GUERRA
di Mario Silvestri
La guerra come fenomeno sociale, o come continuazione della politica 'con altri mezzi', secondo la definizione di Clausewitz, la guerra come istinto geneticamente insito nell'uomo, o piuttosto come conseguenza della nascita di aggregazioni umane che si sarebbero configurate poi come veri Stati, esula dal tema di questo articolo, nel quale si tenta piuttosto di delineare la guerra come evoluzione di formazioni combattenti e dei mezzi da esse adoperati. In tali formazioni troviamo uomini addestrati per affrontarsi l'un l'altro allo scopo di vincere una partita ben concreta, in cui è in gioco l'imposizione della propria volontà su quella dell'avversario.
Gruppi di uomini l'un contro l'altro armati appaiono anche in disegni paleolitici di 20.000 anni fa. L'arco con le sue frecce fu la prima arma facilmente trasportabile e capace di colpire in modo letale a distanze elevate. Era naturale che tali armi fossero concepite da cacciatori di prede per garantirsi gli alimenti per la sopravvivenza. I cacciatori, trasformatisi poi in allevatori, ebbero necessità di difendere i propri armenti da gruppi rivali che volessero razziare il loro bestiame.Il combattimento ravvicinato nacque con la scoperta dei metalli, primo fra tutti il rame. Le armi in metallo imposero la loro superiorità su quelle dure ma fragili di pietra silicea. La prima apparizione del rame data intorno a 9.000 anni fa, ma quattromila anni dopo esso cedette il posto al bronzo - la lega del rame con lo stagno - che possedeva ancora una discreta duttilità e proprietà meccaniche molto migliori. Nacque contemporaneamente la necessità di difendersi, nel combattimento ravvicinato, con corazze e scudi.
La prima organizzazione militare degna di questo nome sembra sia sorta fra i Sumeri, nell'alta Mesopotamia, ed è databile intorno al 2500 a.C. Si consolida, in parallelo, una gerarchia militare. Quanto alle armi, le prime formazioni hanno abbandonato l'arco per munirsi di accetta e lancia, mentre compaiono anche le corazze parzialmente metalliche. I Sumeri, organizzati in piccole città-Stato, furono poi soggiogati da Sargon I, fondatore dell'impero di Akkad intorno al 2300 a.C., un impero che si estese dal Mediterraneo al Golfo Persico.
Nei secoli successivi fu scoperto e utilizzato un nuovo metallo particolarmente adatto alla costruzione di armi, nonostante la difficoltà della sua estrazione e lavorazione: il ferro. Esso entra largamente nella costruzione delle armi offensive e difensive. La varietà delle prime si accresce con l'ascesa degli Assiri, molto aggressivi tra la fine del II e il primo quarto del I millennio avanti Cristo. L'arco e le frecce riacquistarono la loro importanza, i carri a due ruote assicurarono mobilità ai comandanti, nacque la cavalleria con gli arcieri a cavallo, mentre si perfezionavano i reparti appiedati, armati di spada e lancia. Si pose mano anche a grandiosi lavori difensivi, finalizzati alla costruzione di fortificazioni su una scala che oggi appare incredibile per i mezzi a disposizione. Fu inventato presto anche l'ariete, per abbattere e sgretolare le mura fortificate.Nell'epoca pre-ellenica il successo militare dell'Assiria diede inizio a un espansionismo che giunse a conquistare, verso la fine del VII secolo a.C., un'estensione territoriale superiore a un milione di km², dal centro dell'attuale Anatolia fino al Caucaso, al Golfo Persico e all'Egitto, che fu soggiogato, mentre del Regno di Giuda l'Assiria si limitò a fare uno Stato tributario.
I Greci svilupparono ulteriormente l'arte della guerra e si dimostrarono capaci di battere per due volte successive (nel 490 e nel 480 a.C.) il grande Impero persiano. La fanteria di quest'ultimo, armata di archi, non fu in grado di resistere alla molto meno numerosa falange greca, una formazione compatta - il cui solo aspetto incuteva terrore - di uomini che combattevano gomito a gomito, collocati a distanze fisse e armati di lunghe lance, dette sarisse, e di scudi. Anche sul mare i Greci dimostrarono la loro superiorità, inventando lo sperone e trasformando l'imbarcazione, da mezzo di trasporto di uomini che dopo aver abbordato la nave avversaria combattevano corpo a corpo con i nemici, in uno strumento che, opportunamente manovrato, poteva mettere fuori combattimento la nave avversaria con tutti coloro che aveva a bordo. Ma la falange oplitica, costituita da fanti (opliti) pesantemente armati sia per attaccare che per difendersi, denunciò i suoi limiti durante la guerra del Peloponneso (431-404 a.C.), e fu sussidiata da reparti più agili e meno pesanti (peltasti).Il fiorire della grande cultura greca classica portò a un espansionismo ellenico di tipo diverso da quello praticato dai precedenti imperi. Fu un trasmigrare di singoli nuclei di popolazione, che si spingevano verso oriente e soprattutto verso occidente, dalla Magna Grecia (cioè l'Italia meridionale e la Sicilia) fino alla Gallia meridionale (Marsiglia) e alla Spagna settentrionale (Ampurias), in concorrenza con i Fenici, che impedirono ogni colonizzazione greca del litorale occidentale dell'Africa settentrionale. Convinta di poter respingere, in caso di necessità, ogni assalto persiano alla penisola ellenica, la Grecia classica si dedicò al tipo di guerra che preferiva, quello di una città contro un'altra, quindi di tutti contro tutti, esaurendosi finanziariamente, demograficamente e anche culturalmente.
La Macedonia fu perciò in grado di prevalere sulla Grecia indebolita e il suo figlio più illustre, Alessandro il Grande, si lanciò alla conquista dell'Asia, con un esercito non numeroso, ma suddiviso secondo ben studiate specializzazioni che ne facevano uno strumento di guerra imbattibile sia nella strategia offensiva che in quella difensiva. Quando passò l'Ellesponto (334 a.C.) Alessandro aveva circa 35.000 uomini, dei quali 4.000 formavano la cavalleria pesante e 24.000 erano fanti addestrati a combattere in falange, mentre la cavalleria leggera era armata di lance e giavellotti. C'erano poi reparti più piccoli in grado di combattere a distanza: arcieri cretesi, frombolieri di Rodi, lanciatori di giavellotti. Per affrontare le mura delle città fortificate egli disponeva di un nutrito numero di macchine da guerra: arieti, torri mobili da accostare alle mura e catapulte con proiettili incendiari.
Alessandro allargò enormemente la zona di influenza dell'Ellade, grecizzando (più che macedonizzando) tutto il bacino del Mediterraneo orientale fino al Golfo Persico. I suoi successori, i diadochi, che tripartirono il suo Impero fra Macedonia, Siria ed Egitto, svilupparono una corsa a nuove armi (che la Grecia aveva trascurato), la cui massima manifestazione si ebbe in campo navale. La classica trireme greca, che già si era imposta in tutto il Mediterraneo, si trasformò in quinquereme e poi in navi ancor più grandi con un maggior numero di ordini di remi. La gigantessa dei mari, la Quaranta di Tolomeo V d'Egitto, aveva una lunghezza di 150 metri e una larghezza di 19, e imbarcava 4.000 rematori, 2.800 soldati e 400 membri dell'equipaggio. Con 7.200 uomini a bordo è la nave da guerra con l'organico più numeroso costruita fino a oggi, e tuttavia il suo valore militare era pressoché nullo. Su terra gli eserciti evolsero rapidamente da formazioni nazionali a eserciti mercenari, e si perfezionarono specialmente i mezzi per conquistare le città con assedi offensivi, anziché costringerle alla resa per fame, col blocco dei rifornimenti.
Dopo la morte di Alessandro il Grande i suoi successori, oltre che perfezionare l'arte della guerra, si accanirono in lotte reciproche, mentre stava emergendo la potenza di Roma. Alla fine dell'età regia (VI secolo a.C.) Roma si era già estesa fino a occupare una superficie pari a quella dell'attuale comune di Roma, con una popolazione di forse 150.000 abitanti. Allargatasi lentamente a spese dei vicini Latini, Osci ed Etruschi, il suo predominio nel Lazio venne rimesso in discussione dopo la sconfitta subita a opera degli invasori celti nel 387 a.C., talché le occorse mezzo secolo per riconquistare il prestigio e le posizioni perduti. Un momento decisivo fu la sconfitta della lega latina e la sua subordinazione alla politica romana (343 a.C.). Con i nuovi vinti, divenuti alleati, la Repubblica romana si accinse ad affrontare quello che sarebbe stato un conflitto semisecolare con i durissimi Sanniti. L'esercito romano, che fino allora era organizzato in struttura di falange sull'esempio greco, venne ristrutturato in forma manipolare, per dare maggiore scioltezza ai reparti combattenti sulle aspre giogaie appenniniche. Il primato in Italia fu conquistato da Roma nella battaglia di Sentino (oggi Sassoferrato), avvenuta nel 295 a.C., nella quale quattro legioni romane sconfissero la quadruplice lega (Sanniti, Etruschi, Umbri e Galli senoni). Nei successivi trent'anni i Romani poterono procedere alla conquista di tutta la penisola italiana, dalla linea Pisa-Rimini a Reggio Calabria. Durante la conquista della penisola nella classe di governo romana si sviluppò una tendenza, una 'voglia' d'impero, che desta meraviglia oggi non meno che 2.200 anni fa, quando fu considerata dallo storico Polibio l'evento più stupefacente cui l'umanità avesse mai assistito.
La prima potenza con cui Roma venne inevitabilmente allo scontro fu Cartagine, per la conquista della Sicilia, che fino allora era stata contesa fra i Cartaginesi e le colonie greche dell'isola. Da potenza puramente terrestre che era, Roma riuscì a trasformarsi in grande potenza navale. Sul mare i Romani non furono innovatori dal punto di vista ingegneristico, non si diedero alle stranezze tecnologiche dei diadochi (anche se durante la prima guerra punica fecero la loro comparsa talune esaremi romane), ma copiarono con abilità la tecnica costruttiva cartaginese. Innovatori lo furono invece sul piano tattico. Se i Greci avevano inventato lo sperone, i Romani inventarono il 'corvo', un pontone munito di un gancio a una estremità, che veniva gettato sul ponte della nave nemica per tenerla ferma e affrontarla con un combattimento simile a quello terrestre.
Nel 256 a.C. si svolse la più grande battaglia navale di tutti i tempi per partecipazione di uomini, quella che ebbe luogo al largo di capo Ecnomo (presso Gela), dove 350 quinqueremi romane si scontrarono con 330 equivalenti navi cartaginesi uscendone vincitrici: su quelle navi erano imbarcati 280.000 uomini fra rematori e combattenti. L'estenuante prima guerra punica durò 23 anni; i Romani vi persero 700 navi contro 500 perse dai Cartaginesi, ma ne uscirono vincitori. Occupata la Sicilia (e poi la Sardegna e la Corsica), occupato l'attuale litorale albanese, si diedero alla conquista dell'Italia settentrionale. Successivamente si scontrarono ancora con Cartagine e col suo capo Annibale nella seconda guerra punica (218-201 a.C.), l'unico conflitto totale dell'antichità, mai più ripetutosi fino alla grande guerra.
Le caratteristiche dell'esercito romano nell'epoca della media repubblica furono essenzialmente le seguenti: a) il servizio militare era obbligatorio, tutti vi erano tenuti, fino all'ultima classe dei meno abbienti (erano esclusi solo i proletari, cioè i poveri in canna); b) i soldati erano pagati, per compensarli delle ore lavorative perdute; c) il legionario era addestrato al combattimento individuale, cioè al corpo a corpo, con esercizi continui; d) le armi erano pagate dagli interessati in funzione della loro ricchezza; e) l'organizzazione a falange, copiata dai Greci, era stata abbandonata durante le guerre sannitiche perché troppo rigida, ed era stata sostituita dalla più agile forma manipolare con triplice schieramento (astati, principi, triari); f) le armi individuali prevalenti erano il gladio (la spada corta a doppio taglio) e lo scudo quadrangolare; la lancia era l'arma dei soldati più anziani e il giavellotto di quelli dotati di armi leggere, detti veliti. In tal modo la formazione assumeva caratteristiche di mobilità che rendevano tali truppe adatte a combattere su ogni terreno; g) la cavalleria restava un corpo destinato prevalentemente all'esplorazione e alle schermaglie (la forza romana stava nella fanteria); h) gli avversari sconfitti nella penisola italiana non erano stati sottomessi, ma aggregati come alleati a quella che viene convenzionalmente chiamata 'confederazione italica'. In tal modo il potenziale combattente di Roma salì a livelli vertiginosi, non più eguagliati fino a tempi modernissimi. Nel 225 a.C. Polibio fornisce per le forze messe in allarme da Roma in vista di una ennesima incursione celtica (l'ultima), la cifra di 800.000 uomini su una popolazione non superiore a 4 milioni di abitanti. La formazione militare classica dell'epoca, la legione, era costituita da 4.200 fanti romani (cioè da fanti che godevano della cittadinanza romana, in base però a un concetto di cittadinanza più giuridico che etnico, perché ad esempio erano romani gli abitanti del Piceno e non quelli di Preneste), affiancati da 6.000 fanti alleati, inquadrati in 10 coorti, cui si aggiungevano 300 cavalieri romani e 600 alleati. Forte di oltre 10.000 uomini, la legione era una formazione autonoma, quanto lo può essere l'attuale divisione. Due legioni (eccezionalmente quattro) formavano di solito un esercito consolare, la cui consistenza numerica oscillava fra i 20.000 e i 25.000 uomini.
L'esito vittorioso della seconda guerra punica proiettò Roma verso l'obiettivo consapevole della conquista del mondo allora conosciuto, cioè del bacino del Mediterraneo. Per tale guerra esistono dati che permettono di analizzare in dettaglio la mobilitazione e la composizione delle forze armate romane. L'anno di massimo sforzo fu il 212 a.C., allorché vennero mobilitate 25 legioni e 250 navi da guerra. La mobilitazione di 25 legioni corrispondeva dunque alla chiamata sotto le armi di 250.000 uomini, cui si dovevano aggiungere i marinai (300 per nave) e i soldati di marina (40 e talvolta 120 per unità), che aggiungevano (per 250 navi) 85.000 uomini alle forze di terra fino a un totale di quasi 350.000 uomini. Questo complesso di forze, che combatté in Italia contro Annibale, in Spagna, in Sicilia, in Sardegna, nella Gallia cisalpina, nell'Albania, nella penisola greca, nel mare Egeo e in tutto il Mediterraneo da Gibilterra alle coste dell'Asia Minore, era ricavato, come già detto, da una popolazione che a mala pena arrivava ai 4 milioni di abitanti. Nel 201 a.C., appena finita la guerra dopo la grande vittoria di Scipione contro Annibale a Naraggara (che la tradizione ha battezzato però 'battaglia di Zama'), le legioni erano ancora 14 e furono ridotte a 8 solo nel 200.
Da allora - e per circa un secolo - fra contingenti terrestri e marittimi la Repubblica romana non mobilitò mai più di 100.000 uomini in media, pur superando talvolta questa cifra per motivi eccezionali. Alla fine del II secolo a.C. vi fu l'importante riforma di Caio Mario, che incorporò nell'esercito anche i proletari prima esclusi, perché a Roma era stata in vigore la norma che dovesse prestare servizio militare solo chi era economicamente in grado di armarsi. Infatti era giusto che solo chi possedeva qualcosa combattesse per difendere ciò che i proletari non possedevano, essendo ricchi solo di 'prole'. Con l'ingresso dei proletari nella legione e l'equipaggiamento di ognuno a spese dello Stato, si attenuò il carattere patriottico dell'esercito romano. E con la concessione della cittadinanza romana agli Italici dopo la terribile e sanguinosissima guerra sociale (90-88 a.C.), la legione mutò anche fisionomia. Ora essa era composta interamente da cittadini romani, a prescindere dal censo. I suoi effettivi vennero ridotti nominalmente a 6.000 uomini (dieci coorti di 600 uomini ciascuna), cui si aggiungeva un contingente di cavalleria di 240 uomini. Ma spesso gli effettivi erano notevolmente inferiori e una legione di 5.000 uomini era già considerata robusta. Nel I secolo a.C. la legione romana, addestrata anche per lavori che oggi sarebbero assegnati a reparti specializzatissimi del Genio (si pensi ad esempio al ponte gettato in dieci giorni sul Reno nel 55 a.C. da Giulio Cesare), divenne una formazione invincibile. Cesare ne diede una prova conquistando le Gallie in otto anni di battaglie furibonde con forze relativamente esigue.
Terminate le convulsioni delle guerre civili, Augusto si occupò della riorganizzazione dell'esercito romano. Egli smobilitò ben 500.000 uomini dal coacervo di legioni sue e di Antonio rimaste dopo la battaglia di Azio, e da quelle poste successivamente in congedo. Augusto riorganizzò l'esercito imperiale - su base esclusivamente volontaria - in 28 legioni, ridotte a 25 quando la XVI, la XVII e la XVIII vennero distrutte dall'insurrezione di Arminio nella selva di Teutoburgo fra il Reno e l'Elba. Le 25 legioni risultanti erano così schierate: 8 lungo il Reno, 6 lungo il Danubio, 3 in Spagna, 2 in Africa, 2 in Egitto e 4 in Siria. La consistenza numerica di ogni singola legione era di circa 5.000 uomini, cosicché il totale dei legionari si aggirava sui 125.000 soldati. Ma alle legioni erano aggiunti gli auxilia, altrettanto numerosi, che svolgevano un ruolo analogo a quello dei federati nelle legioni della Roma repubblicana. Essi infatti non erano cittadini romani, a differenza dei legionari, ma ricevevano la cittadinanza come ricompensa alla fine del servizio. Vi erano inoltre reparti di cavalleria di consistenza numerica inferiore a 1/10 di quella della fanteria. I legionari servivano per 25 anni e taluni, volontariamente, anche di più. Invece i pretoriani (le coorti speciali stanziate in Italia, per la maggior parte a Roma) servivano per 16 anni. In totale le forze di terra si aggiravano quindi sui 300.000 uomini, ai quali vanno aggiunti gli equipaggi delle navi (con base a Miseno, Ravenna, Fréjus e nel Mediterraneo orientale), che assorbivano altri 20 o 30 mila uomini.Il numero delle legioni salì a 28 quando fu conquistata la Britannia, che richiese un presidio permanente di 3 legioni, e l'imperatore Traiano (97-117 d.C.) portò il loro numero a 30. Un secolo dopo Settimio Severo (morto nel 211 d.C.) le fece salire a 33. È notevole comunque il fatto che per oltre due secoli e mezzo l'esercito imperiale romano restò notevolmente stabile e con effettivi relativamente ridotti. Naturalmente, per affrontare le emergenze, le legioni venivano trasferite da una frontiera all'altra, o venivano da esse distaccati reparti (vexillationes) riuniti in formazioni ad hoc per costituire eserciti da combattimento con compiti specifici.
Con l'avvicinarsi dell'anarchia militare nell'Impero, fra il 235 e il 284 d.C., si impoveriscono le fonti letterarie capaci di illuminarci sull'ulteriore evoluzione dell'esercito. Il numero delle legioni aumentò ancora di poco, ma cominciò a prodursi una certa confusione, perché esse persero in parte il carattere normalmente stanziale che possedevano all'epoca della pax romana. Ora l'Impero, assalito di continuo lungo gli immensi confini terrestri e marittimi, era costretto a muovere le legioni o loro distaccamenti da un punto all'altro delle frontiere, mentre una parte di esse era impegnata in guerre civili che ne neutralizzavano temporaneamente la funzione nei confronti dei nemici esterni.
La maggiore mobilità richiesta all'esercito romano implicava un aumento dei reparti di cavalleria a danno della fanteria, una cavalleria capace non solo di muoversi, ma anche di combattere a cavallo. Aumentarono quindi i frombolieri a cavallo e nacque anche un corpo cammellato, operante nei deserti asiatici. Il nerbo della cavalleria venne catafratto, fu cioè armato con armi difensive pesanti. Lo scudo tutto metallico, il cui peso era mal sopportato dal fante, poteva invece essere indossato dal cavaliere. Tale è il senso della riforma attribuita all'imperatore Gallieno, che regnò insieme al padre Valeriano dal 253 al 260 d.C. e da solo fino al 268.
L'esercito romano del tardo Impero assunse via via una struttura organizzativa più complessa. Fu diviso in due tipi di formazioni: i frontalieri (limitanei) e i campali (comitatenses), i primi distribuiti a cordone lungo i confini, i secondi appartenenti all'esercito mobile, da spostare nelle direzioni minacciate. Quest'ultimo abbondava in cavalleria e la fanteria vi venne perdendo importanza. Ma le milizie romane erano ormai per metà costituite da barbari, per lo più germanici: perciò l'esercito si veniva sgretolando spiritualmente e perdeva efficienza. Vi furono pensatori che rifletterono sui possibili rimedi. Mentre Vegezio, alla fine del IV secolo d.C., credeva necessario tornare agli antichi ordinamenti, un anonimo contemporaneo (di cui ci resta l'opuscolo De rebus bellicis) consigliava invece il miglioramento tecnologico e addirittura una riduzione degli effettivi, da reclutarsi con la coscrizione obbligatoria e da pagare meglio.
Erano riflessioni interessanti ma tardive. L'Impero romano denunciava in realtà di non essere più in grado di sostenere il peso della propria difesa. Le cause di tale indebolimento sono tuttora discusse, ma non è improbabile che esse siano da ricercare nello spopolamento conseguente alle ondate di epidemie che, da Marco Aurelio in poi, si abbatterono sulle popolazioni. In un'epoca di progresso tecnologico modesto, una popolazione più scarsa significava una minor produzione e un minor gettito delle imposte necessarie per mantenere un esercito il cui peso finanziario, accettabile al tempo di Augusto, era divenuto insopportabile all'epoca di Costantino e di Giuliano l'Apostata.
La divisione in due dell'Impero dopo la morte di Teodosio (395 d.C.) salvò la parte orientale con capitale Costantinopoli, ma sacrificò quella occidentale, inondata da popolazioni di origine germanica che la frantumarono in una pluralità di regni separati. Dietro ai Germani avanzavano gli Unni, seguiti a loro volta dai popoli slavi. Mentre gli Unni sparirono rapidamente, gli slavi restarono, occupando le terre abbandonate dai germanici. E restarono anche gli Ungari, incuneandosi fra gli slavi del sud (Iugoslavi) e quelli del centro-nord (Boemi, Slovacchi, Polacchi e Russi).In questo periodo di mescolamento dei popoli, di imbarbarimento ma anche di riorganizzazione, la figura militare che ne uscì esaltata fu quella del cavaliere catafratto, la cui stabilità laterale venne aumentata enormemente dall'introduzione della staffa nella struttura della sella (VIII sec. d.C.). In Oriente si riaffermò l'arciere a cavallo. L'esercito bizantino, benché molto meno numeroso di quello imperiale romano, ne conservò in parte le caratteristiche, curò molto le specializzazioni e introdusse novità in campo navale. La nave da guerra dominante divenne il 'dromone' a due ordini di remi, equipaggiato, oltre che con il solito sperone, anche con sifoni che, a guisa di moderni lanciafiamme, lanciavano un getto di liquido infiammato contro le navi avversarie. I dromoni durarono tanto a lungo che solo alla fine del 1200 furono soppiantati dalle galee veneziane. Bisanzio contenne la prima spinta degli Arabi verso l'Europa, lasciando poi in eredità ai Crociati la stagione offensiva.
La scoperta degli esplosivi chimici modificò profondamente l'arte della guerra. L''energia esplosiva' fu in realtà la prima forma di energia parzialmente non rinnovabile impiegata dall'uomo. Si trattava di energia utilizzata in modo non continuo, anzi liberata in tempi brevissimi, e perciò con potenza inusitata benché le energie in gioco fossero esigue.
A chi risalga l'invenzione della polvere pirica non è noto. Certamente Ruggero Bacone (1214-1292) fornisce una ricetta per la polvere nera: 7 parti di salnitro, 5 di carbone di legna e 5 di zolfo (la ricetta fornita da Bacone sotto forma di un curioso rebus fu svelata solo nel 1916). L'attribuzione dell'invenzione ai Cinesi è contraddetta da Marco Polo, che nel resoconto sul 'Catai' del Milione non fa cenno di polvere nera. È sicuramente mitica la figura del monaco francescano Berthold Schwartz, alchimista e mago, che avrebbe fatto tale scoperta nel 1353, quando invece i cannoni avevano già fatto la loro apparizione sui campi di battaglia. La prima notizia scritta sui cannoni si trova in un documento fiorentino, che risale al 1326: il loro primo impiego in battaglia avvenne nel corso di un attacco a Cividale del Friuli nel 1331 ad opera di cavalieri tedeschi. Da allora le armi da fuoco si inserirono sempre più celermente nel combattimento, specie sotto forma di cannoni, poiché le armi portatili erano di più difficile manifattura. La polvere nera subì variazioni quantitative, ma non qualitative, per ben mezzo millennio. Dalle proporzioni di Bacone si passa a quelle del governo inglese del 1635 (75 - 12,5 - 12,5 rispettivamente per salnitro, carbone e zolfo) e a quelle di Watson del 1781 (75 - 15 - 10). Tuttavia alla fine del XVIII secolo l'alchimia cedette il passo alla chimica scientifica e questa fece sentire il suo effetto anche sugli esplosivi.Per mezzo millennio, dal 1300 al 1800, le armi da fuoco convissero con le armi bianche. Delle prime non si poteva più fare a meno, ma le seconde erano ancora necessarie. L'inizio di tale epoca, che segnò ovviamente la sparizione della cavalleria catafratta, vide dunque il sorgere di una nuova arma, l''artiglieria'. Le bocche da fuoco crebbero di numero, fino a raggiungere, nel corso della guerra dei Trent'anni (1618-1648), la proporzione di quattro pezzi ogni mille uomini. Il loro impiego principale lo si constatò negli assedi: ormai le mura non resistevano alle persistenti salve di batterie di cannoni. Tuttavia va sottolineato che gli esplosivi venivano utilizzati per 'spingere' dei proiettili, cui era impressa un'elevata energia cinetica, ma non facevano parte, essi stessi, del proiettile lanciato: quelli sparati non erano insomma proiettili esplosivi. A maggior ragione questo valeva per le armi portatili o 'quasi' (dato il suo peso, era necessario un cavalletto per sostenere un archibugio).
Con l'introduzione su larga scala delle armi da fuoco i conflitti si inasprirono. Per di più le armi da fuoco comparvero mentre l'Europa stava consolidando la propria configurazione politica sotto forma di Stati nazionali, e la fede cristiana si spezzava in due tronconi, uno dei quali restava fedele al papa di Roma, mentre il secondo se ne separava definitivamente. Il convergere di queste diverse componenti in un unico conflitto, che devastò l'Europa, ma particolarmente la Germania e la Boemia, dal 1618 al 1648, produsse un livello insuperato di coinvolgimento di forze spirituali e materiali nonché di brutalità (tristemente celebre rimase la distruzione di Magdeburgo), che fu poi contrapposto alla 'guerra limitata' del successivo secolo e mezzo. Dalla pace di Westfalia (1648) alla Rivoluzione francese (1789) la società europea visse in un clima di relativa tolleranza, in cui le guerre continuarono a farsi, ma con moderazione (anche nei confronti dei vinti in battaglia) e per scopi limitati. Una delle limitazioni proveniva dall'impiego dei mercenari, che costavano e dovevano essere pagati puntualmente, altrimenti cambiavano bandiera. L'unità tipica di combattimento - il reggimento - era agli ordini di un colonnello, che di essa era l'amministratore delegato più che il detentore del comando, lasciato a un 'tenente colonnello', suo uomo di fiducia. Il costo dei mercenari limitava non solo l'estensione, ma anche la durata dei conflitti.Questo fu anche un periodo in cui le armi da fuoco non fecero alcun progresso: un'epoca di disarmo spirituale, che aggiunse 'moralità' ai conflitti secondo le indicazioni di Grozio. Fu anche il periodo in cui le truppe mercenarie erano tenute in pugno dai propri ufficiali e non si abbandonavano più a saccheggi ed esecuzioni di civili innocenti, come era accaduto di regola fino ad allora. La guerra con obiettivi limitati concesse insomma all'Europa e al mondo non già la pace, ma la riduzione del numero delle guerre e dei danni che ne derivavano alle popolazioni. Anche il grande Federico di Prussia non aveva dubbi sul fatto che la truppa da impiegare dovesse essere mercenaria. La popolazione doveva continuare nelle proprie attività ed essere disturbata il meno possibile; era tenuta solo a pagare le tasse con cui retribuire i 'soldati del Re'.
L'equilibrio si ruppe con la Rivoluzione francese. L'affermazione della democrazia sul potere dispotico dei 'tiranni' valorizzava il cittadino, che prima era stato solo un suddito. Ma una delle conseguenze fu anche la 'democratizzazione' della guerra: tutti i cittadini erano tenuti a difendere la patria con le armi, e quindi a prestare il servizio militare obbligatorio, cosa che non avveniva dai tempi della Repubblica romana e delle guerre puniche. Nel 1793, mobilitando un milione di armati, la Francia - che con 27 milioni di abitanti era allora il più popoloso Stato d'Europa - poté tenere a bada i nemici interni ed esterni e passare all'offensiva contro questi ultimi. Napoleone, pur sopprimendo la democrazia in Francia, ne mantenne talune conquiste civili, fra le quali anche la coscrizione obbligatoria. Le guerre della Repubblica e del primo Impero, che dissanguarono la Francia con un milione e mezzo di morti in 25 anni, portarono nuovamente all'ingigantimento degli eserciti. Quello che Napoleone riunì per attaccare la Russia - 600.000 uomini - fu il risultato dello sforzo militare più grande che fosse mai stato tentato dall'inizio della storia. L'impresa fallì perché la logistica non fu in grado di alimentare una tale massa di soldati e di animali nell'estate e nell'autunno sarmatici. Prima che di uomini, l'impresa si risolse in una strage di cavalli (ne morirono centinaia di migliaia) essenziali per mantenere attiva la linea dei rifornimenti. Nel campo delle armi, però, la stagnazione continuò anche durante l'epoca napoleonica. Napoleone stesso fu un perfezionatore dell'esistente (oltre che un acuto utilizzatore tattico delle armi di cui disponeva, in particolare dell'artiglieria usata massicciamente), ma non possedeva un intuito scientifico che lo inducesse a pretendere armi nuove o radicalmente perfezionate.
Con la Restaurazione (1815) il ritorno all'autocrazia, per quanto temperata, non cancellò naturalmente l'evoluzione realizzata nel modo di fare la guerra. Quando lo spirito liberale riemerse nel 1848-1849, si riaffermò l'idea della coscrizione obbligatoria. Anche la guerra civile americana (1861-1865) si svolse all'insegna del 'tutti combattenti'. In Europa, tuttavia, la politica ebbe la meglio sul militarismo. Le guerre per l'unità germanica e italiana si svolsero ancora attraverso conflitti per fini e con strumenti limitati, che non misero in pericolo l'assetto mondiale. La politica mantenne la supremazia sulla logica militarista grazie anche all'ingegno di due statisti come Cavour e Bismarck. Inoltre la coscrizione obbligatoria era largamente temperata da esenzioni di varia entità, cosicché nel primo cinquantennio post-napoleonico gli eserciti permanenti ebbero maggiore importanza di quelli di coscritti. E quanto ai fini, la 'resa incondizionata' dell'avversario si ebbe una volta soltanto, nella guerra civile americana. Fu solo dopo la strepitosa vittoria della Germania, ormai unita, sul secondo Impero napoleonico, che nell'Europa continentale la coscrizione obbligatoria severamente applicata e il sostegno di intere classi di coscritti già addestrati e richiamabili tracciarono il profilo di una possibile futura guerra totale, nutrita delle scoperte scientifiche e tecnologiche emergenti. Proprio nella seconda metà del XIX secolo furono inventati i principali mezzi di combattimento che avrebbero disegnato il profilo delle guerre del secolo futuro.
La scoperta di esplosivi più potenti della polvere nera fino allora utilizzata, il passaggio dal fucile ad avancarica a quello a retrocarica con caricatore multiplo, l'invenzione dell'arma a tiro rapidissimo - la mitragliatrice -, la precisione dei cannoni, acquisita con la rotazione del proiettile mediante rigatura della canna, il passaggio dalla marina a vela a quella a motore, dalle navi in legno a quelle in ferro, il potenziamento delle corazze navali con l'acciaio al nichel, la concezione della corazzata monocalibro tipo Dreadnought (varata nel 1906), l'invenzione del siluro autopropellente, l'individuazione delle navi leggere portatrici di siluro come possibili avversari delle grandi navi da battaglia, la messa a punto del sottomarino, l'apparizione del motore a combustione interna: tutto ciò congiurò, nel cinquantennio di pace mondiale (pur punteggiata di guerre a scopo limitato), per preparare l'esplosione del grande conflitto di massa sterminatore di intere generazioni, che passò alla storia come 'la grande guerra', combattuta fra il 1914 e il 1918 e conclusasi con una catastrofe della civiltà occidentale di dimensioni ancora non bene valutate.
Alle cause scientifiche e tecnologiche che inasprirono il carattere del conflitto si sovrappose, come causa altrettanto fondamentale, la nuova potenza economica degli Stati. La rivoluzione industriale aveva innescato un processo di accumulo del capitale molto più veloce che nel passato. Se nei primi anni del XX secolo le spese militari non assorbivano più del 2,5-2,6% del prodotto interno lordo di ogni paese, tale frazione, apparentemente modesta, veniva però attinta da un reddito enormemente superiore a quelli del passato. La Germania, ad esempio, assurta a seconda potenza industriale del mondo (dopo gli Stati Uniti, ma prima della Gran Bretagna) con un prodotto pro capite di 3.500 dollari attuali (1994) e una popolazione che nel 1914 sfiorava i 70 milioni di abitanti (contro i 38 milioni, tre volte più poveri, di mezzo secolo prima), aveva un prodotto annuo pari a 250 miliardi di dollari e poteva, senza grande sacrificio, consacrarne 7 o 8 alle forze armate. Con un costo annuo del soldato (vitto, vestiario, alloggio, equipaggiamento, armamento) pari a 7 o 8 mila dollari, essa avrebbe potuto, in tempo di pace, mantenere una forza di circa un milione di uomini. In realtà ne aveva 800.000, poiché i marinai imbarcati sulle navi costavano assai più dei soldati di terra. La conclusione era comunque che in Europa prestavano servizio militare, nel 1914, da 3 a 4 milioni di soldati: una cifra enorme, inimmaginabile pochi decenni prima. E queste truppe erano rincalzabili, in caso di necessità, da milioni di richiamati che avevano prestato servizio militare negli anni precedenti.
Niente di tutto ciò poteva di per sé scatenare una guerra, ma lasciava presagire che, se fosse scoppiata, essa sarebbe stata di dimensioni colossali, senza precedenti nella storia. Il sottofondo politico che minacciava l'innescarsi di un conflitto era dato dalla modifica fondamentale avvenuta nel rapporto tra le potenze nei cinquant'anni precedenti il 1914. Fino alla metà del XIX secolo, ad avere aspirazioni di potenza mondiale erano rimaste solo tre potenze: Francia, Inghilterra e Russia. La Francia, che allora possedeva il più grande esercito del mondo ed era in urto con l'Impero inglese su quasi tutto il globo, non disponeva però di una flotta in grado di misurarsi con quella britannica, e quindi fuori dell'Europa non poteva lottare contro la 'perfida Albione'. L'Inghilterra, dominatrice dei mari, non aveva però praticamente un esercito degno di questo nome per le operazioni terrestri. Esso era formato da 'volontari' atti a presidiare i punti strategici del suo immenso Impero, ma non a condurre una qualsiasi guerra. La Russia imperiale, infine, la terza antagonista, non aveva in pratica confini comuni con i due rivali. Questa beata 'assenza di occasioni' nel 1914 era sparita. Gli Stati Uniti erano divenuti la prima potenza industriale mondiale ed erano costretti a svolgere una politica mondiale dalla loro stessa dimensione, anche se non vi avessero aspirato. La Germania non solo si era unita in uno Stato nazionale ma era divenuta una grandissima forza industriale, superando la Gran Bretagna. Dal nulla era emerso il Giappone e la sua vittoria contro la Russia nel 1904-1905 testimoniava che d'ora in poi l'Estremo Oriente non sarebbe stato più per le potenze europee zona di caccia libera. E infine l'Italia, ultima arrivata e non certo meritevole di definirsi 'grande potenza', aspirava tuttavia a tale posizione, creando ulteriori motivi d'inquietudine.
Lo sconvolgimento nei rapporti di forza si era riflesso sul piano politico. Una Triplice Alleanza (Germania, Austria-Ungheria e Italia) si opponeva all'Intesa (Francia, Russia e Gran Bretagna): gli antichi antagonisti schierati contro i parvenus. E, per gettare benzina sul fuoco, la Germania, desiderosa che la sua posizione di forza sul piano economico fosse riconosciuta dai rivali anche su quello politico, si era lanciata nella costruzione di una grande flotta che l'Inghilterra sentì come una minaccia mortale. In realtà il governo imperiale tedesco l'aveva concepita come un mezzo più politico (per ottenere il riconoscimento alla co-leadership mondiale cui mirava) che militare (per conquistare sul campo tale riconoscimento).
Nel 1914 la grande guerra scoppiò per un coacervo di cause e concause occasionali (alle cui premesse abbiamo or ora accennato), intorno alle quali si discute ancora oggi. Sul piano militare gli Stati Maggiori erano unanimi nel credere con convinzione a una guerra 'breve' (qualche mese), mentre in taluni ambienti civili si temeva la guerra 'lunga' (alcuni anni). Effettivamente il primo andamento del conflitto sembrò dare ragione ai generali. L'alto comando tedesco era convinto di mettere fuori combattimento la Francia entro quaranta giorni e solo la battaglia della Marna permise all'Intesa non già di vincere la guerra, ma di non perderla subito. Di colpo, da guerra di movimento la lotta si trasformò in guerra ossidionale.
Quali i motivi di questa repentina trasformazione? Gli ingredienti perché il conflitto si trasformasse alla prima occasione in guerra di posizione c'erano tutti. Le armi consistevano in molte migliaia di cannoni a tiro rapido con esplosivi sostanzialmente non diversi (a parte i nucleari) da quelli attuali; armi automatiche - le mitragliatrici - con alto grado di affidabilità; armi individuali, tutte a ripetizione con ricaricamento azionato manualmente, non già per mancanza della tecnologia atta a costruire fucili automatici, ma per evitare che il soldato 'sprecasse munizioni', addestrandosi a mirare giusto col tiro a colpo singolo. Questa massa di uomini, che dovevano muoversi con le loro armi, aveva bisogno di essere rifornita di cibo e di munizioni, che erano trasportati in piena battaglia o durante le manovre mediante traino animale, ossia mediante cavalli e muli (in montagna). La motorizzazione era assai modesta e riguardava principalmente i servizi e le comunicazioni. Ad esempio, all'inizio del conflitto i belligeranti non disponevano tutti insieme di più di 20.000 mezzi motorizzati e di un migliaio scarso di aerei (la potenza totale impegnata era di circa 600 o 700 mila kW), mentre la forza motrice più importante la fornivano le gambe degli uomini (circa 7.000.000, ossia 700.000 kW di spunto) e quelle dei cavalli (circa 2 milioni, ossia 1.000.000 di kW di spunto). Su terra dunque si avevano 3 milioni scarsi di kW, dei quali tre quarti d'origine animale. La potenza meccanica era invece dominante sui mari, dove 6 o 7 milioni di tonnellate di dislocamento (compresi i paesi neutrali) utilizzavano 15 milioni di kW, sei volte la potenza esistente a terra.
Era quindi logico che il conflitto si irrigidisse nella guerra di trincea, anche se si facevano tentativi di movimentarla con la meccanizzazione e, per opporvisi, venivano accresciuti ancor più i mezzi di difesa che annullavano il beneficio della mobilità.
Si può riassumere quel che avvenne fra il 1914 e il 1918 nei punti seguenti: a) potenziamento smisurato dell'armamento difensivo e offensivo, sia leggero che pesante (mitragliatrici, cannoni, mortai da trincea, lanciafiamme); b) sviluppo della motorizzazione del retrofronte; c) invenzione e produzione di mezzi meccanizzati e corazzati (insufficienti) per lo sfondamento dei fronti continui; d) espansione e diversificazione dei ruoli dell'aviazione; e) sviluppo delle comunicazioni campali istantanee; f) rivelazione della capacità strategica del sottomarino ed eclisse della grande nave da battaglia; g) offesa mediante aggressivi chimici (la grande guerra fu l'unico conflitto in cui le due parti - la Germania per prima - fecero uso di gas asfissianti in misura massiccia, senza alcuna remora morale).
Riguardo al primo punto, le artiglierie in dotazione ai vari eserciti (compreso quello russo), inizialmente circa 20.000 pezzi, passarono verso la fine a 100.000 pezzi di calibro mediamente maggiore (escluso l'esercito russo e compreso quello americano). Come esempio della moltiplicazione delle armi capaci di tiro a raffica si può prendere la divisione di fanteria tedesca, nella quale le armi automatiche passarono da 24 nell'agosto 1914 a 324 (tra mitragliatrici pesanti e leggere) nel 1918, oltre alle bombe a mano e ai fuciloni anticarro, che all'inizio del conflitto non esistevano. Complessivamente le armi automatiche passarono da 10.000 a 200.000, mentre nacquero i reparti d'assalto muniti di fucili automatici.
La motorizzazione del retrofronte si sviluppò in modo tale che gli eserciti dell'Intesa alla fine della guerra disponevano di 330.000 mezzi di trasporto a motore contro i 70.000 degli Imperi centrali. L'autocarro era però un mezzo che trasportava gli uomini dai terminali ferroviari alle trincee di terza linea, non una macchina da combattimento. La meccanizzazione della guerra fu cominciata dall'Intesa sul fronte francese. In totale fra tutti i belligeranti furono costruiti 8.100 carri e 3.000 autoblindo. Gli Anglo-Francesi costruirono 7.000 carri, dei quali 6.300 arrivarono in linea. Se la guerra fosse continuata nel 1919, sarebbe stata ancora più meccanizzata, perché i soli Inglesi avevano messo in produzione per quell'anno 5.000 carri d'assalto, qualche migliaio la Germania e ben 23.000 erano sulle linee di produzione americane, che vennero fermate quando si erano appena messe in moto.
Lo sviluppo dell'aviazione era stato esponenziale. La produzione di aerei in quei 51 mesi di guerra fu di quasi 200.000 apparecchi, e circa il doppio quella dei motori. Inoltre la potenza unitaria di questi salì da un valore medio di 80 kW all'inizio a 250 alla fine. Si diversificarono inoltre le specialità: l'aviazione da ricognizione, quella da bombardamento, da caccia e d'assalto.In conclusione, la potenza terrestre (inclusi gli aerei) salì a 15 milioni di kW presenti sul campo in condizioni operative alla fine della guerra e il consumo annuo di benzina balzò a 9 milioni di tonnellate per l'Intesa contro 2 per gli Imperi centrali. La potenza animale (uomini e cavalli), da aggiungere alla cifra precedente, era rimasta pressoché inalterata, tanto che trovare cavalli per il traino delle artiglierie era divenuto molto difficile. Ma quella che era cominciata prevalentemente come una guerra di uomini (3 kW di energia animale per ogni kW meccanico) finì come una guerra prevalentemente di macchine (per ogni kW di energia animale nel 1918 vi erano 8 kW meccanici). E fu questa meccanizzazione a dare un primo parziale contributo alla prevalenza della guerra di movimento sulla guerra di posizione. L'altro lo diede invece l'evoluzione della tattica tedesca, basata sulla difesa e sull'assalto elastici. L'assalto elastico per colonne di massima penetrazione escogitato dai Tedeschi, unito alla meccanizzazione delle fanterie col carro armato, escogitata dagli Anglo-Francesi, diede luogo vent'anni dopo alla nascita della divisione corazzata e della guerra di movimento.
Sul mare, evidentemente, non poteva esservi una moltiplicazione della motorizzazione pari a quella avvenuta su terra, poiché le flotte erano già motorizzate quando la guerra scoppiò. Tuttavia l'aumento numerico delle unità e della loro potenza unitaria (che, ad esempio, nell'incrociatore Hood - 1918 - arrivò a 2,7 kW/tonnellata contro le 4,5 della portaerei nucleare Nimitz, operante ai giorni nostri) fece salire i kW galleggianti da 15 a 30 milioni, superando di un fattore 2 (anziché 6, come era nel 1914) la potenza terrestre. Tuttavia tanta capacità di movimento non ebbe quasi la possibilità di esplicarsi. Nella battaglia dello Jütland, l'unica inquadrabile nelle previsioni che erano state fatte anteguerra, 150 navi inglesi si scontrarono con 100 tedesche. Prese insieme le due flotte disponevano di 588 pezzi di calibro superiore a 280 mm, di 4.000 cannoni di calibro inferiore e di 1.000 tubi lanciasiluri. Eppure lo scontro immane, avvenuto fra il pomeriggio del 31 maggio e la mattina del 1 giugno 1916, si concluse con una mezza vittoria tattica dei Tedeschi e una mezza vittoria strategica degli Inglesi, lasciando cioè le cose come prima, mentre le perdite furono circa il 10% della consistenza delle due flotte e il numero dei morti tra i membri degli equipaggi fu pari al numero di soldati che morivano in un qualsiasi giorno di battaglia terrestre. Il blocco inglese non si allentò e fu una concausa della vittoria dell'Intesa. Dai Tedeschi fu tentato il controblocco, ricorrendo alla nuova (nel senso di mai provata) arma sottomarina per distruggere le linee di rifornimento nemiche sui mari. Dopo inizi promettenti e ripetuti rinvii, la marina germanica lanciò la temuta 'guerra totale' contro il traffico navale il 1° febbraio 1917 e subito riscosse clamorosi successi. Nel successivo aprile vennero affondate 373 navi inglesi o al servizio dell'Intesa per complessive 870.000 tonnellate, e in un semestre furono colate a picco navi per 3.850.000 tonnellate di stazza, contro i 3.600.000 previsti. La difficilissima difesa contro questi battelli insidiosi fu di tipo organizzativo più che tecnico: la navigazione in grandi convogli scortati. Radunando molte navi in un'area ristretta, si potevano dedicare numerose unità sottili alla loro difesa. Inoltre il raggruppamento in convoglio, la cui reperibilità era comunque poco maggiore di quella di una singola nave, diradava visibilmente gli obiettivi. Si può concludere che nel primo conflitto mondiale l'arma sottomarina tedesca non vinse per poco e la Germania fu molto più vicina alla vittoria grazie a questa nuova arma che non ai pur notevoli successi terrestri. Gli Imperi centrali ebbero a disposizione durante la guerra 398 sottomarini (quasi tutti tedeschi), dei quali 187 vennero affondati causando la morte di 5.000 marinai; i danni inferti furono immani: furono distrutte 6.000 navi con una portata di oltre 11 milioni di tonnellate (su un totale di 14 persi dall'Intesa). Ognuno dei sommergibilisti periti aveva inflitto alla causa alleata la perdita di 12 milioni di dollari attuali.
La grande guerra aveva lasciato orribili ferite nelle nazioni che l'avevano combattuta, ma anche una viva ripugnanza nei generali che l'avevano guidata. L'enorme carneficina aveva spinto i più acuti di essi a meditare sulla possibilità di ridare mobilità al combattimento e quindi cancellare la guerra di 'usura' che era stata alla base di perdite tanto elevate: 10 milioni di morti, oltre 20 milioni di feriti e qualche milione di dispersi o ammalati o mutilati per cause di guerra, soprattutto fra le nazioni dell'Europa occidentale e centrale.Ovviamente l'attenzione si rivolse verso i mezzi meccanizzati e l'aviazione, ma qui si affermarono concezioni assai diverse. Per lo Stato Maggiore francese il carro armato rimase un'arma di appoggio alle fanterie, mentre in Inghilterra l'attenzione si concentrò sui carri da sfondamento (lenti, corazzatissimi, armati di molte armi leggere, anch'essi d'appoggio alle fanterie, e quindi chiamati infantry tanks) e sui carri da inseguimento (veloci, poco corazzati e armati di cannone, oltre che di mitragliatrici d'appoggio, e detti cruiser). I Tedeschi, che in base al trattato di pace non potevano avere carri armati, li studiarono sulla carta, su veicoli militari simulati, o su pochi esemplari costruiti clandestinamente, arrivando alla conclusione che essi andavano inquadrati in divisioni fornite di carri di stazza diversa, ma tutti operanti in modo coerente, per sfondare le linee nemiche ed espandersi nel retrofronte così da far crollare le difese su estensioni molto ampie. Era nato il concetto della divisione corazzata, che mutò nella composizione e nella proporzione dei reparti durante la seconda guerra mondiale presso tutti gli eserciti, ma che sostanzialmente risultò composta da: a) un insieme di carri armati omogenei, muniti di cannone oltre che di mitragliatrici; b) reparti di fanteria motorizzata che si muovevano alla stessa velocità dei carri su veicoli leggermente blindati, e che eccezionalmente potevano combattere anche stando su tali veicoli, equipaggiati con armi automatiche, ma che generalmente scendevano dal veicolo per combattere; c) reparti anticarro (con cannoni autotrainati prima, e successivamente con cannoni semoventi simili ai carri, ma privi di torretta rotante); d) reparti motorizzati antiaerei; e) reparti esploranti, composti da motociclisti, autoblindo e carri leggeri.
La divisione altamente mobile e meccanizzata non poteva fare a meno dell'appoggio aereo. La Germania nazista si basò per tale scopo sull'aviazione d'attacco al suolo e da caccia. Ma ai modelli di aerei tipici di questi impieghi essa aggiunse i velivoli a tuffo, che venivano utilizzati dalle principali marine del mondo per centrare bersagli estremamente mobili e ristretti come potevano essere gli incrociatori o i cacciatorpediniere. Gli aerei da picchiata (i famosi Stukas) erano relativamente lenti, ma nella picchiata raggiungevano velocità molto superiori, riuscendo a sganciare sull'obiettivo (ad esempio un ponte o una fabbrica) bombe anche da 500 o 1.000 kg, da una distanza di poche decine di metri, per poi risalire con una curva stretta che metteva a dura prova l'abilità dei piloti.
Il Giappone, che si preparava a una guerra aeronavale nel Pacifico, si orientò anch'esso verso gli aerei da picchiata (contro le navi), gli aerosiluranti e il bombardamento di precisione in quota, mentre per la caccia, date le lunghe distanze, era richiesto un tipo di apparecchio veloce, ma di assai maggiore autonomia rispetto a quelli concepiti per il teatro di guerra europeo. L'aviazione, insomma, fu concepita come un mezzo di grandioso appoggio alla marina, mentre quella dell'esercito non richiedeva particolari velivoli, dovendo presumibilmente combattere contro nemici male equipaggiati, come i Cinesi. I Russi sarebbero stati degli avversari ben più duri, ma il Giappone non si preparò mai seriamente, in fatto di armamenti, a fare una guerra in Siberia.
L'aviazione come arma indipendente per annientare il nemico era stata concepita e diffusa dal colonnello (poi generale) italiano Giulio Douhet. La sua idea fu accolta favorevolmente soprattutto in Gran Bretagna presso il generale Trenchard e negli Stati Uniti presso il generale Mitchell, i quali però nelle rispettive patrie furono clamorosamente (Mitchell) o silenziosamente (Trenchard) sconfessati. Successivamente (a partire dal 1936) la Gran Bretagna mutò atteggiamento e lo Stato Maggiore dell'aeronautica (arma indipendente dal 1918) si occupò, oltre che dei normali velivoli d'appoggio a terra (che furono anzi alquanto trascurati) e della caccia (che fu particolarmente curata), degli apparecchi adatti al bombardamento strategico. Il loro fine ultimo consisteva nell'agire in massa, in modo tale da distruggere il potenziale bellico del nemico con la furia dei bombardamenti. L'apparecchio adatto a questo scopo fu individuato nel bombardiere quadrimotore piuttosto veloce e fortemente armato per difendersi dalla caccia, capace di trasportare sull'obiettivo un carico utile di due o tre tonnellate di bombe.
Anche gli Stati Uniti, sia pure con molto ritardo (a causa della politica fortemente isolazionista praticata fra le due guerre), concentrarono il loro interesse sul bombardiere quadrimotore pesante, inizialmente pensato per la difesa a largo raggio delle coste americane, ma poi concepito come mezzo per annientare le retrovie industriali del nemico. Questa fu quindi una rivincita postuma di Mitchell, mentre in Italia Douhet, pur molto lodato, non venne seguito perché mancavano le strutture industriali capaci di costituire e mantenere una flotta da bombardamento strategico di dimensioni imponenti.
All'inizio della seconda guerra mondiale la Germania, che aveva equipaggiato il suo esercito secondo il modello studiato attentamente negli anni di pace apparente, e cioè con un nerbo di divisioni corazzate, pur sempre inferiori di numero rispetto alle divisioni di fanteria (le cui artiglierie erano ancora in gran parte ippotrainate), conseguì clamorosi successi.
La prima guerra mondiale aveva dimostrato l'inutilità delle grandi e costose navi da battaglia, minacciate ora non solo dai sottomarini e da mezzi insidiosi come le mine, ma anche dal progresso dell'aviazione. Fu il Giappone a intuire le potenzialità di quest'ultima; si orientò perciò - senza sacrificare le corazzate, ancora molto amate dagli ammiragli - verso la costituzione di una forza d'attacco che aveva il suo mezzo principale nelle portaerei e negli aerei imbarcati su di esse. Con tale forza (6 portaerei imbarcanti quasi 400 aerei, scortate da naviglio leggero e accompagnate da petroliere per il rifornimento in mare), la flotta giapponese attaccò con effetti devastanti il 7 dicembre 1941 la base americana di Pearl Harbour, nelle Hawaii, dove era concentrata la flotta statunitense.
Presso le altre marine il ruolo delle portaerei non venne ritenuto così decisivo. Lasciando da parte il caso dell'Italia, che rifiutò la costruzione di navi portaerei illudendosi che la penisola stessa costituisse un'unica enorme portaerei inaffondabile, e comprendendo anche le esitazioni della Germania, la cui flotta, destinata inizialmente a operare in zone di mare ristrette - il Baltico e il Mare del Nord -, sentiva meno il bisogno di tali navi, è da sottolineare che gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, due potenze sicuramente oceaniche, stentarono a orientarsi verso l'impiego dell'aviazione sul mare e a comprendere la necessità delle portaerei. Eppure la Gran Bretagna era stata la prima, negli ultimi anni della grande guerra, ad adattare scafi con ponti di volo per il lancio di aerei (e successivamente per l'atterraggio). La portaerei venne concepita inizialmente più come 'ombrello della flotta' che come nave d'attacco, a causa dell'importanza attribuita alla corazzata, che gli aerei avrebbero dovuto difendere. Furono gli Stati Uniti a concepire la portaerei come una nave d'attacco imbarcante un insieme non casuale di vari tipi di aerei, e cioè bombardieri da picchiata, aerosiluranti e caccia, oltre che bombardieri medi per il bombardamento in quota.
Va però riconosciuto che la concezione inglese della portaerei come 'ombrello della flotta' trovò conferma nei combattimenti aeronavali nel Mediterraneo, un mare ristretto in cui le squadre d'assalto, validissime nel Pacifico, non erano utilizzabili. La mancanza di tali navi si dimostrò assai dannosa per la flotta italiana, poiché i trasferimenti di squadre di caccia o aerosiluranti o bombardieri risultavano scarsamente tempestivi, in assenza di una perfetta organizzazione a terra. Inoltre la rivalità fra marina e aeronautica impedì una cooperazione attiva fra le due armi nonché l'addestramento di piloti e osservatori capaci di distinguere i diversi tipi di nave. Lo stesso inconveniente, pur con conseguenze meno gravi, si verificò anche per la Germania. Invece negli Stati Uniti l'assenza dell'aeronautica come arma autonoma favorì la formazione di due aeronautiche indipendenti, ciascuna addestrata ai suoi peculiari compiti. La Gran Bretagna, che aveva creato l'aeronautica come terza forza nel 1918, corresse l'errore appena in tempo nel 1937, riportandone una parte sotto il controllo della marina, compreso il 'comando costiero' aeronautico.
L'arma sottomarina, che aveva giocato un ruolo quasi decisivo nel primo conflitto mondiale, era stata contrastata con misure organizzative (i convogli di cui si è detto), ma non tecniche. Senonché nel maggio 1918 in Inghilterra avevano avuto esito felice i primi esperimenti sui metodi di rilevamento sottomarino cosiddetti attivi, cioè mediante la percezione di ritorno di un'onda ultracustica inviata da un opportuno generatore: ora il sottomarino poteva essere 'visto' e individuato sott'acqua e questa rivoluzione tecnologica fu considerata in Gran Bretagna sufficiente per debellare la minaccia sottomarina. La Germania, viceversa, si addestrò a combattere i convogli, cioè proprio quell'organizzazione dei trasporti navali che le aveva tolto la vittoria con metodi operativi. Nacque così, per intuizione dell'ammiraglio Doenitz, la tattica 'a branco di lupi'. I sottomarini si infiltravano in navigazione sommersa sotto e fra le navi del convoglio, per poi emergere numerosi in mezzo a esso. La battaglia si svolgeva a cannonate, riservando i siluri per le navi da guerra e gli obiettivi più lucrosi, ad esempio le petroliere. Quando si sviluppò il conflitto queste due concezioni si scontrarono e si perfezionarono, finché una non prevalse sull'altra: la soluzione tecnologica ebbe la meglio su quella tattica, e il sommergibile fu vinto.
Sul piano politico è facile individuare Hitler come iniziatore e motore dell'immane conflitto. Più complesso è stabilire le cause che lo portarono al potere, benché in libere elezioni (anche dopo la sua assunzione al cancellierato) egli non avesse mai raggiunto la maggioranza assoluta dei voti (nel marzo 1933 per il Partito nazista votò il 43,8% degli elettori e, per ottenere la maggioranza necessaria a governare, Hitler dovette allearsi col Partito nazionalista di Hugenberg che gli fornì il 7% necessario per arrivare a uno striminzito 51%). Non si possono invocare le durissime (fin troppo dure) condizioni che i vincitori imposero a una Germania esausta ma spiritualmente non abbattuta. Né si può invocare la grande inflazione - che, iniziata lentamente con lo scoppio della guerra, raggiunse il culmine il 15 novembre 1923, allorché il cambio del marco col dollaro toccò i mille miliardi - perché essa fu domata assai rapidamente e all'inizio del 1924 la Germania possedeva nuovamente una moneta stabile. Dalla fine del 1923 a tutto il 1928 il Partito nazista visse allo stato preagonico. Nelle elezioni svoltesi alla fine del 1928 conquistò il 2,5% dei voti. Sembrava la sua fine, e invece l'ondata della grande depressione economica nata negli Stati Uniti alla fine del 1929 travolse per prima la Germania, in misura estrema rispetto alle altre nazioni occidentali: dal milione di disoccupati del 1929 si salì agli oltre sei del 1932 e un nucleo consistente del popolo tedesco votò per il nuovo profeta che prometteva tutto. La Germania cedette alla disperazione. E il nuovo truce condottiero la portò il 1° ottobre 1938, senza colpo ferire, al livello di grosses Reich, essendosi annessa l'Austria e il territorio dei tedeschi dei Sudeti, strappato alla Cecoslovacchia. La Germania, con 75 milioni di abitanti, dotata del più potente esercito del mondo e con un prodotto interno lordo che sfiorava i 400 miliardi di dollari attuali, poteva utilizzarne il 10%, cioè 40 miliardi di dollari, per il potenziamento delle sue forze armate, concepite in funzione esclusivamente aggressiva. Era però uno sforzo che in tempo di pace non è sostenibile per lungo tempo da nessun paese. Il Führer, nelle sue nibelungiche aspirazioni al dominio mondiale e all'annientamento della congiura giudeo-bolscevico-capitalista, ordita, a suo dire, contro la Germania, non aveva altra scelta che una folle corsa in avanti, mentre il popolo tedesco, anche quello che non credeva in lui, non aveva più modo di ritirare la fiducia accordatagli sia pure parzialmente cinque anni prima. Finché gli riuscì la tattica dei grandi colpi di mano, Hitler fu sempre vittorioso. Ma l'attacco contro l'Unione Sovietica, scatenato il 22 giugno 1941, mise in luce per la prima volta, dopo pochi mesi, che la tecnica della 'guerra lampo' non funzionava contro il gigantesco colosso euroasiatico che costituiva la Russia.
E mentre prima aveva sempre vinto, dopo la campagna di Russia Hitler continuò a perdere fino al momento del suo suicidio, avvenuto alle 15,30 del 30 aprile 1945. Era riuscito nel frattempo a radere al suolo, con la Germania, quasi tutta l'Europa. Solo eventi allora imprevedibili (il fallimento del sistema comunista) hanno consentito, 45 anni dopo, la riunificazione della Germania: una Germania comunque mutilata delle terre dell'Est (Prussia orientale e occidentale, Slesia, Pomerania), che i cavalieri teutoni avevano colonizzato 700 anni prima. Stettino, Breslavia, Posen, Danzica sono divenute città polacche non solo giuridicamente ma anche etnicamente. Il Giappone, alleato della Germania, è riuscito a conservare l'unità nazionale e l'Italia non ha perso più del prevedibile.
Prima di riassumere sinteticamente le caratteristiche militari della seconda guerra mondiale, è interessante mettere in evidenza che la tecnologia impiegata nel corso della guerra non fu elaborata al tempo della grande corsa al riarmo (iniziata dopo il 1934), ma negli anni venti e nei primi anni trenta, quando le spese militari mondiali raggiunsero un minimo storico (circa l'1,5%, escluse la Francia, l'Italia e l'Unione Sovietica). In particolare la Germania, fino all'avvento di Hitler e per alcuni mesi ancora dopo, spese per le esigue forze armate che le erano state concesse dal Trattato di Versailles non più dello 0,6-0,7% del prodotto interno lordo. È un'ulteriore riprova che le invenzioni e le vere innovazioni si verificano negli anni di maggiore stretta economica, mentre in quelli di espansione si sfrutta il passato, ma non si pensa all'avvenire. Ciò è vero in campo militare (il colonnello tedesco Heinz Guderian elaborava la teoria delle divisioni meccanizzate osservando modelli di legno compensato o autocarri rivestiti con banda stagnata), come in campo civile. Fa eccezione la bomba atomica perché la scoperta di base, il fenomeno della fissione, avvenne alle soglie del 1939.
Le caratteristiche della seconda guerra mondiale sul piano della tecnologia militare possono essere riassunte in pochi punti essenziali.
Il 1° settembre 1939 la Germania hitleriana attacca la Polonia e la sconfigge completamente in meno di un mese. Tale vittoria è dovuta a una lieve prevalenza numerica, ma soprattutto all'impiego corretto delle forze mobili: le divisioni corazzate e gli aerei d'attacco al suolo, in particolare i bombardieri da picchiata. La scena si ripete, su scala più grandiosa e stupefacente, l'anno successivo, fra il 10 maggio e il 21 giugno 1940. Questa volta i Tedeschi hanno forze corazzate eguali, anzi leggermente inferiori, a quelle nemiche e, quanto all'aviazione, la loro superiorità si limita a quella da bombardamento, mentre vi è parità per quella da caccia. Si tratta dunque di una vittoria 'intellettuale'. L'esercito tedesco muove le sue divisioni meccanizzate (16, equipaggiate con 2.600 carri, su un totale di 135 divisioni) in maniera impeccabile. L'avversario (Francesi, Inglesi, Belgi, Olandesi) ha una lieve superiorità numerica di uomini e di mezzi. La Luftwaffe concorre alla disfatta degli Alleati anche con l'impiego di due divisioni aeree, una di paracadutisti, l'altra di fanteria aerotrasportata. L'Olanda è piegata in 5 giorni, il Belgio in 18, la Francia in 40, l'esercito inglese si salva, perdendo però tutto l'equipaggiamento. La precedente parentesi scandinava (ossia la conquista tedesca della Danimarca e della Norvegia fra il 9 aprile e i primi di giugno) si era svolta in modo apparentemente altrettanto soddisfacente per la Germania, che però si era vista mettere fuori uso metà della flotta. È comunque assodato che, senza il dominio dell'aria, le forze navali non possono sopravvivere in aree ristrette. D'altronde l'offensiva aerea scatenata dalla Germania contro l'Inghilterra nell'estate-autunno del 1940 non si è potuta tramutare in guerra aerea totale, perché a questa la Luftwaffe non era stata preparata.Il copione del Blitzkrieg si ripete nella velocità con cui la Wehrmacht distrugge l'esercito iugoslavo e quello greco l'anno dopo (6 aprile-28 aprile 1941). Anche la conquista di Creta con sbarco dall'aria è un esperimento militare di grande interesse. La battaglia, che dura 10 giorni e si conclude con una completa vittoria tedesca, è asperrima: le forze paracadutiste e aviotrasportate tedesche si vedono infliggere gravissime perdite (di uomini, aerei e alianti), ma risulta decimata anche la flotta inglese del Mediterraneo orientale, priva di protezione aerea.
La partecipazione italiana alla guerra nel Mediterraneo è assai deludente. L'attacco contro la Grecia si impantana in un'operazione carsica, risolta dall'intervento tedesco. E nel deserto occidentale una piccola forza meccanizzata inglese è capace di distruggere una grossa armata italiana largamente appiedata. La dirigenza militare italiana non conosce i presupposti concettuali della guerra di movimento meccanizzata.La tecnica tedesca - grandi e profondi fendenti portati con le forze corazzate appoggiate dall'aviazione d'assalto - viene ripetuta contro l'Unione Sovietica a partire dal 22 giugno 1941. Le vittorie sono clamorose ed enormi le perdite inflitte al nemico, ma Hitler non ha valutato con la necessaria prudenza la vastità del nuovo teatro delle operazioni: 600.000 autocarri per il rifornimento logistico di 3.200.000 tedeschi (cui si aggiungono 800.000 alleati romeni, finnici, ungheresi, italiani, slovacchi) non sono sufficienti (come a suo tempo non lo erano stati per Napoleone i suoi 200.000 cavalli) e i Tedeschi arrivano sfiniti alle porte di Mosca, dove la loro vittoria rimane congelata. La guerra lampo, il Blitzkrieg, è fallita. Si dice che in quel momento Hitler abbia avuto la percezione di aver perduto la partita e che abbia voluto continuare la guerra solo per raggiungere il suo secondo obiettivo: lo sterminio degli Ebrei. La controffensiva russa, scatenata il 6 dicembre 1941, mette in risalto che i Sovietici hanno ancora risorse sufficienti per impegnare la maggior parte dell'esercito tedesco. Qualche giorno dopo Hitler, pur non essendovi tenuto dal patto che lo legava al Giappone, dichiara guerra agli Stati Uniti, preceduto di un quarto d'ora dall'alleato italiano.
L'anno seguente è decisivo per le operazioni militari. La Germania comincia a soffrire della scarsità di petrolio, non avendo raggiunto i giacimenti del Caucaso che erano uno degli obiettivi della campagna precedente. La nuova grande offensiva dell'estate 1942, non più estesa all'intero fronte ma solo alla metà meridionale (con l'obiettivo di raggiungere il petrolio), pur aprendosi con grandi successi, si risolve in un interminabile logoramento presso la città di Stalingrado. Le due enormi puntate, l'una verso questa città, l'altra verso il Caspio, sono fra loro divergenti. I Russi riescono (il 19 novembre 1942) a tagliare la prima, accerchiando la VI armata tedesca a Stalingrado che era stata quasi occupata. Il secondo tentacolo tedesco (verso Batum e Baku) non viene amputato perché i Tedeschi si ritirano giusto in tempo, ma le perdite loro e degli alleati sono gravissime. Anche nel Mediterraneo la ruota del destino ha cominciato a girare in senso inverso. Sconfitti (ma non disfatti) a El Alamein, gli Italo-Tedeschi sono costretti a ritirarsi mentre alle loro spalle, sia pure ancora lontani, gli Anglo-Americani sono sbarcati nell'Africa settentrionale che viene occupata totalmente ai primi di maggio del 1943.
La guerra entra ora in una nuova fase. La Germania non ha le risorse per resistere su tutta l'ampiezza dei suoi fronti terrestri. Subisce inoltre la disfatta della sua arma sottomarina, che viene sconfitta fulmineamente nel maggio del 1943 dalla tecnologia avversaria e in quel solo mese perde 41 unità. Intanto è cominciata una guerra aerea pesantissima, e questa volta realmente totale, a danno della Germania, una guerra che ha dimensioni molto maggiori dell'attacco tedesco all'Inghilterra nel 1940. Dagli aeroporti dell'Inghilterra, e da quelli dell'Italia meridionale conquistati dagli Anglo-Americani, alla fine del conflitto operano 10.000 aerei, che includono la VIII e la XV armata aerea americana (operanti di giorno) e il Bomber command inglese, che opera di notte. Di questi apparecchi 6.000 sono bombardieri pesanti quadrimotori e 4.000 sono caccia di scorta a grande autonomia. Divampa un'aspra battaglia, che vede da parte anglo-americana la perdita di 25.000 aerei e di 150.000 membri degli equipaggi, ma alla fine la Germania, che ha perduto altrettanti aerei per difendersi, è trasformata in un enorme cumulo di macerie, tra le quali si contano 635.000 morti e 1 milione di feriti gravi solo nella popolazione civile.Il combattimento su terra si trasforma in una guerra d'usura come nel 1914-1918; ma essendo meccanizzato, le avanzate o le ritirate si misurano non in pochi chilometri, ma in decine o centinaia. L'esercito tedesco è stritolato, alla fine, da 25.000 carri armati e 25.000 aerei, cui non può opporre più di qualche migliaio degli uni e degli altri. Manca il carburante, mancano le munizioni, la Wehrmacht torna a spostarsi a cavallo. È la fine. La resa, assolutamente incondizionata, avviene il 9 maggio 1945. Nell'ultimo periodo i Tedeschi avevano studiato armi nuove che in quel momento sarebbe stato più opportuno non progettare, perché avevano richiesto uno sforzo tecnologico di cui la Germania era ormai incapace. Esse tuttavia indicheranno la via del futuro per le armi convenzionali del dopoguerra: gli apparecchi a reazione (in particolare Me-262), a razzo (Arado 234), i missili senza pilota (V-1), i razzi a lunga gittata (V2), i sottomarini ad alta velocità in immersione (tipi XXI e XXIII) e i visori notturni all'infrarosso.
La guerra aeronavale e terrestre nel Pacifico fra le potenze anglo-americane e il Giappone si è svolta secondo le linee precedentemente descritte. Scontri aeronavali di violenza crescente, combattimenti terrestri durissimi in terreni quasi proibitivi come la giungla equatoriale, guerra aerea strategica mediante i giganteschi quadrimotori B-29 contro un Giappone mal difeso. E in conclusione, i due primi (e, si spera, ultimi) attacchi nucleari della storia: Hiroshima e Nagasaki, con circa 200.000 morti. Il 3 settembre 1945 il Giappone si arrende non incondizionatamente, perché ottiene che l'imperatore conservi la sua posizione.
La fine del conflitto contro quelle che, semplificando, possiamo chiamare le 'potenze fasciste' vede nascere la 'guerra fredda' fra il mondo occidentale e l'URSS. Si può discutere a lungo sulle sue cause: se cioè, pur accollandone la responsabilità a Stalin, si debba interpretarla come uno stato di tensione estrema generato dal tentativo di diffondere la predicazione del 'verbo' comunista nel mondo, oppure se si sia trattato di una politica sostanzialmente difensiva contro la minaccia, non armata ma economica, della concezione 'liberista' sostenuta soprattutto dagli Stati Uniti. Il grande sviluppo industriale del mondo occidentale ha consentito una relativa limitazione degli armamenti (anche nei periodi più difficili gli Stati Uniti non hanno dedicato alle forze armate più del 6% del prodotto lordo e il Giappone, in base ai termini del trattato di pace, non supera anche oggi l'1%), mentre la grande crescita iniziale delle economie centralmente pianificate si è poi arenata nella stagnazione. La concentrazione degli sforzi sull'apparato militare (per l'Unione Sovietica sempre superiore al 15% del PIL) e l'impossibilità di pianificare centralmente i bisogni di una società non impegnata in uno sforzo bellico hanno portato alla fine (1991) alla rottura del sistema. La guerra fredda è dunque finita, e con essa l'incubo dell'olocausto nucleare, ma il futuro è per forza di cose ancor più imprevedibile che in passato. Tuttavia, in un mondo che ha raggiunto un prodotto mondiale di 30.000 miliardi di dollari - pur con un costo per singolo combattente di 70.000 o 80.000 dollari l'anno, circa dieci volte più alto in termini reali rispetto al 1914 -anche spese militari pari all'1,5% del prodotto sono in grado di mantenere in armi (senza combattere) quattro o cinque milioni di uomini, che sembrano largamente sufficienti a funzionare da 'polizia' a favore di un mondo desideroso di pace.
Comunque nei cinquant'anni successivi alla seconda guerra mondiale la concezione della guerra convenzionale si è evoluta secondo linee imposte dal perfezionamento delle tecnologie già emerse o emergenti, in particolare nel campo dell'informazione. Per riassumere mediante un esempio le variazioni verificatesi nel mezzo secolo trascorso dalla fine della seconda guerra mondiale, verrà brevemente descritta la potenzialità delle attuali (1994) forze armate americane.
Le forze di terra (esercito e marines) contano 1.000.000 di effettivi, di cui 1/3 di prima linea. Esse sono dotate di circa 50.000 veicoli da combattimento (carri armati e trasporti truppa armati e corazzati, per l'impiego su ogni terreno), la cui potenza motrice supera i 30 milioni di kW e la cui potenza media di fuoco (misurata su un giorno di combattimento) è dieci volte superiore. È evidente l'enorme crescita della potenza di fuoco rispetto a cinquant'anni prima. L'esercito tedesco che il 22 giugno 1941 invase l'Unione Sovietica contava 3,2 milioni di uomini (153 divisioni) e disponeva di 3.500 mezzi corazzati di tonnellaggio relativamente modesto. Con effettivi pari a meno di 1/3, l'esercito e i marines americani godono di una potenza di fuoco 20 volte superiore. Se poi ci si rifà all'esercito francese del 1914, esso aveva una potenza di fuoco e di movimento 100 volte inferiore a quella attuale americana, pur con una consistenza numerica un po' superiore.
Alle armi da fuoco tradizionali (cannoni e mitragliatrici) si sono aggiunti, presso tutte le formazioni combattenti, i missili teleguidati o autocentranti, nonché i razzi a mira oculare diretta, in dotazione specialmente alla fanteria come 'artiglieria' controcarro sui generis. In generale i maggiori sforzi sono diretti ad aumentare grandemente la precisione del tiro, dato il costo degli armamenti attuali. Un carro armato di media potenzialità costa, ad esempio, un milione di dollari.Nella marina la novità di maggior rilievo è stata la propulsione nucleare, che ha semplificato il rifornimento di carburante delle grandi navi di superficie (gli Stati Uniti hanno 6 portaerei su 15 e 9 incrociatori su 37 a propulsione nucleare). Ma soprattutto essa ha modificato la natura del sommergibile, trasformandolo in un vero sottomarino ad autonomia illimitata, capace di velocità subacquea superiore a 30 nodi per un tempo indefinito a una profondità di 600 metri. I 120 sottomarini americani sono tutti a propulsione nucleare. Armato di missili e siluri (anche non nucleari), il sottomarino è diventato una vera nave da battaglia di potenza e prestazioni inaudite. Nel mondo, su circa 800 sommergibili esistenti, oltre 300 sono sottomarini a propulsione nucleare.
L'aviazione ha visto, per gli aerei da combattimento, il passaggio completo dall'elica alla propulsione a getto, prima subsonico (fino alla fine degli anni cinquanta) e poi supersonico, con una stabilizzazione momentanea della velocità a 2,5-2,8 Mach (poco meno di 3.000 km/h). Tali sono le caratteristiche degli aerei da caccia o dei caccia-bombardieri. I grandi bombardieri strategici, come i B-1B americani, sono supersonici, ma con Mach 1,5, capacità di carico di 20 tonnellate e autonomia di 12.000 km. La potenza di ogni singolo motore a reazione, quando l'aereo vola alla massima velocità, può superare i 100.000 kW.In conclusione, forze armate come quelle americane (in totale 2.000.000 di effettivi, compreso l'apparato burocratico) dispongono di una potenza motrice di combattimento - su terra, mare e cielo - di almeno 120 milioni di kW, pur escludendo la massa dei trasporti necessari per far giungere alle forze combattenti i mezzi di sopravvivenza (viveri, munizioni, carburante) e che consistono in centinaia di migliaia di automezzi, migliaia di navi, migliaia di aerei da trasporto. Nell'insieme è l'equivalente di una nazione industriale medio-grande. Quanto alla potenza di fuoco, pur tenendo fuori del computo le armi nucleari, essa è aumentata cento volte rispetto a ottant'anni fa. Va però sottolineato che, salvo qualche perfezionamento tecnologico, la potenza degli esplosivi chimici non è nel frattempo sostanzialmente mutata. Si tratta dunque di 'mirare più giusto', non di sparare molto di più. Centrare il bersaglio al primo o al secondo colpo è l'imperativo dell'era informatica.
L'avvento delle armi nucleari, per quanto l'affermazione sembri paradossale, ha cambiato di poco il volto delle forze armate tradizionali. Il divario fra la potenza distruttiva degli esplosivi chimici e quella degli esplosivi nucleari è troppo grande perché possa esistere una qualsiasi compenetrazione fra di essi. La più piccola bomba atomica (a U-235 o a Po-239) ha un potere esplosivo pari a 20.000 tonnellate di tritolo, ed è solo con notevoli sforzi (abbassando il rendimento esplosivo) che si può scendere a 1 chiloton (1.000 tonnellate di tritolo equivalente) o a poco meno. Con gli esplosivi convenzionali il massimo raggiunto nella seconda guerra mondiale è stato di 10 tonnellate (grande slam). Non ci sono limiti invece per le capacità nucleari superiori. Nell'autunno del 1961 Chruščëv fece scoppiare sulla Nuova Zemlia un ordigno di 57 megatoni, capace di radere al suolo New York e sobborghi o lasciare un buco al posto di Mosca. Per portare a bersaglio le bombe nucleari (atomiche o H, cioè a fusione) si usano i missili intercontinentali da terra o montati su sottomarini nucleari celati negli abissi oceanici, mentre le cosiddette armi nucleari tattiche possono essere portate da aerei, sparate da cannoni, o trasportate da missili intermedi o a breve raggio.
Le armi nucleari si sono aggiunte a quelle tradizionali potenziate, portando sulla scena una capacità distruttiva tale da 'uccidere la guerra'. Oggi esistono nel mondo poco meno di 60.000 testate nucleari (30.000 localizzate nell'ex URSS, 23.000 in possesso degli Stati Uniti, 2.000 distribuite tra Gran Bretagna, Francia, Cina e India). Il loro potere distruttivo è stimato pari a un milione e mezzo di volte quello di ciascuna delle due bombe che distrussero Hiroshima e Nagasaki rispettivamente il 6 e il 9 agosto 1945. D'altronde studi irrefutabili hanno dimostrato che l'arrivo di 300 missili nucleari su altrettante città importanti degli Stati Uniti o dell'Unione Sovietica metterebbe i due paesi fuori combattimento per qualche secolo. Un potenziale distruttivo 100 volte superiore a quello capace di distruggere completamente l'avversario ha, evidentemente, un valore deterrente politico elevatissimo, ma un valore militare nullo o indefinibile. La prima valenza è stata quella che ha impedito lo scoppio di una terza guerra mondiale in questi ultimi cinquant'anni. Viceversa, la caduta del comunismo - non tanto come ideologia, quanto come sistema politico-economico dimostratosi inetto a reggere una società industriale - ha spogliato l'arma nucleare di gran parte del suo potere deterrente. È pertanto logico che si vada verso un'era di progressivo smantellamento degli arsenali nucleari; questo processo è oggi (1994) in fase assai avanzata.
Ciò ha cancellato l'angoscia di una nuova 'grande guerra', che condurrebbe alla fine del mondo, ma ha moltiplicato le occasioni per 'piccole guerre', che in realtà non sono tanto piccole, ma il cui impatto sul globo è relativamente modesto. Le armi tradizionali riacquistano pertanto importanza nel nuovo scenario e questo, per quanto appaia paradossale, costituisce il primo vero passo verso un mondo pacifico. L'epoca della 'leva di massa', che raggiunse il suo equilibrio 'perfetto' (se può usarsi questo aggettivo in senso puramente tecnico, spogliandolo cioè del suo significato morale) durante la grande guerra, è finita per sempre. Gli uomini destinati a combattere saranno pochi rispetto a quelli destinati a servire i combattenti. Questi ultimi richiedono un addestramento sempre più lungo e meticoloso, e possono essere soltanto una minoranza scelta della nazione. L'obbligatorietà del servizio militare sembra quindi destinata a svanire col trascorrere del tempo, per ragioni tecniche assai prima che per ragioni morali. Si dice, credo erroneamente, che abbiamo assistito alla fine delle ideologie. In realtà, benché tutti accettino ormai l'economia di libero mercato, è sempre aperto il confronto sul ruolo del potere della collettività (cioè dei governi) e su quello dei singoli individui. Ma in una società sufficientemente lontana dalla povertà, la lotta di classe, se di essa si può ancora parlare, non conduce certo allo scontro armato. Quanto al rapporto con i paesi oggi definiti poveri, esso non potrà non fondarsi sull'educazione e sull'istruzione, per dare a quei paesi quello che appare attualmente come il terzo fattore di produzione in ogni sviluppo economico (in aggiunta al lavoro e al capitale): la conoscenza.
Certo, l'umanità fa fatica a dimenticare la guerra come mezzo ultimo per dirimere i dissidi. Occorreranno secoli o millenni, e non è escluso che la guerra - nella sua dimensione più modesta concessa dagli esplosivi chimici - resisterà come una malattia cronica sulla pelle dell'umanità. Tuttavia almeno la sua capacità distruttiva resterà limitata dalla consapevolezza che una escalation verso gli esplosivi nucleari (che nessuno potrà cancellare dalla mente dell'uomo), sarebbe la fine di tutto. È un avvio, purtroppo non etico ma tecnologico (cioè imposto da ragioni tecniche), in direzione di guerre con obiettivi limitati, delle quali un'organizzazione internazionale meno inetta di quella attuale dovrebbe limitare il numero, la durata e l'intensità. (V. anche Armi; Diplomazia; Egemonia; Geopolitica; Guerriglia; Militare, organizzazione; Militari; Pace; Pacifismo; Strategici, studi).
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di Angelo Panebianco
1. Definizioni
Vediamo, per cominciare, alcune delle più significative definizioni che sono state date della guerra. "La guerra è dunque un atto di forza che ha per iscopo di costringere l'avversario a sottomettersi alla nostra volontà" (Clausewitz). La guerra è "uno stato giuridico e una forma di conflitto che implicano un alto grado di uguaglianza legale, di ostilità e di violenza nelle relazioni di gruppi umani organizzati o, più semplicemente, la condizione legale che offre uguali possibilità a due o più gruppi ostili di impegnarsi in un conflitto mediante forza armata" (Wright). La guerra è "una rottura delle relazioni organizzate tra gli Stati. Tale rottura, o se si preferisce interruzione dell'equilibrio interstatale esistente, è la condizione di possibilità di ogni guerra in assoluto" (Sorokin). La guerra "è la lotta armata e sanguinosa fra gruppi organizzati" (Bouthoul). "In primo luogo, perché un conflitto possa essere definito guerra deve esserci un sostanziale grado di organizzazione in entrambi i fronti. [...] In secondo luogo, deve esserci una significativa quantità di combattimenti perché un atto di forza possa essere qualificato come 'guerra'. [...] In terzo luogo, il coinvolgimento deve durare per un periodo significativo" (Luard).
Definire la guerra è meno facile di quanto possa apparire a prima vista e il breve elenco di definizioni sopra riportato dovrebbe essere sufficiente a mostrare la complessità del problema. La prima definizione citata, con cui si apre il Vom Kriege di Clausewitz, è in questa sede, ai fini di una disamina dei rapporti fra guerra e politica, poco utile. A Clausewitz servì per indicare l'essenza della guerra intesa nella sua forma idealtipica e non è estrapolabile, se non a prezzo di gravi fraintendimenti, dalla cornice teorica del libro primo del Vom Kriege. Poiché si limita a coglierne l'essenza, essa ci aiuta solo a ricordare che, considerata al livello di astrazione più elevato, la guerra è definita da un mezzo (la forza) e da un fine (sottomettere l'avversario alla nostra volontà). La seconda definizione, estratta da A study of war di Quincy Wright (v., 1942), si colloca a un livello di astrazione inferiore, ed è quindi più coerente con gli scopi di questa rassegna, ma ha anch'essa, ai nostri fini, un difetto. Si tratta di una definizione sociologico-legale della guerra (combina fattori sociologici e fattori giuridici) e, in quanto tale, ne restringe troppo il campo di applicazione. L'insistenza sull'uguaglianza legale fra i contendenti implica un tacito riferimento al concetto di sovranità statale. Essa si adatta dunque male alle situazioni di conflitto armato nelle epoche precedenti alla nascita del sistema degli Stati europeo (e poi mondiale) e all'affermazione del moderno diritto internazionale, nonché ai casi, molto numerosi, di conflitti armati dell'epoca moderna e contemporanea in cui manca all'uno o all'altro dei contendenti il riconoscimento dell'attributo legale della statualità da parte della comunità internazionale. La terza definizione, di Pitrim Sorokin (v., 1937), coglie un aspetto importante della guerra, la dissoluzione che essa comporta dei rapporti sociali organizzati fra gli Stati l'un contro l'altro impegnati (o sul punto di impegnarsi) in un conflitto armato. Ma più che di una definizione della guerra si tratta dell'indicazione di una condizione sociologica che rende possibile, e accompagna, la guerra. Anche il riferimento, contenuto nella definizione di Sorokin, alla rottura dell'equilibrio interstatale, serve più a identificare una possibile causa della guerra che a definire il fenomeno in quanto tale.
La definizione di Bouthoul (v., 1951), grazie alla sua essenzialità, sembra sfuggire a queste trappole. Se ci si limita a definire la guerra come "lotta armata e sanguinosa fra gruppi organizzati" si dispone apparentemente di uno strumento semplice e chiaro per discriminare ciò che è guerra da ciò che non lo è in qualunque epoca e in qualunque ambito geografico. L'apparenza può tuttavia ingannare, come risulta dalla quarta definizione proposta, quella di Luard (v., 1986). Essa è identica nella sostanza alla definizione di Bouthoul ma ne esplicita e ne articola i contenuti. E, esplicitandoli, mostra (in controluce) le difficoltà che incontra qualsiasi tentativo di elaborare una soddisfacente definizione operativa della guerra. Per Luard infatti si può parlare di guerra solo a condizione che le parti combattenti siano caratterizzate da un "sostanziale grado di organizzazione" (se una delle due parti non è organizzata, come accade, ad esempio, nei fenomeni di rivolta anomica contro lo Stato, non c'è guerra, nemmeno guerra civile, che pure è una sottospecie della guerra). Deve esserci inoltre una "significativa quantità di combattimenti" (l'incidente di Fāshōda del 1898 tra Francesi e Britannici non è classificabile come guerra). I combattimenti, infine, devono durare per un periodo di tempo "significativo" (un colpo di Stato non è classificabile come guerra). Il problema, naturalmente, è che non è sempre facile stabilire le opportune 'soglie': quanto sostanziale deve essere il grado di organizzazione delle due parti in lotta? Quanto grande deve essere la quantità di combattimenti per essere considerata significativa? Quale deve essere la loro durata? Sono questi i problemi in cui tipicamente si imbatte l'analisi empirica e comparata delle guerre (v. cap. 4) e la cui difficile soluzione spiega perché le liste delle guerre compilate dai diversi studiosi risultino sovente differenti, perché spesso il tale o il tal'altro episodio di conflitto armato venga classificato dall'uno come guerra (e pertanto incluso nella lista) e dall'altro no.
Lasciando da parte i delicati problemi di operazionalizzazione del concetto (che pure dimostrano come nella pratica non sia sempre facile identificare le guerre) può essere per ora sufficiente, ai nostri fini, la definizione di Bouthoul. Perché ci sia guerra deve esserci lotta armata fra gruppi umani organizzati. Dire che un gruppo umano è 'organizzato' significa dire che in esso è presente una qualche struttura di comando. Ciò equivale però ad affermare che si tratta di una 'unità politica', per quanto semplice ed elementare possa essere il suo sistema organizzativo. Quindi la guerra è connessa strettamente alla politica, nel senso che la guerra presuppone l'esistenza di unità politiche. Il che giustifica la circostanza che un aspetto cruciale dell'indagine sulla guerra, forse il più importante, riguarda il suo rapporto con la politica.I rapporti guerra/politica vengono tradizionalmente considerati da due diversi punti di vista, strategico e storico-politologico. Nel primo caso ciò che si indaga è il rapporto che si instaura, nel corso delle operazioni belliche, fra la politica (e i suoi fini) e il mezzo utilizzato, la forza armata. Nel secondo caso la guerra intesa come fenomeno sociale complesso, le sue cause, le sue conseguenze, ecc. diventano oggetto di una indagine i cui scopi conoscitivi riguardano, in realtà, la genesi, il funzionamento e il mutamento degli aggregati politici (intendendo per tali sia i sistemi di relazione fra unità politiche, i cosiddetti 'sistemi internazionali', sia i sistemi detti 'interni', propri cioè delle singole unità politiche), aggregati politici che provocano le guerre e che sono modificati dagli effetti delle guerre.
2. Guerra e politica: strategia
La 'strategia' è stata pensata nella sua autonomia concettuale solo in epoca moderna (v. Jean, 1990), anche se il 'pensiero strategico' in quanto tale risale all'antichità (v. Corneli, 1992). Si può dire in prima istanza che la strategia è un tipo particolare di prasseologia, di pensiero orientato alla prassi, all'azione, il cui scopo è indicare, di volta in volta, i modi migliori per l'utilizzazione dei mezzi militari in funzione degli scopi (politici) che quei mezzi devono servire. Come nel caso di altre discipline prasseologiche (ad esempio, l'economia), anche in quello della strategia si possono distinguere aspetti o momenti teorici e aspetti o momenti applicativi. Una distinzione consolidata è fra teoria strategica (che ha funzioni essenzialmente descrittive-interpretative), dottrina strategica (che svolge funzioni normative) e prassi strategica (l'arte militare in senso stretto) (v. Jean, 1990). Ma è vero il fatto che è la strategia nel suo insieme, per sua essenza, a essere normativamente, o prescrittivamente, orientata.
Per ampia parte il pensiero strategico si occupa essenzialmente di dottrina e di prassi (per gli sviluppi contemporanei v. ad esempio Luttwak, 1987). Gli attuali, assai fiorenti, 'studi strategici', al cui sviluppo concorrono sia studiosi che militari, si occupano specificamente delle modalità tecniche di impiego della forza militare e, per lo più, lasciano sullo sfondo, largamente impliciti, i rapporti fra la politica e l'impiego degli strumenti della violenza. Così facendo si collegano a una lunga tradizione occidentale di studi militari preoccupata esclusivamente di individuare le modalità migliori di impiego della forza militare (Jomini, contemporaneo di Clausewitz, e in vita assai più celebre di lui, è un esempio paradigmatico di precursore degli attuali studi strategici). Ma il pensiero strategico non si risolve tutto negli studi strategici intesi in senso stretto. Il nucleo più importante e vitale del pensiero strategico riguarda il rapporto fra la politica e la guerra. Tutt'oggi su questo punto il pensiero strategico è debitore a pochi grandi pensatori del passato, da Sun Tzu a Machiavelli a Clausewitz, quelli che più hanno segnato le nostre concezioni dei rapporti fra guerra e politica.
L'arte della guerra di Sun Tzu, vissuto a cavallo tra VI e V secolo a.C., è il più antico testo di strategia che ci sia pervenuto. Ha esercitato una fortissima e ininterrotta influenza, attraverso i secoli e i millenni, sul pensiero cinese. In tempi relativamente recenti è stato scoperto e valorizzato anche in Occidente (spesso impropriamente letto in contrapposizione a Clausewitz). Si tratta di un'opera che colpisce per la modernità delle concezioni che vi vengono esposte. Tradizionalmente considerato fautore della 'strategia indiretta', Sun Tzu raccomanda l'uso dell'astuzia più che della forza. "Combattere e vincere cento battaglie non è prova di suprema eccellenza: la suprema abilità consiste nel piegare la resistenza (volontà) del nemico senza combattere". E ancora: "L'abilità del comandante consiste nel piegare le forze del nemico senza alcun combattimento, nell'impadronirsi delle città senza assalirle, nel conquistare lo Stato nemico senza lunghe operazioni militari" (Sun Tzu, L'arte della guerra, Napoli 1988, pp. 81-82).
Sun Tzu è il primo pensatore (o, quantomeno, il primo di cui ci sia pervenuta l'opera) a definire in termini convincenti il rapporto guerra-politica. Per Sun Tzu, come in seguito per Machiavelli e per Clausewitz, la guerra è subordinata alla politica. La razionalità della guerra appartiene in toto al dominio della razionalità politica. È uno degli strumenti attraverso i quali lo Stato (il sovrano) realizza i propri fini. Il comandante non è soltanto un tecnico, uno specialista nell'uso dei mezzi della violenza. Le sue decisioni e le sue azioni militari sono a tutti gli effetti atti politici, atti le cui conseguenze possono essere benefiche oppure esiziali per la vita dello Stato che egli serve. Oltre che sulle risorse materiali e sulle capacità tecniche del comandante, la guerra, per riuscire a realizzare i fini della politica, deve basarsi sul Tao, su fattori morali o spirituali. Il punto cruciale qui è la "completa armonia" che deve realizzarsi fra il popolo e il sovrano.Dopo Sun Tzu è in Machiavelli che il pensiero strategico trova nitidamente definiti i rapporti fra politica e guerra. Il fondatore della scienza politica moderna è infatti anche il pensatore occidentale che per primo e più chiaramente di altri (un punto che non sfuggì a Clausewitz) vede e teorizza lo stretto legame fra politica e guerra: non solo nella sua opera specificamente dedicata alle questioni militari (L'arte della guerra) ma anche nel Principe e nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio. La sua avversione per le truppe mercenarie, la sua insistenza sull'importanza delle milizie cittadine (nonostante i fallimenti pratici da lui sperimentati, all'epoca della sua milizia politica, proprio su questo terreno), la sua incondizionata ammirazione per la strategia e la tattica militari dell'antica Roma repubblicana, la sua grave sottovalutazione del ruolo che l'artiglieria era sul punto di assumere su tutti i campi militari d'Europa, ne fanno un pensatore che sul piano strettamente militare sconta i limiti del suo tempo, senza riuscire a superarli (v. Gilbert, 1943). La forza e la modernità del suo pensiero militare stanno altrove. Egli comprende infatti che "da una superiorità tattica deriva una superiorità strategica e che questa trova il suo sostegno e anche le sue limitazioni nel grado di coesione dello Stato. [...] Sollevandosi a più alto volo ha ben mostrato come la strategia si leghi alla politica, anzi sia un aspetto di questa, e come quindi la saldezza dello Stato sia alla base di ogni condotta di guerra" (v. Pieri, 1975, p. 55). Inoltre, la sua fede nel ruolo delle forze popolari, la sua concezione del popolo "come fondamento dello Stato, si traducono, pur con tutte le limitazioni contingenti, nell'affermazione del cittadino-soldato; e l'elevazione del cittadino a soldato prepara pur quella del soldato a cittadino, la soppressione dell'antitesi fra uomo di guerra e uomo di pace. In questo campo egli è dunque, oggi più che mai, un precursore. Ma soprattutto nel campo strategico egli ha veramente inteso la guerra: guerra che è la più energica e fatale espressione dell'attività politica di un popolo, e la cui condotta si lega strettamente alla sua organica saldezza" (ibid., p. 62).
Proprio queste intuizioni di Machiavelli costituiscono il punto di partenza di Clausewitz, il teorico moderno per eccellenza dei rapporti fra guerra e politica. Variamente interpretato e spesso frainteso, il Vom Kriege di Clausewitz (v., 1832-1834) è assurto nel corso del XIX e del XX secolo al ruolo di bibbia del pensiero strategico moderno (v. Aron, 1976; v. Paret, 1976). La concezione della guerra di Clausewitz si colloca a due diversi livelli. A un primo livello la guerra è considerata nella sua essenza, nella sua forma idealtipica. Vista in questa chiave la guerra è assimilabile a un combattimento fra due lottatori, ciascuno dei quali è impegnato nel tentativo di sottomettere la volontà dell'altro. Così intesa la guerra è libera da qualunque freno o limitazione, è indotta, dalla sua logica interna, a una escalation di violenza che può terminare solo quando la resistenza di uno dei due combattenti è vinta e la sua volontà sottomessa. Da un punto di vista puramente logico la guerra implica la "scalata agli estremi". È "guerra assoluta", guerra di annientamento. Ma l'essenza della guerra è una cosa, lo svolgimento delle guerre che l'esperienza storica conosce è tutt'altra cosa. A questo secondo livello, nella concezione di Clausewitz, la guerra muta radicalmente aspetto. Essa risulta infatti limitata, vincolata da mille fattori, per esempio tecnici, materiali, ecc. (ciò che Clausewitz chiama "attrito"), che contribuiscono, oltre che a creare inevitabili scarti fra intenzioni e risultati, anche a impedire la trasformazione delle guerre reali in guerre assolute. Ma soprattutto la guerra è vincolata dalla politica. La celebre formula secondo cui "la guerra non è se non la continuazione del lavoro politico, al quale si frammischiano altri mezzi", ancorché spesso fraintesa da molti, implica precisamente la subordinazione della guerra alla politica. La guerra, dice Clausewitz, possiede una sua grammatica ma non una sua logica. La logica della guerra è sempre una logica politica. Ciò significa che la politica stabilisce i fini del cui raggiungimento la guerra è mezzo e la condiziona in ogni suo momento piegandola alle sue mutevoli esigenze. Lo scarto fra l'idealtipo (la guerra assoluta) e le guerre reali dipende soprattutto dal ruolo della politica che, condizionando la guerra, inevitabilmente la limita, frena la sua naturale tendenza alla "scalata agli estremi".
Collocandosi sullo sfondo storico delle guerre della Rivoluzione francese e di Napoleone Bonaparte, la riflessione di Clausewitz coglie la grande novità che segna lo spartiacque fra passato e presente, fra le guerre tradizionali e la guerra moderna, e che è data dall'inedito ruolo assunto dalle masse. La nascita degli eserciti dei coscritti, i cittadini-soldati, infiammati da passioni ideologiche, è conseguenza del mutamento avvenuto nella sfera politica e, a sua volta, modifica radicalmente condizioni e modalità della guerra. È riflettendo sulla guerra napoleonica e sulle novità che essa ha introdotto che Clausewitz elabora la sua definizione "trinitaria" della guerra. Nella quale giocano le ragioni della politica, dell'intelligenza "personificata" dello Stato, la "libera attività dell'anima" (le capacità e le intuizioni) del comandante militare e le passioni del popolo.Non si può dire che dopo Clausewitz il pensiero strategico abbia prodotto molto di nuovo in merito al rapporto politica-guerra. Anche se, soprattutto nel XX secolo, l'esperienza delle due guerre mondiali, la guerra fredda e la comparsa delle armi nucleari hanno fatto pensare a molti che la concezione esposta da Clausewitz fosse, di fatto, superata. Ma in realtà la riflessione successiva al Vom Kriege non è stata altro che un lungo dialogo, più o meno polemico o più o meno simpatetico, con Clausewitz (v. Brodie, 1973). Tre sono stati i temi fondamentali. Il primo è stato sviluppato da coloro che puntavano ad abrogare la formula clausewitziana, ritenendo che la guerra dovesse essere svincolata dalla politica o che, addirittura, fosse la politica a dover essere subordinata alla guerra. È una posizione che già alla fine del secolo scorso e poi durante la prima guerra mondiale (ad esempio, in Germania con Ludendorff e Hindenburg) è stata molto popolare negli ambienti militari. In sostanza l'idea era che la conduzione della guerra dovesse essere lasciata in toto (e dunque anche nei suoi aspetti più apertamente politici) nelle mani dei tecnici della guerra, dei militari. In questa visione il compito della politica era quello di non intralciare i piani e le decisioni dei militari e di svolgere per il resto un semplice ruolo di 'supporto esterno'. Di fatto fu questo lo scenario che, con l'importante eccezione rappresentata dal ruolo di Clemenceau in Francia, personalità forte di leader civile che riuscì a imporre il proprio predominio sulla condotta bellica, prevalse in Europa durante la prima guerra mondiale (v. Craig, 1986): dalla Gran Bretagna alla Germania alla stessa Francia prima di Clemenceau i militari dominarono le decisioni di guerra e resero i politici succubi delle loro scelte.
Anche se le cose andarono diversamente durante la seconda guerra mondiale (da Roosevelt a Churchill a Hitler a Stalin, furono sempre i leaders civili a dominare il gioco), la visione secondo cui la guerra deve essere lasciata interamente nelle mani dei tecnici continuò a circolare, negli ambienti militari dei diversi paesi, in polemica e in competizione con la classica visione clausewitziana. Il secondo tema importante emerge con la guerra fredda. La divisione in blocchi, lo stallo nucleare, la contrapposizione ideologica fra Occidente e Oriente comunista danno luogo a una competizione internazionale che assume forme di 'strategia indiretta' alla Sun Tzu: movimenti insurrezionali e controinsurrezionali nel Terzo Mondo, sovversione politica nei paesi occidentali, ecc. Si fa strada l'idea che la formula clausewitziana debba essere rovesciata: ossia che, nel mondo bipolare, la politica sia diventata la continuazione della guerra con altri mezzi. Viene avanzata da alcuni l'idea di una strategia globale di cui la politica dovrebbe essere, insieme alle forze armate, uno strumento (v. Beaufre, 1963).
Il terzo tema riguarda il presunto superamento della visione clausewitziana a causa della comparsa delle armi nucleari. L'equilibrio del terrore, sinteticamente evocato dalla sigla MAD (mutua distruzione assicurata) avrebbe spezzato, secondo molti, il legame individuato da Clausewitz fra la politica e la guerra: nel momento in cui la guerra rischia di trasformarsi in un'apocalisse, letale per entrambe le parti, essa non può più essere considerata come la continuazione della politica. La formula di Clausewitz cessa così di valere nell'età nucleare. In realtà, c'era molta esagerazione nella tesi che sosteneva la radicale novità delle armi nucleari. Sia perché - sebbene all'ombra del cosiddetto 'equilibrio centrale', quello fra le due superpotenze, che garantiva la pace in Europa - le guerre continuarono a combattersi con armi convenzionali in Asia, in Africa e in Medio Oriente. E nel caso di queste guerre, naturalmente, nulla era di fatto cambiato nella relazione fra guerra e politica. Sia perché, soprattutto, anche la dissuasione atomica, pur con le sue specificità (v. Aron, 1963 e 1976; v. Mandelbaum, 1981; v. Schelling, 1960; v. Santoro, 1984), era ed è a tutti gli effetti uno strumento della politica. E se la concezione clausewitziana mostrò di valere anche nell'età del bipolarismo nucleare, essa a maggior ragione vale oggi, nell'epoca del postbipolarismo, nell'epoca in cui molti Stati recuperano progressivamente uno dei fondamentali attributi della sovranità: il potere di decisione sulla guerra e sulla pace.
3. Le scienze sociali e la guerra
Osservava anni addietro Martin Wight (v., 1966) che il pensiero politico classico non ha prodotto, con pochissime eccezioni, riflessioni sistematiche sulla politica internazionale e sulla sua dimensione più caratterizzante, quella bellica. Talché, continuava Wight, si può dire che una teoria politica 'internazionale' in quanto tale non sia mai esistita in Occidente. O quantomeno, ammesso che essa esista, occorre faticosamente ricostruirla attraverso le note a piè di pagina e le frasi incidentali contenute in trattati filosofici per lo più preoccupati di delineare i tratti costitutivi della buona società o di scoprire i fondamenti dell'ordine politico. Le eccezioni si riducono alle non molte pagine dedicate all'argomento da Hobbes, Spinoza, Rousseau, Hegel, agli scritti di Kant, di Constant, e poco altro.
La nascita delle scienze sociali moderne ha modificato solo di poco la situazione. In effetti, un'identica sottovalutazione della dimensione internazionale dei fenomeni politici, e pertanto dei legami fra la guerra e la politica, la troviamo, sia pure con alcune importanti eccezioni di cui si dirà poi, anche nei padri fondatori delle scienze sociali (v. Aron, 1959). Basti pensare al caso della sociologia. Nata per spiegare la 'grande trasformazione', la nascita della società industriale, la sociologia, nei suoi padri fondatori, ha sottovalutato l'importanza della guerra. Da Saint-Simon a Comte a Spencer la sociologia, ai suoi esordi, finì per considerare le guerre un residuo del passato, una forma di interazione sociale destinata a essere definitivamente abbandonata man mano che la società industriale andava sviluppandosi. Né diversamente, anche se con motivazioni differenti, pensavano i fondatori dell'economia, da Adam Smith a David Ricardo a John Stuart Mill, per i quali il tramonto del mercantilismo e lo sviluppo del libero commercio avrebbero comportato il declino della guerra o, quantomeno, un forte ridimensionamento del suo ruolo nella storia umana. I fondatori delle scienze sociali, si trattasse di sociologia o di economia, erano influenzati da un clima culturale, forgiato dall'illuminismo, che da Immanuel Kant a Benjamin Constant (v. Gallie, 1978) aveva ritenuto possibile, e ormai incipiente, l'addomesticamento dei conflitti internazionali. Nonostante la reazione romantica che prese piede in terra tedesca contro le tesi illuministe sulla guerra (v. Mori, 1984), nel corso dell'Ottocento le scienze sociali continuarono a sottovalutare il ruolo dei conflitti armati, il loro impatto sul mutamento societario e politico, in questo incoraggiate anche dalla lunga pace che in Europa seguì la conclusione delle guerre napoleoniche. Nemmeno la scienza politica al suo esordio, ad esempio con gli elitisti italiani, portò particolare attenzione alla guerra. Altre erano le sue preoccupazioni. Se la sociologia era nata per fronteggiare cognitivamente i mutamenti societari prodotti dall'industrializzazione, la scienza politica si affermava come disciplina orientata allo studio della democrazia e dei mutamenti generati dai processi di democratizzazione della politica. Da qui la relativa disattenzione per i fenomeni bellici.
Chi vuole cercare allora i precedenti storici della moderna ricerca sui rapporti guerra/politica deve necessariamente rifarsi alla dottrina della ragion di Stato (v. Pistone, 1976) e a quella sua diretta filiazione che è la teoria ottocentesca dello Stato-potenza (v. Meinecke, 1924; v. Pistone, 1973). La dottrina della ragion di Stato trae ispirazione dagli scritti di Machiavelli e dà luogo, fra Cinque e Settecento, a una fiorente letteratura in tutti i paesi europei (per l'età barocca italiana v. Croce, 1929). Questa corrente raggiunge la sua massima maturità e i suoi più importanti sviluppi nel corso dell'Ottocento in Germania. Hegel, Ranke, Treitschke sono gli autori principali di riferimento. Nel Novecento ne saranno continuatori, con diverse accentuazioni, studiosi come Otto Hintze e Ludwig Dehio. Anche Max Weber, nelle poche pagine di Economia e società in cui tenta di abbozzare una sociologia delle relazioni internazionali e della guerra, mostra di essere sostanzialmente debitore di questa corrente.L'idea di base è che la guerra sia spiegata dall'anarchia internazionale e dalla conseguente tendenza degli Stati, per garantirsi la sopravvivenza, a praticare la politica di potenza (Machtpolitik), nel continuo tentativo di migliorare la propria posizione relativa a scapito di quella degli altri Stati nello scacchiere internazionale. L'alternanza di pace e guerra all'interno del 'sistema degli Stati' dipende dal prevalere di condizioni di equilibrio delle forze (balance of power) oppure di squilibrio. Un'idea derivata è quella del 'primato della politica estera'. Si assume che anche l'ordine politico interno agli Stati sia condizionato e in larga misura plasmato dagli imperativi collegati alla competizione fra gli Stati e dagli esiti di tale competizione. Il primato della politica estera su quella interna contribuirebbe a spiegare, ad esempio, la diversa evoluzione costituzionale e politica propria degli Stati insulari, le potenze marittime (Gran Bretagna, Stati Uniti), rispetto agli Stati continentali europei.
4. Quante guerre?
L'indagine contemporanea sulla guerra deve molto ai progressi realizzati dalla ricerca quantitativa sui conflitti. In larga misura è quella ricerca a fornire l'indispensabile base empirica agli studiosi delle cause delle guerre e dei rapporti fra guerra e politica. Senonché identificare le guerre è meno semplice di quanto non appaia a prima vista. Un recente dizionario delle guerre dal 2000 a.C. a oggi (v. Kohn, 1986) propone un elenco di oltre 1700 guerre sia 'internazionali' (coinvolgenti più unità politiche) sia 'civili'. L'autore del dizionario è costretto però ad ammettere che né l'elenco è esaustivo né è stato possibile evitare "una certa soggettività" nella scelta dei conflitti armati da inserire e da escludere. Ciò ben si comprende dal momento che stipulare una soddisfacente definizione operativa della guerra è tutt'altro che semplice. Anche la ricerca scientifica più seria, infatti, ha utilizzato per lungo tempo, per lo più, criteri impressionistici. Ad esempio, Sorokin, in uno dei primi studi sistematici sulle guerre dall'antichità a oggi, si limita a prendere in considerazione le guerre che vengono da lui definite, senza ulteriori specificazioni, "importanti" (v. Sorokin, 1937; tr. it., p. 804), arrivando così a enumerarne 967.
Analogamente Quincy Wright (v., 1942) parla di circa 308 guerre fra il 1480 e il 1964, ma anche la sua definizione operativa è basata su criteri impressionistici. Di fatto, possiamo dire che quanto più si risale indietro nel tempo tanto più aumenta la difficoltà di dare contorni precisi al concetto di guerra e, pertanto, di costruire elenchi di guerre basati su indicatori sufficientemente uniformi. Non casualmente, fra i lavori pionieristici, la ricerca quantitativa basata su indicatori relativamente precisi delle guerre, che si deve al matematico Richardson (v., 1960), non risale nel tempo oltre il 1820. Richardson è il primo studioso che per l'identificazione delle guerre, e per la misurazione della loro intensità, ricorre al criterio del numero di perdite umane. Un criterio che, sia pure combinato con altri, anche la successiva ricerca quantitativa utilizzerà.
La più importante ricerca quantitativa del secondo dopoguerra è quella sviluppata all'interno del progetto Correlates of war diretto da Malvin Small e David Singer (v., 1972; v. Singer, 1979-1980). Small e Singer identificano, usando criteri univoci, 67 guerre interstatali e 51 guerre extrastatali (di tipo coloniale) nel periodo 1816-1980. Questa ricerca, che delle guerre, nel periodo considerato, misura molti aspetti, dalla grandezza (numero dei paesi coinvolti), alla severità (numero di perdite umane), alla intensità (il rapporto fra le perdite umane e le risorse di guerra impiegate), ha fatto fare un salto di qualità all'indagine sui conflitti armati. Nel senso che, per la serietà della metodologia impiegata e per la mole di dati che ha raccolto e messo a disposizione degli studiosi, rappresenta oggi il principale punto di riferimento di tutte le ricerche sulle guerre, la 'base empirica' cui tutti i ricercatori devono attingere.
Non tutte le guerre, naturalmente, pesano (sul piano politico) allo stesso modo. Ed ecco perché l'analisi quantitativa dei conflitti non può limitarsi alla pura catalogazione, senza ulteriori specificazioni, delle guerre combattute. Le guerre che più hanno pesato sul sistema internazionale (e anche, come vedremo, sullo sviluppo degli Stati) sono le guerre combattute dalle grandi potenze. In uno studio, destinato anch'esso a diventare punto di riferimento obbligato di tutte le analisi successive, Levy (v., 1983) esamina il periodo che va dal 1495 al 1975 per identificare le guerre combattute dalle grandi potenze del moderno sistema degli Stati. Delle guerre combattute nel periodo citato, 64 hanno visto la partecipazione di una o più delle grandi potenze che di volta in volta si sono succedute entro il sistema degli Stati. Di queste 64 guerre, 10 possono essere catalogate come "guerre generali", ossia guerre per l'egemonia sul sistema internazionale, nelle quali è rimasta coinvolta la maggior parte delle principali potenze (v. Levy, 1985; tr. it., p. 421): guerra di indipendenza olandese (1585-1609); guerra dei Trent'anni (1618-1648); guerra olandese di Luigi XIV (1672-1678); guerra della Lega di Augusta (1688-1697); guerra di successione spagnola (1701-1713); guerra di successione austriaca (1739-1748); guerra dei Sette anni (1755-1763); guerre rivoluzionarie e napoleoniche (1792-1815); prima guerra mondiale (1914-1918) e seconda guerra mondiale (1939-1945).
L'analisi quantitativa delle guerre, di per sé, condotta generalmente con metodo induttivo e (salvo nel caso di Levy) ateoretico, non poteva generare una spiegazione della guerra. Ad esempio, Singer e Small nel loro lavoro rinunciano esplicitamente a ricercare le cause delle guerre. Si limitano a identificare correlazioni statistiche fra le guerre e una pluralità di fattori, politici ed extrapolitici. E tuttavia la ricerca quantitativa sui conflitti non è per questo priva di utilità. Dai lavori pionieristici di Sorokin, Richardson e Wright alle più sofisticate ricerche di Small, Singer e Levy, questa ricerca ha messo a disposizione degli studiosi interessati alla spiegazione dei fenomeni bellici un elaborato e preziosissimo materiale empirico.
5. Teorie della guerra
Fondamentalmente la ricerca scientifica sulla guerra si è interessata, e si interessa, di due problemi. In primo luogo, le cause della guerra. La ricerca polemologica cerca cioè di rispondere alla domanda: perché scoppiano le guerre? In secondo luogo, le conseguenze della guerra, gli effetti delle guerre sugli aggregati sociopolitici.
Le teorie della guerra possono essere in prima istanza distinte a seconda che la spiegazione del fenomeno bellico faccia riferimento a cause extrapolitiche oppure a cause politiche. Al primo tipo appartengono le teorie biologiche, demografiche ed economiche (per una rassegna delle diverse teorie della guerra, v. Bouthoul, 1951). Le teorie biologiche fanno tradizionalmente riferimento all'una o all'altra versione dell'innatismo e spiegano le guerre fra gruppi organizzati a partire dall'aggressività individuale in presenza di ambienti ostili. Varianti aggiornate sono il frutto degli apporti dell'etologia e della sociobiologia (v. Eibl-Eibesfeldt, 1975). Le teorie demografiche utilizzano la pressione demografica come variabile esplicativa delle guerre. Una variante è detta dell'"infanticidio differito" (v. Bouthoul, 1970): le guerre ristabilirebbero periodicamente l'equilibrio demografico dei diversi paesi attraverso l'eliminazione - che la guerra provoca - di quote più o meno elevate di maschi giovani. Le teorie economiche, infine, spiegano le guerre ricorrendo al ruolo di fattori economici. Fra le teorie economiche la più nota e importante è la teoria marxista dell'imperialismo.Tutte le teorie sopra elencate sono state oggetto di numerose critiche. Le teorie di impronta biologica, ad esempio, non sfuggono all'accusa di 'fallacia naturalistica': pretendono di spiegare i comportamenti di aggregati politici come mere estensioni di comportamenti individuali (v. Waltz, 1959²). Inoltre, anche nelle varianti più sofisticate, quelle della sociobiologia contemporanea, non appaiono persuasive nella loro pretesa di colmare e di annullare la forbice fra natura e cultura (v. Galli, 1984). Le teorie demografiche e le teorie economiche, come tutte le teorie monocausali di fenomeni complessi, non sfuggono all'accusa di determinismo e di sopravalutazione del fattore esplicativo privilegiato (v. Aron, 1962).
La seconda grande categoria è data dalle teorie che privilegiano, nella spiegazione delle guerre, i fattori politici. Oggi disponiamo di una ricchissima letteratura politologica sulle guerre. Il suo principale limite, se di limite si tratta, è che questa letteratura, nelle sue teorizzazioni più interessanti, si è massimamente concentrata sulle guerre dell'epoca moderna e/o contemporanea. In pratica le principali teorie che si disputano il campo oggi hanno scelto di privilegiare l'epoca che inizia con la nascita del sistema europeo degli Stati.
Fondamentalmente le interpretazioni politologiche della guerra possono essere distinte in prima istanza a seconda che individuino le cause della guerra nel funzionamento del sistema internazionale oppure nelle dinamiche interne ai singoli Stati. Per quanto riguarda il primo tipo di interpretazioni è possibile identificare tre filoni principali: politico-realistico, geopolitico, olistico-sistemico.
Dell'approccio realistico alla guerra esistono due versioni. Per la prima versione la guerra è invariabilmente il frutto di un'alterazione dell'equilibrio di potenza. Per la seconda versione la guerra è il prodotto del declino di una potenza egemonica e della volontà di una o più potenze in ascesa di sfidare la potenza egemonica per ridefinire le gerarchie di status internazionali. Per la prima scuola la pace (intesa come assenza di guerra) è il frutto di un equilibrio di potenza che si protrae nel tempo. Per la seconda scuola la pace è la conseguenza di un ordine internazionale imposto da una potenza egemonica. Raymond Aron (v. 1962) unifica le due prospettive distinguendo fra "pace d'equilibrio" e "pace d'egemonia".
La scuola realista dell'equilibrio discende direttamente dalla dottrina dello Stato-potenza cui si è in precedenza accennato. Da Morgenthau (v., 1948) a Waltz (v., 1979), questa scuola spiega l'ordine internazionale come il frutto di un rapporto di 'bilanciamento' fra le principali potenze del sistema internazionale. Quest'ultimo può essere bipolare (dominato da due superpotenze) oppure multipolare (dominato da un club ristretto di grandi potenze). In entrambi i casi la pace è dovuta a una situazione di stallo fra i poteri. La guerra scoppia quando i rapporti di forza cambiano e diventano sbilanciati a favore di una delle grandi potenze, la quale cerca, per conseguenza, di imporre la propria egemonia sull'intero sistema internazionale. In questo caso si assisterà alla formazione di una coalizione di guerra per sconfiggere la potenza aspirante egemone (v. Dehio, 1948). I sistemi di balance of power sono stati variamente esaminati dalla letteratura realista (v. Butterfield, 1966; v. Gulick, 1967²) sulla scia di più antiche riflessioni, da Guicciardini a Hume a Ranke. Si è ritenuto anche possibile individuare le regole di funzionamento di un sistema di balance of power (v. Kaplan, 1957). La teoria è stata sottoposta a tentativi di verifica storico-empirica (v. Healy e Stein, 1973). Critiche serrate e convincenti sono state formulate, fra gli altri, da Haas (v., 1953) e da Claude (v., 1962).
La seconda versione dell'approccio realista è quella che prescinde dal concetto di equilibrio di potenza. Per questa seconda scuola l'ordine internazionale non dipende dall'equilibrio ma dalla preponderanza (o egemonia) di una singola potenza (v. Bonanate, 1979; v. Cesa, 1992). La guerra scoppia quando la potenza dello Stato egemone declina o si indebolisce e/o quando cresce la potenza di uno Stato rivale (lo sfidante) che occupava in precedenza una posizione subordinata.Per Robert Gilpin (v., 1981) i sistemi internazionali restano stabili fin quando una potenza mantiene saldamente l'egemonia. La guerra scoppia quando mutamenti economici o tecnologici alterano la distribuzione di potenza a favore di altre unità politiche. A quel punto la guerra diventa lo strumento per decidere sul campo le nuove gerarchie di status internazionali. Non tutte le guerre sono di tipo 'egemonico'. È possibile così distinguere le guerre secondarie, in cui la posta in gioco non è l'ordine internazionale nel suo insieme, dalle guerre egemoniche che ridefiniscono l'assetto generale.Una variante è la teoria della "transizione di potenza" (v. Organski e Kugler, 1980). Per questa teoria la guerra diventa altamente probabile quando una potenza secondaria ha accumulato sufficiente potere da essere in grado di sfidare la potenza egemone. L'alterazione dei rapporti di forza è dovuta a processi di sviluppo economico che si riverberano sulle capacità militari dei vari attori in gioco. Nella versione originaria la teoria ha un'applicazione limitata: si adatta solo alle guerre dell'età industriale. Ma con alcuni adattamenti essa parrebbe applicabile all'insieme dell'età moderna, dalla nascita del sistema degli Stati a oggi (v. Kim, 1992; v. Bosnell e Sweat, 1991).
Un'altra variante ancora si deve a Doran (v., 1980, 1983 e 1989). Per Doran le diverse potenze del sistema internazionale dell'età moderna attraverserebbero "cicli di potenza" (ascesa e declino). Le guerre diventano probabili quando i cicli di potenza di due o più Stati si intersecano in uno dei quattro "punti critici" che Doran ritiene di poter individuare (al punto più alto e al punto più basso, nonché nei due punti intermedi, di ciascun ciclo di potenza). Nei punti critici del ciclo la potenza si trova a dover rapidamente adattare la sua politica estera ai cambiamenti intervenuti nella sua posizione internazionale vis-à-vis le altre potenze. E l'adattamento è difficile, produce insicurezza e spinge le élites a comportamenti che vengono percepiti dalle altre potenze come bellicosi o minacciosi. Se, ad esempio, due potenze si trovano contemporaneamente in uno dei punti critici (l'una, poniamo, al punto più alto della curva del ciclo e l'altra al punto più basso o in uno dei punti intermedi), la guerra diventa altamente probabile. Secondo Doran l'esame empirico delle guerre dell'età moderna confermerebbe la validità della teoria proposta.
Nella variante dell'equilibrio come in quella dell'egemonia l'approccio realistico attribuisce grande importanza, fra i fattori (congiunturali) che fanno precipitare la situazione, al "dilemma della sicurezza" (v. Herz, 1950), che tipicamente condiziona i comportamenti di unità politiche coesistenti in un ambiente anarchico. Il dilemma della sicurezza è una variante del dilemma del prigioniero (v. Jervis, 1984). La guerra scoppia come risultato (in origine non intenzionale) di una simultanea ricerca di sicurezza individuale da parte di ciascuno Stato, la quale, a sua volta, favorisce comportamenti (per esempio, politiche di riarmo) che producono un aumento dell'insicurezza collettiva. Di fatto, quali che siano i fattori strutturali (fine dell'equilibrio o erosione del potere egemonico, a seconda delle diverse prospettive) che stanno dietro alle guerre, dal punto di vista strettamente congiunturale la guerra nasce da condizioni di insicurezza collettiva tipiche di sistemi internazionali anarchici. Non casualmente la letteratura realista, quale che sia la variante prediletta da ciascun autore, fa spesso riferimento alla tesi tucididea sulle cause della guerra del Peloponneso: la crescita della potenza ateniese e la paura che tale crescita ingenerò negli Spartani (v. Howard, 1983). Fanno eccezione solo quegli autori (v. Blainey, 1973; v. Organski e Kugler, 1980) che individuano la causa scatenante della guerra in un disaccordo fra due o più Stati nella valutazione dei reciproci rapporti di forza (talché la guerra rappresenterebbe la verifica del reale stato di quei rapporti) anziché in un gioco di azioni e reazioni in cui le diverse potenze verrebbero loro malgrado coinvolte (v. Rusconi, 1987; v. Maoz, 1990). Fa eccezione anche quel filone, ispirato alla teoria della scelta razionale, che interpreta la guerra come il frutto di un deliberato calcolo costi-benefici da parte della potenza attaccante (v. Bueno de Mesquita, 1981).
L'approccio geopolitico si occupa delle influenze della geografia sulla politica internazionale (v. Geopolitica). Della geopolitica esistono due versioni. La prima, quella che postula una sorta di determinismo geografico sul comportamento delle unità politiche, ricade, insieme alle teorie biologiche, economiche e demografiche, fra le teorie extrapolitiche (e monocausali) della guerra. La seconda versione, quella che si limita, più correttamente, a postulare influenze della geografia sulla politica internazionale (il che significa che non nega l'azione anche di fattori diversi) può essere intesa come una particolare variante dell'approccio realistico. Se i fattori su cui maggiormente insistono i geopolitici per spiegare le guerre, infatti, sono collegati alla conformazione dello spazio geografico in cui sono dislocate le diverse unità politiche, è pur vero che la competizione per il potere, e le guerre che ne sono conseguenza, risulterebbero inspiegabili se la geopolitica (in particolare v. MacKinder, 1919; v. Spykman, 1970²) non condividesse l'idea, propria del realismo, secondo cui il sistema internazionale ha una struttura politica anarchica.
Questo approccio prende in considerazione (o ne ha l'ambizione), anziché le sole interazioni interstatali, la globalità delle relazioni, politico-statali, economico-transnazionali, culturali, ecc., che caratterizzano la società internazionale. Se ne possono distinguere diverse varianti a seconda di come vengono concettualizzati i rapporti fra politica ed economia. La prima variante si deve a George Modelski (v. 1978 e 1987) ed è ispirata alla tesi del primato della sfera politico-militare rispetto alla sfera economica (nonché a quella culturale).Modelski elabora una teoria dei cicli politici internazionali dall'età moderna a oggi. Per questo studioso l'età moderna (la data simbolica di inizio è il 1494, anno della discesa in Italia di Carlo VIII) è caratterizzata dalla successione di potenze-leaders che, di volta in volta, dominano il sistema politico globale e, per questa via, anche il sistema economico. Modelski individua cinque cicli, ciascuno dei quali dominato da una potenza marittima. Il primo ciclo copre gran parte del Cinquecento e vede come potenza-leader il Portogallo. Il secondo ciclo (Seicento) è dominato dalla potenza olandese. Il terzo ciclo (Settecento) e il quarto (Ottocento) vedono entrambi come potenza egemone la Gran Bretagna. Il quinto ciclo, iniziato nel 1945 e tuttora in corso, è dominato dagli Stati Uniti. Ogni ciclo inizia con un conflitto globale i cui esiti decidono quale sarà la potenza egemone (world power) del ciclo stesso. Nella fase che immediatamente segue la conclusione della guerra globale la potenza egemone impone le regole del gioco e assicura l'ordine politico globale. È una fase di alta concentrazione del potere nonché di forte legittimazione dell'assetto politico internazionale scaturito dal conflitto. Man mano che il ciclo avanza inizia un processo di erosione del potere della potenza egemone. Il potere si diffonde, l'ordine politico viene sempre più contestato, la potenza egemone declina. Il ciclo termina con una nuova guerra globale da cui nascerà il ciclo successivo. È importante notare che le uniche guerre che contano ai fini della determinazione del ciclo sono le guerre globali (v. anche Thompson, 1988) poste all'inizio e alla fine di ciascun ciclo. La teoria dei cicli politici di Modelski contiene pertanto una spiegazione delle guerre, ma le uniche guerre di cui si occupa sono quelle generali (ciascuna, in realtà, un insieme di guerre che coprono circa l'arco di un trentennio), le quali rappresentano i punti di cesura fra un ciclo e il successivo. Le guerre prese in considerazione da Modelski sono, in successione, le guerre che hanno per epicentro l'Italia e l'Oceano Indiano (1494-1517), le guerre dette spagnole (1580-1608), le guerre francesi (1792-1815), le guerre tedesche, ossia le due guerre mondiali del nostro secolo (1914-1945).
Una seconda variante si deve al sociologo neomarxista Immanuel Wallerstein (v., 1974, 1980 e 1983). Qui il primato è assegnato alla sfera economica. Il punto di partenza è l'economia-mondo, che caratterizzerebbe l'età moderna. Il dominio economico-commerciale assicura alla potenza egemone anche la predominanza politico-militare. La distribuzione del potere entro l'economia-mondo è scandita da guerre generali per l'egemonia. Le tre guerre generali dell'età moderna sono per Wallerstein la guerra dei Trent'anni, le guerre della Rivoluzione e napoleoniche, e le due guerre mondiali del Novecento. Le tre potenze che conquistano l'egemonia al termine di ciascuna guerra generale sono rispettivamente le Province Unite, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti.Quelle di Modelski (primato della sfera politico-militare) e di Wallerstein (primato della sfera economica) sono le due principali (e speculari) teorie elaborate all'interno della prospettiva olistico-sistemica. Variazioni sono state introdotte da Chase-Dunn (v., 1989), che, pur ispirandosi a Wallerstein, accentua l''autonomia relativa' della sfera politico-militare rispetto a quella economica, e da Thompson (v., 1988), allievo di Modelski, che ha tentato, al fine di spiegare le guerre globali o egemoniche, un collegamento fra la prospettiva dei cicli politici e la teoria dei cicli economici di Kondrat´ev.
Un altro tentativo di sintesi fra teoria dei cicli politici e teoria dei cicli economici, ma con l'intento di spiegare le guerre in generale e non solo quelle globali o egemoniche, si deve a Väyrynen (v., 1983). Infine, va ricordata la più compiuta analisi dei "cicli lunghi" della politica e dell'economia internazionale dovuta a Goldstein (v., 1988). Anche Goldstein, come Thompson, ritiene di individuare una connessione stretta fra i cicli delle guerre egemoniche e i cicli economici lunghi.
Le teorie dei cicli sono state variamente criticate (v. Rosecrance, 1987; v. Beck, 1991). È stato notato che i diversi autori datano in modo diverso i differenti cicli politici internazionali e che, inoltre, sono in disaccordo fra loro sulla identificazione delle stesse guerre globali. Soprattutto, secondo i critici, i teorici dei cicli non sarebbero riusciti a dimostrare l'esistenza dei cicli medesimi.
Per ciò che qui ci interessa, i rapporti guerra/politica, si può osservare che le teorie dei cicli si concentrano quasi esclusivamente su un particolare tipo di guerre, quelle dette generali o egemoniche. Quale che sia la loro utilità per la comprensione del rapporto fra la politica e le guerre egemoniche, tali teorie non danno lumi su tutte le altre guerre che hanno costellato l'epoca moderna.
6. Dinamiche interne e guerra
Pur nelle loro profonde differenze tutte le teorie sopra esaminate spiegano le guerre a partire dalla dinamica del sistema internazionale. Ma i comportamenti degli Stati che conducono alla guerra possono essere spiegati anche osservando le loro dinamiche interne.Una teoria che parte dalle dinamiche interne agli Stati per spiegare le guerre è detta delle "pressioni laterali" ed è stata proposta da Nazli Choucri e Robert North (v., 1975 e 1983). All'origine delle guerre ci sarebbero le pressioni che nascono all'interno di ciascuno Stato come effetto del divario fra le domande che i diversi settori della popolazione rivolgono al governo e le risorse limitate che il governo stesso può procurarsi all'interno dei confini per soddisfarle. Quando ad esempio, come accade nelle fasi di sviluppo economico, si instaura un ciclo di aspettative crescenti, le domande di benessere crescono in modo esponenziale e la politica subisce pressioni cui non è in grado, con le sole risorse interne, di dare soddisfazione. Ciò si ripercuote sulla politica estera dello Stato. Si cercheranno all'esterno quelle risorse che non possono essere reperite internamente. Le pressioni laterali nascono quindi da dinamiche interne che si ripercuotono sulle politiche estere degli Stati e che li portano, periodicamente, in rotta di collisione.
Un'altra teoria è detta della "incongruenza di status" (v. Galtung, 1964; v. Midlarsky, 1975). In questo caso i comportamenti aggressivi che conducono alle guerre sarebbero generati da tensioni e conflitti politici che lo Stato sperimenta al suo interno. Tensioni e conflitti dipendono da frustrazioni generate da un'incongruenza fra sviluppo economico e status politico internazionale. Quando la potenza economica cresce ma lo status politico non cresce di conserva, le tensioni politiche all'interno dello Stato diventano fortissime. Una situazione analoga si ha quando una potenza di rango politico elevato si trova in una fase di decadenza economica. La teoria prevede che in questi casi ne risulterà una politica estera aggressiva, tesa a ricostituire una situazione di congruenza di status. Ciò accrescerebbe le probabilità di guerra. Diverse analisi empiriche (v. East, 1972; v. Wallace, 1973) hanno mostrato l'esistenza di una correlazione fra incongruenza di status e guerra.
La terza teoria va oggi sotto il nome di scapegoat theory o 'teoria del diversivo', ma in realtà è nota da secoli al pensiero politico occidentale. Secondo questa teoria, già enunciata da Machiavelli e da Bodin, i governanti ricorrono alla guerra come diversivo in presenza di conflitti interni che mettono a repentaglio la coesione societaria e la stabilità del regime politico. Il ricorso alla guerra serve a ricostituire la coesione politica interna. La teoria ha avuto, in ambito sociologico, l'avallo di teorici come Simmel (v., 1908) e Coser (v., 1956).
Come ha notato Levy (v., 1988 e 1989), questa teoria ha avuto un destino alquanto paradossale. Da un lato è stata continuamente riproposta fino ad assurgere a una sorta di 'legge generale' e a essa hanno fatto spesso ricorso gli storici per spiegare le cause di questa o quella guerra. Dall'altro lato, essa non ha fin qui trovato riscontro nelle ricerche empirico-quantitative (v. Sorokin, 1937; v. Rummel, 1973; v. Tanter, 1966). Queste ricerche, infatti, hanno sempre approdato a risultati che mostravano o l'assenza di qualsiasi correlazione fra conflitti interni e guerra oppure l'esistenza di correlazioni deboli. Così, ad esempio, Wilkenfeld (v., 1973) trova una debole correlazione fra conflitti interni e guerre nel caso dei regimi autoritari. Come spiegare il paradosso? Anzitutto, come ha notato Stohl (v., 1980), le cause potrebbero risiedere nel carattere ateoretico di buona parte della ricerca empirico-quantitativa dedicata all'esame del problema. Ad esempio, poiché la teoria del diversivo afferma che conflitti entro lo Stato A nel momento t conducono alla guerra nel momento t+1 che, a sua volta, rafforza la coesione interna di A nel momento t+2, ne consegue che la ricerca di semplici covariazioni fra conflitti interni e guerre rischia di mancare il bersaglio. Inoltre, è chiaro che il controllo empirico della teoria richiede di tenere conto del fatto che possono essere all'opera meccanismi causali assai complessi. Ad esempio, occorre distinguere fra i vari tipi di conflitto interno: una rivolta di massa è una cosa, un conflitto fra élites un'altra. E non è detto che tutti i tipi di conflitto interno debbano per forza sfociare nella guerra. Occorrerebbe poi distinguere meglio le condizioni (interne e internazionali) che possono spingere l'élite al potere a ricorrere alla guerra per risolvere i suoi problemi interni. Ad esempio, è presumibile che il ricorso al conflitto esterno sia una tentazione più forte per i leaders di grandi potenze (che corrono meno rischi sul piano militare) che per i leaders di Stati militarmente deboli. E ancora, è possibile che il tipo di cleavages sociopolitici interni faccia differenza. Così, in presenza di forti divisioni etnico-religiose, ricorrere alla guerra come diversivo può essere troppo rischioso: la società, anziché compattarsi, potrebbe disgregarsi e allora è dubbio che le élites ricorrano alla guerra come diversivo. Va infine ricordata un'interessante variante della teoria, la quale spiega il ricorso alla guerra come effetto non intenzionale di conflitti per il potere fra élites politiche e/o burocratiche interne (v. Levy, 1988; v. Lebow, 1981).
7. Guerra e Stato
Come si è detto, il rapporto guerra/politica è stato esaminato, essenzialmente, da due distinti punti di vista: 1) si è cercato di identificare le cause delle guerre, di spiegare causalmente la guerra con un'attenzione privilegiata, anche se non esclusiva, alle cause politiche dei conflitti armati; 2) si è cercato di valutare le conseguenze, gli effetti, delle guerre sulle dinamiche interstatali e/o sulla fisionomia dei sistemi internazionali. Ma il rapporto guerra/politica può essere considerato anche da un altro punto di vista, quello del ruolo della guerra nella formazione e nello sviluppo delle organizzazioni politiche statuali. La guerra incide sulle organizzazioni politiche sia indirettamente che direttamente. L'influsso indiretto è dato dai condizionamenti della tecnologia militare e dei suoi mutamenti sulle organizzazioni politiche. La storiografia della guerra scientificamente più valida (quella che non si limita ai resoconti delle battaglie), da Delbruck (v., 1900-1920) a Preston e Wise (v., 1970²), a McNeill (v., 1982), a Howard (v., 1976), a Parker (v., 1988), ha sempre avvertito che l'impatto sociopolitico dei mutamenti tecnologici è il problema più importante (su questi aspetti, v. Guerra: Storia). Ma oltre che indirettamente, attraverso i cambiamenti della tecnologia militare, la guerra influenza le organizzazioni politiche direttamente, nel senso che la continua preparazione per, e gli esiti delle guerre hanno scandito e scandiscono l'evoluzione delle organizzazioni politiche. La tesi secondo cui all'origine dello Stato (inteso, nel senso più lato dell'espressione, come organizzazione territoriale che controlla gli strumenti della violenza) sia in età antica che in età moderna ci sarebbe, sempre e comunque, la guerra, appartiene a un filone classico, ancorché minoritario, della teoria sociologica dello Stato, quello che ha come principali rappresentanti il sociologo tedesco Franz Oppenheimer e il polacco Ludwig Glumpowicz. Secondo questa teoria, che potremmo definire teoria bellicista o militarista dello Stato (v. Mann, 1988), lo Stato sorge invariabilmente da guerre di conquista: è l'organizzazione politica che i conquistatori costruiscono per rendere permanente il loro dominio sui popoli conquistati. Col passare del tempo conquistatori e conquistati si trasformano, rispettivamente, in classe dominante e classe dominata e lo Stato, sorto dalla violenza bellica, serve ora a perpetuare le gerarchie sociali.
Anche l'antropologia, studiando lo Stato primitivo, ha messo spesso in rilievo il ruolo decisivo delle guerre: sia, in taluni casi, collegando l'origine degli Stati primitivi alla guerra di conquista, sia, in altri casi, enfatizzando il contributo della guerra ai processi di centralizzazione e di concentrazione del potere all'interno delle società primitive, sia, infine, attribuendo alla guerra un ruolo di fattore selettivo di tipo darwiniano, responsabile tanto dei processi di ingrandimento degli Stati primitivi quanto della progressiva riduzione del numero delle unità politiche (man mano che le unità militarmente più deboli venivano fagocitate o distrutte da quelle più forti) (v. Cohen e Service, 1978; v. Claessen e Skalnik, 1978).
Ma è soprattutto in rapporto alla nascita e all'evoluzione dello Stato moderno, sorto in Europa sulle ceneri della società medievale e poi diffusosi in tutto il mondo, che la ricerca ha sottolineato il ruolo determinante della guerra. Fu in primo luogo la guerra (contro gli Arabi a sud, contro le popolazioni mongoliche a est) a creare le precondizioni culturali della nascita degli Stati: attraverso la guerra si definirono infatti i confini dell'Europa rispetto al resto del mondo e nacque l'idea stessa di "società europea" (v. Howard, 1983, pp. 151 ss.). Nella società europea, poi, i conflitti incessanti fra i principi portarono alla formazione degli Stati (v. Mann, 1988; v. Elias, 1939; v. Kaiser, 1990; v. Poggi, 1992). Fra lo Stato e la guerra ci fu in Europa un rapporto di interazione, nel senso che la guerra fu il principale volano della formazione degli Stati e gli Stati, una volta nati, continuarono a svilupparsi (nel senso della crescente razionalizzazione, specializzazione e istituzionalizzazione dei loro apparati) attraverso la guerra: "La guerra fece lo Stato, lo Stato fece la guerra" (v. Tilly, 1975; tr. it., p. 44).
L'autore di riferimento della ricerca contemporanea sul rapporto guerra/Stato in Europa è certamente lo storico e sociologo tedesco Otto Hintze. Fu Hintze (v., 1910), con una indagine magistrale sulle fonti, a provare il ruolo cruciale svolto dalla guerra nella formazione degli apparati amministrativi civili. Fu Hintze (v., 1906), infine, rielaborando e approfondendo intuizioni di Tocqueville e di Seeley, a indicare proprio nel differente rapporto con la guerra i diversi percorsi dello Stato moderno, nella versione burocratico-militaristica europeo-continentale e in quella marittimo-commerciale britannica e statunitense.
Si può dire che proprio a Hintze si ispiri largamente gran parte della ricerca contemporanea, sia che, per spiegare l'origine e l'evoluzione dello Stato moderno, integri le tesi di Hintze con quelle del marxismo (v. Giddens, 1985), sia che indaghi il rapporto fra la guerra, gli Stati e le rivoluzioni (v. Skocpol, 1979), sia infine che colleghi le diverse varianti dello Stato europeo moderno al format militare, ossia alle diverse modalità organizzative delle forze armate, a loro volta forgiate dalle guerre europee e dai loro esiti (v. Finer, 1975).Una variante di particolare originalità si deve a Charles Tilly (v., 1981 e 1985), per il quale uno Stato viene posto in essere quando un nucleo di persone dotate di risorse coercitive, di strumenti della violenza, acquistando il controllo di un territorio e dei suoi abitanti si impegna in quattro fondamentali attività: 1) war making, l'eliminazione o la neutralizzazione di gruppi rivali al di fuori del territorio controllato; 2) State making, l'eliminazione o la neutralizzazione dei gruppi rivali all'interno del territorio; 3) protection, l'eliminazione o la neutralizzazione dei nemici dei loro clienti, dei gruppi (proprietari, contadini, mercanti, ecc.) che abitano il territorio; 4) extraction, l'acquisizione dei mezzi necessari per svolgere le tre attività sopra citate. La tesi di Tilly è che queste quattro attività sono connesse e si influenzano a vicenda. Offrendo protezione dai nemici interni ed esterni il nucleo dei costruttori dello Stato 'estrae' dai propri clienti le risorse economiche necessarie per condurre la guerra, mantenere l'ordine interno e organizzare la macchina statale. Anche in questa visione, come in quella di Hintze, la guerra è il grande volano della costruzione dello Stato.
I diversi Stati europei, naturalmente, non si sviluppano nello stesso modo. I differenti percorsi (v. Tilly, 1990) sarebbero determinati dal modo in cui si combinano posizione geopolitica, grado di accumulazione del capitale (che fornisce al potere politico le risorse necessarie alla costruzione dello Stato), grado di accumulazione/concentrazione del potere coercitivo, degli strumenti della violenza. Ad esempio, si possono distinguere casi di alta accumulazione di capitale e bassa concentrazione di potere coercitivo (Province Unite) o, all'opposto, di bassa accumulazione di capitale e alta concentrazione di potere coercitivo (Russia) e casi intermedi o misti che combinano accumulazione e concentrazione di potere coercitivo (Francia, Gran Bretagna). Gli sviluppi delle organizzazioni statali e le fortune dei singoli Stati dipendono dalle guerre e dai loro esiti.Non tutte le guerre, peraltro, risultano avere gli stessi effetti. Rasler e Thompson (v., 1989) individuano differenti effetti sulle macchine statali a seconda del tipo di guerra. Concentrando la loro analisi sulle grandi potenze europee nel periodo 1494-1945 e distinguendo fra guerre globali (nel senso di Modelski), che coinvolgono tutte le principali potenze del sistema internazionale, e (le assai più numerose) guerre interstatali, che coinvolgono non più di una grande potenza, questi studiosi scoprono che i mutamenti più importanti nelle organizzazioni statali sono provocati dalle guerre globali. Ad esempio, sono state soprattutto le guerre globali, oltre che a scandire l'evoluzione delle forze armate e condizionare lo sviluppo delle amministrazioni civili, a provocare nel tempo i più cospicui cambiamenti nei sistemi di finanza pubblica, nonché a influenzare lo sviluppo e i livelli della spesa pubblica (la quale cresce in coincidenza con lo sforzo bellico e al termine del conflitto non ritorna ai livelli prebellici).
8. Guerra e forme di governo
Oltre che sullo Stato la guerra esercita effetti indiretti e diretti sulla forma di governo, ossia sul regime politico. Gli effetti indiretti sul regime politico dipendono dai cambiamenti che le guerre provocano nei sistemi sociali. Ad esempio, le guerre possono provocare fenomeni di mobilitazione sociale che a loro volta alterano la fisionomia e i rapporti di forza fra i principali gruppi societari. E i mutamenti nei gruppi e nelle coalizioni societarie possono ripercuotersi sui regimi politici provocando mutamenti istituzionali. Ad esempio, accelerando il passaggio dalla società di élite alla società di massa la prima guerra mondiale fu un detonatore del processo che portò in Italia all'avvento del fascismo. Inoltre le guerre lasciano dietro di sé, soprattutto nell'età industriale, conseguenze inflazionistiche, aumenti a breve termine della disoccupazione, crisi finanziarie, distruzione del tessuto industriale, ecc. (v. Stein e Russett, 1980; v. Olson, 1982), che hanno normalmente ampie ripercussioni politiche e talora incidono anche sull'assetto istituzionale.
Gli effetti diretti dipendono dalla intensità e dagli esiti delle guerre. Una sconfitta in una guerra che ha coinvolto e mobilitato l'intera società ha normalmente effetti catastrofici per qualunque regime politico. Le rivoluzioni (v. Skocpol, 1979; v. Walt, 1992) sono quasi invariabilmente collegate a sconfitte belliche. Più in generale è raro che un mutamento di regime politico avvenga senza alcuna influenza della congiuntura politico-militare internazionale (v. Almond e altri, 1973).
Una tesi più volte ripetuta (v. Wright, 1942; v. Lasswell, 1941) è quella secondo cui le tensioni militari e i conflitti armati frequenti favoriscono la formazione di regimi autoritari piuttosto che di democrazie e/o la trasformazione delle democrazie in regimi autoritari.
Va peraltro osservato che la guerra, a cavallo fra Otto e Novecento, ha potentemente favorito la democratizzazione delle società europee. Coscrizione universale ed eserciti di massa diedero una forte spinta all'allargamento del suffragio elettorale e alla diffusione dei diritti di cittadinanza; in accordo, del resto, con una regolarità registrata in tutte le epoche storiche, secondo la quale il diritto di partecipazione alla vita pubblica e il dovere di difendere con le armi la comunità si diffondono oppure decadono insieme (v. Andreski, 1971²). Inoltre, le guerre hanno normalmente favorito lo sviluppo dei moderni sistemi di Welfare State (la diffusione dei cosiddetti diritti sociali deve moltissimo alle esigenze dei governi di garantire allo sforzo bellico il consenso della popolazione) e il rafforzamento del potere contrattuale delle organizzazioni sindacali: la prima guerra mondiale, ad esempio, favorì in diversi paesi europei la formazione di coalizioni neocorporative fra governi, sindacati e organizzazioni imprenditoriali, coalizioni che non vennero dissolte con la fine del conflitto (v. Maier, 1975). Infine, le guerre hanno avuto, soprattutto nel XX secolo, potenti effetti sull'espansione della spesa pubblica di gran parte dei paesi occidentali (v. Stein, 1980²; v. Rose, 1984).
Oltre che per gli effetti della guerra sui regimi politici, il problema delle forme di governo conta in questo contesto in un altro senso: i diversi tipi di regime politico sono collegati a comportamenti differenti in materia di guerra e pace? esistono regimi politici più pacifici di altri? i comportamenti internazionali che conducono alla guerra sono associati prevalentemente a un tipo particolare di regime politico? Tradizionalmente il pensiero politico ha dato risposte differenziate su questo problema. Le due principali (e contrapposte) risposte sono quelle della tradizione realista e della tradizione liberaldemocratica. Per la tradizione realista vale la regola del primato della politica estera. Data la struttura anarchica del sistema internazionale, le imprescindibili esigenze di sicurezza proprie di ogni Stato e, per conseguenza, l'inevitabilità della power politics, le caratteristiche dei regimi politici interni sono ininfluenti sul comportamento internazionale degli Stati (così, per esempio, il più autorevole dei realisti contemporanei, Hans Morgenthau: v., 1948). All'opposto, per la tradizione liberaldemocratica l'influenza del regime politico è determinante. Per questa tradizione la differenza è fra i regimi liberaldemocratici, che sarebbero essenzialmente pacifici, e i regimi autoritari, che praticherebbero politiche estere aggressive ed espansioniste. In realtà, la ricerca empirica contemporanea non ha confermato la tesi liberaldemocratica del 'pacifismo' dei regimi (liberal)democratici. L'analisi delle guerre del XIX e del XX secolo mostra che i regimi liberali prima e liberaldemocratici poi sono coinvolti in guerre tanto quanto i regimi autoritari (v. Small e Singer, 1976; v. Garnham, 1986; v. Maoz e Abdolali, 1989).
Ma se così è bisogna concludere che hanno ragione i realisti, che il regime politico non fa differenza, che la politica estera degli Stati in materia di guerra e pace è dettata unicamente dalle regole della competizione internazionale? Sembra di no. La presenza di regimi liberaldemocratici fa differenza. L'esperienza storica mostra infatti che le democrazie non si sono mai fatte la guerra fra loro. Secondo Doyle (v., 1983) ciò indicherebbe che il Kant dello scritto Zur ewigen Frieden fu ottimo profeta. Kant pensava che le repubbliche avrebbero dato vita fra di loro, dopo che la forma di governo repubblicana si fosse diffusa, a una unione pacifica. Le liberaldemocrazie moderne hanno, a modo loro, rispettato questa profezia. Astenendosi dalla guerra reciproca e instaurando rapporti di fiducia esse hanno dato vita a "comunità di sicurezza" (v. Deutsch e altri, 1957), ad aree o zone del sistema internazionale dove la guerra è bandita, gli scambi economici prosperano e i conflitti di interessi (che pure ci sono fra democrazie liberali) non arrivano mai a superare la soglia critica al di là della quale la parola passa alle armi e alla violenza.
Variamente spiegata e interpretata, la regolarità empirica secondo cui le democrazie liberali consolidate non entrano mai in guerra contro altre democrazie ha trovato numerose conferme (v. Rummel, 1983; v. Maoz e Abdolali, 1989) e, fino a oggi, nessuna smentita storica. Così come appare confermata da tutte le indagini un'altra specificità delle democrazie liberali, quella secondo cui nel loro confronto con i regimi autoritari esse tendono a oscillare fra i due estremi dell'appeasement e della crociata ideologica. Anche questa mancanza di ponderazione, prudenza diplomatica ed equilibrio, che appare tipica delle liberaldemocrazie quando sono impegnate in competizioni di potenza con i regimi autoritari, dipende dalle caratteristiche proprie dei regimi liberaldemocratici (v. Russett e Graham, 1989) e, specificatamente, dalle relazioni che in questi regimi si istituiscono fra opinioni pubbliche e governi. (V. anche Armi; Diplomazia; Egemonia; Geopolitica; Guerriglia; Militare, organizzazione; Militari; Pace; Pacifismo; Strategici, studi).
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di Antonio Cassese
1. Il problema della guerra nel pensiero dei primi internazionalisti
Già agli albori della comunità internazionale quello della guerra ha costituito un problema cruciale per i pensatori politici e per i giuristi che si sono occupati dell'esistenza e delle funzioni di tale comunità. In effetti, la guerra in quanto tale appare come la negazione stessa del diritto: questo è sinonimo di ordine, stabilità, regolamentazione pacifica dei rapporti sociali, laddove la guerra per definizione comporta la rottura violenta dell'ordine sociale, l'uso indiscriminato della forza, la negazione di qualunque limitazione giuridica alla violenza e alla sopraffazione. Come conciliare dunque l'esistenza di una vera e propria comunità internazionale, composta di Stati sovrani e indipendenti e retta da proprie norme giuridiche, con la circostanza che la guerra costituiva un evento quasi quotidiano all'interno di tale comunità?
La soluzione di questo dilemma fu trovata, dai primi pensatori che affrontarono la questione, nel diritto naturale. La guerra, da elemento estraneo e anzi opposto al diritto, fu ricondotta entro la dimensione giuridica grazie al diritto naturale. Nei principî del giusnaturalismo quei pensatori cercarono e rinvennero, anzitutto, l'idea della legittimità della guerra. Il diritto naturale si basa sul principio dell'autoconservazione: dunque l'uomo può usare la forza per difendersi; né tale forza confligge con l'altro principio, quello della socievolezza, perché solo la violenza lesiva dei diritti altrui è contraria alla società. Nel diritto naturale quei pensatori cercarono anche, e soprattutto, le circostanze specifiche in presenza delle quali la guerra poteva essere considerata come legittima. La chiave del problema fu trovata nel concetto di bellum justum: tutte le volte che una guerra poteva essere definita 'giusta', era per ciò stesso autorizzata dalle norme giuridiche; quando non era 'giusta', costituiva per ciò stesso una violazione del diritto.
Uno dei primi a porsi il problema e a risolverlo nei termini accennati fu il teologo spagnolo Francisco de Vitoria (1480-1546). Nella sua Relectio de jure belli (1539), egli si pone, e risolve, quattro problemi: se è del tutto lecito ai cristiani fare la guerra; presso chi risieda l'autorità legittima di dichiarare e fare la guerra; quali possano e debbano essere le cause della guerra giusta (quae possint et debeant esse causae justi belli); che cosa e in che misura è lecito ai cristiani fare contro i loro nemici. I suoi concetti sono in larga misura ripresi dall'italiano Pierino Belli (1502-1575), dallo spagnolo Francisco Suarez (1548-1617), nonché da Alberico Gentili (1552-1608), un italiano che si rifugiò in Inghilterra dopo aver abbracciato la religione protestante e insegnò all'Università di Oxford. Gentili diede però un contributo originale alla dottrina della guerra: per lui le guerre 'private' non dovevano entrare nel novero delle vere e proprie guerre internazionali (nel De jure belli libri tres, del 1598, egli definisce la guerra come publicorum armorum justa contentio); inoltre le guerre, per essere legittime, dovevano essere 'giuste' da entrambe le parti.
Una svolta importante si ebbe con l'olandese Grozio (1583-1645), e non solo perché egli dedicò alla guerra trattazioni molto più estese dei suoi predecessori (si soffermò sul tema sia nel De jure praedae, del 1605, sia nel De jure belli ac pacis, del 1625), ma soprattutto perché non si limitò a chiedersi se e quando il fatto di muover guerra sia legittimo e giusto (se cioè esista o meno un vero e proprio jus ad bellum), ma approfondì anche il problema della condotta delle ostilità e delle azioni che sono lecite o illecite per i belligeranti nel corso della guerra (jus in bello). Ed è anzi proprio con riferimento a tale materia che l'opera di Grozio mostra un'importanza e una originalità straordinarie.Il grande giurista olandese distingue anzitutto tre tipi di guerra: quelle 'pubbliche', tra detentori di poteri sovrani; quelle 'private', ossia tra gruppi d'individui; quelle 'miste', tra un sovrano e un gruppo di individui. Come si vede, a differenza di Gentili, Grozio include tra le guerre anche i conflitti armati tra privati; infatti la sua definizione di guerra è molto ampia: la guerra è lo stato in cui si trovano coloro che si impegnano in una contesa usando la forza (status per vim certantium). Quanto alle guerre tra sovrani, Grozio considera come 'cause giuste' le seguenti: se si muove guerra per difendere o riprendere quel che ci appartiene o punire colui che ci ha arrecato dei torti; quando si vuole rivendicare un diritto che è stato leso; quando si vuole difendere un diritto di altri (di un altro sovrano, di un alleato, ecc.).
Un elemento importante - e dotato di straordinaria modernità - del pensiero di Grozio è poi l'affermazione che, in caso di dubbio circa il carattere 'giusto' di una guerra, ogni sovrano dovrebbe riflettere attentamente prima di iniziare le ostilità armate e dovrebbe comunque cercare in ogni modo di risolvere il conflitto con mezzi pacifici.
Come s'è detto, è tuttavia nella parte delle opere groziane che trattano dello jus in bello che si riscontrano gli elementi più nuovi e duraturi del contributo del grande giurista. Anche se egli insiste sempre sulla distinzione tra guerra 'giusta' e 'non giusta' per quanto riguarda lo scatenamento della guerra, e anche se riprende al riguardo il pensiero dei suoi predecessori (nel senso che, se la causa di una guerra è ingiusta, tutti gli atti di ostilità bellica diventano ingiusti e comportano la responsabilità morale di coloro che li pongono in essere deliberatamente), egli poi dimentica in certo senso questa distinzione quando passa a illustrare i rapporti tra belligeranti. In questo campo, secondo Grozio, è cruciale che entrambe le parti si attengano al rispetto di una serie di regole miranti a rendere la condotta delle ostilità meno disumana. Al riguardo Grozio distingue tra due ordini di limitazioni. A suo giudizio esistevano anzitutto le limitazioni ai belligeranti derivanti dal diritto internazionale dell'epoca, in verità assai ridotte (era vietato usare il veleno o le armi avvelenate, così come era proibito stuprare le donne; si poteva però uccidere tutti coloro che si trovavano sul territorio nemico, anche le donne, i fanciulli, gli stranieri, i prigionieri di guerra e gli ostaggi; parimenti si poteva devastare e saccheggiare liberamente il territorio nemico). Vere e proprie limitazioni (temperamenta belli), ben più estese e radicali, venivano invece desunte da Grozio da principî generali di razionalità e giustizia: a suo avviso occorreva - per ragioni di umanità - rispettare la popolazione civile, i feriti, i malati, i prigionieri di guerra; bisognava evitare di distruggere i beni del nemico di cui ci si fosse impadroniti; occorreva risparmiare gli oggetti privi di interesse militare, come i quadri e le statue, le tombe e gli oggetti di culto; invece di devastare i raccolti, conveniva esigere la riscossione di contributi finanziari dalla popolazione nemica occupata, ecc. In breve, secondo Grozio la guerra non fa perdere al nemico la qualità di uomo: il nemico non è da considerare come un avversario da eliminare a tutti i costi, ma come un altro essere razionale, nei confronti del quale occorre rispettare un minimo di regole essenziali. Questo concetto appare chiaro, tra l'altro, là dove Grozio parla dell'obbligo di mantenere le promesse fatte al nemico, obbligo che a suo giudizio deriva dalla comunanza di ragione e di linguaggio (societas rationis et sermonis) che lega i belligeranti malgrado la guerra (De jure belli ac pacis, 1625, vol. III, cap. 19, par. 1).Come si vede, Grozio prospetta in tal modo tutta una serie di regole che erano in palese contrasto con la prassi e la normativa del suo tempo. Queste regole però si trasformarono gradualmente in diritto internazionale, non solo in virtù del loro fondamento razionale e umanitario, ma anche in considerazione dell'autorevolezza di Grozio e della loro rispondenza oggettiva alle esigenze della guerra moderna. Le grandi codificazioni dell'Aia del 1899 e del 1907 riprendono in larga misura i principî enunciati nel Seicento dal giurista olandese.
2. Guerre tra 'apparati militari' e guerre totali
Per diverse ragioni di ordine storico, già nella seconda metà del XVII secolo e nel XVIII (1648-1789) le guerre cominciarono ad assumere il carattere di scontri tra professionisti, condotti come una sorta di gioco, senza alcun coinvolgimento diretto delle popolazioni civili. Ciò fu dovuto a molti fattori: la reazione ai lunghi e sanguinosi conflitti dei primi anni del XVII secolo; la formazione di costosi eserciti composti da professionisti altamente specializzati, la cui morte in guerra sarebbe stata una grande perdita per gli Stati; la mancanza nei militari di legami di lealtà nazionale nei confronti dei rispettivi Stati, dal che conseguiva che essi non erano motivati a combattere sino alla fine per motivi patriottici; il fatto che la carriera militare era un po' dovunque appannaggio della nobiltà, con la conseguenza che gli ufficiali di tutte le nazioni sentivano di appartenere alla stessa classe sociale; l'influenza dei principî cavallereschi. Queste tendenze vennero teorizzate da J.-J. Rousseau nella famosa proposizione del Contratto sociale (1762) secondo cui "la guerra non è affatto una relazione fra uomo e uomo, ma una relazione fra Stato e Stato, nella quale i privati sono nemici accidentalmente, per nulla come uomini e neppure come cittadini, ma come soldati, non come membri della patria, ma come suoi difensori. Infine ogni Stato non può avere come nemici se non altri Stati e non uomini singoli, dato che fra cose di natura diversa non si può fissare alcun vero rapporto" (Il contratto sociale, Bari 1956, pp. 65-66).
Tuttavia i nuovi ideali della Rivoluzione francese e la loro applicazione in questo particolare settore (i soldati non erano più esclusivamente dei professionisti, perché ogni cittadino era un patriota e un componente dell'esercito di leva) portarono di nuovo alle guerre totali: le guerre devastanti condotte da Napoleone (1792-1815) produssero una negazione ancor più forte della massima di Rousseau. Il generale prussiano K. von Clausewitz, che aveva combattuto contro Napoleone, elaborò nel suo trattato Della guerra (1832) la concezione delle guerre come lotte per la vita estese a tutta la popolazione degli Stati in esse impegnati. Egli fu il primo a percepire ed esporre lucidamente la differenza fra le guerre del XVIII secolo e la nuova guerra totale. Sulla prima categoria di guerre scrisse: "Le depredazioni e le devastazioni del territorio nemico, che ebbero tanta parte presso i Tartari, presso i popoli antichi e anche nel Medioevo, non erano più in armonia con lo spirito dell'epoca. Tali atti si consideravano anzi, giustamente, come inutili brutalità, cui era facile contrapporre rappresaglie, e che colpivano piuttosto i sudditi degli Stati nemici che i loro governi: erano, per tale motivo, destinati a mancare del tutto d'efficacia e a produrre soltanto il risultato di influire a lungo in senso negativo sul progresso della civiltà. La guerra, dunque, non solo quanto ai mezzi, ma anche quanto all'oggetto, andò sempre più limitandosi ai soli eserciti. L'esercito, appoggiato alle piazzeforti e a qualche posizione preparata, costituiva uno Stato nello Stato, e nel suo interno l'elemento della guerra andava lentamente logorandosi. [...] certo è che questo nuovo stato di cose produsse un effetto salutare sui popoli. Non si deve però misconoscere che esso tendeva a render sempre più la guerra un puro affare di governo, straniandola ancor più dall'interesse del popolo" (Della guerra, Milano 1970, pp. 790-791).
Clausewitz paragonava poi questa concezione della guerra a quella formatasi dopo lo scoppio della Rivoluzione francese, evidenziandone le differenze: "Mentre, secondo la maniera abituale di vedere le cose, si fondavano speranze sopra forze militari limitatissime, ne sorse una, nel 1793, di cui non si era mai avuta la minima idea. Improvvisamente la guerra era ridivenuta una questione di popolo; ciò, in una nazione di 30 milioni di abitanti, considerantisi tutti cittadini dello Stato. [...] In seguito alla partecipazione della nazione alla guerra, invece di un Gabinetto e di un esercito fu tutto un popolo che gravò con il suo peso naturale sulla bilancia. Da quel momento i mezzi impiegabili, gli sforzi possibili non ebbero più un limite conosciuto; l'energia che si poteva imprimere alla guerra non aveva più contrappeso; e in conseguenza, il pericolo per l'avversario divenne estremo. [...] E così l'elemento della guerra, sbarazzato da ogni barriera convenzionale, irruppe con tutta la sua violenza naturale" (ibid., pp. 792-793).
Sarebbe sbagliato credere che l'insistenza di Clausewitz sulla guerra totale ("guerra assoluta", nella sua terminologia) e sulla sua spietatezza fosse dovuta a un malvagio desiderio di barbarie. Secondo lui, la guerra in questa nuova forma aveva almeno due pregi. In primo luogo, la decisione di intraprendere una guerra non veniva più presa da un gruppo esiguo di governanti poco sensibili agli interessi della popolazione. In secondo luogo, l'efferatezza della guerra moderna induceva (o almeno avrebbe dovuto indurre) quelli che prendevano le decisioni a non aprire le ostilità con troppa leggerezza.La prima tesi è per molti versi discutibile. Anche nelle democrazie parlamentari moderne i governanti riescono facilmente a ottenere il sostegno popolare alla decisione di iniziare una guerra per il perseguimento di quelli che essi ritengono essere gli interessi nazionali. Le decisioni al riguardo restano sostanzialmente appannaggio di ridotte élites. Anche la seconda tesi presta il fianco a critiche. Purtroppo non è affatto vero che la crescente crudeltà delle guerre frapponga seri ostacoli al loro scatenarsi. È istruttiva al riguardo l'opinione di Hegel sull'introduzione della polvere da sparo in Europa da parte degli Arabi nel XVI secolo e sulla conseguente invenzione delle armi da fuoco. A suo giudizio, esse avevano democratizzato la guerra, dato che l'uso delle armi non era più monopolio di un limitato gruppo sociale con un particolare retroterra culturale e un costoso addestramento: la polvere da sparo "fu uno strumento essenziale per l'affrancamento dalla forza fisica dei singoli e per l'equiparazione delle classi [...]. La distinzione fra signore e servo perdette così ogni forza" (Lezioni sulla filosofia della storia, vol. IV, Firenze 1963, p. 120). Ciò è senz'altro vero, ma la democratizzazione ebbe per unico effetto l'uccisione di un numero crescente di persone. Non ci fu insomma alcun progresso sostanziale. Allo stesso modo la guerra totale - che secondo Clausewitz avrebbe dovuto portare a una diminuzione dei conflitti armati - ha in realtà semplicemente moltiplicato le sofferenze umane fino a proporzioni intollerabili.Comunque, dal periodo napoleonico a tutt'oggi i conflitti armati appartengono alla categoria descritta da Clausewitz: si tratta di 'guerre totali' (siano esse guerre tra Stati, guerre civili o guerre di liberazione nazionale).
3. Il diritto internazionale e i conflitti armati
È di prammatica ormai citare una famosa osservazione fatta nel 1952 dal grande giurista inglese sir Hersch Lauterpacht, secondo cui "se il diritto internazionale è, in certo senso, il punto di evanescenza del diritto, il diritto bellico è il punto di evanescenza del diritto internazionale" (The problem of the revision of the law of war, in British yearbook of international law, vol. XXIX, 1952, p. 382).C'è molto di vero in questa affermazione. Il diritto internazionale, più di qualsiasi altro sistema normativo, riflette direttamente e con piena trasparenza i rapporti di potere; è come una tenue ragnatela che solo in misura molto limitata pone restrizioni agli Stati. La guerra segna il momento di passaggio da relazioni relativamente amichevoli al conflitto violento. È quindi naturale che in questo settore del diritto la politica di potenza celebri il suo apogeo, prevalendo sulla regolamentazione giuridica. Nella lotta tra diritto e forza, è il diritto ad avere la peggio, e su due piani: anzitutto, le norme internazionali frenano solo in misura limitata la violenza armata; in secondo luogo, troppo spesso, quando 'remore' e 'impedimenti' giuridici pur esistono, essi sono elusi e ignorati dagli Stati. Questo stato di cose è la naturale conseguenza di tanti fattori storico-politici, ma anche dell'esistenza di una comunità internazionale fatta di Stati del tutto separati, ognuno dei quali ritiene di essere una communitas perfecta. Non ci si può quindi attendere che il diritto ponga limiti efficaci alla violenza armata, e tanto meno un divieto assoluto; realisticamente, si può solo richiedere al diritto di mitigare almeno alcune delle più spaventose manifestazioni della guerra. È precisamente quel che fanno le norme sulla condotta delle ostilità belliche.
4. Il diritto internazionale bellico tradizionale
Questo diritto fu sostanzialmente creato in parte dalla consuetudine, in parte dalla Conferenza di Bruxelles del 1874 e 'codificato' dalle Conferenze dell'Aia del 1899 e del 1907.
È interessante rilevare che, nella sostanza, tale diritto accoglieva la concezione rousseauiana, non quella clausewitziana della guerra: esso cioè concepiva i conflitti armati tra Stati come scontri tra eserciti, e pertanto distingueva nettamente tra combattenti e civili, cercando di sottrarre quanto più possibile questi ultimi agli orrori della violenza bellica - anche se poi la realtà della guerra moderna finiva per provocare delle incrinature nell'edificio giuridico o profittava di certe crepe in quell'edificio per salvaguardare le esigenze militari, soprattutto dei grandi Stati. Resta comunque il fatto che l'atteggiamento di fondo o, se si vuole, la tendenza generale del diritto tradizionale si ispirava quanto più possibile alla concezione rousseauiana. Il diritto tradizionale scaturiva fondamentalmente da un duplice contrasto di interessi. Anzitutto, lo scontro fra le potenze navali e quelle non navali. L'Inghilterra, che apparteneva alla prima categoria, guardava con sospetto a qualsiasi sviluppo del diritto sulla guerra marittima che potesse mettere in pericolo la sua superiorità e, insieme con le altre potenze navali, insisteva sulla massima libertà di azione dei belligeranti sul mare.Il secondo e più importante motivo di divisione era quello tra le grandi e medie potenze da una parte e i piccoli Stati dall'altra. Le prime riuscirono fin dall'inizio a lasciare impregiudicati dal punto di vista giuridico tutti i problemi più spinosi riguardanti i mezzi e i metodi della violenza bellica (nei quali erano ovviamente superiori), o quantomeno ad annacquare le poche norme create in materia; inoltre erano particolarmente interessate a restringere il più possibile le categorie di combattenti legittimi, estendendo altresì, quanto più possibile, i diritti delle potenze occupanti. Gli Stati più piccoli (alcuni paesi europei, più quelli latino-americani) lottarono invece costantemente per l'affermazione di norme intese a contenere la superiorità militare delle grandi potenze e, in particolare, a proteggere la propria popolazione e il proprio territorio in caso di invasione.
Tutto il diritto originatosi in questo periodo si può far risalire praticamente alle tensioni fra questi due gruppi; tuttavia, come vedremo, furono gli Stati più potenti a dare un'impronta fondamentale alla regolamentazione giuridica. In sintesi, ecco il contenuto di questa normativa. In primo luogo, venivano disciplinati soltanto i conflitti armati tra Stati: non esistevano norme relative alla condotta delle ostilità nelle guerre civili. I combattimenti tra gli insorti e le autorità governative rimanevano quindi sotto l'impero del diritto penale interno.Inoltre, vennero poste norme assai dettagliate sulla neutralità. Il diritto della neutralità consiste nelle norme che disciplinano le relazioni fra i belligeranti da una parte e gli Stati terzi dall'altra. Si tratta di interessi ovviamente contrastanti: ognuno dei belligeranti non vuole che Stati terzi vengano in aiuto del suo avversario prestandogli assistenza economica o militare, e quindi cerca di impedire ogni rapporto tra Stati terzi e il suo nemico. Per contro, gli Stati neutrali desiderano mantenere libero il commercio con le parti contendenti, senza per altro rimanere immischiati nel conflitto armato. L'atteggiamento di neutralità inizialmente adottato dagli Stati Uniti verso gli Stati coinvolti nelle guerre napoleoniche (1804-1815) e, successivamente, la posizione della Gran Bretagna e di altre nazioni europee nei confronti della guerra civile americana (1861-1865) contribuirono notevolmente allo sviluppo di un insieme di norme che segnò un soddisfacente compromesso fra gli interessi contrapposti.In terzo luogo, sia la guerra terrestre che quella navale furono disciplinate in grande dettaglio (la guerra aerea era ancora in fasce nel 1899, quando esistevano soltanto aerostati e dirigibili di scarso valore militare). La codificazione dell'Aia copriva inoltre l'intero svolgimento della guerra, dall'apertura delle ostilità fino alla conclusione dei trattati di pace, passando attraverso la condotta delle ostilità, il trattamento delle vittime della guerra, dei civili, ecc.
Venivano poi definite le categorie dei combattenti legittimi. Il compromesso tra le esigenze delle grandi potenze e quelle dei piccoli Stati consistette nel concedere lo status di combattente legittimo, oltre che agli eserciti regolari, anche alle milizie e ai corpi di volontari, purché queste ultime categorie possedessero i seguenti requisiti: a) esser comandati da una persona responsabile per i suoi subordinati; b) portare un segno distintivo fisso riconoscibile a distanza; c) portare apertamente le armi; d) condurre le operazioni secondo le leggi e gli usi della guerra. Per un'altra categoria di combattenti (cioè "gli abitanti di un territorio non occupato che, all'avvicinarsi del nemico, spontaneamente prendono le armi per resistere all'invasore senza aver il tempo di organizzarsi") venivano richieste soltanto due condizioni: che portassero apertamente le armi e rispettassero le leggi e gli usi di guerra.
L'ampliamento della categoria dei combattenti legittimi costituì chiaramente la più importante concessione fatta dalle grandi potenze agli Stati minori. In pratica, però, nel periodo tra il 1907 e il 1939 quasi tutte le guerre vennero combattute da eserciti regolari e solo in poche occasioni altri "combattenti legittimi" presero parte alle ostilità su larga scala. In breve, per una serie di ragioni di ordine storico, gli Stati minori non trassero profitto da quel che avevano ottenuto sul piano normativo.
La disciplina internazionale dei mezzi di condotta delle ostilità è la cartina di tornasole per evidenziare gli interessi sottesi al diritto bellico. Purtroppo, furono vietati solo i mezzi di distruzione relativamente inefficaci o che potessero mettere in pericolo anche la vita di chi li usava.
Oltre ad alcuni divieti specifici, nel 1899 venne stabilito un principio generale poi ripreso nel 1907, in base al quale "è specialmente vietato l'impiego di armi, proiettili e materiali intesi a causare sofferenze non necessarie". Il principio era molto vago e si prestava alle interpretazioni più divergenti. In pratica esso venne interpretato come un divieto di usare armi di minore importanza (come lance con la punta seghettata, proiettili di forma irregolare, proiettili pieni di cocci di vetro e simili). Un altro principio vietava l'uso indiscriminato delle armi (senza cioè distinguere tra civili e militari). Anche questo principio era troppo generico per poter risultare concretamente operante (fuorché in taluni casi limite).Come le disposizioni sui mezzi della violenza bellica, anche quelle sui metodi di guerra tendevano sostanzialmente a favorire gli Stati più forti.
Un altro punto debole del diritto internazionale tradizionale era rappresentato dai mezzi per assicurare il rispetto delle norme sulla guerra. Non esisteva alcuna istituzione indipendente incaricata di controllare il comportamento dei belligeranti. In definitiva, spettava a ciascuna delle parti in causa giudicare autonomamente se l'avversario rispettava il diritto, e imporne coattivamente l'osservanza in caso di violazioni.
Un ulteriore carattere fondamentale della normativa tradizionale che occorre infine mettere in rilievo è che l'applicabilità delle convenzioni di diritto bellico a singoli conflitti armati appariva sempre precaria e incerta: ciò perché quelle convenzioni contenevano la clausola si omnes, in virtù della quale esse si applicavano solo se tutti i belligeranti erano parti contraenti; bastava quindi che un solo Stato non avesse ratificato una determinata convenzione perché questa venisse considerata inapplicabile anche nei rapporti tra due altri belligeranti che pure l'avevano ratificata. Ciò comportava che solo il diritto consuetudinario - dunque la parte più generale ma anche quella più vaga della normativa internazionale - trovava sicuramente applicazione in ogni guerra.In conclusione, almeno in tre settori assai importanti (e precisamente nel campo dei mezzi di combattimento, dei metodi di combattimento, e delle garanzie dell'osservanza del diritto) il diritto internazionale tradizionale tendeva a favorire le potenze forti o di media grandezza.
5. Nuovi sviluppi nelle guerre moderne
Nel periodo successivo alla codificazione dell'Aia - e soprattutto a partire dalla seconda guerra mondiale - si verificò una serie di avvenimenti che la resero per molti versi inadeguata.
Prima di tutto, emersero nuove categorie di combattimenti. Durante la seconda guerra mondiale i partigiani e i movimenti di resistenza svolsero un ruolo notevole in alcuni Stati europei occupati dalla Germania (Francia, Italia, Paesi Bassi, Polonia, Iugoslavia, URSS). Formalmente per il diritto esistente non si trattava di combattenti legittimi, dato che operavano in territorio sotto occupazione militare (le milizie e i corpi volontari erano legittimi solo al di fuori da questi territori), e anche perché spesso non possedevano qualcuno dei prescritti quattro requisiti: normalmente non portavano apertamente le armi, e spesso nemmeno segni distintivi fissi riconoscibili a distanza. Dopo la guerra emerse tra gli Alleati la diffusa consapevolezza che i movimenti di resistenza avessero agito per ragioni politicamente valide, e che quindi in futuro andasse loro riconosciuta una qualche forma di legittimazione. Successivamente la guerriglia si diffuse nei paesi coloniali e anche in questo caso la maggioranza degli Stati si rese conto che, anche se non possedevano i necessari requisiti, i guerriglieri andavano comunque considerati legittimi combattenti.
In secondo luogo, la guerra si sviluppò in due direzioni opposte: si ebbero le guerre dei ricchi, cioè i conflitti armati tra nazioni altamente sviluppate che usavano sofisticate armi di distruzione di massa, e le guerre dei poveri, cioè le lotte di liberazione nazionale condotte con i metodi della guerriglia dai movimenti di liberazione in territori coloniali o occupati. Va notato che entrambe le categorie di guerre (che spesso coesistevano, come nel caso del conflitto vietnamita del 1964-1974) hanno prodotto come risultato uno sconcertante aumento di vittime tra i civili. Nelle guerre moderne i non combattenti soffrono molto più dei militari.In terzo luogo, si affermarono nuovi mezzi di distruzione: gli aerei, usati per la prima volta nella guerra tra l'Italia e la Turchia (1910-1911), poi durante la prima guerra mondiale, si dimostrarono di grande efficacia nella guerra civile spagnola (1936-1939), quando gli aerei tedeschi parteciparono massicciamente ai combattimenti. Gli sviluppi tecnologici hanno portato alla creazione e all'uso (il 6 e l'8 agosto 1945) della bomba atomica, e successivamente alla fabbricazione su larga scala di bombe nucleari. Gli arsenali delle grandi e piccole potenze (queste ultime rifornite dalle prime) si sono riempiti sempre di più, e ora includono spesso armi batteriologiche e chimiche (più di recente, è stata prodotta la bomba al neutrone).
In quarto luogo, l'affermarsi dopo la seconda guerra mondiale di due superpotenze militari e l'equilibrio del terrore creatosi in seguito all'esistenza delle armi nucleari hanno avuto come contraccolpo la diffusione sempre maggiore di guerre civili: le grandi potenze hanno lottato fra di loro 'per procura', assistendo militarmente le varie fazioni in lotta nel territorio di Stati sovrani (soprattutto del Terzo Mondo), dove le condizioni storiche e sociali (specialmente dissensi tribali e politici) generano scontri tra gruppi opposti, facilitando lo scoppio di guerre civili.In quinto luogo, il diritto alla neutralità è gradualmente caduto in declino. Questo processo è iniziato durante le due guerre mondiali - quando le norme sulla neutralità diedero ben poca protezione agli Stati che non volevano essere coinvolti nel conflitto (nella seconda guerra mondiale sia l'URSS che gli Stati Uniti erano neutrali quando vennero attaccati rispettivamente dalla Germania e dal Giappone) - e su esso hanno influito la creazione delle Nazioni Unite (basate sull'idea che in caso di necessità qualsiasi Stato membro deve prendere le armi contro l'aggressore) e la proliferazione dei patti di sicurezza, una volta che il sistema delle Nazioni Unite si è rivelato inefficace. Il colpo decisivo alla neutralità è stato inferto dalla creazione di raggruppamenti politici e alleanze, ognuno dei quali prima o poi si schiera, più o meno apertamente, con uno dei belligeranti in caso di conflitto armato; il che ha reso obsoleto l'obbligo di rimanere neutrali. Gli Stati hanno inoltre considerato gli ostacoli ai rapporti commerciali tra neutrali e belligeranti sempre più svantaggiosi sul piano economico e scarsamente giustificati dalle nuove circostanze.Infine, il pericolo incombente di un conflitto nucleare solleva il problema della reale possibilità per il diritto bellico di regolare tale tipo di scontro armato: è lecito infatti domandarsi se questo nuovo genere di violenza bellica possa essere in qualche modo limitato dal diritto o se esso non costituisca invece addirittura la negazione del diritto e dell'umanità.
6. Il nuovo diritto
Tutti gli sviluppi di cui si è parlato hanno indotto gli Stati a rivedere e aggiornare il tradizionale diritto bellico (ma, per ovvi motivi, non quello della neutralità). Questo processo fu avviato nel 1949 con l'adozione, da parte della Conferenza diplomatica di Ginevra, di quattro Convenzioni sulle vittime della guerra (feriti, malati delle forze armate in campagna; feriti, malati e naufraghi delle forze armate sul mare; prigionieri di guerra; popolazione civile). Nel 1977 un'altra Conferenza diplomatica ha adottato due protocolli: uno sui conflitti armati internazionali, l'altro sui conflitti armati interni. Si è trattato di una profonda revisione e dell'aggiornamento sia di molte norme adottate all'Aia nel 1899 e nel 1907, sia delle Convenzioni di Ginevra del 1949. Attualmente il diritto bellico si compone di questi due sistemi di norme di origine convenzionale, nonché di numerose norme consuetudinarie.Conviene sottolineare che il nuovo diritto formatosi dopo la seconda guerra mondiale non ha sostituito il vecchio, ma lo ha sviluppato e arricchito, chiarendone e precisandone certi aspetti. Non bisogna mai perdere di vista questo punto nell'esaminare e valutare le nuove norme sui conflitti armati.
È opportuno aggiungere un'altra osservazione generale. Il nuovo diritto non abbandona il solco della tradizione nella concezione della guerra cui si ispira: anch'esso parte da una visione rousseauiana dei conflitti armati, ma naturalmente si sforza di tener maggiormente conto del fatto che le guerre moderne tendono sempre più a divenire conflitti totali, o lotte per la vita e per la morte. Il nuovo diritto contempla non pochi aspetti del coinvolgimento sempre maggiore sia dei civili sia degli apparati civili (industrie, ecc.) negli eventi bellici, ma tiene ferma la necessità che si distingua sempre - o quanto più è possibile - tra civili e combattenti, tra obiettivi civili e obiettivi militari. Prima di procedere all'esposizione dei fondamenti dell'attuale disciplina giuridica, è opportuno soffermarsi brevemente sulle principali posizioni politiche e ideologiche che la sottendono.
Scopo primario della Conferenza di Ginevra del 1949 fu quello di colmare le lacune in alcuni settori del diritto manifestatesi nel corso della seconda guerra mondiale (la protezione dei civili e dei prigionieri di guerra; la protezione degli ospedali e, più in generale, dei feriti e dei malati; la tutela dei diritti delle popolazioni civili nei territori occupati). Gli Stati volevano poi tener conto dell'esperienza dei movimenti di resistenza del 1939-1945, legittimandoli per il futuro. Un altro settore che richiedeva urgente considerazione era il perfezionamento dei meccanismi internazionali e interni di garanzia del diritto bellico. Infine, si ritenne necessario elaborare una normativa convenzionale concernente un'area che in passato era stata completamente ignorata dal diritto: le guerre civili. Su tutti questi settori fu relativamente facile raggiungere un accordo, perché emerse una convergenza di fondo tra tutti gli Stati in ordine all'opportunità, sottolineata soprattutto dalle grandi potenze, di lasciare invece impregiudicata un'area militarmente molto delicata, quella dei mezzi e dei metodi della violenza bellica. Non vi fu pertanto, nel 1949, uno scontro politico-ideologico e diplomatico (tranne in certa misura sulle guerre civili, per le quali l'URSS, trattandole quasi sullo stesso piano delle guerre coloniali, chiedeva una protezione molto ampia, laddove gli occidentali - forse anche perché si resero conto che uno dei fini dell'URSS era quello di rafforzare la tutela internazionale dei movimenti che lottavano contro le potenze coloniali - erano restii a concedere troppo spazio ai ribelli).
Nella Conferenza di Ginevra del 1974-1977 il clima politico fu molto diverso, anche perché nel frattempo sia i paesi socialisti, sia soprattutto quelli del Terzo Mondo, erano diventati più numerosi. Nondimeno un vero e proprio conflitto ideologico-politico emerse solo in ordine a tre temi: l'equiparazione delle guerre di liberazione nazionale ai conflitti armati internazionali; il trattamento da accordare ai guerriglieri da una parte e ai mercenari dall'altra; la disciplina internazionale delle guerre civili. Su questi tre punti emerse una netta divisione fra i tre gruppi di Stati. Su quasi tutti gli altri grandi temi in discussione (la protezione della popolazione civile dalle ostilità, la protezione dei feriti, dei malati e dei naufraghi, nonché del personale medico e sanitario, ecc.) si manifestò piuttosto un dissidio (più o meno forte, a seconda dei casi) tra grandi e medie potenze, da un lato, e Stati minori dall'altro.
Combattenti legittimi. - Come abbiamo già chiarito, il diritto tradizionale considerava legittimi combattenti i membri degli eserciti regolari, come pure quelli delle milizie e dei corpi volontari che presentassero i quattro requisiti summenzionati; inoltre prevedeva uno statuto particolare per la popolazione civile che all'approssimarsi del nemico si sollevasse in armi. Nel 1949 la III Convenzione di Ginevra, all'art. 4.A.2, aggiunse la categoria dei "movimenti di resistenza organizzati, appartenenti a una parte in conflitto e che operano fuori o all'interno del loro territorio, anche se questo territorio è occupato", purché possedessero i quattro requisiti richiesti sin dal 1899 per gli altri combattenti irregolari (nel 1949 venne aggiunta un'altra condizione: i combattenti devono esser legati a una delle parti in conflitto).
Dopo il 1949 la questione dei guerriglieri (cioè dei combattenti irregolari impegnati in azioni di guerriglia nell'ambito di guerre interstatuali o di guerre di liberazione nazionale) divenne sempre più importante e allo stesso tempo sorse il problema dei mercenari. Entrambe le questioni vennero trattate nella Conferenza del 1974-1977. Ne risultò che i guerriglieri potevano essere considerati come legittimi combattenti, a certe condizioni, mentre i mercenari non avevano diritto allo 'statuto di combattente' e quindi di prigionieri di guerra in caso di cattura.
La condotta delle ostilità: 1. I mezzi della violenza bellica. - Finora il diritto internazionale ha adottato un duplice approccio alla questione della proibizione o della limitazione dell'uso delle armi: da una parte ha posto principî generali che proibiscono l'uso di ampie categorie di armi, dall'altra ha sancito divieti specifici circa l'uso di singole armi concretamente individuate.
I principî generali, cui s'è già accennato, non hanno svolto un ruolo significativo nella prassi internazionale più recente, dato che essi sono tanto generici da poter essere utilizzati solo in situazioni estreme.
Più proficui si sono rivelati i divieti specifici. Essi indicano chiaramente le armi che interdicono, oppure indicano le obiettive caratteristiche di tali armi. Alcuni di questi divieti furono adottati nel passato (quelli concernenti il veleno e le armi avvelenate, i proiettili dum-dum, i proiettili esplosivi di peso inferiore a 400 grammi, i gas asfissianti, ecc.). Va aggiunto che il protocollo di Ginevra del 1925 ha proibito le armi chimiche e batteriologiche. Nel 1972 il divieto dell'uso di armi batteriologiche fu riaffermato da una Convenzione apposita, che proibisce anche la fabbricazione e la detenzione delle armi stesse. Nel 1980 è stata conclusa una Convenzione, con annessi tre protocolli, che proibisce l'uso di tre categorie di armi: le armi a frammentazione, che una volta penetrate nel corpo umano non sono individuabili; le mine, le trappole esplosive e altri strumenti similari; le armi incendiarie (tipo napalm), se non usate contro obiettivi esclusivamente militari.
L'interdizione di armi particolari a mezzo di specifici divieti o limitazioni offre senza dubbio due vantaggi. Le armi vengono individuate con grande certezza sulla base delle loro caratteristiche obiettive. Inoltre, se formulate in maniera inequivoca, le prescrizioni normative vengono rispettate anche in assenza di meccanismi coercitivi.
Due sono però i principali inconvenienti dei divieti specifici. Il primo, come s'è detto, è che tali divieti riguardano solo quelle armi che si sono dimostrate meno efficienti sul piano militare o comunque si sono rivelate pericolose anche per colui che le utilizza. Così, non solo non sono state vietate le bombe lanciate da aerei, ma - cosa più importante - non è stato mai imposto un divieto formale dell'uso delle armi atomiche e nucleari. Un secondo inconveniente dei divieti specifici è che anch'essi possono esser facilmente aggirati elaborando nuove e più sofisticate armi che, pur essendo non meno crudeli o letali delle precedenti, non ricadono sotto il divieto a motivo delle loro nuove caratteristiche. Inoltre, gli Stati più facilmente in grado di aggirare i divieti sono quelli più industrializzati, dato che posseggono le risorse tecnologiche necessarie per fabbricare armi più sofisticate. Di conseguenza, il divario fra gli Stati industrializzati e i paesi meno avanzati può allargarsi anche in questo campo.
2. I metodi della violenza bellica. - La disciplina internazionale di questa materia è per la verità assai carente. Dopo la diffusione della guerra aerea (che ha reso il concetto di 'località indifesa' ancor più incerto che in passato e in larga misura superato), la prassi statale ha gradualmente dato vita a tre principî: a) è vietato l'attacco indiscriminato contro obiettivi sia militari che civili o contro obiettivi esclusivamente civili; b) al momento di sferrare un attacco devono essere prese tutte le precauzioni necessarie per poter risparmiare le popolazioni civili; c) nel caso in cui un attacco contro obiettivi militari debba necessariamente produrre perdite tra i civili o la distruzione di obiettivi civili, queste perdite o distruzioni non devono essere sproporzionate rispetto ai vantaggi militari. Tuttavia tutti e tre i principî sono così vaghi da prestarsi alle interpretazioni più divergenti. Il concetto di obiettivo militare, enunciato chiaramente solo nel 1977, è molto ampio e potrebbe anche essere esteso dai belligeranti. Ciò non fa che indebolire il principio secondo cui gli attacchi indiscriminati sono vietati. Inoltre, le precauzioni da prendere non possono venir definite in termini precisi e quindi gli Stati godono di grande libertà al riguardo. Infine, la proporzionalità è per definizione assai discutibile, tranne in casi estremi (per esempio, quando, per distruggere una piccola guarnigione che controlla un ponte, l'avversario annienta un intero villaggio sito nei pressi di una delle estremità del ponte, si ha un'ipotesi di palese sproporzione).
Benché i tre principî suddetti siano vaghi, essi purtuttavia forniscono un parametro di riferimento almeno per i casi più gravi. Non va perduto di vista il fatto che, se mancassero, non ci sarebbero limiti alla violenza bellica e qualsiasi guerra si trasformerebbe ben presto in una carneficina peggiore di quelle che abbiamo conosciuto finora.Occorre poi aggiungere che il primo protocollo del 1977 contiene alcune norme che integrano e sviluppano, rendendola così concretamente applicabile, la vecchia normativa sulle località indifese; esse enunciano una definizione completa di quel concetto e prevedono le procedure per concordare concretamente che una certa località è indifesa.La protezione delle vittime della guerra. Ampia e dettagliata è la normativa internazionale a salvaguardia di tutti coloro che non prendono parte alle ostilità o che, avendovi partecipato, non sono più in condizioni di farlo (prigionieri di guerra, feriti, malati o naufraghi). La si trova quasi interamente nelle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 e nel primo protocollo del 1977. I civili sono però protetti in misura adeguata soprattutto se si trovano nelle mani dell'avversario (o all'inizio delle ostilità o dopo l'occupazione del territorio). Per contro, quelli che si trovano nel teatro delle operazioni militari risultano scarsamente tutelati.
Tuttavia, a parte le eccezioni testé accennate, le norme internazionali concernenti le vittime della guerra funzionano meglio delle altre norme di diritto bellico. Ciò è dovuto prima di tutto a considerazioni di carattere umanitario, prevalenti in questa materia più che altrove. Inoltre, le grandi potenze hanno più interesse a proteggere le vittime della guerra che a porre limiti alla condotta delle ostilità. D'altra parte, gli Stati più piccoli sono anch'essi interessati all'estensione di quella protezione, quantomeno per ragioni umanitarie.
Le garanzie del diritto bellico: 1. Rappresaglie. - Si tratta del più rozzo e diffuso mezzo per indurre il nemico a rispettare il diritto. Mentre le norme tradizionali non ponevano alcun limite in materia, le Convenzioni di Ginevra del 1949 hanno vietato le rappresaglie contro le persone protette, cioè i prigionieri di guerra, i feriti, i malati e i naufraghi, e i civili (nelle mani del nemico: di conseguenza le rappresaglie contro i civili sul teatro delle operazioni belliche erano ammesse). La Conferenza del 1974-1977 ha esteso il divieto a una serie di persone e obiettivi civili che si trovino sul campo di battaglia (artt. 51.6; 53 c; 54.4; 55.2; 56.4 del primo protocollo). Tuttavia la forte opposizione di paesi come la Francia e l'Australia e i dubbi di molti altri Stati inducono a ritenere che queste disposizioni siano rimaste allo stadio del diritto convenzionale, vincolando, quindi, solo gli Stati che abbiano ratificato il protocollo o vi abbiano acceduto.
Si tratta ovviamente di uno stato di cose assai deplorevole, dato che le rappresaglie sono uno strumento primitivo che porta la violenza fino alla barbarie, è suscettibile di ogni sorta di abuso, e inoltre finisce per fare il gioco delle potenze militari più importanti. Gli Stati favorevoli alle rappresaglie sostenevano che, nonostante i loro difetti, esse costituiscono l'unica efficace sanzione a disposizione dei belligeranti. Ciò dimostra ulteriormente che l'umanizzazione della guerra è meta ancora molto lontana, e che non bisogna risparmiare alcuno sforzo per rafforzare ed estendere gli attuali fragili limiti all'uso della forza militare.
2. La repressione penale dei crimini di guerra. - Da tempo gli Stati hanno accolto il concetto che le violazioni del diritto bellico perpetrate da membri delle forze armate e dai belligeranti comportano la loro responsabilità personale, oltre alla responsabilità dello Stato cui quegli individui appartengono. Di solito la punizione avveniva ad opera dell'avversario, sulla base del principio della nazionalità passiva (le vittime delle violazioni erano cittadini dello Stato che conduceva il processo). A partire dalla prima guerra mondiale si è proceduto alla punizione dei rei o in virtù del principio di territorialità (se il crimine era stato commesso sul territorio dello Stato del foro) o del suddetto principio della nazionalità passiva (con un'innovazione: si poteva procedere anche nei casi in cui la vittima avesse la nazionalità di un paese alleato). Non mancano leggi nazionali che prevedono la punizione anche sulla base della nazionalità attiva (quando l'autore della violazione ha la nazionalità dello Stato che intenta il processo), ma nella prassi i casi di applicazione di questo principio sono, per ovvie ragioni, scarsi.
3. Il sistema delle potenze protettrici. - Le Convenzioni di Ginevra del 1949 hanno perfezionato e codificato la prassi internazionale relativa alla designazione da parte di ciascun belligerante di una 'potenza protettrice', allo scopo di salvaguardare i suoi interessi e anche di indurre l'avversario a rispettare il diritto internazionale. In breve, le Convenzioni prevedono che ciascuno dei belligeranti possa indicare uno Stato terzo come 'potenza protettrice'; perché questo Stato possa adempiere i suoi compiti è però necessario il consenso sia dello Stato 'protetto' sia del suo avversario. Così, il sistema del 1949 si impernia su un duplice 'rapporto triangolare' tra i due belligeranti e due Stati terzi. Una volta raggiunto un accordo a tre, lo Stato terzo può agire come potenza protettrice per conto di uno dei belligeranti e controllare l'attuazione delle Convenzioni (non è esclusa, naturalmente, la possibilità che un medesimo Stato terzo agisca come potenza protettrice di entrambi i belligeranti).
Nella pratica il sistema delle potenze protettrici non ha funzionato molto bene. A esso si è fatto ricorso soltanto in tre casi (nel 1956, nel conflitto di Suez, ma solo fra Egitto da una parte e Francia e Gran Bretagna dall'altra; nell'affare di Goa, nel 1961; nella guerra indopakistana del 1971, ma per breve tempo, perché l'India ritirò il suo consenso). Tra le varie cause dello scarso successo vanno sicuramente annoverati il timore dei belligeranti di riconoscere implicitamente l'avversario in conseguenza della designazione e accettazione 'triangolare' della potenza protettrice, nonché il desiderio di non interrompere le relazioni diplomatiche tra di loro.
Il sistema istituito dall'art. 5 del primo protocollo del 1977 sostanzialmente riprende il sistema del 1949 e lo perfeziona sotto vari profili (eliminando, tra l'altro, i due inconvenienti or ora sottolineati).
Dalla fine degli anni cinquanta i paesi in via di sviluppo e quelli (allora) socialisti hanno sostenuto in seno alle Nazioni Unite - con efficacia sempre maggiore - che le guerre di liberazione nazionale dovevano essere trattate non alla stregua di guerre civili, bensì come conflitti internazionali, con la conseguenza che tutte le norme regolanti i conflitti armati fra Stati andavano applicate anche a tali guerre. I paesi occidentali hanno però sempre replicato che tale 'promozione' era arbitraria, perché le guerre in questione, se considerate oggettivamente, costituiscono dei conflitti armati interni (gli abitanti del territorio sottoposto alla sovranità, o comunque all'autorità, di uno Stato si ribellano contro il governo centrale); quei paesi aggiungevano che, con l'innalzare quelle guerre a livello di conflitti internazionali, si sarebbe finito per introdurre considerazioni ideologiche o politiche nel diritto internazionale bellico: le guerre di liberazione nazionale sarebbero state trattate in modo diverso dalla categoria dei conflitti interni cui esse appartenevano solo in considerazione dei fini perseguiti dai movimenti di liberazione nazionale (la lotta contro il colonialismo o contro regimi razzisti o potenze straniere). In tal modo, secondo gli occidentali, si sarebbe reintrodotto nel diritto internazionale il concetto di bellum justum di origine medievale, che il diritto bellico formatosi dopo la pace di Westfalia aveva opportunamente espunto dal sistema normativo internazionale, accogliendo invece il concetto secondo cui occorre non annettere alcuna importanza a fattori ideologici nell'applicazione delle norme del diritto bellico.
Dopo il 1974 l'opposizione occidentale all'equiparazione delle guerre di liberazione nazionale ai conflitti armati internazionali si attenuò gradualmente per molti motivi, tanto che nel 1977 la delegazione degli Stati Uniti alla Conferenza di Ginevra propose che la relativa disposizione (art. 1.4), così fermamente avversata nel 1974, venisse adottata per consensus (la norma in questione considera come conflitti armati internazionali le guerre condotte da movimenti di liberazione nazionale contro potenze coloniali, potenze occupanti, o regimi razzisti). La proposta non venne accolta perché Israele chiese di procedere a una votazione. Il risultato fu di 87 voti a favore, uno contro (Israele) e 11 astenuti (gli Stati occidentali come la Gran Bretagna, gli Stati Uniti, la Repubblica Federale Tedesca, il Canada, l'Italia, la Francia, la Spagna, l'Irlanda, Monaco nonché il Giappone e il Guatemala). Non bisogna farsi però fuorviare dal risultato della votazione. È chiaro dalle dichiarazioni rese dai vari Stati che solo uno fra di loro, Israele, era del tutto contrario alla disposizione in oggetto. Gli Stati astenuti manifestarono la loro perplessità sulla possibilità di applicare la norma o ne contestarono la convenienza pratica e politica; ma dall'insieme delle varie dichiarazioni si può desumere che la norma fu considerata in larga misura accettabile da tutti gli Stati (tranne Israele). Si può perciò concludere che i dibattiti ginevrini e l'atteggiamento tenuto dagli Stati portarono alla cristallizzazione di una norma generale che consacra e dà veste formale alla 'pratica' precedente e alle numerose risoluzioni dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite.
Attualmente i conflitti armati interni sono presi in considerazione dal diritto internazionale sotto tre diversi profili: a) quello dei diritti e degli obblighi degli Stati terzi nei confronti del 'governo legittimo' e degli insorti; b) quello delle condizioni alle quali gli insorti possono pretendere il riconoscimento di uno status giuridico internazionale e della misura in cui essi posseggono diritti e obblighi nei confronti degli Stati; c) quello del modo in cui il diritto internazionale disciplina i combattimenti che si svolgono tra il governo e i ribelli.
Ci occuperemo qui solo del terzo problema. Va anzitutto ricordato che l'atteggiamento del diritto internazionale nei confronti della guerra civile deve essere esaminato alla luce del fondamentale conflitto di interessi tra il governo legittimo da una parte (che preferisce considerare i ribelli come meri banditi, privi di status internazionale) e gli insorti dall'altra (naturalmente desiderosi di ottenere un riconoscimento internazionale). Gli Stati terzi possono (e lo fanno) schierarsi con una delle parti, a seconda delle loro tendenze politiche, ideologiche o militari, e questo ovviamente complica la questione.
Tutte le norme relative alla lotta fra il governo legittimo e gli insorti hanno una caratteristica essenziale in comune: non concedono ai ribelli lo status di combattenti legittimi; agli occhi del governo contro il quale lottano, come per gli Stati terzi, i ribelli rimangono criminali che violano il diritto penale interno. Di conseguenza, se catturati, essi non godono dello status di prigionieri di guerra ma possono venir processati e condannati per il mero fatto di aver preso le armi contro le autorità centrali. Gli insorti possono essere elevati al rango di legittimi combattenti solo se il governo così decida, concedendo loro il cosiddetto riconoscimento di belligeranza. Riconoscimento che è stato ovviamente concesso solo rarissimamente e in circostanze estreme (un'eccezione recente è costituita dal conflitto nel Salvador, dove - grazie all'intervento attivo delle Nazioni Unite - il governo centrale ha finito per stipulare accordi internazionali con i ribelli, in tal modo legittimandoli anche sul piano giuridico).
La progressiva scomparsa del riconoscimento di belligeranza (dovuta sia al desiderio dei governi coinvolti in guerre civili di reprimere la ribellione il più rapidamente possibile, sia all'interesse degli Stati terzi di tenersi in disparte o di occuparsi de facto del conflitto senza però spingersi fino ad accordare agli insorti una legittimazione internazionale) evidenzia la situazione di netta inferiorità dei ribelli nei confronti delle autorità centrali contro le quali lottano. Del resto, il fatto che a certe condizioni i ribelli acquistino diritti e obblighi internazionali non implica che essi acquistino lo status di combattenti legittimi. Quando essi diventano soggetti internazionali, possono semplicemente stipulare accordi e inviare o ricevere missioni diplomatiche, e sono poi obbligati a rispettare gli stranieri che si trovino nelle zone sotto il loro controllo; inoltre, possono pretendere il rispetto di alcune norme di carattere umanitario sui conflitti armati e sono obbligati a loro volta a rispettarle. Ciò però non significa che i loro combattenti divengano perciò stesso 'legittimi'.
Un'altra caratteristica importante dell'insieme delle norme relative ai conflitti interni è che molte di esse mirano a proteggere soltanto i non combattenti, cioè i civili che non prendono parte alle ostilità, i feriti e i malati, come pure coloro che, avendo preso parte ai combattimenti, non siano più in condizione di farlo. I metodi di combattimento non sono disciplinati, tranne per quel che concerne la salvaguardia dei civili; in pratica non esiste alcuna norma che ponga limiti alle ostilità tra le autorità governative e i ribelli inter se (un'eccezione marginale è costituita dall'art. 4.1 del secondo protocollo del 1977, che vieta ai belligeranti di "dichiarare la lotta senza quartiere"). Gli Stati hanno deciso di lasciare sostanzialmente illimitata la propria libertà d'azione, ritenendo evidentemente che grazie alla loro superiorità sul piano militare potevano reprimere più facilmente le ribellioni se liberi di agire senza le pastoie del diritto. Questa idea si sta rivelando sempre più fallace, dato che attualmente i ribelli vengono assistiti in varia maniera (soprattutto militarmente) dagli Stati terzi e quindi la violenza armata ha la stessa intensità e crudeltà da ambo le parti. Alla Conferenza di Ginevra del 1977 molti paesi, soprattutto del Terzo Mondo, reagirono con ostilità a un tentativo di estendere le norme umanitarie relative a questo tipo di conflitto - con la conseguenza che il diritto internazionale interviene nelle guerre civili in misura assai limitata, con grave nocumento soprattutto per la popolazione civile.
7. Considerazioni conclusive
È noto che nel corso degli anni l'umanità ha conosciuto un costante progresso nel perfezionamento, negli effetti devastanti o nella crudeltà delle armi e dei metodi di guerra. Siamo costretti a restare spettatori attoniti del susseguirsi di conflitti armati spietati dai quali l'umanità non trae alcun vantaggio reale. La famosa osservazione di Hegel secondo cui l'opera immortale di Tucidide sulla guerra del Peloponneso fu l'unico guadagno che l'umanità ottenne da quella guerra (Lezioni sulla filosofia della Storia, vol. III, Firenze 1963, p. 132) non può venire ripetuta per i conflitti recenti, dato che essi non hanno avuto nemmeno il pregio di essere narrati da grandi storici. Alcuni ritengono che tali conflitti abbiano nondimeno il merito di promuovere lo sviluppo industriale e tecnologico delle grandi potenze, ma tale presunto merito appare insignificante di fronte alle orribili sofferenze che essi causano.
Le limitazioni giuridiche della guerra hanno seguito solo in misura minima gli sviluppi della violenza armata organizzata. Le potenze militari più importanti non hanno accettato restrizioni generali; il sistema normativo internazionale è quindi caratterizzato da carenze, lacune e ambiguità. Queste osservazioni credo rispondano alla domanda se, in ultima analisi, il diritto internazionale avvantaggi le grandi potenze o protegga invece gli Stati più deboli. Qui come in altre aree, il diritto internazionale non può che rispecchiare l'assetto di potere della comunità internazionale. Quindi esso favorisce in larga misura gli Stati militarmente più potenti, semplicemente evitando di porre chiare e nette restrizioni ai mezzi e ai metodi di guerra e garanzie effettive contro comportamenti militari illegittimi. Nello stesso tempo, però, esso contiene una serie di norme che proteggono le vittime dei conflitti armati, come pure alcune norme che vengono specificamente incontro alle esigenze degli Stati più deboli. Così il diritto bellico, benché sostanzialmente favorevole agli Stati militarmente più potenti, non trascura del tutto quelli che lo sono meno.
Una valutazione realistica dell'attuale situazione non deve indurre allo scoraggiamento. Già nel 1764 Voltaire, al quale dobbiamo una delle analisi più acute della guerra, diceva che "la carestia, la peste e la guerra sono i tre ingredienti più notevoli di questo basso mondo", aggiungendo che a differenza dei primi due, che promanano dalla Provvidenza, la guerra è frutto dell'"immginazione degli uomini" (Dictionnaire philosophique, Paris 1909, p. 203). Come potrebbe il diritto eliminare un "ingrediente" così importante? In realtà, per quanto fragili e carenti, le norme giuridiche introducono un minimo di umanità nel comportamento degli Stati. Non si deve perdere di vista il fatto che l'assenza di qualsiasi remora normativa lascerebbe le grandi e medie potenze militari (anzi tutte le nazioni, anche le più piccole se sostenute da una delle grandi potenze) completamente libere. Ogni passo avanti sul piano normativo, per quanto inadeguato, è di conseguenza utile. Inoltre, proprio la natura del diritto bellico rende chiaro che qui più che in qualsiasi altra area il diritto possiede un ruolo metagiuridico importante: serve come punto di riferimento morale e politico per l'opinione pubblica 'illuminata', la quale potrà così meglio valutare se e fino a che punto gli Stati si comportano correttamente. Questo ruolo 'etico-politico' delle norme giuridiche può essere di grande aiuto, soprattutto se a trarne forza per la loro azione saranno gruppi e associazioni non governativi ispirati a principî di imparzialità e desiderosi di non farsi manipolare dai contrapposti schieramenti di Stati. (V. anche Diplomazia; Pace; Relazioni internazionali).
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