Modernizzazione
Le scienze sociali contemporanee fanno largo uso del termine 'modernizzazione' per indicare un processo di mutamento su larga scala che avvicina una determinata società, in genere nazionale, alle caratteristiche considerate proprie della modernità. Gli aspetti più significativi della modernità vengono individuati a livello economico nello sviluppo industriale, a livello politico nell'affermarsi delle istituzioni democratiche e a livello culturale nella crescente secolarizzazione, la quale si accompagna a un ampliamento della libertà di scelta degli individui nelle relazioni sociali. Questi fenomeni riflettono, nel loro insieme, l'esperienza storica che ha segnato le società occidentali in seguito alle due grandi rivoluzioni settecentesche: quella industriale, iniziata nel corso del secolo in Inghilterra, e quella politica, avviatasi in Francia sul finire degli anni ottanta. L'uso del concetto di modernizzazione, che si è affermato soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, fa riferimento a tale esperienza, ma seguendo fondamentalmente due indirizzi distinti.Il primo indirizzo si concentra soprattutto sullo studio delle origini e dei percorsi della modernizzazione nelle società occidentali: esso si ricollega alle grandi opere dei classici della sociologia - Marx, Tönnies, Durkheim, Simmel, Sombart, Weber - che, sia pure in forme diverse, cercavano di cogliere i tratti distintivi della società moderna. Tuttavia, mentre i classici erano impegnati a delinearne le caratteristiche strutturali e culturali - costruendo in tal modo un tipo ideale della società moderna che si contrapponeva a quello della società tradizionale - e a individuare le cause che avevano condotto alla modernità, gli studi degli ultimi decenni appartengono prevalentemente a quella che si potrebbe definire 'sociologia storica comparata della modernizzazione'. In essi, infatti, l'attenzione è rivolta prevalentemente ai percorsi specifici seguiti dalla modernizzazione nelle principali società occidentali e ai fattori che li hanno influenzati, più che ai caratteri e alle origini della società moderna in generale.Il secondo indirizzo seguito dagli studi sulla modernizzazione si afferma anch'esso nell'ultimo dopoguerra, precedendo di alcuni anni l'approccio storico-comparativo. La tematica, in questo caso, è diversa, come diversa è la prospettiva metodologica. Si vogliono analizzare le caratteristiche dei paesi 'arretrati' e i problemi che essi incontrano nel tentativo di avvicinarsi ai caratteri della modernità propri delle società sviluppate dell'Occidente. Alla base di questo filone di studi vi è l'idea che la modernità occidentale costituisca una sfida che spinge inevitabilmente le società meno sviluppate sulla strada del cambiamento sociale. Tuttavia all'interno di questo indirizzo gli approcci seguiti sono molto diversi.
Il primo, sviluppatosi prevalentemente negli anni cinquanta e sessanta, è costituito dalla teoria della modernizzazione in senso stretto. Gli studi riconducibili a questo orientamento sottolineano l'importanza dei fattori socioculturali e politici endogeni nel condizionare il cambiamento sociale dei paesi meno sviluppati. Essi condividono inoltre, almeno inizialmente, l'idea ottimistica secondo la quale l'esito del cambiamento non avrebbe potuto che avvicinare i paesi arretrati al modello delle società avanzate. Di fronte allo scarto crescente tra tali attese e i risultati raggiunti, scarto dovuto alle notevoli difficoltà incontrate nel loro percorso di sviluppo dai paesi del cosiddetto Terzo Mondo (America Latina, Africa, Asia), è emerso un nuovo orientamento, che ha assunto un atteggiamento critico nei riguardi della teoria della modernizzazione, elaborando - con particolare riferimento all'esperienza dei paesi dell'America Latina - la cosiddetta teoria della dipendenza. In essa l'accento è posto soprattutto sui condizionamenti economici che i paesi più sviluppati esercitano su quelli arretrati. Tuttavia il quadro piuttosto rigido e pessimistico degli studi orientati dal concetto di dipendenza non riuscì, successivamente, a rendere conto della crescente diversità che si manifestava nei processi di modernizzazione dei paesi del Terzo Mondo. Una nuova serie di ricerche si concentrò allora sui paesi dell'Est asiatico, caratterizzati da un notevole dinamismo economico. In questa prospettiva prese corpo un approccio che si può definire 'political economy comparata', il quale poneva al centro dell'attenzione il ruolo delle istituzioni politiche nel processo di modernizzazione, anche attraverso un confronto tra i paesi asiatici e quelli dell'America Latina.
Le critiche portate alla teoria della modernizzazione degli anni sessanta - sia dall'approccio della dipendenza, sia (anche se più indirettamente) dalla sociologia storica della modernizzazione delle società occidentali - hanno stimolato un processo di revisione degli assunti originari. È così emerso un orientamento che sottolinea, in contrasto con gli studi precedenti, la pluralità dei percorsi di modernizzazione, il loro carattere più aperto, che non ha come sbocco inevitabile la strada seguita dall'Occidente. Questa prospettiva, oltre a essere sostenuta dalla political economy, viene anche sviluppata nell'ambito di studi che tornano a dare particolare rilievo alla dimensione culturale, collegando il concetto di modernizzazione a quello di civiltà. Si potrebbe dunque dire che vi è un ritorno alla problematica affrontata dai primi studi sulla modernizzazione. Questi ultimi, tuttavia, ipotizzavano un'acquisizione, difficile ma alla lunga inevitabile, dei valori occidentali da parte delle società più arretrate (che avrebbe portato anche a una convergenza istituzionale). Negli studi più recenti l'accento è invece posto maggiormente, in chiave weberiana, sull'influenza di alcuni tratti culturali originari delle diverse civiltà, che condizionano il funzionamento delle istituzioni economiche e politiche e quindi la capacità di risposta delle società più arretrate alle sfide poste dalla modernità.
La teoria della modernizzazione maturò nel particolare contesto internazionale del secondo dopoguerra. In questo periodo si avviò il processo di decolonizzazione in numerosi paesi dell'Asia e più tardi dell'Africa. Tale processo venne notevolmente condizionato dal clima della guerra fredda, che spingeva gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica a cercare di attrarre nella propria orbita gli Stati di nuova formazione. Gli Stati Uniti, in particolare, si impegnarono in consistenti programmi di aiuti ai paesi arretrati. Il problema del sostegno ai paesi del Terzo Mondo cominciava inoltre a essere affrontato anche nelle organizzazioni internazionali. In questo quadro, l'interesse delle scienze sociali per i temi dello sviluppo era quindi motivato anche da forti esigenze pratiche. In primo piano era ovviamente l'economia, notevolmente influenzata, in questo periodo, dalla 'rivoluzione keynesiana'. Con riferimento ai problemi dei paesi arretrati, la teoria dello 'sviluppo indotto' sottolineava l'importanza dell'intervento statale e degli aiuti internazionali per avviare e sostenere il processo di industrializzazione. I primi passi della teoria della modernizzazione maturarono quindi come tentativo di alcuni studiosi americani, che si collocavano nella prospettiva sociologica, di integrare il punto di vista degli economisti. Veniva dunque sottolineata la rilevanza dei fattori culturali e istituzionali come elementi che condizionano la possibilità di successo nelle politiche economiche a sostegno dello sviluppo (v. Hoselitz, 1952).
La sociologia americana e la scienza politica del secondo dopoguerra erano fortemente influenzate dall'approccio sistemico allo studio della società che proprio in quegli anni veniva elaborato da Talcott Parsons (v., 1951; v. Parsons e Shils, 1951). Sebbene quest'autore abbia trattato molto marginalmente il problema dello sviluppo dei paesi arretrati, la sua complessa costruzione teorica ha costituito comunque il principale serbatoio di quegli strumenti concettuali che, in forme diverse, sono stati utilizzati nell'ambito degli studi riconducibili alla prima teoria della modernizzazione. Si trattava peraltro di studi che variavano significativamente per gli orientamenti seguiti. Alcuni si concentravano soprattutto sugli aspetti culturali e strutturali delle società tradizionali, contrapposte a quelle moderne; altri, che si muovevano nell'ambito della scienza politica, mettevano soprattutto a fuoco gli aspetti e i problemi politici della modernizzazione; altri ancora, più influenzati dalla psicologia sociale, insistevano maggiormente sul processo di formazione della personalità nei due diversi tipi di società; infine, alcuni lavori individuavano diversi stadi di sviluppo che prefiguravano un vero e proprio percorso verso la modernità, definito sulla base dell'esperienza storica compiuta dai paesi occidentali. Tuttavia, al di là di queste differenze - che nelle pagine successive esamineremo più dettagliatamente - è possibile riscontrare un nucleo comune. Si tratta dell'idea che i paesi economicamente arretrati siano caratterizzati da un modello di società tradizionale, costituito da un sistema di elementi culturali e strutturali tra loro strettamente interdipendenti. La forza di resistenza della tradizione, a livello culturale, strutturale e della personalità, costituisce l'ostacolo primario che è necessario superare per procedere sulla strada dello sviluppo economico e avvicinarsi al modello della società moderna riscontrabile nei paesi sviluppati dell'Occidente. Gli studi sulla modernizzazione si distinguono poi per il modo di concepire tale passaggio, che è sempre considerato auspicabile e alla lunga inevitabile, ma comunque irto di difficoltà e di tensioni.
Abbiamo già notato come i primi studi sulla modernizzazione siano stati nel complesso orientati dalla scuola struttural-funzionalista. Tale influenza era particolarmente evidente in alcuni tentativi di delineare i tratti culturali e strutturali delle società tradizionali e moderne a partire dalle 'variabili modello' presentate da Talcott Parsons in Il sistema sociale (1951). Bert Hoselitz (v., 1960) e Marion Levy (v., 1966) sono stati tra i primi a muoversi in questa direzione, già a partire dagli anni cinquanta e poi nel decennio successivo. In questi lavori si sottolineava come lo sviluppo economico dei paesi arretrati fosse condizionato da aspetti relativi alla cultura e alla struttura sociale. In particolare, l'attenzione era posta su alcuni orientamenti culturali che caratterizzano le società tradizionali, ostacolandone lo sviluppo economico: anzitutto, la prevalenza di norme che fanno dipendere le relazioni economiche dall'ascrizione piuttosto che dal principio di prestazione. Ciò implica che i ruoli economici, come certe posizioni lavorative o la facoltà di produrre beni e servizi, sono assegnati sulla base di criteri di appartenenza a un determinato gruppo (gruppo d'età, famiglia, razza, casta, ecc.), piuttosto che sulla base di criteri fondati sulle capacità. Al peso dell'ascrizione tende anche ad accompagnarsi, nelle società tradizionali, un atteggiamento particolaristico in virtù del quale il processo di valutazione dei soggetti con cui si interagisce nell'esercizio di determinati ruoli economici o politici non dipende da criteri aventi validità generale, ma da criteri che mutano con il mutare delle caratteristiche dei soggetti stessi (per esempio a seconda che essi appartengano a una determinata famiglia, razza o casta, ecc.). E ancora, si notava come gli orientamenti culturali prevalenti non incoraggiassero la specializzazione, il che determinava una scarsa differenziazione dei ruoli dal punto di vista funzionale, e quindi una limitata crescita della produttività. Accanto a questi aspetti che si richiamano alle variabili di Parsons, la Levy considerava anche la dimensione più specificamente cognitiva dei modelli culturali prevalenti, contrapponendo all'orientamento tradizionalistico quello razionalistico tipico delle società moderne. Nel primo caso l'azione sociale, e quella economica in particolare, è improntata al rispetto delle routines tradizionali, nell'altro è invece influenzata dagli sviluppi della scienza e della tecnica e quindi più aperta all'innovazione. La prevalenza degli orientamenti normativi e cognitivi sopra ricordati, riscontrabili nel modello idealtipico della società tradizionale, si accompagna a una situazione di scarsa differenziazione strutturale delle principali sfere di attività e a una limitata divisione del lavoro sia tra le unità produttive che al loro interno. Diversi studi hanno anche cercato di misurare empiricamente, attraverso la costruzione di indici (di sviluppo economico, urbanizzazione, alfabetizzazione, partecipazione politica, ecc.), la collocazione delle varie società tra il polo della modernità e quello della tradizione (v. Lerner, 1958; v. Deutsch, 1961; v. Black, 1966).
Lo sviluppo economico - sottolinea Hoselitz - comporta un rilevante cambiamento della cultura e della struttura sociale, perché esso non dipende soltanto dall'accumulazione del capitale, ma da un impiego produttivo di quest'ultimo e quindi, come era stato osservato a partire da Adam Smith, da una maggiore divisione del lavoro basata su ruoli funzionalmente specifici. Una divisione del lavoro siffatta non può però svilupparsi adeguatamente se non si affermano orientamenti razionalistici nell'azione economica e criteri universalistici per selezionare coloro che debbono occupare ruoli molto specializzati, e se tali criteri non si ispirano a principî di prestazione e quindi a una valutazione delle capacità, piuttosto che ai principî tradizionali di tipo ascrittivo. I valori culturali tradizionali fondano dunque modelli di comportamento e relazioni sociali relativamente stabili e istituzionalizzati (strutture sociali) che sono tra loro strettamente interdipendenti e ostacolano lo sviluppo economico. Perché si avvii lo sviluppo è necessario che i modelli culturali e le strutture sociali si modernizzino avvicinandosi alle caratteristiche, a loro volta strettamente interdipendenti, di razionalità, universalismo, prestazione e specificità funzionale, tipiche delle società moderne dell'Occidente. Ma da che cosa dipende allora l'avvio della modernizzazione?
Le risposte sono in parte diverse. In generale l'attenzione è posta sul formarsi di nuove élites intellettuali, politiche ed economiche che introducono innovazioni rispetto ai modelli tradizionali. Tuttavia Hoselitz insiste maggiormente sulla crescita dell'imprenditorialità dal basso, richiamando la teoria della marginalità sociale: coloro che ricoprono una posizione marginale nella società, perché stranieri, immigrati o appartenenti a una religione diversa da quella dominante, saranno più propensi a innovare sul piano economico e quindi innescheranno un processo di cambiamento del contesto sociale tradizionale. Gli altri autori, invece, prestano maggiore attenzione al formarsi di nuove élites istruite che assumono un ruolo guida sul piano politico. In genere questo processo è visto come una conseguenza inevitabile dei maggiori contatti tra le società moderne e quelle tradizionali (v. Lerner, 1958; v. Levy, 1966). Si diffondono in tal modo le aspirazioni a modernizzare la società per realizzare i livelli di benessere economico e sociale tipici delle società occidentali. Di queste aspettative si fanno interpreti anzitutto le élites istruite, che si mobilitano sul piano politico per avviare il cambiamento.
Un modello più sistematico del cambiamento sociale nella modernizzazione è sviluppato da quegli autori (v. Eisenstadt, 1964; v. Smelser, 1968, cap. 6) che si richiamano al concetto di 'differenziazione strutturale' al quale aveva lavorato Talcott Parsons (v. Parsons e Smelser, 1956). In questo quadro l'attenzione si sposta dagli attori (le élites politiche o economiche) ai problemi strutturali che ne condizionano l'azione, sotto l'impulso della ricerca di una maggiore efficienza, cioè di una maggiore capacità di adattamento all'ambiente e di controllo su di esso da parte delle diverse sfere istituzionali. In pratica, nella fase di transizione si verifica il passaggio da strutture che svolgono una molteplicità di funzioni a strutture specializzate. Per esempio, nelle società tradizionali le attività economiche sono scarsamente differenziate da quelle familiari o parentali, mentre quando si avvia la modernizzazione la famiglia perde le funzioni economiche e si diffondono imprese che utilizzano forza lavoro salariata, e producono per il mercato piuttosto che per l'autoconsumo familiare. Ciò è dovuto al fatto che strutture economiche specializzate, caratterizzate inoltre da una maggiore divisione interna del lavoro, consentono di produrre in modo più efficiente. Ma questo comporta, a sua volta, una spinta alla differenziazione della posizione di classe dalle componenti ascrittive e il suo aggancio ai principî di prestazione. In questo processo le famiglie estese si riducono e si afferma la famiglia nucleare, il che implica anche un allentamento dei controlli sociali tradizionali sulle scelte individuali. Lo sviluppo economico accresce la mobilità sociale e tende poi, nel tempo, a minare le credenze religiose tradizionali e a generare nuove domande di partecipazione politica.In tal modo, tuttavia, si determina una situazione nella quale l'indebolimento dei modelli culturali e delle strutture sociali tradizionali genera tensioni, resistenze e conflitti. Rispetto ai processi di modernizzazione delle società occidentali cambiano infatti i ritmi e le sequenze (v. Germani, 1971). Più rapido è il processo di modernizzazione, più probabile è lo sviluppo di situazioni conflittuali, che coinvolgono soprattutto coloro che sono stati sottratti alle forme di integrazione tradizionale senza essere stati efficacemente integrati in forme nuove, come in particolare le masse inurbate e prive di stabile occupazione. Inoltre, quanto più l'accesso al sistema politico risulta chiuso per gli interessi mobilitati dal processo in atto, tanto maggiore è la probabilità di una radicalizzazione politica che può anche sfociare in forme violente di conflitto. In questa situazione i teorici della modernizzazione considerano inevitabile un ruolo più attivo dello Stato nel processo di sviluppo. E questo non solo - come ritenevano gli economisti dello sviluppo - per promuovere le attività economiche e l'industrializzazione, in un contesto dove erano più carenti le spinte imprenditoriali dal basso, ma anche per controllare i conflitti indotti dalla modernizzazione. Tale ruolo dello Stato potrà essere peraltro più efficace nella misura in cui riusciranno ad affermarsi nuove élites politiche capaci di ottenere una forte legittimazione attraverso ideologie nazionaliste che si sostituiscano alle vecchie credenze religiose, come base di un sistema di valori condiviso dalla popolazione. Qualora questa opzione fallisse, per la debolezza delle nuove élites o per la resistenza di quelle tradizionali al necessario cambiamento economico (riforme agrarie) e politico (democratizzazione), si considera come probabile un'alternativa di tipo socialista (v. Parsons, 1960).
Gli aspetti più specificamente politici del processo di modernizzazione hanno attirato l'attenzione di studiosi provenienti dal campo della scienza politica, influenzati anch'essi dallo struttural-funzionalismo (v. Almond e Coleman, 1960). In questo ambito è stato formulato il concetto di sviluppo politico, inteso come processo di differenziazione delle strutture e di secolarizzazione della cultura politica che porta ad aumentare la capacità - in termini di efficienza e di efficacia - di un sistema politico (v. Almond e Powell, 1966; v. Pasquino, 1970). I problemi dello sviluppo politico vengono presentati in termini analitici attraverso l'individuazione di una serie di sfide - ricostruite a partire dall'esperienza storica dei paesi occidentali - che il sistema deve affrontare nel corso della modernizzazione. Il numero di queste sfide può variare, ma in genere vengono segnalate le seguenti. La prima riguarda la costruzione dello Stato, ovvero la necessità da parte delle élites politiche di creare nuove strutture per regolare le attività sociali e reperire risorse per il funzionamento delle istituzioni politiche. La seconda sfida, che ha una connotazione culturale, riguarda la costruzione della nazione: si tratta di favorire il processo di formazione di un'identità nazionale attraverso il superamento degli orientamenti particolaristici e localistici; connesso a questo problema è quello della legittimazione delle nuove élites politiche che devono guidare la modernizzazione. La sfida della partecipazione ha invece a che fare con il processo di mobilitazione della popolazione, indotto dallo sviluppo economico e sociale, e riguarda le modalità di integrazione delle nuove domande di partecipazione politica attraverso processi di democratizzazione. Infine, la sfida della distribuzione si riferisce alla capacità del sistema politico di sviluppare interventi atti a rispondere alle domande di maggiore uguaglianza sociale.
La letteratura su questi temi sottolinea come il tipo di soluzione che viene dato a ogni sfida condizioni le possibilità di rispondere efficacemente a quella successiva. Ma di particolare rilievo è soprattutto l'idea che difficoltà specifiche per i paesi del Terzo Mondo vengano dalla tendenza a sovrapporsi nel tempo delle diverse sfide, che invece nelle società occidentali si sono manifestate in sequenze più lunghe e più graduali (v. Binder e altri, 1971; v. Grew, 1978). In particolare, è probabile che la sfida della partecipazione e la relativa crisi debbano essere affrontate senza che si sia ancora consolidata un'identità nazionale e una forte legittimità delle élites politiche, e con strutture statuali più fragili. La stessa sfida della distribuzione, anche per effetto dei meccanismi di apertura culturale e di confronto con la situazione dei paesi più sviluppati, tende a far crescere domande di maggiore uguaglianza e di sostegno dei redditi prima che lo Stato sia in grado di ricavare dall'economia nazionale le risorse necessarie. Ne discende dunque, per le società che si avviano verso la modernizzazione, una forte spinta verso la conflittualità politica e un'accentuata instabilità.
Nell'ambito della teoria della modernizzazione notevole peso ha avuto anche una serie di studi influenzati dalla psicologia e dalla psicologia sociale. Questi lavori tendono in genere a condividere il quadro idealtipico basato sulla distinzione tra la società tradizionale, quella moderna e quella in transizione. Essi tuttavia mettono soprattutto a fuoco i meccanismi attraverso i quali si comincia a formare una personalità moderna come fattore essenziale per innescare il processo di cambiamento. Un primo lavoro che introduce questa prospettiva, anche se mantiene un orientamento più sociologico, è quello di Daniel Lerner (v., 1958) su alcuni paesi del Medio Oriente. Si tratta, come spesso accade negli studi condotti nell'ambito dell'approccio psicologico, di una ricerca empirica. Anche Lerner considera il contatto con le società occidentali come il fattore che stimola il cambiamento e spinge nuove élites a modernizzare. In questo modo si innesca un processo che è stato già seguito dalle società occidentali e che si ripresenterà con la stessa sequenza in tutti i continenti, indipendentemente dalle differenze originarie delle società tradizionali. Tale sequenza, i cui aspetti essenziali sono misurabili con una serie di indici, si svolge come segue: la crescita dell'urbanizzazione stimola l'alfabetizzazione; questo fenomeno favorisce a sua volta la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa; a questo punto tende a formarsi una propensione alla mobilità. Si diffonde una 'personalità mobile', caratterizzata da razionalità ed empatia, cioè capacità di identificarsi con gli altri e desiderio di essere simili a loro migliorando la propria posizione. Questo processo, infine, si accompagna a una spinta alla maggiore partecipazione economica (e quindi alla crescita del reddito) e alla richiesta di una più estesa partecipazione politica (v. anche Deutsch, 1961).
Nell'ottica di Lerner la formazione di una personalità moderna è vista essenzialmente come un processo di socializzazione secondario, in cui molto importante è il ruolo dell'istruzione e dei mezzi di comunicazione di massa come 'moltiplicatori di empatia'. Maggiore attenzione al processo di socializzazione primaria, che avviene nei primi anni di vita e coinvolge maggiormente la famiglia, è prestata invece da altri studi più specificamente legati a un approccio psicologico. Tra di essi particolare influenza ha avuto la ricerca condotta da David McClelland (v., 1961), il quale ha cercato di dimostrare come lo sviluppo economico sia condizionato dalla presenza in una determinata società di personalità individuali caratterizzate da un forte 'bisogno di realizzazione' (need for achievement). Influenzato dalla ricerca di Weber sui rapporti tra etica protestante e spirito del capitalismo, egli l'ha reinterpretata in chiave psicologica sottolineando come il protestantesimo abbia contribuito a generare una forte motivazione all'impegno individuale, una spinta a svolgere bene i propri compiti. Da questo bisogno di realizzazione, che porta a impegnarsi nel lavoro per remunerazioni non meramente monetarie, trae alimento l'imprenditorialità e con essa lo sviluppo economico. Non sono quindi sufficienti le spiegazioni di tipo economico, e neanche quelle sociologiche: occorre invece guardare alle determinanti psicologiche. McClelland sottopone a verifica, con una complessa ricerca su numerosi paesi sviluppati e arretrati, l'ipotesi che il bisogno di realizzazione sia collegato a caratteristiche particolari del processo di socializzazione primaria. Là dove i genitori stimolano i figli, nella prima infanzia, a essere autonomi e ad avere fiducia nelle proprie forze, e hanno nel contempo elevati livelli di attese relativamente al loro comportamento, tende a formarsi nei ragazzi un più alto bisogno di realizzazione.
Molto vicina a questa prospettiva è un'altra ricerca su vari paesi condotta da Everett Hagen (v., 1962). Qui, tuttavia, l'accento è posto sui meccanismi di socializzazione primaria che nel contesto tradizionale tendono a scoraggiare la formazione di una 'personalità innovativa' e favoriscono piuttosto una 'personalità autoritaria'. Si tratta di una combinazione tra un forte orientamento protettivo e indulgente dei genitori, quando il bambino è più piccolo, e una successiva fase molto autoritaria, incentrata sul ruolo paterno. In questo modo il bambino percepisce il mondo esterno come arbitrario e privo di un ordine controllabile, abituandosi quindi a impostare le relazioni sociali in termini di accettazione acritica della gerarchia sociale e dell'autorità. Il fenomeno contrario si verifica invece in quei contesti moderni nei quali un atteggiamento dei genitori simile a quello descritto anche da McClelland stimola nel bambino un''ansietà creativa', una spinta a cercare di controllare razionalmente la realtà, impegnandosi intensamente in questo compito. Da questa spinta scaturirà una personalità più aperta all'innovazione e all'imprenditorialità. Ma Hagen vuole descrivere più in dettaglio come sia possibile il passaggio da un contesto di socializzazione tradizionale, che tende a riprodursi, a un altro che è invece più favorevole alla personalità innovativa. Il meccanismo sul quale attira l'attenzione si basa sul 'ritiro di status'. Quando alcuni gruppi sociali perdono il loro status, si innesca un cambiamento nel processo di socializzazione che nelle generazioni successive favorisce la formazione di personalità più innovative, che possono sviluppare capacità imprenditoriali. Hagen cerca di illustrare questa tesi con esempi tratti dalla storia dello sviluppo economico del Giappone e della Colombia.
La ricerca condotta diversi anni più tardi da Alex Inkeles e David Smith (v., 1974) è invece più vicina all'impostazione di Lerner. Questi autori, che hanno un orientamento sociologico, intendono sfidare la tesi degli psicologi che la personalità si plasmi nei suoi tratti fondamentali essenzialmente nell'infanzia. Con una ricerca condotta in vari paesi del Terzo Mondo essi cercano di mostrare che la 'personalità moderna' - cioè aperta all'innovazione, alla razionalizzazione del comportamento e all'imprenditorialità - risente degli effetti che esercitano sui soggetti alcune esperienze essenziali come la partecipazione scolastica, l'occupazione nel settore industriale, l'esposizione ai mezzi di comunicazione di massa, la vita urbana. Gli autori ne traggono la conclusione ottimistica che la capacità dei paesi in via di sviluppo di potenziare il ruolo di determinate istituzioni, in particolare di quelle che influenzano la cultura della popolazione, può avere rilevanti conseguenze sulla personalità, che a loro volta rendono più agevole il passaggio alla società moderna.
Uno dei più noti tra i primi studi sulla modernizzazione è certamente The stages of economic growth (1960) di Walt Rostow. Alla fortuna di questo lavoro ha contribuito la sua capacità di offrire, partendo da un approccio di storia economica, un'efficace sintesi di una serie di aspetti economici, sociali e politici. Rostow elabora una sequenza degli stadi di sviluppo più dettagliata e complessa di quelle descritte nella letteratura, che in genere si limitano a distinguere tra società tradizionale, di transizione e moderna. In questo caso vengono invece indicati cinque stadi: la società tradizionale, le precondizioni per il decollo, il decollo economico, la spinta verso la maturità e la fase degli elevati consumi di massa. Di particolare interesse è lo stadio di preparazione al decollo industriale. Rostow sottolinea come per l'avvio di questa fase sia necessaria l'"intrusione' delle società più sviluppate in quelle arretrate, un'intrusione che può avvenire nel senso letterale del termine, cioè tramite un'occupazione militare, ma anche indirettamente attraverso contatti economici e culturali. Questa influenza esogena - evidenziata, come abbiamo visto, anche da altre analisi - determina una sorta di shock per la società tradizionale. Il 'nazionalismo reattivo', stimolato appunto dall'intrusione della società moderna, è l'elemento più potente che avvia il processo di superamento della società tradizionale. Le nuove élites politiche svolgono un ruolo essenziale nel determinare le precondizioni per il decollo, attraverso una serie di misure che riguardano la trasformazione dell'agricoltura, la formazione di un mercato nazionale, la creazione di un sistema fiscale, l'investimento in infrastrutture e servizi (tra cui in particolare l'istruzione). Tutto ciò comporta la capacità di affrontare quei complessi problemi connessi alla costruzione dello Stato e della nazione, nonché alla legittimazione della classe politica, ai quali si è già accennato.
Rispetto all'esperienza europea originaria vi sono vantaggi e svantaggi per i paesi del Terzo Mondo. Tra i primi è da considerare la disponibilità delle nuove tecnologie, che offrono risorse maggiori; inoltre i nuovi Stati possono ora far affidamento, per i loro progetti di investimento, su prestiti internazionali a condizioni più favorevoli di quelle del passato, quando i finanziamenti erano concessi soltanto da strutture private. Per quel che riguarda invece gli svantaggi, di particolare rilievo è il fatto che, per i progressi nel campo della medicina, si riduce il tasso di mortalità. Ciò fa sì che i paesi che avviano lo sviluppo economico debbano sopportare il peso di una più elevata crescita della popolazione. Il decollo è dunque reso più difficile poiché si richiede una crescita del reddito maggiore di quella che consentì il decollo ai paesi sviluppatisi in precedenza. Inoltre questo fattore si accompagna al formarsi di un'elevata disoccupazione urbana che è fonte di tensioni e di conflittualità politica, anche perché le aspirazioni al consumo sono maggiori che nel passato e quindi lo stato di disoccupazione genera più forti frustrazioni. È in questa situazione che la lotta contro le strutture sociali tradizionali diventa più difficile, e ciò può spingere le élites intellettuali, secondo Rostow, verso soluzioni di tipo comunista. Di fronte ai paesi del Terzo Mondo si apre quindi il dilemma tra una strada verso la modernizzazione in cui il nazionalismo si accompagna al tentativo di costruire strutture politiche di tipo democratico e un'altra basata invece sulla soluzione comunista. La scelta tra queste alternative non è predeterminata, ed è per la maggior parte nelle mani della leadership dei paesi alle soglie del decollo economico. In ogni caso, la strada comunista può essere considerata come una 'malattia della transizione'. Lo schema degli stadi di sviluppo elaborato da Rostow suggerisce infatti che la crescita economica e il passaggio alla fase di maturità alimenteranno delle domande economiche e sociali difficilmente compatibili con le strutture politiche dei paesi comunisti.In questa prospettiva è dunque insita l'idea che la strada verso l'industrializzazione abbia dei passaggi obbligati dal punto di vista economico; essi possono però essere realizzati tramite strutture istituzionali differenti, specie nella fase di fuoruscita dalla società tradizionale. Possono dunque darsi vie diverse all'industrializzazione, esemplificate dall'alternativa tra nazionalismo e comunismo. Alla lunga però, quando l'industrializzazione si è consolidata, si ipotizza una tendenza alla convergenza istituzionale delle società industriali, e quindi un avvicinamento tra il modello comunista e quello del capitalismo democratico. L'idea della convergenza è maggiormente presente e sviluppata nello studio di Clark Kerr e altri (v., 1960), Industrialism and industrial man. Secondo questi autori vi è una 'logica dell'industrialismo', fondamentalmente influenzata dai vincoli posti dalla tecnologia. Si assume che esista un'unica tecnologia in grado di assicurare i risultati più efficienti dal punto di vista economico-produttivo, e ciò spinge le diverse società ad acquisirla, organizzandosi dal punto di vista istituzionale in modo da poterla sfruttare al meglio. Ne discende una potente spinta alla convergenza istituzionale. E se ne intravedono già i segni in una riduzione dello spazio del mercato, là dove era maggiore, e all'opposto in una riduzione del controllo statale sull'economia e sulla società in quei contesti - come il sistema comunista - dove tale controllo era più forte. L'industrializzazione spingerebbe verso un 'pluralismo' economico e sociale nel quale crescono le classi medie, diminuisce il conflitto, si forma una pluralità di interessi economici e sociali che influenzano il processo politico, si attenuano le grandi ideologie, rigide e totalizzanti.
La teoria della modernizzazione è stata sottoposta a diverse e consistenti critiche, a partire dalla fine degli anni sessanta. Le prenderemo in considerazione distinguendo analiticamente alcuni dei principali assunti della teoria sui quali esse si concentrano. Occorre però tenere conto che tale operazione comporta inevitabilmente qualche forzatura, dal momento che, come si è visto, non esiste una ben determinata teoria della modernizzazione, ma piuttosto una varietà di approcci non sempre del tutto coerenti tra loro. Quattro sono gli elementi comuni a tali approcci, e tra loro collegati, sui quali vale la pena di attirare in particolare l'attenzione: a) la concezione ottimistica dello sviluppo come processo inevitabile e unilineare che tende ad attraversare gli stadi già percorsi dalle società occidentali determinando una progressiva convergenza istituzionale; b) la considerazione della società tradizionale e della società moderna come modelli idealtipici contrapposti, costituiti da elementi tra loro strettamente interdipendenti; c) l'idea che i rapporti che le aree e i paesi arretrati stabiliscono con l'esterno abbiano una connotazione positiva in termini di stimolo allo sviluppo; d) l'assunto che il motore del cambiamento sia essenzialmente endogeno.
L'ottimismo circa le possibilità di sviluppo dei paesi arretrati è largamente condiviso e riflette certo il clima del primo decennio postbellico, che sembrava aprire grandi possibilità alla crescita economica. Le nuove concezioni economiche, che davano maggior rilievo all'intervento dello Stato e alla cooperazione internazionale piuttosto che al ruolo del mercato, contribuivano a rafforzare tale visione ottimistica. In questo quadro i sociologi, gli psicologi sociali o gli storici economici - che, come si è visto, sono i protagonisti della teoria della modernizzazione - si preoccuparono soprattutto di mettere a fuoco quelle variabili istituzionali che rischiavano di compromettere le potenzialità di uno sviluppo considerato come non problematico da un punto di vista strettamente economico. Questa strada venne tuttavia perseguita più in termini teorici che di ricerca empirica. Facevano eccezione, per la verità, le ricerche dell'approccio psicologico, ma esse erano per l'appunto centrate sulla formazione della personalità. Non vi era invece una ricerca comparata sui concreti processi di sviluppo dei paesi arretrati. I sociologi influenzati dallo struttural-funzionalismo - ma anche lo stesso Rostow, quando traccia i suoi stadi di sviluppo - cercavano di definire in termini teorici le caratteristiche strutturali della società tradizionale e di quella moderna nonché i meccanismi del cambiamento sociale. Mancando di un'adeguata base di ricerca, essi finivano per ricorrere inevitabilmente all'esperienza storica delle società occidentali, sia per definire per contrasto la società tradizionale, sia per identificare i meccanismi del cambiamento.
Alla luce di questa debolezza empirica, accompagnata da un'indebita tendenza a generalizzare partendo dall'esperienza occidentale, si può comprendere una prima serie di critiche. Esse riguardano anzitutto l'idea ottimistica di uno sviluppo inevitabile. Quest'idea viene fortemente criticata alla luce delle concrete esperienze storiche dei paesi del Terzo Mondo che, passata rapidamente la fase di entusiasmo per la conquista dell'indipendenza politica, incontrano forti difficoltà dal punto di vista economico e sono spesso investiti da gravi tensioni sociali e politiche. Di qui la conclusione che lo sviluppo non è affatto garantito e che possono verificarsi fallimenti e blocchi nel processo della modernizzazione (v. Eisenstadt, 1973). Ma le critiche investono anche i presupposti di valore della teoria della modernizzazione; in essi viene visto l'influsso di una visione 'etnocentrica' che porta a considerare l'esperienza occidentale non solo come inevitabile, ma anche come modello positivo al quale i paesi arretrati dovrebbero adeguarsi per migliorare le condizioni delle loro società (v. Bendix, 1967; v. Goldthorpe, 1971; v. Tipps, 1973).
Un secondo elemento largamente condiviso nei primi studi sulla modernizzazione riguardava la concezione della società tradizionale e di quella moderna come modelli contrapposti, costituiti da elementi tra loro interdipendenti. Anche in questo caso lo scarso fondamento storico-empirico portava a sottovalutare la concreta diversità delle società tradizionali, la cui immagine finiva per essere ricostruita deduttivamente per contrapposizione rispetto ai caratteri delle moderne società occidentali, e specialmente di alcune di esse (quelle angloamericane). Le critiche attaccano entrambi gli assunti di quest'immagine (v. Bendix, 1967; v. Gusfield, 1967; v. Tipps, 1973).
Anzitutto si sottolinea la notevole varietà sul piano storico-empirico delle società tradizionali e viene messo in evidenza come elementi culturali e strutturali, sia tradizionali che moderni, siano presenti in varia misura e in diverse combinazioni non solo nelle società dei paesi non industrializzati, ma anche in quelle dei paesi sviluppati. Per esempio, legami familiari e parentali o credenze religiose persistono, anche se con peso diverso, nelle stesse società moderne, mentre, per converso, valori orientati alla realizzazione e all'imprenditorialità o strutture burocratiche che funzionano secondo criteri universalistici possono riscontrarsi anche in società tradizionali. Non necessariamente, poi, valori tradizionali e una ridotta differenziazione strutturale, per esempio delle attività economiche dalle funzioni della famiglia estesa, ostacolano lo sviluppo delle attività economiche moderne, ma anzi possono sostenerlo; così come non ci si deve aspettare che in un contesto moderno la differenziazione debba necessariamente procedere in tutte le sfere. Viene dunque anche messa in discussione l'idea, connessa con la precedente, della stretta interdipendenza degli elementi costitutivi dei due modelli, per cui il cambiamento verso la modernità di uno di essi comporterebbe necessariamente l'adeguamento degli altri, secondo la sequenza già verificata nelle società occidentali. Si può insomma sviluppare una 'modernità selettiva', che riguarda i mezzi di comunicazione o la domanda di consumi o le strutture militari, ma che può non estendersi alla sfera produttiva o al funzionamento delle istituzioni politiche, ecc. Processi di modernizzazione di questo tipo sono frequenti sul piano storico-empirico e non è detto che essi portino alla modernità come definita dal modello.
Veniamo così al terzo aspetto: l'idea che i rapporti con l'esterno abbiano una valenza prevalentemente positiva per i paesi che devono modernizzarsi, cioè che essi fungano da stimolo alle forze del cambiamento viste come essenzialmente endogene. Per Lerner o per Levy il contatto con le società moderne è un potente solvente della società tradizionale, nel senso che stimola a modernizzare gli orientamenti culturali e le strutture sociali, innescando dei meccanismi di cambiamento irreversibile. Rostow insiste anche, sul terreno più specificamente economico, sui vantaggi che possono venire dalla diffusione tecnologica e dagli aiuti internazionali. Ma questa impostazione trascura il fatto che il progressivo inserimento nel mercato internazionale comporta anche dei vincoli per lo sviluppo economico. È più difficile che in passato avviare un processo di industrializzazione, perché per competere con l'industria dei paesi più sviluppati occorre ora un livello di investimenti più elevato e, quindi, un'accumulazione di capitale più consistente. D'altra parte, i paesi arretrati sono in genere specializzati nella produzione di materie prime e beni agricoli con manodopera a bassa qualificazione e basso prezzo. Essi finiscono così per esportare prodotti a basso costo che vengono scambiati con prodotti industriali dei paesi sviluppati a costo invece elevato. Non si formano dunque le risorse di capitale necessarie per lo sviluppo, mentre la concorrenza delle industrie già consolidate degli altri paesi mette in crisi le attività di tipo artigianale meno competitive.
L'inserimento nell'economia internazionale è fonte dunque di rilevanti problemi e non solo di opportunità. Tali problemi vengono segnalati da un'ampia letteratura economica, ma sono particolarmente sottolineati dall'approccio dipendentista, che rielabora la problematica di derivazione marxista dell'imperialismo. Questo orientamento si forma inizialmente a partire da una riflessione sul fallimento dei tentativi di sviluppo di diversi paesi latino-americani (v. Gunder Frank, 1967 e 1969; v. Cardoso e Faletto, 1969), ma si estende poi a una visione più generale delle periferie nell'ambito della 'teoria dell'economia-mondo' di Immanuel Wallerstein (v., 1979). Caratteristica di questo approccio è l'idea che l'incremento dei contatti con i paesi industrializzati, invece di favorire lo sviluppo, come sostenevano gli orientamenti 'diffusionisti' espressi negli studi sulla modernizzazione, provoca una situazione di sottosviluppo. Più che di arretratezza si dovrebbe allora parlare, appunto, di sottosviluppo, proprio per sottolineare come le difficoltà delle periferie derivino dallo sfruttamento cui le sottopongono le società centrali, e quindi dall'integrazione nel mercato internazionale piuttosto che dall'isolamento. In particolare, l'attenzione è posta su tre meccanismi che determinano una sottrazione di risorse alle aree periferiche. Il primo si esercita attraverso l'inserimento dipendente nel commercio internazionale, che comporta uno 'scambio ineguale': materie prime e prodotti agricoli sono esportati a prezzi più bassi rispetto a quelli dei prodotti industriali importati dalle 'metropoli'. Il secondo meccanismo riguarda la penetrazione diretta del capitale straniero, che si insedia direttamente nel settore della produzione delle materie prime o in quello agricolo e poi anche in quello industriale, dove sfrutta il vantaggio di un più basso costo del lavoro per la produzione di beni standardizzati. Ciò comporta però, nuovamente, un drenaggio di profitti a favore delle aree centrali. Infine l'indebolimento delle condizioni economiche determina un ricorso crescente ai prestiti internazionali, che comprime ulteriormente le risorse disponibili per lo sviluppo.In questo quadro, specie con riferimento all'America Latina, si tende anche a sottolineare il ruolo scarsamente propulsivo della borghesia nazionale, che appare subalterna agli interessi dei paesi centrali, sia nei settori orientati all'esportazione di beni primari, sia nell'ambito dell'industria. Solo un intervento adeguato dello Stato potrebbe favorire dall'alto il processo di industrializzazione, ridefinendo l'inserimento del paese arretrato nella divisione internazionale del lavoro; ma, contrariamente ai dettami dell'economia dello sviluppo di orientamento keynesiano, nell'approccio dipendentista si sottolinea come ciò richiederebbe la fuoruscita dal quadro capitalistico in direzione di regimi di tipo socialista (nell'ottica di Wallerstein dovrebbe trattarsi di un socialismo internazionale in grado di governare l'economia-mondo). Come mostra, infatti, soprattutto l'esperienza latinoamericana, gli esponenti della borghesia imprenditoriale e commerciale e i latifondisti non solo non sono in grado di sostenere un progetto di sviluppo autonomo, ma, di fronte alla situazione di instabilità sociale e politica determinata dallo sviluppo dipendente, sono pronti a sostenere soluzioni autoritarie con l'aiuto dei militari e dei paesi centrali, anch'essi interessati al mantenimento dello status quo (v. O'Donnell, 1973).
Questa prospettiva ha certo contribuito a mettere a fuoco vincoli trascurati dai teorici della modernizzazione, ma se adottata acriticamente presenta tutti i rischi di un'impostazione che si limita semplicemente a capovolgere quella precedente, facendo dipendere il sottosviluppo esclusivamente dai vincoli esterni. In tal modo si trascura l'influenza esercitata dal contesto istituzionale interno dei paesi periferici e non ci si attrezza dal punto di vista analitico per valutare in che modo i fattori istituzionali interni offrano più o meno risorse per il processo di modernizzazione; inoltre non è possibile valutare adeguatamente le differenze specifiche che emergono nei percorsi dei paesi del Terzo Mondo, e che, come vedremo più avanti, diventeranno più evidenti col passare del tempo. Non si deve peraltro trascurare come questi rischi siano percepiti anche da alcuni teorici della dipendenza, in particolare da Cardoso e Faletto, i quali insistono sulla necessità di un''analisi integrata dello sviluppo' che colleghi vincoli esterni e fattori istituzionali interni, dando più spazio e più autonomia alle forme specifiche di mobilitazione e organizzazione politica.
Se le critiche dell'approccio dipendentista agli studi sulla modernizzazione si sono concentrate soprattutto sulla tesi che i condizionamenti economici esterni influiscono positivamente sul cambiamento, un'altra serie di interventi ha invece messo in discussione il modello di cambiamento evoluzionistico basato sulla differenziazione strutturale. Come abbiamo visto, il riferimento a questo modello non è presente in egual misura in tutti gli approcci allo studio della modernizzazione, ma solo in alcuni di essi più specificamente influenzati dallo struttural-funzionalismo, secondo cui il meccanismo chiave - che vale peraltro per qualsiasi tipo di società - è costituito dal processo di differenziazione strutturale. La spinta a costituire ruoli e strutture sociali più differenziate deriva dall'insoddisfazione crescente per il funzionamento di una determinata struttura, e quindi da una ricerca di maggiore efficienza che si concretizza in una più elevata specializzazione funzionale delle nuove strutture che sostituiscono la precedente. Il cambiamento è dunque visto come un processo di adattamento della società, considerata come un sistema di elementi interdipendenti, all'ambiente fisico e sociale. Ed è possibile individuare tipi strutturali più o meno evoluti, sulla base del grado di differenziazione strutturale e quindi della capacità di adattamento all'ambiente e di controllo su di esso. Al vertice di questi stadi vi sono le società moderne occidentali (v. Parsons, 1966 e 1971).
Possiamo distinguere tre tipi di critiche nei confronti di questi assunti. Al primo si è già accennato: esso resta sostanzialmente all'interno della tradizione funzionalista, ma sottolinea come la differenziazione non necessariamente comporti l'incremento atteso di efficienza, perché può accompagnarsi a problemi di integrazione che determinano fenomeni di instabilità e di blocco della modernizzazione. Il secondo ordine di critiche è più radicale e investe l'idea che sia possibile, sulla base delle esperienze storiche passate, stabilire delle sequenze evolutive che possano valere anche per il futuro. Quest'idea è messa in discussione perché presuppone una concezione della società come sistema tendenzialmente chiuso e coerente, come un organismo il cui stato futuro possa essere predetto sulla base delle sue caratteristiche strutturali in un determinato momento (v. Bendix, 1967; v. Nisbet, 1969; v. Goldthorpe, 1971; v. Boudon, 1984). Si sottolinea invece come il cambiamento non sia un processo soltanto endogeno di adattamento, ma sia condizionato dai rapporti tra la società e l'ambiente esterno, un ambiente che muta continuamente con lo sviluppo storico e che quindi pone vincoli e offre opportunità diversi da quelli del passato alle singole società. Gli stimoli che vengono dall'ambiente esterno non sono solo positivi, come sostengono i teorici della modernizzazione, e non sono solo negativi, come ritiene l'approccio dipendentista. I primi non tengono conto del fatto che l'ambiente esterno può portare a reazioni interne nelle società in via di modernizzazione, che non seguono necessariamente l'esperienza delle società occidentali; i secondi sono attenti ai vincoli economici che vengono dalla divisione internazionale del lavoro, ma perdono di vista i fattori endogeni.
Il mutamento è invece un processo complesso, in cui si intrecciano da un lato condizionamenti economici, politici, culturali provenienti dall'esterno (ma anche singoli eventi contingenti, per esempio le guerre) e dall'altro le caratteristiche interne di una determinata società. Tra queste particolare importanza deve essere data non solo alle spinte a una maggiore efficienza, provenienti dall'economia, ma anche al ruolo delle élites intellettuali, ai processi di mobilitazione politica, all'intervento dello Stato. In questo quadro è necessario prestare maggiore attenzione ai soggetti che introducono il cambiamento, alle loro identità, ai loro interessi e ai loro conflitti, mentre nell'interpretazione struttural-funzionalista questa dimensione tende a scomparire a favore di processi astratti e impersonali, i quali, più che spiegare come si è effettivamente determinato il cambiamento, portano a tracciare una sorta di statica comparata delle diverse società.
Contro questa tendenza si cerca dunque di guardare all'analisi storica comparata per mettere a fuoco i processi specifici di cambiamento per i quali non è possibile tracciare delle leggi generali. È tuttavia da segnalare un altro tipo di critica che non è necessariamente incompatibile con una prospettiva evoluzionistica. In questo caso viene criticata la possibilità di individuare stadi di sviluppo basati su un grado maggiore o minore di capacità di adattamento (e quindi di differenziazione strutturale) (v. Granovetter, 1979). Per riuscire in questo obiettivo bisognerebbe conoscere i problemi ambientali futuri che una determinata società dovrà affrontare. Infatti, la capacità di adattamento misurata dal grado di differenziazione strutturale delle società più sviluppate non può essere considerata in assoluto come un obiettivo necessario da raggiungere per quelle meno sviluppate che devono modernizzarsi, perché non è detto che i problemi futuri con cui quest'ultime devono misurarsi siano simili a quelli affrontati con successo dalle prime. Tutto ciò porta a escludere che si possano stabilire gerarchie di avanzamento, o stadi di sviluppo, sulla base delle caratteristiche strutturali di ogni società. E del resto questa è anche la strada che segue la biologia moderna, la quale esclude che si possano indicare quali sono le caratteristiche di una specie che la rendono in assoluto più adatta alla sopravvivenza, ma indaga su quali condizioni ambientali favoriscono l'adattamento di una determinata specie con particolari caratteristiche strutturali.
Anche per questa seconda via, che sottolinea la possibilità di un'evoluzione multilineare, si arriva dunque a un risultato vicino a quello dell'orientamento precedente. Entrambi i tipi di critiche convergono nel sottolineare la necessità di "approcci alla modernizzazione che evitino dubbie assunzioni circa la natura delle istituzioni tradizionali e del loro contributo al processo di modernizzazione, che incorporino gli 'stimoli esterni' come variabili significative, che vedano la modernizzazione come un processo essenzialmente multilineare, e che enfatizzino le discontinuità oltre che le relazioni di funzionalità nella modernizzazione" (v. Tipps, 1973, p. 216).
Molte delle critiche rivolte alla teoria della modernizzazione dei paesi arretrati vengono da autori impegnati in un'attività di ricerca specifica e largamente autonoma: lo studio comparato del processo di modernizzazione storica delle società occidentali, e soprattutto di quelle europee. Al centro di questa prospettiva vi è il tentativo di comprendere meglio le differenti modalità attraverso le quali si sono combinati, nell'esperienza occidentale, il processo di industrializzazione in campo economico e quello di democratizzazione in campo politico. Ad attrarre particolarmente l'attenzione è la diversità dei percorsi politici che si sono accompagnati all'industrializzazione, giacché in alcuni casi, come in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, la crescita industriale e lo sviluppo democratico hanno proceduto insieme, mentre in altri, come in Germania, in Italia e in Unione Sovietica, lo sviluppo economico ha convissuto con regimi politici di tipo antidemocratico. Il tentativo di spiegare tali fenomeni spinge ad andare oltre i grandi modelli interpretativi, formulati dai classici della teoria sociale, sui caratteri generali della società moderna e sui meccanismi che ne determinano la genesi. Molti spunti vengono ovviamente ripresi dai classici, ma forse è il pensiero di Max Weber a influenzare maggiormente questa prospettiva. Si potrebbe dire che essa sviluppa l'approccio storico-comparato del sociologo tedesco, cercando di applicarlo all'interno delle società occidentali per comprendere meglio le somiglianze, ma anche le differenze, che ne hanno segnato i percorsi di sviluppo. Ne discende un'accresciuta sensibilità rispetto al carattere complesso e multilineare del processo di modernizzazione, che porta poi, più o meno direttamente, a mettere anche in discussione il modo in cui esso è stato concettualizzato per le società del Terzo Mondo. All'interno di questo filone di studi possiamo distinguere: a) un approccio più vicino alla storia economica comparata, che mette particolarmente in evidenza le diverse modalità del processo di industrializzazione, viste in relazione al ruolo dei fattori istituzionali; b) una prospettiva, di tipo più sociologico, che guarda all'influenza specifica dei fattori politici sui diversi percorsi di modernizzazione; c) un'impostazione che si concentra maggiormente sui fattori economico-sociali, e in particolare sulla struttura di classe preindustriale.
Uno studio molto influente, che sottolinea la diversità dei processi di industrializzazione dei paesi europei, è quello di Alexander Gerschenkron (v., 1962 e 1968). Quest'autore mette in luce efficacemente come i fattori che favorirono la crescita industriale nei paesi che per primi avviarono questo processo, in particolare l'Inghilterra, non fossero diffusi in altri che si mossero più tardi. Nel primo caso il fenomeno fu più graduale e si valse di una trasformazione precoce dell'agricoltura in direzione capitalistica, che ne aumentò la produttività, favorendo contemporaneamente la formazione di un'offerta di lavoro per l'industria e l'accumulazione del capitale; esso poté inoltre basarsi sulla spinta dal basso di una vigorosa borghesia imprenditoriale. Paesi dell'Europa continentale come la Germania o l'Italia, e ancor di più la Russia, non godevano invece di queste condizioni favorevoli. Essi dovettero quindi affrontare la sfida dell'industrializzazione per salvaguardare la loro stessa sopravvivenza come unità politiche autonome nella competizione internazionale tra gli Stati.Secondo Gerschenkron si stabilì una sorta di correlazione tra il grado di arretratezza economica e la necessità di far ricorso a 'fattori sostitutivi' rispetto a quelli che avevano favorito la prima industrializzazione. Di qui il ruolo più rilevante che in paesi come la Germania e l'Italia acquisirono le banche nel sostenere la crescita industriale, nonché la funzione ancora più rilevante svolta dallo Stato. Tanto più che per competere efficacemente era diventato necessario avviare delle strutture produttive più consistenti, che richiedevano un maggiore impiego di capitale e di capacità organizzative. In queste condizioni l'imprenditorialità, invece di essere un prerequisito della crescita industriale, è stimolata dall'azione congiunta dei diversi fattori sostitutivi. D'altra parte, fu anche necessario utilizzare l'apparato amministrativo e coercitivo dello Stato per difendere le nuove attività dagli interessi più tradizionali (soprattutto legati all'agricoltura), che in questi paesi erano più consistenti e ostili ai nuovi sviluppi. Ma il maggiore sforzo che l'industrializzazione dei paesi arretrati comporta non potrebbe avere luogo senza un forte impegno anche sul versante ideologico, tendente a creare un clima favorevole al cambiamento. In effetti in tutti i paesi ritardatari attecchiscono ideologie economiche e politiche che si allontanano dal laissez faire. Così, se la Francia fu caratterizzata dalle influenze dirigistiche e 'tecnocratiche' del saint-simonismo, in paesi come l'Italia e la Germania fu forte invece il peso del nazionalismo. Nello stesso modo, secondo Gerschenkron, si potrebbe spiegare la notevole influenza del marxismo in Russia come espressione del grado di arretratezza ancor più accentuato di quel paese. L'arretratezza non influenza peraltro soltanto il clima ideologico, ma anche la portata delle tensioni sociali che i paesi ritardatari devono affrontare come conseguenza dell'industrializzazione. Esse derivano dal sommarsi delle resistenze degli interessi tradizionali alle domande di riconoscimento sociale e politico di quelli nuovi (la classe operaia). Le tensioni possono così raggiungere proporzioni tali da portare a esiti dittatoriali.
Gerschenkron, ma anche un economista interessato ai problemi dello sviluppo come Albert Hirschman (v., 1971), trae da questa prospettiva esplicite conseguenze critiche nei riguardi della teoria degli stadi di sviluppo di Rostow, o degli approcci che sottolineano l'importanza dell'imprenditorialità, o della formazione di personalità innovative, per lo sviluppo dei paesi arretrati. Non solo non è possibile stabilire prerequisiti dell'industrializzazione universalmente validi, ma le modificazioni del sistema di valori tradizionale e la formazione di una forte imprenditorialità dal basso non sono indispensabili per lo sviluppo economico. La storia economica europea mostra molti esempi di come le attività imprenditoriali si siano potute sviluppare, anche rapidamente, in un contesto di valori fortemente ostili, sotto la spinta di fattori istituzionali adeguati. Il problema dei paesi in via di sviluppo è allora quello di mettere a punto 'fattori sostitutivi' dell'industrializzazione dal basso, capaci di sostenere la loro crescita nelle condizioni contemporanee.Nella prospettiva sviluppata da Gerschenkron i differenti caratteri ideologici e politici che connotano il processo di modernizzazione sono influenzati dal ritardo con cui i vari paesi affrontano la sfida dell'industrializzazione. Ci si può però chiedere se il grado di arretratezza economica non possa essere a sua volta influenzato da fattori politico-istituzionali e se questi ultimi non condizionino anche autonomamente le modalità secondo le quali i vari paesi gestiscono le conseguenze economiche e sociali dell'industrializzazione. Intorno a questi due interrogativi si snoda il lavoro di uno degli studiosi che maggiormente hanno contribuito alla sociologia storica della modernizzazione: Reinhard Bendix (v., 1964 e 1978). Quest'autore è stato profondamente influenzato dal pensiero di Weber, e si è contrapposto con forza all'interpretazione che del sociologo tedesco aveva dato Parsons - un'interpretazione orientata allo sviluppo di una teoria generale della società a elevato livello di astrazione, basata sul ruolo centrale, per l'ordine sociale, di un sistema di valori condivisi. Per Bendix è invece necessario recuperare l'orientamento weberiano verso una sociologia storica che metta in luce il ruolo fondamentale dei conflitti nella vita sociale e l'importanza della dimensione politica. In questa prospettiva il primo dei problemi sopra indicati che egli affronta riguarda le conseguenze politiche del processo di industrializzazione (v. Bendix, 1964).
La tesi sostenuta da Bendix si pone in aperta contrapposizione con l'idea di Marx, secondo la quale il conflitto sociale esprimerebbe la deprivazione economica e l'alienazione lavorativa della nascente classe operaia. La protesta operaia sarebbe da intendersi piuttosto come una domanda di riconoscimento politico; essa è alimentata dalla rottura delle forme tradizionali di integrazione delle classi subalterne, che le mette in balia del mercato e le spinge a ricercare il riconoscimento di nuovi diritti politici (di associazione, di rappresentanza, di voto) per poter sostenere i propri interessi. Là dove le nuove domande politiche vengono accolte gradualmente, come in Inghilterra, si ha un processo di integrazione politica dei nuovi gruppi sociali, che conduce al rafforzamento della democrazia. Se invece la domanda di cittadinanza viene respinta o fortemente limitata, si danno le condizioni per una radicalizzazione rivoluzionaria del movimento operaio e per una sua contrapposizione allo Stato nazionale, che possono comportare anche un allontanamento più o meno marcato dai modelli di governo democratici, com'è avvenuto in Germania e, in forma diversa, in Russia. In sostanza, dunque, è il grado di apertura del sistema politico alle nuove domande che influisce sulle conseguenze dell'industrializzazione. Questo fattore però non dipende solo dall'esito contingente del confronto tra coalizioni sociali, ma è anche influenzato dalle tradizioni politico-istituzionali che offrono risorse e vincoli per gradi diversi di apertura del sistema politico. Quest'ultimo aspetto è stato successivamente sviluppato da Bendix (v., 1978), che alla formazione di queste diverse tradizioni ha dedicato un'impegnativa analisi comparata. È da notare però che attraverso questa esplorazione non viene solo in luce il ruolo dei fattori politico-istituzionali nella fase successiva all'industrializzazione, ma anche l'influenza che essi esercitano sul grado di arretratezza economica; si affronta cioè anche il secondo degli interrogativi che abbiamo prima richiamato. L'analisi è chiaramente orientata dalle riflessioni di Weber sul potere patrimoniale e su quello feudale, e da quelle dello storico tedesco Otto Hintze sul feudalesimo e l'origine delle costituzioni rappresentative. In quest'ottica l'idea di fondo è che l'elemento chiave per ottenere un assetto costituzionale di tipo rappresentativo sia, come insegna il caso inglese, il bilanciamento tra centralizzazione e autonomie locali. Allontanandosi da tale equilibrio si determinano, se prevalgono le spinte locali, tendenze centrifughe che possono portare fino a una situazione di anarchia, e viceversa, se prevale il centralismo, tendenze verso forme di governo dispotico. Queste strutture politico-istituzionali di lunga durata si formano sotto la 'monarchia primitiva' nella fase preindustriale. L'equilibrio tra centro e periferia è infatti legato al rapporto che si stabilisce tra la monarchia e l'aristocrazia. Se l'aristocrazia non ha, o perde, una base di potere autonomo, saranno forti le spinte verso un centralismo dispotico che ostacolerà la formazione di una società civile autonoma rispetto allo Stato.
È questo il caso della Russia, dove il dispotismo degli zar non ha incontrato limiti di natura religiosa, data la ridotta autonomia della Chiesa ortodossa, e ha potuto praticare una politica di sradicamento territoriale dell'aristocrazia terriera, trasformandola in un'aristocrazia di servizio in campo militare e amministrativo. In Giappone, invece, l'isolamento del paese ha favorito il mantenimento per lungo tempo di un'aristocrazia locale con ampi margini di autonomia; quando venne restaurata la monarchia centrale, l'aristocrazia perse la sua autonomia economica, legata al possesso della terra, e venne trasformata anche in questo caso in un'aristocrazia di servizio. A differenza di quel che accadde in Russia, essa mantenne però ampi margini di autonomia sul terreno dell'amministrazione locale, limitando in tal modo gli effetti del dispotismo centrale.In contrasto con queste esperienze, il feudalesimo dell'Europa occidentale si distingue per la sua forma contrattuale, non riscontrabile appieno altrove. Ciò tende a rafforzare l'aristocrazia dandole una base di potere autonomo, e favorisce in tal modo l'evoluzione verso lo Standestaat (Stato dei ceti), con la formazione di organi rappresentativi che concorrono con l'autorità regia nella determinazione di decisioni politiche rilevanti di natura militare o amministrativa. Tuttavia, nell'ambito di questo quadro generale, si manifestano differenze, ben evidenziate dal confronto tra il caso tedesco e quello inglese. In Germania il raggiungimento dell'unità politica fu ostacolato dai rapporti tra Chiesa e Impero e dall'organizzazione feudale. Solo in seguito alla Riforma, e sfruttando le esigenze di accentramento favorite da motivi di carattere militare, l'unificazione potrà essere portata a termine. Tuttavia, una volta ridimensionati i suoi organi rappresentativi, fu lasciata all'aristocrazia un'ampia autonomia a livello locale e nel godimento dei suoi possessi fondiari. Viceversa in Inghilterra la posizione geopolitica rese possibile la formazione precoce di un'unità politica senza che fosse necessario sradicare le istituzioni di origine feudale che limitavano il potere della monarchia. Si stabilì così un equilibrio tra monarchia e aristocrazia, la quale conservò un'autonoma base di potere legata al possesso della terra. Questa situazione non solo facilitò uno sviluppo costituzionale in direzione del sistema rappresentativo, ma, limitando il ruolo degli apparati amministrativi, favorì anche la dinamica capitalistica. Con questo tipo di analisi comparata, dunque, Bendix fornisce una base per inquadrare le origini di diverse tradizioni istituzionali, che condizionano il grado di apertura del sistema politico di fronte ai problemi sociali e politici posti dall'industrializzazione. Ma egli fa anche intravedere, sulla scia di Weber, in che modo lo sviluppo del capitalismo sia influenzato da fattori politico-istituzionali: un forte controllo politico da parte dello Stato limita l'autonomia della società civile e lo sviluppo economico. Si determina così un ritardo nel processo di industrializzazione che - come abbiamo visto con Gerschenkron - deve poi essere colmato con specifici interventi istituzionali e può portare a esiti politici non democratici, come i regimi fascisti o quelli comunisti.
L'approccio di Bendix mette dunque a fuoco l'influenza dei fattori politico-istituzionali sul processo di modernizzazione. Questa prospettiva viene di solito contrapposta a quella di un altro autore che ha particolarmente influenzato il filone di studi che stiamo esaminando: Barrington Moore (v., 1966). In realtà le due prospettive, più che contrapporsi, si integrano, anche se sono state sviluppate indipendentemente l'una dall'altra. Mentre Bendix, richiamandosi a Weber e Tocqueville, rivendica con forza l'autonomia della dimensione politico-istituzionale, Moore sottolinea i vincoli che alla politica vengono dalla struttura di classe preindustriale. L'insistenza sui rapporti di classe e sul ruolo della borghesia nel processo di modernizzazione richiama ovviamente l'analisi di Marx. Tuttavia quest'influenza è mediata dalla particolare attenzione che Moore dedica al peso e al ruolo delle classi agrarie (aristocrazia e contadini) nel condizionare i caratteri e l'azione della borghesia nei diversi contesti. In che modo dunque la struttura di classe e le coalizioni tra i vari gruppi sociali influenzano il processo di modernizzazione? Moore individua tre strade che portano al mondo moderno: la prima è quella delle rivoluzioni borghesi, in cui il processo di industrializzazione si è accompagnato al consolidamento della democrazia politica, come in Inghilterra, negli Stati Uniti e in Francia; la seconda è quella della rivoluzione dall'alto, in cui il processo di industrializzazione viene sostenuto dallo Stato e passa attraverso regimi di tipo fascista, come in Germania, Italia e Giappone; la terza infine è quella in cui l'industrializzazione è avviata dalle rivoluzioni comuniste, come in Russia e in Cina. In tutti i casi è decisivo il grado di forza della borghesia nella fase di avvio del processo di modernizzazione; ma questo fattore dipende, a sua volta, dall'influenza dell'aristocrazia e dalla sua capacità di mobilitare i contadini a difesa dell'ordine tradizionale. D'altra parte il ruolo dell'aristocrazia chiama in causa proprio quegli elementi di tradizione politico-istituzionale su cui ha attirato maggiormente l'attenzione Bendix, ma che sono tenuti presenti anche da Moore. In regimi fortemente accentrati, in cui l'aristocrazia non ha una base di potere autonomo a livello locale, l'autonomia della società civile e lo sviluppo economico sono ostacolati, e con essi la stessa formazione della borghesia.
Proprio in relazione a quest'ultimo elemento si può comprendere il caso inglese, che costituisce il modello della via democratica alla modernizzazione. Qui in effetti si è determinato un equilibrio tra il potere centralistico della monarchia e il potere locale dell'aristocrazia, dovuto alle sue proprietà terriere. In Inghilterra ciò favorì la trasformazione in senso borghese dell'aristocrazia, la commercializzazione dell'agricoltura e la crescita della borghesia. L'aristocrazia non oppose quindi forti ostacoli a un processo di modernizzazione basato sull'industrializzazione dal basso e sulla democrazia politica. Anche negli altri due casi della via democratica alla modernizzazione queste resistenze per motivi diversi non ci furono o vennero superate: negli Stati Uniti perché non esisteva un'aristocrazia originaria, in Francia perché il peso dell'aristocrazia era stato sostanzialmente ridimensionato dalla Rivoluzione. Ne discende un'importante conseguenza comune: in tutti e tre questi paesi non si davano le possibilità di opporsi alle domande politiche dei nuovi gruppi sociali, mobilitati dal processo di industrializzazione, con soluzioni autoritarie basate su una coalizione tra aristocrazia, borghesia e contadini.
La via 'capitalista e reazionaria' si contrappone alla precedente perché la borghesia è più debole, mentre più forti sono le resistenze al processo di modernizzazione provenienti da un'aristocrazia ancora potente e legata alla monarchia. In questo caso, come ha messo in rilievo Gerschenkron, il processo di industrializzazione è avviato dall'alto, con un ruolo prevalente dello Stato, poiché esso appare a un certo punto inevitabile per non soccombere nella competizione internazionale. Il processo si sviluppa inoltre in un contesto politico caratterizzato da impulsi molto deboli in direzione del sistema rappresentativo e della democrazia. Di fronte alle conseguenze sociali innescate dall'industrializzazione, e alle forti tensioni politiche che ne discendono, si presentano inoltre condizioni sociali più favorevoli a soluzioni di tipo fascista, basate su coalizioni tra aristocrazia, borghesia e contadini, con il sostegno della burocrazia, dei militari e della monarchia. Nonostante una coalizione di questo tipo sia stata tentata anche in Russia, la rivoluzione comunista è stata favorita in quel caso, come anche in quello cinese, da una debolezza ancora maggiore della borghesia e dalla forte influenza di un centralismo dispotico che si avvaleva di una consistente aristocrazia di servizio. In questo quadro le spinte verso uno sviluppo di tipo capitalistico e poi verso l'industrializzazione sono state bloccate. Le classi urbane non erano in grado di partecipare efficacemente - neanche in forma subalterna, come avvenne in Germania, Italia, Giappone - al processo di modernizzazione, nonostante i tentativi effettuati in questa direzione. Restava una vasta massa contadina che, soggetta alle tensioni dovute alla progressiva disgregazione delle strutture sociali tradizionali, sostenne lo sforzo rivoluzionario di ristrette élites intellettuali. Furono i regimi comunisti ad avviare, come in Cina, o a consolidare, come in Russia, il processo di industrializzazione.
Nel complesso gli studi che abbiamo richiamato contribuiscono a tratteggiare un quadro più articolato e complesso della modernizzazione 'classica' delle società-Stato europee e degli Stati Uniti, ma anche di alcuni grandi paesi asiatici, come la Cina e il Giappone. Questa tradizione di analisi sarà inoltre arricchita da altri importanti lavori comparati sulla formazione dello Stato nel contesto europeo (v. Tilly, 1975; v. Rokkan, 1975). Possiamo sintetizzare le conseguenze che ne discendono per il modo di concepire il processo di modernizzazione nei seguenti punti.
1. Non c'è un percorso unico, lineare e necessario che porti alla modernizzazione: la situazione di partenza, il percorso, gli esiti del processo sono differenziati. Ciò non porta però ad escludere la possibilità di un approccio sociologico optando per un orientamento storicistico; è invece possibile, attraverso l'analisi comparata, delineare dei tipi ideali in senso weberiano che consentano di collegare teoria e ricerca e di formulare delle ipotesi causali.
2. Il percorso verso la modernizzazione è influenzato da fattori esogeni e da eventi contingenti come le guerre; questi fattori sono di natura non solo economica, ma anche politica e culturale. In particolare i paesi 'primi arrivati' tendono a condizionare l'esperienza di quelli che si muovono in ritardo, creando stimoli, per esempio attraverso la "mobilitazione intellettuale" di cui parla Bendix, ma anche vincoli e condizionamenti legati a rapporti di potere economico, politico e militare.
3. Il processo di modernizzazione è influenzato in modo decisivo dal tipo di risposta alle sfide esterne che i fattori endogeni consentono. Questi ultimi non sono comprensibili nei termini di un concetto generico di società tradizionale. La società preindustriale è caratterizzata da differenti combinazioni di elementi culturali e istituzionali sia tradizionali che moderni; l'influenza di questi elementi va valutata individuando i gruppi sociali concreti, le loro alleanze e i loro conflitti, cioè prestando attenzione ai soggetti storici della modernizzazione.
Esauritosi il primo filone di studi sui paesi del Terzo Mondo, e conclusasi la stagione dei grandi affreschi di sociologia storica comparata sulle società più sviluppate, il concetto di modernizzazione è stato meno direttamente utilizzato nella teoria e nella ricerca sociale. Tuttavia è possibile mostrare come i problemi relativi al cambiamento dei paesi arretrati siano stati di fatto affrontati con un approccio influenzato dalle critiche ai primi studi, e anche dai risultati della sociologia storica comparata. Vi è stata insomma una pratica di ricerca sui problemi della modernizzazione che, pur non utilizzando esplicitamente questo concetto, ha interpretato il processo di cambiamento in modo più aperto, più differenziato e più orientato a un'analisi storico-comparata.
Negli anni settanta, e ancor più nel decennio successivo, il quadro delle esperienze di sviluppo dei paesi del Terzo Mondo si è ulteriormente arricchito e differenziato. Le difficoltà, per molti dei nuovi paesi, hanno continuato a sussistere e, in alcuni casi (specie nel continente africano), si sono addirittura aggravate. Ma in altri contesti, sia all'interno dell'America Latina che nell'Est asiatico, si sono anche verificati processi rilevanti di sviluppo economico (v. Gereffi e Wyman, 1990). Questa situazione ha orientato la ricerca in due direzioni. Anzitutto ha fatto maturare una crescente consapevolezza dei limiti sia della prima teoria della modernizzazione che di quella della dipendenza. Gli studiosi di entrambi questi approcci tendevano infatti a presentare la realtà dei paesi più arretrati in termini sostanzialmente omogenei, anche se gli uni formulavano un'ipotesi ottimistica circa le possibilità di sviluppo e gli altri invece condividevano una prospettiva molto pessimistica. Nessuna delle due teorie appariva dunque in grado di render conto della crescente differenziazione dei processi di cambiamento. In secondo luogo si è fatta strada l'idea che per comprendere meglio i fenomeni di dinamismo, di stagnazione o di regressione sia necessario servirsi di comparazioni tra un numero limitato di casi. Molti studi hanno quindi messo a confronto i paesi dell'Est asiatico, mentre altri si sono concentrati su quelli dell'America Latina, e altri ancora su paesi dei diversi contesti. Ha preso così forma un approccio che è stato definito 'nuova political economy comparata' (v. Evans e Stephens, 1988).
Se negli studi sulla modernizzazione l'attenzione era prevalentemente centrata sulla dimensione culturale e nell'approccio della dipendenza sulla dimensione economica, nella political economy ci si concentra invece sul ruolo dello Stato. Naturalmente questo non significa che i due orientamenti precedenti non riconoscessero la rilevanza di questo fattore, ma nel caso dei teorici della modernizzazione e dello sviluppo politico, e nell'analisi dello stesso Rostow, il ruolo dello Stato era prevalentemente confinato alla costruzione delle precondizioni per un efficace funzionamento del mercato. Viceversa i teorici della dipendenza propugnavano un più deciso intervento dello Stato contro i processi di espropriazione subiti dalle società periferiche, ma consideravano tale intervento difficile da realizzare, proprio per la debolezza intrinseca delle istituzioni statali rispetto agli interessi economici interni e internazionali. Un secondo aspetto che distingue la prospettiva della political economy riguarda i rapporti con l'esterno. Questi non sono visti solo come stimoli, di tipo culturale o economico, che promuovono lo sviluppo, come nella teoria della modernizzazione, e neanche esclusivamente come vincoli e condizioni di espropriazione di risorse, come nell'approccio della dipendenza. I fattori esterni - tra i quali viene annoverata anche la dimensione geopolitica - sono considerati come opportunità e insieme come vincoli. La possibilità di far prevalere gli aspetti più favorevoli allo sviluppo, o di trasformare i vincoli in risorse, dipende dal ruolo esercitato dallo Stato, dalla sua capacità di controllare e 'negoziare' i legami internazionali. È su questa base che viene quindi spiegato il successo delle strategie di industrializzazione dei paesi asiatici (v. Deyo, 1987; v. Camarda, 1992) rispetto a quelli latino-americani, e anche le differenze tra questi (v. Gereffi e Wyman, 1990).
Il ruolo dello Stato nell'assicurare il successo a una strategia di industrializzazione, e più in generale nel far funzionare efficacemente il mercato, era già stato messo in evidenza da Gerschenkron a proposito della prima fase di crescita dell'industria nei paesi occidentali alla fine dell'Ottocento. Ma nella prospettiva della political economy si evita qualsiasi implicazione funzionalista, che faccia discendere dalla rilevanza dello Stato l'idea che il suo ruolo di supporto allo sviluppo economico sarà inevitabilmente svolto in modi efficaci (v. Rueschemeyer e Evans, 1985). Il comportamento dello Stato è variabile e storicamente contingente. Da questo punto di vista, per esempio, sono da tenere presenti i gravi problemi che si manifestano nel continente africano (v. Bates, 1982). Quali sono allora i fattori che influenzano l'efficacia dell'intervento statale? Due sono le condizioni sulle quali si può richiamare l'attenzione. La prima è la presenza di strutture burocratiche sviluppate ed efficienti, quindi di una buona macchina statale, indispensabile per poter contrattare con gli interessi esterni, per indirizzare e guidare lo sviluppo industriale all'interno, e per tenere sotto controllo gli interessi di settori particolari. Essenziale è poi l'esistenza di una leadership politica orientata allo sviluppo, largamente indipendente dagli interessi economici e sociali presenti nella società. L'isolamento istituzionale delle élites statali dagli interessi privati è considerato particolarmente importante affinché esse possano giocare un ruolo di indirizzo strategico dello sviluppo, senza subire i condizionamenti dei diversi settori. Questi ultimi tendono quindi o a essere cooptati in forma dipendente nel processo di decisione, come avviene spesso agli imprenditori, oppure a essere esclusi, come accade di solito alla classe operaia e alle classi popolari.
Nel complesso la political economy comparata si presenta come una 'nuova sintesi' caratterizzata da una serie di elementi che la distinguono dagli approcci precedenti. Anzitutto i fattori internazionali sono per essa importanti, ma le loro conseguenze variano nei diversi contesti (per esempio l'influenza americana, legata a problemi geopolitici nell'ambito del confronto con l'URSS, ha facilitato lo sviluppo di alcuni paesi asiatici, mentre ha avuto un ruolo meno favorevole in America Latina). Inoltre le conseguenze dei fattori esogeni non sono predeterminate, ma sono mediate dalla capacità strategica dello Stato. Questa a sua volta dipende: a) dal formarsi di coalizioni di interessi economici e sociali che favoriscono o meno l'autonomia delle élites politiche; b) da tradizioni culturali che garantiscono la legittimazione della leadership; c) da tradizioni istituzionali che influiscono sull'efficienza della macchina statale. Fattori culturali e istituzionali condizionano dunque il processo politico, ma non è possibile predeterminarne gli esiti e le conseguenze. Su di essi incide autonomamente l'interazione che si stabilisce tra gli attori sociali e politici, sulla base dei condizionamenti interni e internazionali. Dalla political economy comparata viene dunque un'importante conferma dell'idea, già maturata nell'ambito della sociologia storica, della fondamentale varietà dei processi di modernizzazione sul piano storico-empirico. Viene però anche l'indicazione che i casi in cui il processo di industrializzazione consegue i risultati migliori - cioè quelli dei paesi asiatici - sembrano associati a strutture statali più efficaci, ma anche più autoritarie, che si muovono in un contesto di economia di mercato aperta di tipo capitalistico, con un orientamento ideologico e di politica economica dirigista. Resta da vedere se e in che misura questa indicazione verrà confermata dall'esperienza di altri paesi, così come non è per il momento possibile valutare se, nei casi in cui l'industrializzazione ha avuto successo, ci saranno o meno pressioni e sviluppi significativi verso un rafforzamento della democrazia politica e verso la crescita di interventi in campo sociale (Welfare State) o persisteranno modelli autoritari, con orientamenti dirigisti sul piano economico e con uno Stato sociale molto ridotto.Interrogativi di questo genere riconducono evidentemente a un tipo di problematica che era tipico della prima teoria della modernizzazione. In quella prospettiva, infatti, un certo grado di variabilità dei percorsi di sviluppo era previsto, ma vi era anche l'ipotesi forte di una progressiva convergenza istituzionale indotta dal processo di industrializzazione. La political economy, con il suo approccio storico-empirico, non si impegna su questo terreno, anche se segnala la varietà dei processi in corso. Tuttavia sono da richiamare alcuni tentativi recenti di riaffrontare la questione in termini teorici, rifacendosi all'impostazione di Weber e alla sua analisi comparata delle diverse civiltà.
Il primo di questi tentativi nasce proprio da un'esperienza di ricerca sul 'capitalismo asiatico', cioè sui paesi asiatici di nuova industrializzazione e anche sul Giappone (v. Hamilton, 1994). Il punto di partenza di questa riflessione è costituito dall'individuazione di alcune caratteristiche specifiche dell'industrializzazione di questi paesi, che non riguardano soltanto il ruolo dello Stato nell'economia, ma anche le forme di organizzazione dell'attività produttiva e i rapporti di lavoro. Economisti industriali e sociologi dell'economia hanno messo in evidenza alcuni aspetti che, pur variando da paese a paese, sono tipici del capitalismo asiatico (v. Dore, 1987; v. Hamilton e Biggart, 1988). Per quel che riguarda l'organizzazione produttiva, questi tratti distintivi consistono nella diffusione dei networks, cioè nelle reti di imprese. Nel capitalismo occidentale l'impresa ha un'identità forte, una struttura organizzativa dai confini ben delimitati e rinforzati anche dalle norme giuridiche. Il capitalismo asiatico è invece caratterizzato da un'impresa debole inserita in networks forti, basati su relazioni che non sono solo finanziarie o giuridiche, ma comprendono soprattutto legami di tipo personale, familiare, comunitario. D'altro canto, anche sul piano del lavoro, i rapporti di tipo contrattuale e impersonale più tipici dell'esperienza occidentale lasciano il passo a forme di identificazione comunitaria nell'impresa, con modelli di sindacato (là dove è presente) di tipo aziendale. Riflettendo su queste esperienze di industrializzazione, e anche sui recenti sviluppi in Cina, Gary Hamilton è giunto alla conclusione che ci si trovi di fronte a specificità della sfera istituzionale economica, oltre che di quella politica, caratterizzate dalle particolari forme di intervento dello Stato prima ricordate. A suo avviso tali specificità istituzionali pongono due problemi. Anzitutto, non possono essere spiegate soltanto in una prospettiva di political economy, ma chiamano in causa il concetto di civiltà. In secondo luogo, un collegamento più stretto tra processo di modernizzazione e tipo di civiltà in cui esso prende forma porta a negare l'ipotesi di una convergenza istituzionale dominata dal modello occidentale.
Per quel che riguarda il primo punto, viene messo in evidenza come le istituzioni economiche e politiche, e i rapporti che si stabiliscono tra loro, non possono essere compresi esclusivamente in termini di variabili che mirano a definire l'autonomia e la capacità strategica dello Stato. Vi sono dei caratteri più generali che determinano i modelli di legittimazione del potere, sia politico che economico. Essi rimandano ad alcuni tratti culturali diffusi in una vasta area, rinviano a visioni del mondo che hanno una matrice originaria nell'influenza delle grandi religioni. In particolare, per il capitalismo asiatico è importante il ruolo del confucianesimo. La sfera di influenza di una grande religione tende a delimitare lo spazio di una civiltà, intesa come un insieme di società che condividono alcuni tratti culturali e istituzionali. In questa prospettiva è dunque necessario richiamarsi all'analisi comparata delle civiltà avviata da Max Weber, utilizzando le visioni del mondo che sono alla base delle grandi civiltà, nel senso proposto dal sociologo tedesco. Le immagini del mondo, i principî di valore, orientano l'azione ma non ne predeterminano l'esito. Stabiliscono delle 'traiettorie di sviluppo'; forniscono quadri di riferimento nell'ambito dei quali si definiscono i diversi interessi materiali e ideali che attraverso i loro conflitti determinano poi lo sviluppo storico. In questa prospettiva è da rilevare - come aveva già intuito Weber - che il confucianesimo costituiva un quadro di riferimento culturale tale da ostacolare lo sviluppo capitalistico, ma che poteva anche fornire delle risorse rilevanti per adattarvisi. Hamilton sottolinea, da questo punto di vista, gli ostacoli frapposti alla piena affermazione dell'autonomia individuale, in campo sia economico che politico, e la forte insistenza culturale sugli obblighi di appartenenza alla rete familiare, parentale, comunitaria, e anche a quella politica più ampia. I rapporti di autorità sono determinati in base a una visione armonica del mondo in cui la posizione dell'individuo è definita dal contributo atteso al mantenimento di tale integrazione. È in questo quadro che si possono dunque meglio comprendere sia le forme di legittimazione del potere politico, sia le caratteristiche dell'organizzazione produttiva basata sui networks e su rapporti di lavoro a forte impronta comunitaria. Tutti questi elementi 'tradizionali', e il minor grado di differenziazione sociale a essi associato, nella visione originaria dei teorici della modernizzazione avrebbero dovuto costituire un ostacolo allo sviluppo. Paradossalmente, invece, sono diventati una risorsa cruciale per il dinamismo economico, che addirittura suscita l'attenzione crescente del mondo occidentale e vi stimola tentativi di imitazione.Ma l'esperienza asiatica offre anche lo spunto per andare oltre e per porsi il problema dei rapporti tra civiltà diverse. Essa porta a respingere l'idea che la diffusione del capitalismo fuori dall'Occidente e i crescenti processi di globalizzazione dell'economia prefigurino l'avvento di un'unica civiltà mondiale. Lo sviluppo di un'economia globale non si accompagna a una maggiore uniformità istituzionale, ma piuttosto alla differenziazione dei processi di modernizzazione, alimentata dai quadri di riferimento delle diverse civiltà, che offrono risorse istituzionali diverse per adattarsi alle sfide dell'economia mondiale.
A queste stesse conclusioni arriva, per altre strade, anche Samuel Eisenstadt (v., 1980), dopo un lungo percorso intellettuale che lo ha visto tra i protagonisti dei primi sviluppi della teoria della modernizzazione. Dalle critiche nei confronti di quella esperienza, e dell'approccio struttural-funzionalista che la orientava, anche Eisenstadt ha tratto da tempo la convinzione che sia necessario non rinunciare al concetto di modernizzazione, ma ridefinirlo richiamandosi alle intuizioni e alle analisi di Weber sulle dinamiche interne delle diverse civiltà. In questa prospettiva egli si è quindi impegnato in un programma di ricerca tendente a ricostruire le origini della grande varietà di risposte simboliche e istituzionali con le quali le diverse società hanno reagito alla modernità occidentale. Anche per Eisenstadt le prospettive di studio della modernizzazione si legano all'indagine comparata sulle civiltà. Al centro del suo approccio vi è l'idea delle élites intellettuali e politiche come imprenditori istituzionali che si confrontano e si scontrano per ridefinire l'organizzazione di una determinata società sulla base dei quadri di riferimento culturale offerti dalle diverse civiltà. Queste offrono diversi modi per interpretare l'ordine sociale, sulla base di visioni del mondo legate al rapporto tra realtà umana e realtà trascendente, che si sono formate con le grandi religioni. Ci sono dunque spazi diversi per le 'eterodossie', ambiti di interpretazione e ridefinizione culturale che possono essere sfruttati dalle élites per formare coalizioni, per alimentare i processi di mobilitazione e di protesta, e quindi per modellare le varie sfere istituzionali e il cambiamento sociale di fronte alle sfide esterne e ai problemi interni.
L'impegno di ricerca di Eisenstadt, sulla scia di Weber, si è però concentrato prevalentemente sul passato, alla ricerca dei quadri di riferimento originari delle diverse civiltà. Resta pertanto aperto il problema di collegare più direttamente i processi di modernizzazione contemporanei ai caratteri specifici delle diverse civiltà. È presto per dire se questa prospettiva verrà percorsa in misura significativa in futuro, come i contribuiti di Hamilton e di Eisenstadt suggeriscono. Certo è che, nonostante i successi conseguiti dalla political economy comparata - e anzi forse proprio per effetto di tali risultati - si manifesta l'esigenza di collegare l'ormai riconosciuta varietà dei processi di modernizzazione a variabili che non siano soltanto politico-istituzionali ma anche culturali. Ronald Dore (v., 1990) ha messo opportunamente in evidenza come questo compito sia oggi particolarmente importante, ma non si può perseguirlo limitandosi a cercare delle consonanze tra le idee religiose analizzate in chiave comparata e certi tipi di comportamento economico. Occorre piuttosto indagare specificamente con un approccio storico-empirico, paziente e alieno dalle tentazioni positivistiche delle generalizzazioni forti, su come aspetti legati per esempio alla legittimazione dell'autorità, alla fiducia impersonale, all'impegno nel lavoro, all'interesse per la tecnologia, siano più o meno favoriti dagli orientamenti culturali. È in questa chiave che si può comprendere meglio il successo dei paesi asiatici, andando al di là dei risultati della political economy. L'esperienza di questi paesi ha riportato l'attenzione sull'importanza di un clima favorevole al cambiamento su cui aveva insistito Gerschenkron, un clima alimentato da una forte sensibilità culturale all'arretratezza rispetto ad altre società e culture, e quindi da una 'voglia di sviluppo' che porta a legittimare lo sforzo delle élites e ad assecondarlo. Tutto ciò spinge dunque a riconsiderare le dimensioni culturali e motivazionali, ma significativi stimoli nella stessa direzione sembrano venire anche dalle esigenze di interpretazione del difficile cambiamento nei paesi dell'Europa orientale dopo il crollo dei regimi comunisti (v. Sztompka, 1993; v. Offe, 1995). In questo senso si può dunque concludere notando come vi si sia una ripresa di interesse per quella dimensione culturale che era al centro dei primi studi, e che aveva finito per essere indebitamente travolta dalle critiche al modo in cui veniva trattata in quei lavori. Oggi tale dimensione viene a essere riconsiderata come elemento necessario, anche se non sufficiente, per una visione più matura, più aperta e plurifattoriale della modernizzazione e dei suoi esiti. (V. anche Civiltà; Evoluzione culturale; Industrializzazione; Modernità; Mutamento socioculturale; Sottosviluppo; Sviluppo economico; Sviluppo politico; Tradizione).
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