile, in Uruguay e, in larga misura, in Argentina, dove i militari responsabili della tragedia dei desaparecidos hanno avuto pene mitissime quando non sono addirittura usciti impuniti grazie ad appositi e controversi provvedimenti di amnistia. Altrove, come ad esempio in Grecia, i capi della giunta militare (1967-1974) sono stati processati, condannati e incarcerati, anche perché le forze armate greche erano tutt'altro che unite e sostanzialmente incapaci di far fronte comune contro il governo Karamanlis, dotato di ampia legittimità popolare dopo il fallimento delle politiche interne ed estere della giunta militare. A ogni buon conto, il ritorno nelle caserme consente ai militari di medicarsi le ferite e di ricostruire la loro integrità organizzativa.Il bilancio dei governi militari, se durano in carica più di qualche anno, e degli interventi militari in politica non è mai, da nessun punto di vista, positivo. Comunque, non è affatto migliore di quello dei rispettivi governi civili. Naturalmente nessun governo militare cerca più di legittimarsi sostenendo l'insostenibile, vale a dire di preparare la strada alla democrazia. Paradossalmente e involontariamente, una qualche forma di democrazia elettorale può anche essere l'esito non voluto di una fase di governo militare. Ma questo esito è tanto più probabile quanto più i rispettivi sistemi politici abbiano già sperimentato regimi o fasi democratiche, come in Cile, in Uruguay, in Brasile e, in misura minore, in Argentina. Più difficile e, infatti, ancora incerto è questo esito ad esempio in Thailandia e nella Corea del Sud, prive di una tradizione democratica, dove i governi militari sono la prosecuzione di precedenti governi autoritari o di inadeguati tentativi predemocratici. Un esito democratico è ancora sostanzialmente impraticabile sia in Medio Oriente che nell'Africa subsahariana dove, anche quando non sono direttamente al potere, i militari esercitano una grande influenza sulle decisioni politiche e occupano cariche governative rilevanti. Il problema è che lo stesso riprodursi degli interventi militari impedisce il formarsi di un tessuto connettivo di valori e di procedure che conducano all'instaurazione di regimi democratici. Le società dove i militari intervengono frequentemente, come ad esempio la Nigeria, sono e rimangono infettate dai germi del pretorianesimo, vale a dire esposte a ulteriori interventi. D'altronde i governi militari, di maggiore o minore durata, non risolvono affatto i problemi che hanno fornito almeno inizialmente una giustificazione ai loro interventi nella sfera politica.
I governi militari non sono affatto meno corrotti dei corrispondenti governi civili e sono spesso costretti ad autoepurazioni ed esposti al pericolo di colpi di Stato nei colpi di Stato, vale a dire di ufficiali che si sostituiscono con la forza agli ufficiali al governo. Pertanto, il record dei governi militari in materia di sviluppo economico non è mai migliore di quello dei precedenti governi civili. Infine, nonostante la loro retorica in proposito, i governi militari non placano gli scontri sociali e non contengono i conflitti etnici (v. Nordlinger, 1977). Non nazionalizzano, per così dire, la politica e, spesso, non riescono neppure a nazionalizzare, vale a dire a mantenere sotto controllo nazionale, le risorse del paese. Cosicché l'uscita dei militari dalla scena politica, per quanto temporanea possa essere, appare come il frutto degli insuccessi dei loro governi e non di una ristrutturazione positiva e duratura del sistema politico o di quello economico.
Negli anni ottanta la ritirata dei militari latinoamericani dal potere politico-governativo e le successive elezioni democratiche di governi civili hanno rappresentato fenomeni molto appariscenti. Questa volta i governi civili e democratici sembrano destinati a durare più a lungo che nel passato (v. Stepan, 1988). In altre aree geografiche, in particolare in Asia, in Africa e nel Medio Oriente, i militari si mantengono saldamente al governo in prima persona oppure, nella maggior parte dei paesi, lo condividono con civili ben disposti nei loro confronti e malleabili. Non è iniziato nessun irresistibile processo di democratizzazione globale e neppure un processo di pacificazione. Anzi, le numerose guerre regionali, talvolta con caratteristiche di guerre civili, consentono ancora ai militari di sottolineare e di ribadire la loro importanza e, persino, la loro missione nazionale. La maggior parte delle organizzazioni militari asiatiche, africane e mediorientali mantengono - se non una legittimità di governo - quantomeno un'accettabilità sociale diffusa. Comunque sono sufficientemente forti e adeguatamente attrezzate da impedire una da loro non desiderata esclusione dal potere politico, che continuano, infatti, a esercitare direttamente oppure per interposta persona. Infine, e paradossalmente, nell'area mediorientale, a paragone con le possenti spinte del fondamentalismo islamico, i militari possono apparire come modernizzatori, ma raramente riescono a qualificarsi anche come democratizzatori.
Altrove la situazione è molto differente e differenziata. Nella maggior parte delle aree strategicamente non importanti e, in special modo, quando la loro azione si svolge entro i confini nazionali, i militari mantengono ancora, nonostante tutto, la possibilità di acquisire, controllare, esercitare il potere politico. In qualche caso, molto abilmente, essi costruiscono regimi misti militari-civili oppure civili-militari, a seconda della rispettiva prevalenza. Sono regimi non propriamente militari, data la presenza consistente di civili, ma piuttosto duraturi, come dimostrano, ad esempio, i casi dell'Iraq (dal 1968) e della Siria (dal 1963), dell'Indonesia (dal 1968) e della Birmania (dal 1988), anche se non sono privi di tensioni sociali né esenti da sfide portate dalle opposizioni in nome dei diritti civili. Non sono, comunque, mai regimi democratici e appaiono sempre più raramente dotati di capacità modernizzanti.
Altrove il crollo del muro di Berlino, la fine dell'assetto europeo disegnato a Yalta, la disintegrazione dell'impero sovietico e il venir meno dell'equilibrio del terrore nucleare garantito dalle due superpotenze costituiscono tutti elementi che spingono le forze armate delle democrazie occidentali, degli Stati Uniti e persino dell'Europa orientale alla ricerca di un nuovo ruolo. Un po' dappertutto, in questi casi, gli specialisti della violenza debbono trasformarsi in specialisti dell'ordine. Tuttavia le tensioni interstatali sembrano aver già fatto riacquisire ad alcuni eserciti dell'Europa orientale il loro compito tradizionale di difesa dei confini nazionali e, talvolta, di imposizione dell'ordine interno contro alcune minoranze etniche. Le forze armate statunitensi stanno, invece, svolgendo un ruolo più attivo in larga misura in ottemperanza alle risoluzioni delle Nazioni Unite, operando come una sorta di gendarmeria internazionale talvolta in coordinamento con i caschi blu nelle operazioni di peace-keeping. Questa trasformazione si presenta molto difficile non soltanto perché richiede una preparazione specifica che neppure le forze armate statunitensi ed europee hanno finora acquisito, ma anche perché postula l'esistenza di una specie di governo mondiale. Soltanto un governo mondiale sarebbe, infatti, in grado di impartire ordini legittimi e di ricevere obbedienza diffusa, oppure di sanzionare le violazioni con interventi armati espliciti, specifici e mirati, quasi chirurgici. In assenza del governo mondiale, le forze armate degli Stati Uniti, l'unica superpotenza rimasta tale, sono destinate a svolgere questa opera di supplenza anche su sollecitazione delle Nazioni Unite.
Prive di una vera tradizione di intervento politico, le forze armate italiane si sono accontentate nel secondo dopoguerra di una sostanziale subordinazione alle decisioni di loro interesse. Sono rapidamente diventate un'organizzazione burocratica, gonfiata anche da forme e modalità di reclutamento clientelare, non particolarmente efficiente. Gli ufficiali hanno proceduto a uno scambio più o meno esplicito fra l'aumento dei loro organici soprattutto al vertice e l'accettazione di una posizione marginale nel processo decisionale. L'integrazione dell'Italia nella NATO ha fatto il resto consentendo agli ufficiali ambiziosi di trovare una collocazione relativamente soddisfacente. Comunque, qualche sbocco politico non è mai stato precluso agli ufficiali italiani, eletti in Parlamento sia nelle file dei missini che in quelle dei democristiani, tranne un'unica eccezione per i comunisti. Per quanto talvolta sollecitate a svolgere un ruolo più attivo, in special modo dalla destra politica anche a fini eversivi, come ad esempio nel tentato golpe del 1964, le forze armate italiane hanno evidentemente e correttamente valutato che non esistesse sufficiente consenso a un ampliamento politico della loro presenza. E sono sicuramente consapevoli sia della loro incapacità di governare un paese come l'Italia, sia della ferma opposizione della NATO a qualsiasi intervento dei militari contro i governi delle democrazie occidentali, oltre che dell'ovvia e consistente opposizione del mondo politico e dell'opinione pubblica italiana a qualsiasi tentativo in questo senso. Comunque, i compiti delle forze armate italiane appaiono tutti da ridisegnare con preciso riferimento al processo di unificazione europea e alla probabile necessità di un'organizzazione militare a quel livello. Tuttavia, per un efficace inserimento dei militari italiani nel dispositivo di sicurezza e di intervento che l'Europa unita voglia costruire, risulta assolutamente indispensabile un loro salto di qualità tecnica e di consapevolezza organizzativa di cui non si vedono ancora neppure le premesse.
Negli altri contesti geopolitici la modernizzazione continua a produrre complessità sociale, economica, culturale e, non da ultimo, politica. Cosicché è probabile che dove la modernizzazione avanza si riducano le possibilità per i militari di acquisire direttamente il potere politico, di legittimarsi quali governanti di regimi militari veri e propri capaci di sopravvivere e di perpetuarsi. Tuttavia le organizzazioni militari contemporanee possono ancora cercare e imporre a non poche organizzazioni civili un modus vivendi loro favorevole. Possono ritornare utili per combattere guerre regionali, conflitti locali e, naturalmente, guerre civili. Regimi misti militari-civili con una accurata divisione del lavoro godono tuttora di molte opportunità di instaurarsi, di funzionare e di esercitare influenza nei prossimi decenni. In conclusione, non è affatto possibile dire l'ultima parola sul futuro del potere politico dei militari. (V. anche Guerra: politica; Guerra: storia; Militare, organizzazione; Professioni).
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