Musei del 21° secolo
«È il pubblico che si espone all’arte e non viceversa» (Gino De Dominicis)
Superluoghi dell’arte contemporanea
di Adriana Polveroni
28 maggio
Con l’inaugurazione gemellata del MAXXI, il Museo nazionale dell’Arte del XXI secolo, realizzato dall’architetto anglo-irachena Zaha Hadid, e del Nuovo MACRO, Museo di arte contemporanea di Roma, ampliamento dell’originaria struttura recuperata nel 1999 con l’inserimento di un ulteriore edificio progettato dall’architetto Odile Decq, il sistema museale romano estende il suo arco temporale fino alle opere più recenti.
Il successo del MAXXI
«Oggi si crede che gli spazi deputati all’arte visiva abbiano il potere di compiere il miracolo di tramutare in opera d’arte qualunque cosa vi venga esposta». Questa affermazione di Gino De Dominicis campeggia, accanto ad altre di medesima lapidarietà, nella mostra a lui dedicata con cui si è inaugurato il MAXXI, primo museo d’arte contemporanea italiano promosso dallo Stato e aperto a fine maggio a Roma dopo dieci anni di cantiere. Si può partire da qui – lasciando sullo sfondo la polemica che il grande artista scomparso nel 1998 intrecciava con «direttori e curatori creativi», con la «rimbambita moda dello sconfinamento» che, secondo lui, portava impropriamente dentro il museo «registi, stilisti, fotografi» e «creativi» di ogni sorta accanto agli artisti ritenuti invece gli unici «creatori» – per aprire una prospettiva critica ove inquadrare i musei di ultima generazione votati al consumo, alla conservazione e alla produzione dell’arte contemporanea.
Forzandone il lato metaforico, la frase di De Dominicis non si riferisce esclusivamente al gesto di Marcel Duchamp che, introducendo un orinatoio nel museo, trasforma questo poco attraente oggetto di uso comune in una Fontaine, rivelando definitivamente che è il luogo dell’arte a determinare lo statuto dell’arte. Tra le righe, l’artista italiano sembra suggerire una riflessione più densa non solo sull’identità dell’oggetto artistico, quanto sulla irresistibile forza del museo che lo ospita. Forza, potere di definire l’arte, che il museo contemporaneo sembra rilanciare non solo rispetto l’arte stessa, ma soprattutto riguardo i comportamenti che ruotano intorno a essa e che si coagulano nella sua centralità.
È stato detto più volte che i musei sono le moderne cattedrali, ma anche qui occorre specificare questa affermazione non tanto nei termini del ‘tesoro’, presunto o reale, che contengono, quanto per le attitudini che sollecitano. Torniamo al MAXXI, disegnato dall’architetto anglo-irachena Zaha Hadid. A dispetto della crisi attuale – che attanaglia anche i musei e che nel giro di due anni ha causato la chiusura di diversi templi dedicati alla contemporaneità, come il Las Vegas Art Museum, ne ha ridimensionato le ambizioni di altri, come il MAM di Seattle o il Saint Louis Art Museum, e in Italia ha rinviato sine die la trasformazione dell’ex Arsenale di Verona in polo museale e dell’ex Ansaldo di Milano in Città delle culture (entrambi progetti firmati da David Chipperfield), e il Museo d’arte contemporanea di Milano di Daniel Libeskind e del Museo dell’arte nuragica e dell’arte contemporanea che Zaha Hadid avrebbe dovuto realizzare a Cagliari –, l’inaugurazione del MAXXI ha registrato un’eccellente affluenza: 3500 visitatori mediamente per ogni weekend di giugno, nonostante la stagione e il clima più favorevoli alle gite balneari piuttosto che agli itinerari culturali. Non vanno certamente trascurati l’effetto novità proposto da potenti campagne mediatiche e il richiamo forte verso quella che da tempo viene riconosciuta negli asset strategico-turistici come una visita da ‘non mancare’. Tutto questo, però, non è sufficiente per decretarne il successo, ma può essere assunto come il prezioso collante di una specifica ritualità che oggi prende corpo nei musei e che ci interessa analizzare.
La nuova identità del museo
Sempre di più il museo d’arte contemporanea si configura come uno spazio polivalente, un luogo dove intrattenersi e nel quale la presenza artistica spesso risulta ridimensionata rispetto ad altre attività proposte. Ci riferiamo ai cosiddetti ‘servizi aggiuntivi’ che che alle mostre e ai relativi spazi espositivi affiancano una griglia di occasioni di consumo date da bar, ristoranti, bookshop, negozi, a volte sganciati anche dall’offerta editoriale e che propongono gadget e oggetti più o meno ispirati alle opere che si trovano dentro il museo. Questa sovrapposizione di attività spurie ha avvicinato il museo di ultima generazione a un megastore: luogo di consumi aggregati attorno alla centralità del consumo culturale che, in virtù della fascinazione esercitata dalla sua aura, risulta essere la forza trainante di un’articolata filiera di profilo commerciale. Notiamo, per inciso, che gli stessi servizi aggiuntivi sono spesso realizzati da artisti, fatto che sottolinea come l’estetizzazione degli spazi commerciali sia irrinunciabile per la loro promozione qualitativa (per esempio al MAMbo di Bologna, il bar ristorante presenta interventi di Marco Di Giovanni, Flavio Favelli e Sandrine Nicoletta).
Il processo che investe la concezione del museo come luogo ibrido di cultura e commercio recentemente ha segnato ulteriori passi avanti, tanto che oggi al suo interno si realizzano alcune pratiche che con le arti visive intrattengono una relazione ritenuta finora solo parentetica. Si va al museo non solo per vedere le opere esposte ma per usarlo come luogo di sosta e di svago proprio ‘tra’ le opere esposte. Non ci riferiamo solo alle complesse installazioni, a volte multimediali e altre volte senza ricorso alla tecnologia, che includono spazi di riposo, di contemplazione, di ‘attesa’ per la visione del video o di ‘sorpresa’ che possono riservare, ma anche all’animazione che il grande contenitore museale stesso promuove. Oggi si va alla Tate Modern di Londra, al MoMA di New York, al MAXXI di Roma, allo SMAK di Gent, al MADRE di Napoli, al MacBA di Barcellona, al Centre Pompidou di Parigi, per ascoltare un concerto, vedere un film, per partecipare a un incontro culturale o a una performance teatrale. Data l’estrema fluidità dello spazio disegnato da Zaha Hadid, il MAXXI è stato inaugurato a novembre 2009 completamente vuoto e attraversato dai passi di danza di decine di performers della compagnia di Sasha Waltz, quasi a voler dire che un luogo del genere, sebbene concepito per essere il primo museo d’arte contemporanea italiano, in realtà è più idoneo ad ospitare spettacolo dal vivo, arte in movimento piuttosto che arte appesa al muro o tridimensionale ma comunque statica, sia pure collocata liberamente nel vasto spazio disponibile.
Questo fenomeno di progressivo allargamento dell’identità del museo ha le sue radici storiche nell’idea, cara alle Avanguardie, dell’‘opera d’arte totale’, che nel tempo si è esplicitata in una costante mescolanza tra le arti, per cui le barriere che fino agli albori del Novecento separavano le arti plastiche dalla musica e poi l’architettura dal cinema si sono via via allentate, dando luogo a una forma ‘sferica’ (quindi inglobante e onnicomprensiva, secondo l’idea di Germano Celant, espressa in Ferriani-Pugliese 2009) e ‘decentrata’ (Emilio Garroni, in Bolla-Cardini, 1994) delle arti visive e, di conseguenza, del luogo deputato ad ospitarle.
Tale nuova configurazione, che contamina l’idea stessa dell’arte e la imparenta ad altre pratiche a volte ben più popolari e di più facile comprensione, è però anche funzionale per richiamare un pubblico sempre più vasto e trasversale, elemento a sua volta decisivo per la sopravvivenza del museo che, in quanto macchina complessa dal punto di vista sia architettonico sia gestionale, ha costi molto elevati non copribili dalla sola offerta artistica in senso stretto. Negli ultimi due anni la crisi economica che ha coinvolto globalmente anche il mondo culturale ha accelerato tale processo, obbligando qualsiasi direttore di museo a qualsiasi latitudine questo si trovi a riformulare la propria offerta e dunque a dilatare lo spazio concettuale del museo oltre i confini storicamente assegnati a esso come luogo di conservazione e di valorizzazione dell’arte.
Occorre notare, inoltre, che, trattandosi di arte contemporanea, questi due compiti ritenuti tradizionalmente primari nella gestione museale risultano di fatto marginalizzati rispetto alla spinta verso la produzione, che è il tratto distintivo di un’arte che, proprio in quanto coeva al suo tempo, viene valorizzata in maniera sincronica alla sua realizzazione, mettendo quindi in secondo piano il processo di storicizzazione e trasformando de facto il museo da luogo di conservazione che, in virtù della distanza temporale, storicizzava e definiva l’arte riconoscendo a quella del passato un valore primario, in uno spazio aperto, flessibile e produttivo dell’arte stessa. Si tratta di un fenomeno che stringe orizzontalmente in una stessa pratica la «scoperta, l’interpretazione e la storicizzazione della nuova arte» (Schubert 2004, p. 1113), facendo del museo contemporaneo uno ‘spazio paradossale’, che dà prospettiva storica a un’arte che per definizione radica la propria identità in una porzione temporale priva proprio di durata storica (Polveroni 2007, p. 55).
Questa realtà, per certi versi decisamente anomala e inedita nella classica concezione museale, si appoggia su, e al tempo stesso contribuisce a fondare, una nuova idea del pubblico. È infatti questo, in un luogo disancorato dalla storia e da una griglia di valori riconosciuti, come per esempio la memoria o la grandezza certificata degli artisti, a dare corpo al museo contemporaneo, nella libera azione sia degli spazi sia dell’arte, che viene simultaneamente «scoperta, interpretata» e paradossalmente «storicizzata», per dirla con Karsten Schubert. Il supporto decisivo di questa azione è dato, come vedremo tra poco, dall’architettura.
Centralità del pubblico e attrazione mediatica dell’architettura
Afferma sempre De Dominicis in un altro dei suoi fulminanti aforismi che «è il pubblico che si espone all’arte e non viceversa». Di nuovo, tentiamo di interpretare liberamente quello che l’artista voleva dire. L’aura artistica, ritenuta il bene più prezioso nella nostra società dei consumi, che anzi presiede e organizza questi (Abruzzese 2002), richiama attorno a sé i pellegrini del 3° millennio, che non esitano a intraprendere defatiganti viaggi lungo il pianeta per partecipare a quello che, per numeri e fenomenologia, si configura come uno dei riti collettivi più pregnanti di oggi: la visita al museo. Non lo confermano solo le ottime performance che ha fatto il MAXXI subito dopo l’inaugurazione. Prima di queste si registra il milione di visitatori che il Guggenheim di Frank Gehry riesce a portare ogni anno in una città scarsamente attraente, malsicura e al di fuori dei circuiti turistici come era Bilbao prima che vi atterrasse la superba astronave in titanio concepita dall’architetto americano. E poi vi sono i 5 milioni di visitatori all’anno della Tate Modern di Londra, dato che ha risollevato le sorti di un’area di serie B della capitale inglese, il Southwark, che invece, grazie all’abile ristrutturazione dell’ex centrale elettrica ad opera degli architetti svizzeri Herzog & de Meuron, è diventato un quartiere benestante, per i nuovi consumi che vi si sono innescati e per i posti di lavoro che si sono creati (secondo le stime da 2000 ai 4000 nei primi cinque anni di apertura del museo). Altrettanto grandi numeri e grande attenzione mediatica ci si aspetta dall’apertura del ‘Louvre del deserto’ progettato da Jean Nouvel, dall’ultimo Guggenheim disegnato da Gehry e dal Performing art center di Zaha Hadid, che dovrebbero essere realizzati nelle isole artificiali di Abu Dhabi.
Proprio questi tre musei in costruzione nel ricco Emirato arabo sollecitano riflessioni interessanti. Le collezioni che saranno ospitate in questi gioielli firmati dalle ‘archistar’ non hanno niente a che vedere con la tradizione culturale del luogo, non solo perché si tratterà di arte ‘importata’, proveniente per esempio da uno dei più grandi templi del patrimonio occidentale quale è il Louvre, ma anche perché, per il forte influsso esercitato dalla tradizione musulmana, l’arte mediorientale è aniconica e quindi concettualmente molto contraria, se non ostile, all’arte occidentale. Eppure, sebbene con ritardi dati dal minor flusso di denaro e polemiche arroventate (Clair 2008), anche queste moderne cattedrali nel deserto sono concepite per attrarre milioni di visitatori: turisti ma anche cittadini degli Emirati, a conferma del fatto che il loro contenuto è relativamente ininfluente rispetto alla mera presenza dell’oggetto artistico ed è anzi questo un elemento che contribuisce a che prendano vita da un lato itinerari e proposte turistico-culturali, di ordine commerciale quindi, e dall’altro un rituale – la visita al museo – cui non possono sottrarsi neanche fruitori di diverso, se non ostile, indirizzo culturale.
Ma cosa spinge milioni di visitatori a varcare la porta di un museo, specie di arte contemporanea? Forse non quello che vi andranno a vedere dentro, di cui il pubblico è sommariamente informato. Decisivo è quello che vedono fuori: il prezioso, seducente involucro architettonico. È da qui che prende corpo il ‘superluogo’ dell’arte agito dal pubblico.
Due sono le pietre miliari di questo processo che negli ultimi 30-40 anni ha visto l’affermazione dell’architettura come motore forte per la creazione del rito collettivo della visita al museo: il Centre Pompidou, iniziato nel 1971 nel centro di Parigi da Renzo Piano e Richard Rogers e inaugurato nel 1977, e il Guggenheim di Bilbao aperto nel 1997. Il Beaubourg parigino ricorre per la prima volta al criterio della trasparenza dell’edificio, mettendo a contatto simultaneamente la città, il museo e il pubblico al suo interno. Le sue pareti vetrate lasciano vedere i visitatori che riempiono le sale e che si incanalano sulle scale mobili, mentre la città si specchia in quelle stesse pareti. Tra città e museo non sembrano esserci più cesure. Il pubblico non solo «si espone all’arte», come dice De Dominicis, ma facendo questo e in virtù della trasparenza architettonica, ‘si espone’ alla città in una complessa e simultanea attività del vedere: le opere, la città e se stesso riflesso in quella trasparenza, in una liturgia che ha al suo centro il museo e che però lo scavalca concettualmente.
Dopo il Centre Pompidou moltissimi musei hanno fatto ricorso al dispositivo della trasparenza, quasi annullando il confine tra se stessi e lo spazio urbano: sempre a Parigi la Fondation Cartier disegnata da Jean Nouvel, la Kunsthaus di Rotterdam di Rem Koolhaas, una consistente parte della nuova ala del MACRO di Roma firmata da Odile Decq, l’ampliamento del MoMA di New York realizzato nel 2004 dall’architetto giapponese Yoshio Taniguchi, il MoCA di Shanghai, nel suo piccolo lo Spazio Gerra di Reggio Emilia e naturalmente il Guggenheim di Bilbao, dove «le grandi vetrate di Gehry fanno entrare la città e la sua memoria nella percezione delle opere» (Celant 2002). Venti anni esatti dopo la nascita del Centre Pompidou, è questo museo a segnare un punto di non ritorno nel fecondo sodalizio tra arte contemporanea e architettura. Al di là delle polemiche, mai risolte, sulla prevalenza del contenitore rispetto al contenuto, e cioè se un disegno architettonico così potente possa penalizzare l’arte dentro il museo, appare evidente che non è questa, ma il virtuosismo dell’architetto sostenuto in questo caso da un ingente investimento economico (l’amministrazione di Bilbao si è accollata i costi di realizzazione del nuovo Guggenheim), a muovere milioni di visitatori. A fare sì che la visita al museo sia un ‘atto dovuto’ per la definizione di un comportamento intelligente e affluente nell’odierna società dei consumi, dove milioni di persone, in nome dell’incanto architettonico, sono capaci di superare persino il disagio per la scarsa comprensione e la diffidenza che hanno verso l’arte contemporanea.
La liturgia museale
È proprio questa prevalenza del contenitore sul contenuto a spostare l’analisi del museo d’arte contemporanea su un altro piano che con l’arte c’entra relativamente. Abbiamo detto che i pellegrini del 3° millennio sono spinti da motivazioni che eccedono l’interesse per l’arte. Ma analizziamo un altro comportamento del pubblico: quello giovanile ritenuto tradizionalmente pigro verso le attitudini culturali. Eppure proprio i giovani, in virtù dei concerti di musica elettronica che si svolgono dentro il museo (jazz, rock e pop appartengono quasi al repertorio del passato), vi affluiscono numerosi: le 4000 presenze per la riapertura del Macro Future, quando nel settembre 2009 è stata proposta una serata di eventi legati alla mostra New York minute, i 2000 visitatori al MAXXI per il primo dei concerti estivi della serie Maxximalism, la parziale trasformazione del MADRE di Napoli in discoteca, confermano che l’offerta di arte visiva non è più l’elemento trainante per entrare nel museo e, d’altra parte, rivelano che questo è diventato un luogo dove il pubblico, sia trasversalmente sia diviso per fasce sociali e anagrafiche (i giovani con la musica, il pubblico più maturo con le visite guidate, le famiglie con le domeniche al museo, i bambini con i laboratori didattici), si compatta in un consumo preciso dal cui prende corpo un rituale di identificazione. Già 40 anni fa, Pierre Gaudibert, critico d’arte ed ex direttore del Museo d’arte moderna di Parigi, sosteneva che le classi medie cercavano di integrarsi alla borghesia colta attraverso il consumo culturale (Gaudibert, in Ribaldi 2005). Oggi questo fenomeno è in continua espansione, ma cosa va a fare esattamente tutta questa gente nel museo? Qual è l’obiettivo che si prefigge, se di obiettivo si tratta? Crescita culturale, accumulo di nozioni o qualcosa che potremmo definire, genericamente, un’esperienza? E di che tipo di esperienza si tratta? Secondo il sociologo Alberto Abruzzese, proprio qui sta il nodo della questione: la liturgia di massa che ha luogo dentro il museo non ha nessuna ambizione critica, non avviene per desiderio di crescita culturale, ma per partecipare emotivamente, in un contatto addirittura psicosomatico, a un ‘evento sacrale’, dove la prossimità è con il bene artistico, con la sua aura, la cui mera presenza è condizione sufficiente e soddisfacente, al di là del fatto che con esso si allacci una relazione critica (Abruzzese 2002). Essenziale è che quel feticcio di massa che seduce trasversalmente da nord a sud e da est ad ovest il pianeta, bypassando classi sociali, singole individualità, culture e religioni diverse, ci sia.
Di che cosa parliamo quando parliamo di musei d’arte contemporanea?
Le riflessioni fin qui fatte portano a concludere come il museo d’arte contemporanea sia molto diverso dal contenitore artistico che eravamo abituati a conoscere fino a qualche decennio fa. Soprattutto per il fatto che accoglie qualcosa che è molto lontano dall’idea dell’arte che si aveva nel passato anche prossimo e che, al tempo stesso, fa spazio a comportamenti e consumi che solo a costo di qualche forzatura si pensavano legati all’arte. Ma se questa è la trasformazione più evidente del museo, celebrato dai circuiti turistici, e la cui sopravvivenza è legata alla frequentazione che i mass media riescono a sollecitare, sebbene, come avverte Salvatore Settis, il museo sia comunque un’istituzione recente – ha appena due secoli di vita – e nulla garantisce che rimanga in futuro così come lo conosciamo oggi o come lo abbiamo conosciuto al momento della sua nascita (Settis 2006), occorre tenere a mente che questo processo ha le sue radici nel cambiamento che l’arte ha subito negli ultimi 50 anni.
Le imponenti architetture che oggi avvolgono l’arte contemporanea, le moderne cattedrali di cui abbiamo parlato, più simili a macchine delle meraviglie, a irresistibili luna park traboccanti di sorprese, appaiono esplose nei volumi e nelle dimensioni perché a esplodere, a rompere le righe è stata anzitutto l’arte. Che non solo si è ingigantita, ma ha fatto della tridimensionalità e poi dell’interattività, della capacità di relazione con il pubblico, della mobilitazione di tutti i sensi, e non solo della vista, i propri criteri fondanti. Un’arte che sempre meno viene appesa al muro, ma che fa del muro una parte di se stessa, problematizzando lo spazio, e poi movimentando questo sia virtualmente con dispositivi tecnologici sia concretamente con performance di persone in carne e ossa, un’arte che sempre più spesso dell’architettura condivide, non solo le dimensioni, ma l’idea di reinvenzione dello spazio, richiedeva contenitori molto diversi dalle classiche quadrerie o dai solenni musei nazionali, dove il pubblico più maturo di oggi e, prima di questo, quello di uno, di due secoli fa si era alfabetizzato all’arte. Per l’arte contemporanea che rappresenta e reclama una netta discontinuità con l’arte del passato ci volevano dei luoghi che nelle forme e nei volumi incarnassero proprio tale discontinuità.
A loro volta, sono questi volumi e questi spazi anomali, e di nuovo è l’arte ospitata in essi – anomala, ibrida e per la quale è difficile trovare una definizione esauriente – a sollecitare comportamenti e una qualità di relazione che prima non si inveravano dentro il museo. Dunque, quando ci interroghiamo sulla natura dei musei d’arte contemporanea non possiamo fare altro che riportare la domanda all’arte stessa. Questione aperta e per questo indefinitivamente attraente.
Tendenze di museologia
Il boom delle istituzioni museali
Contro ogni previsione, poiché le avanguardie del primo Novecento ne avevano decretato la morte e negli anni 1960 se ne parlava come di oggetti da abolire, i musei si sono dimostrati, negli ultimi decenni del 20° secolo, più vivi e numerosi che mai. Non vi è stato popolo o paese che non abbia voluto il proprio museo. Perfino gli artisti che negli anni della contestazione odiavano i musei, oggi sognano di collocarvi le proprie opere, per eversive ed effimere che siano.
Questo boom è stato preceduto e favorito da alcuni fattori determinanti, fra cui merita di essere menzionata la nascita dell’ICOM (International Council of Museums) nel 1946, per volontà dell’UNESCO. Oggi questa organizzazione internazionale riunisce più di 24.000 aderenti, avendo promosso la formazione di comitati nazionali e di gruppi di ricerca tematici che hanno in breve tempo coinvolto gli operatori dei musei in tutti i continenti.
In Italia, negli anni 1950, la ricostruzione postbellica dei musei distrutti dai bombardamenti ha trovato nei maggiori architetti interpreti straordinari di un nuovo modo di esporre le opere d’arte: da Carlo Scarpa a Franco Albini, dai BBPR, a Ignazio Gardella. Molto influenti sono stati anche gli studi e le elaborazioni teoriche di importanti storici dell’arte, direttori e conservatori soprattutto europei: da Henri Rivière ad André Malraux, da Germain Bazin ad Andrea Emiliani, da Peter Vergo a Charles Saumarez-Smith, da Adalgisa Lugli a Martin Warnke, da Kenneth Hudson a Luca Basso Peressut. La formazione negli Stati Uniti e in Europa di numerosi gruppi di ‘amici dei musei’, soprattutto negli anni 1960 e 1970, ha contribuito inoltre a far conoscere a un pubblico più vasto le attività e le collezioni dei musei.
Ha concorso fortemente al successo dei musei d’arte anche la grande diffusione, a partire dai tardi anni 1950, delle riproduzioni a colori, come per es., in Italia, le serie dei Capolavori nei secoli dei Fratelli Fabbri Editori (dal 1961) e dei Maestri del colore (dal 1963), vendute in edicola e destinate al grande pubblico. Questa profonda trasformazione, proseguita con le riproduzioni digitali e con le banche mondiali di immagini, ha determinato una diversa percezione estetica non solo della singola opera d’arte, ma anche dei complessi monumentali e delle opere di restauro.
In generale, a partire dai primi anni 1970, l’operato dei museologi, direttori e conservatori si è mosso in direzione di una nuova apertura dei musei nei confronti della società, facendo in modo che il pubblico se ne potesse ‘riappropriare’. Questo lavoro rivolto a tutta la società ha così preparato il nuovo ruolo svolto dal museo, che è andato a scardinare il vecchio modello ottocentesco. In Italia la vera svolta risale agli anni 1970 (mentre negli Stati Uniti era già avvenuta subito dopo la Seconda guerra mondiale con le prime importanti mostre), quando il grande pubblico e le scuole hanno cominciato a frequentare i musei e le mostre.
Nuovi musei e ampliamenti dei musei esistenti
L’evento museale per eccellenza nell’ultimo decennio del 20° secolo è stata l’apertura nel 1997 del Museo Guggenheim di Bilbao, progettato da Frank O. Gehry, come negli anni 1970 lo era stata quella del Centre Georges Pompidou a Parigi (Renzo Piano, Richard Rogers, 1971-77). Il successo di questo museo-capolavoro è stato tale che ogni grande città ha cercato di avere un’altrettanto spettacolare architettura culturale. Così tra gli ultimi anni del 20° e l’inizio del 21° secolo c’è stato un pullulare di nuove significative realizzazioni.
L’acropoli museale del Getty Center di Brentwood a Los Angeles, bianca e abbagliante architettura di R. Meier, è stata inaugurata nel 1997. Lo Jüdisches Museum di Berlino, progettato da Daniel Libeskind e finito nel 1998, non si presenta come semplice contenitore, ma si propone come strumento per una nuova esperienza nella ricezione dell’arte e della storia. A Madrid ci sono stati nel 2004 l’ampliamento del Museo Thyssen Bornemisza, diretto da Manuel Baquero e Francesc Pla, nel 2005 l’estensione del Museo Reina Sofia su progetto di Jean Nouvel, nel 2007 l’apertura del nuovo Prado, ricostruito e ampliato da Rafael Moneo. A Monaco di Baviera la terza pinacoteca, completata nel 2002 dopo dieci anni di lavori, è stata progettata da Stephan Braunfels, che si è ispirato ai prototipi di musei nati proprio a Monaco nei primi anni del 19° secolo con l’Alte Pinakothek e la Glyptothek di Leo von Klenze. A Vienna il Museum Quartier è stato inaugurato nel 2001; a New York si è riaperto nel 2004 il MoMA (Museum of Modern Art), completamente rinnovato dall’architetto Yoshio Taniguchi; a Washington ha visto la luce nel 2004 il National Museum of the American Indian, progettato da un team di architetti tra cui Douglas Cardinal e Johnpaul Jones. Nel 2010 ha avuto inizio l’attività espositiva del Centre Pompidou Metz, nell’edificio disegnato da Shigeru Ban e Jean de Gastines. Ancora, fra i nuovi musei realizzati su progetto di celebri architetti possono essere menzionati a Berna il Zentrum Paul Klee di Piano (2005); a Lucerna il Rosengart Museum di Diener & Diener (2001) e a Münchenstein (Basilea) lo Schaulager di Herzog & De Meuron (2003); a St. Louis nel Missouri la nuova Pulitzer Foundation for the Arts di Tadao Ando (2001); a San Francisco il De Young Museum di Herzog & de Meuron (2005) e il Contemporary Jewish Museum di Libeskind (2008); a Davenport (Iowa) il Figge Art Museum di David Chipperfield (2005); a Venezia il centro d’arte contemporanea di Punta della Dogana, interamente ristrutturata da Ando (2009).
Vecchi musei si sono rinnovati e arricchiti di nuove espansioni: come l’aggiunta di Libeskind al Denver Art Museum di Giò Ponti, inaugurata nel 2006; o quelle di Piano per lo High Museum of Art di Atlanta (1999-2005) e per l’Art Institute di Chicago (2009); a Minneapolis, l’espansione del Walker Art Center di Herzog & De Meuron, finita nel 2005; a New York la progettata espansione del Withney Museum, ancora di Piano e a Houston quella di Moneo per il Museum of Fine Arts, inaugurata nel 2000; a Lens, nel Nord della Francia, la filiale del Louvre progettata nel 2005 dallo studio giapponese SANAA; a Copenaghen la nuova ala del Museo Ordrupgaard di Zaha Hadid (2005); a Los Angeles l’espansione del LACMA (Los Angeles County Museum of Art), di Piano (2003); al Louvre la Cour Visconti per l’arte islamica di Mario Bellini e Rudy Ricciotti progettata nel 2005.
In Italia nel corso degli anni 1990 numerosi musei sono stati sottoposti a interventi di restauro. Sono riapparsi in tutta la loro secolare bellezza antichi musei come quelli di Palazzo Pitti (il restauro degli appartamenti reali è terminato nel 1994); sono stati riaperti, soprattutto a Roma, dopo lavori decennali musei come la Galleria Borghese (1997) e il Museo nazionale romano, le cui collezioni archeologiche proprio negli anni 1990 hanno trovato una nuova sistemazione nelle diverse sedi delle Terme di Diocleziano, Palazzo Massimo, Palazzo Altemps e della Crypta Balbi; oltre a importanti spazi espositivi di nuova realizzazione quali le Scuderie del Quirinale, recuperate da Gae Aulenti e aperte al pubblico nel 1999.
Indirizzi e strategie
Nelle strategie urbane della fine del 20° secolo, i musei sono stati individuati come una delle funzioni collettive e simboliche necessarie alla urban regeneration, alla riqualificazione cioè delle aree periferiche. Come è stato dimostrato dal successo dei primi modelli di Soho e Chelsea a New York negli anni 1990, il senso di vitalità culturale che un nuovo museo produce in un’area anche dequalificata di una città favorisce ulteriori investimenti. Il rischio può essere semmai quello di sottovalutare le ingenti spese di funzionamento e infatti questa imprevidenza ha già prodotto i fallimenti di alcuni grandi progetti inglesi come le Armerie di Leeds, il National Centre for Popular Music e il Millennium Dome di Londra.
Del resto, i musei palazzo che gli imperi borghesi avevano costruito nel centro delle capitali non sono più proponibili: forse solo la Francia persiste in questo modello. Nel 2006 è stato infatti inaugurato il grande Musée du quai Branly che, progettato da Nouvel e dedicato all’arte extraeuropea, raccoglie le collezioni etnografiche accumulate a Parigi all’epoca degli imperi coloniali. Ma in altri paesi i musei, ormai indipendenti dai governi centrali, tentano altre vie, per le quali si possono indicare almeno tre tendenze dominanti.
La prima è quella del ‘museo errante’, in cerca di sedi alternative (soprattutto per l’arte contemporanea), fuori dei centri storici. Gli esempi di questo tipo di scelta sono numerosi: dal Temporary Contemporary di Los Angeles, nei primi anni 1980, al Museum of Modern Art di New York che ha acquistato la P.S.1 (Public School 1), nel Queens, per la sua sede fuori Manhattan, attiva dal 2000; dalla Tate Gallery di Londra, che ha aperto sempre nel 2000 la nuova Tate Modern nella dismessa fabbrica per l’energia elettrica (Bankside Power Station) nel degradato quartiere di Southwark, fino a Milano che ha progettato i due suoi nuovi musei (la Città delle culture e il Museo del presente) nelle fabbriche abbandonate di Porta Genova e Bovisa. Negli anni successivi si è andati ancora oltre: il Contemporary Museum di Baltimora è riuscito a fare a meno non solo della sede, ma anche della collezione permanente. Definendosi un ‘museo nomade a tempo pieno’, è arrivato a organizzare mostre in posti come un ex convento, un salone di vendita di vecchie auto, un garage abbandonato, una ex sala da ballo e un hangar per aerei. D’altra parte il Museo del Centre G. Pompidou, seguendo modelli giapponesi, nel 1999 aveva esposto giovani artisti contemporanei in un piano dei grandi magazzini La Samaritaine a Parigi. Anche la struttura politico-amministrativa della Guggenheim Foundation riflette sul futuro di questo tipo di museo, sempre più simile a un’impresa commerciale. I numerosi musei Guggenheim nel mondo (New York, Venezia, Bilbao, Berlino e Las Vegas) ospitano infatti collezioni in continua mutazione, che sembrano essere state concesse in franchising.
Seconda tendenza è quella del ‘museo-spettacolo’ che si trova a dover scegliere tra informazione e intrattenimento, realtà e fantasia. E, poiché la cultura contemporanea tende a confondere il confine tra l’una e l’altra, con le nuove tecniche espositive i visitatori trovano sempre più spesso una mescolanza di presentazione e rappresentazione, di ciò che è reale e di ciò che è simulato. Strettamente legati al museo-spettacolo sono i musei high-tech (come i nuovi musei storici tedeschi, canadesi, giapponesi) e i musei a tema (cioè una mescolanza tra parchi dei divertimenti e museo) i quali derivano dai prototipi francesi degli eco-musées, e nascono dall’esigenza di rendere economicamente produttivi i musei. Gli allestimenti sono un’antologia di novità tecnologiche per illuminazione, presenza di audiovisivi, robot-automi, scenari teatrali animati, performance e installazioni multimediali; il tutto controllato da computer gestiti con software specializzati.
Vi è infine la tendenza al ‘museo locale’: nell’epoca della cultura globalizzata, in cui non è più necessario raccogliere in pochi centri del sapere grandi biblioteche e musei enciclopedici, in quanto questo compito viene svolto dalle reti d’informazione telematica, diventa invece indispensabile riconoscere e approfondire la diversità e la specificità culturale dei singoli paesi e delle, anche minime, storie culturali: presentare cioè nei luoghi, nei contesti, nei paesaggi dove sono nati, i beni culturali che a essi da sempre appartengono, in piccoli musei che permettono di rivivere ogni speciale e particolare genius loci e che raccontano e preservano la storia dei luoghi. È una tendenza alla ricontestualizzazione che doveva fatalmente farsi luce dopo due secoli di studi storico-artistici, accompagnati dall’immenso lavoro dell’editoria d’arte per ricomporre i contesti smembrati nel Settecento, nell’Ottocento e nel Novecento. Questa tendenza ha trionfato nelle mostre al punto che oggi ogni comunità, anche la più piccola, chiede il ritorno dei propri tesori.
Il museo locale esiste soprattutto in Italia, data la presenza diffusa nel territorio di grandi capolavori d’arte. È questo il caso dei musei toscani minori (ne è un esempio un capolavoro come il Museo Archeologico dell’Ospedale di Santa Maria della Scala a Siena, progettato da Guido Canali) e dei numerosi musei lombardi, cresciuti in un quarto di secolo dai 70 del 1972 ai 470 dei primi anni del 21° secolo. Tra questi vanno citati il sistema dei musei della ‘via dei metalli’, che ha visto il recupero delle antiche miniere romane da Bergamo a Brescia, e il sistema dei musei del ‘grande fiume’, che ha collegato tra loro 20 paesi del Po, andando a recuperare, riattivandoli, i vecchi manufatti delle tecnologie fluviali, e favorendo così il ripopolamento dei paesi con attività di bonifica, studio, ricerca, convegni. Tra la Lombardia e il Piemonte si sta sviluppando inoltre una vera e propria rete di musei e archivi delle imprese.
Questo modello italiano di museo è frutto di una concezione di bene culturale che negli anni 1960 e 1970 ha elevato allo stato di patrimonio da salvare e conservare, accanto alle opere d’arte, anche gli oggetti appartenenti alla storia e alla cultura materiale. Senza grande clamore, stanno sorgendo in gran numero questi nuovi musei locali, dove le antiche collezioni trovano involucri architettonici che offrono emozioni estetiche di altissima qualità, spesso in luoghi appartati, in cui la bellezza dei paesaggi umanizzati dilata il concetto di museo e di pellegrinaggio estetico.
Il museo-azienda
Dal punto di vista gestionale, nell’ultimo decennio del 20° secolo si sono sempre meglio delineati due indirizzi dominanti nell’ambito dei musei europei: da una parte la spettacolarità di edifici e di allestimenti, che attirano i consensi dei media, la commercializzazione e la privatizzazione delle attività, il tentativo di far assomigliare il museo a un’azienda; dall’altra, una sempre più diffusa e approfondita opera di informazione, comunicazione ed educazione, che ha raggiunto segmenti di pubblico e gruppi sociali che non si erano ancora mai avvicinati ai musei.
Si è assistito alla lotta di direttori e conservatori illuminati per non ridurre la funzione dei musei a quella di un’azienda di intrattenimento, finalizzata ad attirare pubblico, e per non consegnarli (come fossero un’impresa in crisi) ad amministratori pronti a tagliare il capitale umano. La figura professionale del direttore del museo si è focalizzata su almeno quattro funzioni determinanti: rappresentare il museo e la sua identità all’esterno, in ogni occasione; sostenerne i compiti e le cause ideali; suscitare l’adesione e l’entusiasmo della propria squadra e con essa dell’intera società, locale o internazionale; collaborare con il consiglio di amministrazione anche per la raccolta dei fondi. La competenza, la passione e l’entusiasmo sembrano qualità imprescindibili.
Peraltro, la lezione che i primi dieci anni del 21° secolo hanno dato ai musei è che, quando essi sono troppo integrati nel sistema del consumismo e del mercato, rischiano gli alti e bassi delle crisi finanziarie e sociali. Negli anni 1990 negli Stati Uniti i musei producevano un fatturato che superava i 4 miliardi di dollari, dando lavoro a mezzo milione di persone (dati del 1994). Dopo il difficile e per molti tragico anno 2001, più di 60 nuovi progetti di musei, per circa 5 miliardi di dollari, sono stati messi in discussione. La diminuzione dei visitatori tra il 15 e il 20% ha sconvolto i bilanci in special modo di quei musei, come i Guggenheim, che non hanno un supporto economico dalle pubbliche amministrazioni. Dalla seconda metà degli anni 1990, questi musei per sopravvivere hanno avviato una rincorsa agli eventi di successo: mostre, nuove installazioni ed edifici spettacolari. Ma si è trattato di una ‘bolla speculativa’. L’American Association of Museums, che raccoglie i professionisti, direttori e conservatori dei musei statunitensi, ha valutato che, nel periodo considerato, le spese d’incremento degli investimenti sono cresciute del 483%, i visitatori solo del 22%, i soci del 29%. I grandi musei pubblici, come il Louvre e il British, per parte loro, sono stati costretti a rivedere tutte le spese e a effettuare dei tagli: di solito sul personale.
Il passaggio tra i due secoli è stato dunque caratterizzato da una particolare ‘schizofrenia museale’. Da una parte si sono costruiti grandi e costosi nuovi musei, dall’altra le pubbliche amministrazioni non hanno più avuto il denaro per mantenerli. Si costruisce per fare immagine, fare spettacolo e così ‘vendere’ le attrattive di una città; e poi si getta il tutto appena l’effetto mediatico è finito. In Italia si comincia forse a capire che costa meno mantenere i musei tradizionali (con i quali vengono già soddisfatti milioni di utenti) che lanciarsi in nuove gestioni che sembrano commercialmente profittevoli e che in seguito invece risultano inutili se non catastrofiche. Comunque appare necessario che le pubbliche amministrazioni e i musei stessi progettino una crescita sostenibile per le istituzioni culturali.
Nell’ultimo decennio del 20° secolo ai musei sono state applicate alcune tecniche mutuate dall’organizzazione aziendale e commerciale: l’autonomia gestionale, la valorizzazione delle eccellenze, il controllo di gestione, gli indicatori di performance, gli standard di qualità, il marketing, la comunicazione, le esternalizzazioni di alcuni servizi marginali e quindi l’intervento di società fornitrici esterne al museo, l’economia mista pubblica e privata. Il tema del museo-azienda ha suscitato dibattiti, negazioni, tentativi di adeguamento della produzione culturale a quella commerciale. In realtà molte cose sono cambiate, ma nella maggioranza i musei non sono diventati aziende. Anche perché nel frattempo è divenuto evidente che le istituzioni museali hanno bisogno del sostegno delle pubbliche amministrazioni e dei grandi mecenati in quanto i bilanci in uscita sono spesso più alti di quelli in entrata.
Il tracollo del British Museum alla fine del 20° secolo, accompagnato dal fallimento del modello manageriale con il quale si era tentato di risollevarlo, ha agito da freno su molti sostenitori del sistema angloamericano che tendeva a mettere al vertice delle istituzioni culturali manager professionisti. È comunque diventato evidente che i musei devono cercare altre fonti di sostentamento e aprire alcuni servizi commerciali. D’altra parte, se si afferma che i musei sono un’istituzione al servizio dei bisogni educativi e culturali della società, ne consegue che devono essere soggetti anche alle regole economiche e funzionali espresse dai diversi attori della società, dunque alle regole del mercato civile, ma non a una società che faccia del mercato il proprio idolo. Anzi il museo non deve dimenticare di essere un luogo di pensiero, memoria, riflessione, ma anche di contraddizione e contestazione nei riguardi di tutto quanto lo circonda.
riferimenti bibliografici
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