Musulmani
Se la seconda metà del sec. XII aveva conosciuto una ripresa parziale dell'offensiva musulmana contro la minaccia cristiana, con la cacciata dei normanni dalle coste nordafricane nel 1160, la vittoria di Saladino a Ḥaṭṭīn in Palestina nel 1187, con la conseguente ripresa di Gerusalemme e la sconfitta di Alarcos inflitta dagli almohadi alle truppe iberiche nel 1195, il regno di Federico II e quello del figlio Manfredi (1258-1266) coincisero con la crisi politica definitiva del mondo islamico classico, culminata nella caduta del regime ayyubide d'Egitto e nell'invasione di Baghdad, sede del califfato abbaside, da parte dell'orda mongola di Hülagü, nel 1258.
Da oltre trecento anni, tuttavia, il mondo islamico non era più sottomesso a una guida politica e spirituale unitaria, e diversi regimi avevano preteso di sostituirsi al califfato abbaside, ridotto, nel sec. XIII, a un ruolo puramente simbolico, nonostante l'effimera restaurazione della sua autorità religiosa intrapresa dal califfo al-Nāṣir (1180-1225). Processi di frammentazione politica erano in atto in tutto il dominio musulmano, e in particolare in Nordafrica, in Egitto e in Siria-Palestina, paesi con i quali Federico ebbe i rapporti più frequenti e significativi e dei quali tratteremo principalmente, fino al 1250 circa.
Il Nordafrica costituiva per i geografi musulmani il 'Maghreb' (occidente), distinto fra un territorio 'estremo', comprendente essenzialmente Marocco e Mauritania, e uno 'intermedio', comprendente la cosiddetta Ifriqiyya ossia, nell'epoca considerata, la regione che abbracciava l'attuale Libia, la Tunisia e parte dell'Algeria orientale. Questa parte del Dār al-islām, ossia del dominio musulmano, fu fra il 1130 e il 1269 sottoposta al regime almohade. Gli almohadi (dall'arabo al-muwahhidūn, 'sostenitori dell'unicità divina'), i seguaci del profeta riformatore berbero Ibn Tūmart, avevano dato origine, sotto il successore di Ibn Tūmart, ῾Abd al-Mu'min (1130-1163), a una dinastia di pretese califfali, che opponeva all'autorità politica e religiosa del califfo abbaside di Baghdad la dottrina almohade, rigorista, avversaria di ogni antropomorfismo teologico e sostenitrice di un califfato messianico e non più arabo. L'impero almohade si estendeva al suo apogeo, intorno al 1160, dalla penisola iberica al Maghreb estremo, fino alle città di Tunisi, Sfax e Tripoli, prese ai normanni, ed era la prima volta nella storia islamica che un'unica dominazione teneva un territorio così vasto e composito. Il nerbo della forza militare almohade era formato dall'esercito tribale berbero e, soprattutto negli ultimi due decenni del sec. XII, dalla flotta, che aveva cantieri lungo tutta la costa nordafricana, e il cui intervento fu invocato dall'ayyubide Saladino contro i crociati di Acri.
Il regno di Abū Yūsuf Ya῾qūb al-Manṣūr (1184-1199), il vincitore di Alarcos, che consolidò i confini dell'impero e represse l'ultima grande rivolta dei partigiani almoravidi, segnò tuttavia l'ultima fase trionfante della potenza almohade. Il regno del suo successore, Muḥammad al-Nāṣir, conobbe l'inizio del declino politico almohade, simboleggiato dalla sconfitta del 1212 a Las Navas de Tolosa contro gli eserciti cristiani al comando di Alfonso VIII. L'impero fu scosso da ribellioni di città e defezioni di alleati, e corroso dall'inarrestabile decadenza delle strutture politiche e amministrative, finché il califfo al-Ma'mūn (1227-1232) decretò, nel 1232, l'abbandono dell'eterodossa dottrina almohade che sosteneva l'infallibilità del Mahdī, ossia del califfo almohade. Tale iniziativa permetterà il riallineamento dell'Islam maghrebino all'ortodossia sunnita d'indirizzo malikita, che aveva riconquistato l'egemonia dottrinale dell'Islam mediterraneo dell'epoca, come reazione alle deviazioni ereticali e all'espansione dello sciismo del secolo precedente. Di questo ritorno all'ordine, e del potere censorio riconosciuto ai giureconsulti malikiti nel territorio almohade faranno le spese, fra gli altri, i mistici Ibn al-῾Arabī e Ibn Sab῾īn. Quest'ultimo, stabilitosi a Ceuta, sulla sponda nordafricana dello stretto di Gibilterra, ricevette proprio da al-Rashīd, successore di al-Ma'mūn, l'invito a rispondere alle questioni filosofiche inviate da Federico II di Sicilia, ma fu costretto pochi anni dopo ad abbandonare il territorio almohade, sotto le pressioni dei giureconsulti malikiti.
Il ritorno all'ortodossia non scongiurò tuttavia la secessione già in atto del governatore dell'Ifriqiyya, appartenente alla famiglia hafside, che nel 1229 si dichiarò indipendente, mentre gli abdelwadidi, in origine alleati tribali degli almohadi, dettero vita a un regime fondato sulla città di Tlemcen, nell'attuale Algeria occidentale, e i marinidi, anch'essi turbolenti alleati berberi, cominciarono a conquistare l'una dopo l'altra le grandi città del Maghreb estremo, fino a impadronirsi, nel 1269, di Marrakesh, ponendo così definitivamente termine alla dominazione almohade.
Dei regni generati dalla fine dell'impero almohade, quello hafside ebbe il maggiore rilievo storico. La dinastia hafside discendeva da uno dei più stretti compagni del profeta almohade Ibn Tūmart, lo sceicco berbero Abū Hafs ῾Umar, che ne aveva ricevuto, fra le varie onorificenze, il governo dell'Ifriqiyya. La gestione autorevole e indipendente del potere da parte di Abū Hafs e dei suoi figli scatenò la censura del primo califfo almohade ῾Abd al-Mu'min e dei suoi successori, che a più riprese sottrassero alla famiglia hafside il controllo sull'Ifriqiyya. Nel 1229, tuttavia, una serie di ribellioni costrinse l'allora califfo al-Ma'mūn a inviarvi come governatore Abū Zakariyyā' Yaḥyā, nipote di Abū Hafs. Questi, dopo aver ripreso il controllo della provincia, prese a pretesto il ripudio della dottrina almohade da parte di al-Ma'mūn per disconoscerne l'autorità e proclamare, dal 1236, la propria sovranità sull'Ifriqiyya, ponendo la capitale del nuovo regime a Tunisi. Dopo un periodo di consolidamento militare, a seguito del quale marinidi e abdelwadidi riconobbero la sovranità di Abū Zakariyyā', il regime hafside conobbe una lunga epoca di pace che ne favorì la rapida crescita economica.
Il commercio europeo aveva preso piede in Nor-dafrica fin dalla prima metà del sec. XII, autorizzato e regolamentato dagli almohadi, e a Tunisi era stato stipulato uno dei più antichi trattati di navigazione arabo-cristiani, quello con Pisa, nel 1157. Amalfitani, genovesi, veneziani, siciliani e marsigliesi stabilirono a loro volta convenzioni con Tunisi e le altre città della costa, trattando direttamente con il governatore hafside. Un progresso decisivo fu compiuto quando Federico II stipulò, nel 1221, un trattato con l'allora governatore hafside Abū Isḥāq Ibrāhīm, negoziato dal suo ambasciatore Ribaldo, nel quale si prescriveva la reciproca liberazione di tutti i prigionieri non convertiti, una pace decennale e la cessazione della pirateria cristiana, il diritto reciproco di commerciare, la sicurezza delle rotte fra Ifriqiyya e Sicilia e quella dei porti, nonché, per Federico, il possesso dell'isola di Pantelleria, in cambio dell'autonomia amministrativa e giuridica per i musulmani che la abitavano e del versamento agli hafsidi di metà dei tributi dell'isola.
Il nuovo emiro hafside Abū Zakariyyā', consapevole dei vantaggi del commercio con i Regni cristiani, riprese e ampliò tale politica di accordi, in aperta competizione con il regime almohade, permettendo alle colonie di mercanti europei di stabilire propri fondaci e rappresentanze consolari nei porti della costa tunisina, e stipulando trattati commerciali con la Provenza, la Linguadoca, il Regno di Aragona, le Repubbliche marinare italiane (fra le quali uno statuto privilegiato era riconosciuto a Pisa) e, soprattutto, con il Regno di Sicilia. Federico II, impegnato in un'aggressiva politica commerciale volta a proteggere il monopolio reale (v. Monopolii) sui commerci provenienti dal suo Regno e ad esso diretti nel basso Mediterraneo, in concorrenza con Genova e Venezia, trovò un alleato in Abū Zakariyyā', col quale stabilì rapporti diplomatici, probabilmente fin dalla fine della crociata da lui diretta, nel 1228-1229. Anche se non sono noti trattati siculo-tunisini anteriori al 1239, le buone relazioni fra i due sovrani sono attestate da un episodio avvenuto nel 1236, quando un giovane nipote di Abū Zakariyyā', ῾Abd al-῾Azīz, fuggì in Italia, diretto apparentemente a Roma per convertirsi. Sul suo cammino venne intercettato da Federico che lo trattenne, rifiutandosi di consegnarlo a Gregorio IX. Alle insistenze del papa, Federico obiettò che il giovane era stato 'sedotto' dalla propaganda cristiana (l'attività degli Ordini monastici, soprattutto francescani, nel Regno hafside si svolgeva infatti senza controllo da parte dell'emiro, garantita da accordi), che la sua fede era solo un pretesto e che, soprattutto, un'eventuale conversione avrebbe guastato i rapporti con gli hafsidi. L'esito della vicenda vide ῾Abd al-῾Azīz restare presso Federico, avendo rinunziato a convertirsi, nei ranghi del personale palatino di religione musulmana di stanza a Lucera.
Dal 1239, Federico inviò un proprio console a Tunisi, il trapanese Enrico Abbate, nell'intento di fare concorrenza alle rappresentanze consolari delle Repubbliche italiane; l'attrito con queste, e soprattutto con Genova e Venezia, arrivò al punto da comandare all'ammiraglio della sua flotta, Nicola Spinola, di minacciare l'emiro Abū Zakariyyā', al quale inviò nello stesso tempo una missione diplomatica, formata dal console Abbate, da Giovanni da Palermo e da Alberio di Pontremoli, per convincerlo a modificare la buona accoglienza riservata alle due Repubbliche. A questo punto Federico impose il monopolio reale sulla vendita del grano a Tunisi, estromettendone gli intermediari stranieri, e l'emiro di Tunisi accettò di corrispondergli un tributo, ovvero un censo, in cambio del diritto ad acquistare le derrate siciliane e della sicurezza delle rotte commerciali (tale tributo sarà poi ereditato dagli Angioini e resterà in vigore, non senza intervalli e contestazioni, fino al 1300). Il consolato siciliano di Tunisi era ormai così redditizio da essere oggetto di compravendita: nel 1241-1242, fu assegnato a Pietro Capuano di Amalfi, dietro pagamento di 3.000 tarì d'oro. Va anche ricordato, tuttavia, come, nello stesso anno, Oberto Fallamonica venisse inviato come ambasciatore presso l'almohade al-Rashīd, come latore delle famose questioni siciliane.
Il successore di Abū Zakariyyā', Abū ῾Abd Allāh Muḥammad (1249-1277), assunse, nel 1253, il titolo di al-Mustanṣir bi-'llāh che la tradizione riservava ai califfi e, approfittando della crisi del califfato abbaside, dell'indebolimento del regime ayyubide e del vuoto di potere nella penisola arabica, sembrò in effetti proporsi come possibile successore al califfato islamico, pretesa rafforzata dal declino del califfato almohade nel Maghreb. Una conferma di questo disegno è fornita dall'epistola ufficiale indirizzatagli nel 1259 (all'indomani della caduta di Baghdad), dagli abitanti dello Hiǧāz e scritta dal filosofo mistico andaluso Ibn Sab῾īn, che riconosceva l'autorità califfale di al-Mustanṣir, definendolo "al-Mahdī", titolo già detenuto da Ibn Tūmart. Al-Mustanṣir portò avanti una politica di spese suntuarie e di grandi opere pubbliche che si accompagnava tipicamente, secondo la tradizione islamica classica, alla volontà di fondazione di un nuovo califfato, e si propose come mecenate di letterati, funzionari e poeti, soprattutto andalusi.
Nei confronti degli stati cristiani, al-Mustanṣir proseguì la politica fondata essenzialmente sui trattati diplomatici, che vennero rinnovati o addirittura, è il caso del Regno di Aragona, rafforzati e ampliati, come testimonia la presenza di ambasciatori hafsidi al matrimonio dell'infante Filippo, nel 1258. La morte di Federico, nel 1250, sembrò invece interrompere i rapporti con il Regno di Sicilia, ma nel 1254 il papa Innocenzo IV inviò come nuovo console di Sicilia a Tunisi il figlio di Andrea Capuano, mentre nel 1266, poco prima della sua morte, Manfredi avrebbe inviato un'ambasciata a Tunisi. La continuità dei rapporti con la casa sveva ebbe tuttavia una conferma clamorosa di lì a poco, quando al-Mustanṣir, che aveva intanto offerto rifugio a vari fuoriusciti e partigiani della causa sveva, permise a Corrado Capece di organizzare, da Tunisi e con il concorso dei pisani, una spedizione in Sicilia nel 1267 con lo scopo di rafforzare la ribellione dell'isola contro gli Angioini e di sostenere Corradino di Svevia. Al buon successo militare della spedizione posero fine la sconfitta di Tagliacozzo e la morte del pretendente svevo nel 1268, così i partigiani svevi tornarono a rifugiarsi a Tunisi.
L'aiuto offerto ai ghibellini e l'indubbia simpatia dimostrata per la causa sveva, verosimilmente in nome dei rapporti di amicizia stabiliti dalla sua famiglia con Federico, non sembrarono tuttavia compromettere durevolmente le relazioni con gli Angiò. Dal 1268 vi sono testimonianze di rapporti diplomatici fra le due parti, il cui buon andamento sembra ostacolato unicamente dalla questione del tributo istituito da Federico, che gli Angioini reclamarono sempre più insistentemente fino al lancio della crociata atipica del 1269-1270, diretta da Luigi IX, fratello di Carlo d'Angiò, contro il Regno hafside, e che si concluse con un negoziato fra l'emiro e i principi angioini. L'accordo finale stabilì, fra l'altro, il pieno ripristino e la maggiorazione del tributo commerciale dovuto al Regno di Sicilia, a vantaggio degli Angioini, nonché il risarcimento di una parte delle quote arretrate.
Quanto alle province del dominio musulmano mediorientale, esse erano all'epoca sotto l'autorità, legittima o di fatto, di vari regimi militari nati dalla pratica di distribuire porzioni di territorio, con i diritti fiscali relativi, ai capi militari mercenari impiegati nella guerra e nella difesa del califfato orientale, in luogo del salario o della tradizionale pensione di guerra. I capi di questi regimi, di fede musulmana e di etnia non araba, furono quasi sempre in grado di dare vita a dinastie più o meno durature, che mantennero tuttavia un rapporto di dipendenza formale dal califfo di Baghdad o dal califfo fatimide d'Egitto. Il confronto con il potere crescente dei Regni franchi orientali e con l'oppressione che ne derivava suscitò tuttavia un sentimento di ostilità e l'appello all'unità del mondo islamico contro la presenza degli eserciti crociati, della quale si fecero interpreti, più che il califfo abbaside, l'emiro zengide di Aleppo Nūr al-Dīn, e soprattutto Salāḥ al-Dīn (Saladino), futuro sultano d'Egitto.
L'Egitto, il più grande e il più ricco stato islamico, fu dal 970 al 1171 sede del califfato fatimide, di credo sciita ismailita: alla metà del sec. XII il declino del regime fatimide appariva inarrestabile e l'impatto delle crociate, che aveva solo sfiorato il Nordafrica hafside, ne affrettò la fine. Entrato in Egitto, nominalmente per contrastare la minaccia del Regno di Gerusalemme, Salāḥ al-Dīn Yūsuf Ibn Ayyūb (1138-1193), di origine curda, ex generale del signore zengide di Siria Nūr al-Dīn, fu nominato visir dal califfo fatimide che poi depose nel 1171, dando vita alla dinastia degli Ayyubidi. La prima conseguenza di questo cambio di regime fu il ritorno dell'Egitto sotto l'autorità nominale del califfato abbaside, e la conseguente restaurazione dell'ortodossia religiosa sunnita, dopo oltre due secoli di egemonia sciita (che aveva però soprattutto riguardato l'élite dominante, mentre la massa della popolazione musulmana era rimasta sostanzialmente fedele al sunnismo). Fu soprattutto quest'ultima riforma a influenzare profondamente il revival sunnita in tutti i principali stati islamici dell'epoca, dal Nordafrica almohade alla Siria, alla penisola arabica, insieme alla diffusione dell'idea del ǧihād contro i cristiani, articolata nei trattati dottrinali e celebrata nella poesia araba e nella storiografia dell'epoca.
L'Egitto era in questa fase la potenza militare dominante fra i paesi islamici: la forza del regime ayyubide si basava su un esercito essenzialmente turco e curdo, nel quale l'elemento arabo era pressoché inesistente, e che richiedeva, fra soldo e vettovaglie, risorse finanziarie vastissime, la cui indisponibilità non tardò a mettere in crisi il regime. Saladino si dedicò pure al rafforzamento della flotta egiziana, per poter rispondere alla minaccia navale posta dalla flotta franca nell'Oriente latino, in contemporanea con lo sforzo analogo portato avanti dagli almohadi, con i quali il sovrano ayyubide tentò di stabilire un'alleanza marittima.
Saladino, come Nūr al-Dīn prima di lui, perseguì l'ideale dell'unità morale e politica del mondo musulmano, allo scopo di ritrovare la passata potenza. Se la restaurazione del sunnismo e la diffusione dell'idea di ǧihād erano tese a conseguire l'unità morale e dottrinale del mondo musulmano, l'unificazione politica e la risposta militare all'aggressione crociata implicarono invece la sottomissione dei Regni musulmani in conflitto fra di loro. La prima parte del regno di Saladino fu così spesa nello scopo di unificare sotto il suo comando l'Egitto e la Siria-Palestina. Quest'ultima, territorio centrale del dominio musulmano classico, era, alla fine del sec. XII, sotto il dominio degli Zengidi, dinastia militare di origine turca derivata dalla grande famiglia selgiuchide. Gli Zengidi, esibendo un mandato califfale, erano riusciti ad arrestare la frammentazione estrema del territorio siriano, causa principale dell'installazione dei Regni crociati. Il più energico e lungimirante di loro, il già nominato Nūr al-Dīn (1154-1174), era riuscito in particolare a congiungere il proprio disegno di espansione politica con l'appello alla lotta contro i franchi, dei quali aveva impedito l'entrata a Damasco. Il regime zengide si presentava così, nell'ultimo trentennio del secolo, come il vero potere forte dell'Islam mediorientale, erede dell'iniziativa politica e militare contro il mondo cristiano. La morte di Nūr al-Dīn, nel 1174, ne concluse tuttavia rapidamente la parabola storica: Saladino non tardò ad avanzare pretese sul territorio siro-palestinese, realizzandone la riunificazione a vantaggio della propria famiglia verso la metà degli anni Ottanta del secolo, per via militare o ereditaria, e in virtù dell'enorme ascendente sulle popolazioni musulmane ottenuto con la vittoria di Ḥaṭṭīn e la riconquista di Gerusalemme del 1187, che posero fine al primo Regno franco. Ciò nonostante, Saladino ottenne a stento e solo provvisoriamente il riconoscimento del proprio potere da parte del califfo abbaside al-Nāṣir, nominalmente ancora l'autorità assoluta nel dominio islamico.
Il suo status di muǧāhid non impedì a Saladino di ristabilire con le Repubbliche marinare italiane i rapporti commerciali già istituiti dai suoi predecessori fatimidi, attirandole con concessioni e facilitazioni, incurante delle eventuali alleanze esistenti fra queste e i franchi. Tale politica, che aveva essenzialmente lo scopo di assicurare i rifornimenti di materie prime necessari a mantenere in piedi l'esercito e la flotta, fece di Alessandria, in quest'epoca, il maggior porto del Mediterraneo, in alternativa a Costantinopoli e in concorrenza con i porti nordafricani (la spregiudicatezza di Saladino arrivò al punto da fargli affermare, in un'epistola indirizzata al califfo abbaside, di ricevere dai franchi armi da usare contro gli stessi franchi). Tuttavia, lo sforzo militare prolungato e ingente sostenuto da Saladino ne compromise alla fine il successo nella lotta ai Regni franchi orientali: in seguito alla terza crociata indetta contro di lui, Saladino fu costretto, negli ultimi tempi della sua vita, a riconoscere la necessità di una convivenza non belligerante con i Regni franchi e su questa linea proseguirono i suoi due immediati successori, al-Malik al-῾Ādil (1193-1218) e al-Malik al-Kāmil (1218-1238), entrambi impegnati in una politica singolarmente coerente di distensione e di accordi negoziali nei confronti della presenza cristiana.
La successione a Saladino esemplifica i problemi interni al regime ayyubide, come a gran parte dei regimi militari musulmani dell'epoca. Benché Saladino avesse diviso il Regno fra i propri figli, il potere finì nelle mani di suo fratello Abū Bakr Muḥammad, all'epoca l'uomo forte della dinastia, che esautorò gli inetti eredi di Saladino e pose al loro posto, alla testa delle province del dominio ayyubide, i propri figli. Abū Bakr prese quindi il titolo di al-Malik al-῾Ādil ('il signore giusto') e Sayf al-Dīn ('spada di Dio'), che le cronache crociate deformano in Saphadin, e si designò sultan, ossia detentore dell'autorità al Cairo, il centro del territorio ayyubide, per investitura del califfo abbaside di Baghdad. Al-῾Ādil perseguì una politica coerente di contenimento e di distensione nei confronti della minaccia franca, mentre si sforzò di promuovere accordi con le Repubbliche marinare italiane, e soprattutto con Venezia, dopo che la chiusura di Costantinopoli, in seguito alla quarta crociata, aveva ulteriormente rafforzato la posizione dei porti egiziani nell'ambito del commercio col Levante.
Dei figli di al-῾Ādil fu il maggiore e il più energico, Abū l-Ma῾ālī Muḥammad, a ereditare il potere ‒ coi titoli di al-Malik al-Kāmil ('il signore perfetto') e Nāṣir al-Dīn ‒ nel corso della quinta crociata (1218-1221), scatenata inopinatamente contro l'Egitto ayyubide, all'inizio della quale al-῾Ādil aveva trovato la morte. Le forze crociate entrarono a Damietta sul delta del Nilo, chiave di accesso all'Egitto, dopo un anno e mezzo di assedio durante il quale al-Kāmil aveva più volte proposto un negoziato di pace, sempre respinto dall'inviato di papa Innocenzo III, Pelagio. Poco dopo i crociati furono però clamorosamente sconfitti ad al-Manṣūra, presso Damietta, nel 1221, da un esercito formato dalle forze congiunte di tutti i principi ayyubidi fratelli di al-Kāmil, e furono costretti a ritirarsi, negoziando la pace con al-Kāmil.
Nonostante il trionfo di al-Manṣūra, al-Kāmil fu costretto, negli anni successivi, a concentrare le proprie energie nelle guerre di successione che lo opposero ai suoi fratelli, in particolare all'emiro di Damasco, al-Mu῾aẓẓam, e ad al-Ashraf, emiro della Ǧazīra (l'Alta Mesopotamia, a nord del territorio compreso fra Tigri ed Eufrate, oggi parte dell'Iraq).
È in questa situazione d'instabilità politica, aggravata dalla presenza in Siria dei corasmi, alleati di al-Mu῾aẓẓam, che giunse notizia della nuova crociata allestita da Federico II, per contrastare la quale al-Kāmil scelse nuovamente la strada negoziale, offrendo a Federico una rielaborazione dell'accordo già proposto nel corso della precedente crociata, che contemplava la restituzione di Gerusalemme e dei Luoghi Santi. La contropartita di questo accordo, negoziato a partire dal 1226 da Fakhr al-Dīn Ibn Shaykh al-shuyūkh per conto di al-Kāmil e da Tommaso di Acerra per conto di Federico, prevedeva probabilmente, oltre all'astensione dalla crociata, l'appoggio di Federico nel conflitto che opponeva al-Kāmil ad al-Mu῾aẓẓam, col quale l'imperatore svevo aveva peraltro intrapreso, ma senza successo, negoziati autonomi.
La morte improvvisa di al-Mu῾aẓẓam, nel novembre 1227, permise ad al-Kāmil di avanzare pretese su Damasco e la Siria, diminuendo notevolmente l'interesse dell'accordo preventivo con Federico, il quale decise allora di lanciare la crociata e, alla fine di giugno 1228, s'imbarcò con una piccola flotta alla volta di Acri, in Siria, deciso probabilmente a fare pressione sul sultano egiziano. Le divisioni interne al campo cristiano e la debolezza intrinseca della posizione di Federico, scomunicato da Gregorio IX, spinsero tuttavia al-Kāmil a ritardare la conclusione dell'accordo, nonostante un reciproco scambio di doni e di ambasciate che offrì a Federico l'occasione di sottoporre ai sapienti musulmani una serie di quesiti su vari soggetti matematici e scientifici. Quando Federico decise di marciare su Gerusalemme, la cui sovranità egli rivendicava, al-Kāmil, ancora impegnato nell'assedio di Damasco, si decise a riprendere le trattative, giungendo a quella che fu considerata nel mondo musulmano una delle più rovinose sciagure per l'Islam, e che suscitò altrettanto scandalo dal lato cristiano, ossia la pace di Giaffa del febbraio 1229, negoziata probabilmente da Fakhr al-Dīn per conto del sultano d'Egitto. Il contenuto dell'accordo, il cui testo completo non ci è stato tramandato, può essere desunto dalle citazioni nelle fonti storiche e diplomatiche contemporanee: i punti principali stabilivano la cessione di Gerusalemme a Federico per dieci anni, verosimilmente senza diritto di fortificarla; il rispetto dei Luoghi Santi dei musulmani, la libertà e la sicurezza del culto al loro interno ‒ garantiti da una debole presenza militare ‒ e la sicurezza dei pellegrinaggi; il diritto dei musulmani a essere giudicati dai loro tribunali in Gerusalemme; l'impegno di Federico a non intervenire a fianco dei franchi, nel caso di conflitti con il sultano egiziano, a difendere da aggressioni cristiane il territorio interessato dalla tregua, per tutta la sua durata, e a contrastare militarmente le eventuali violazioni franche; le cittadelle dei Templari e degli Ospitalieri, nonché Tripoli e Antiochia, dovevano restare in statu quo ante, l'imperatore impegnandosi a non prestare loro alcun aiuto e a impedire che ne ricevessero da parte cristiana.
Al-Kāmil spese gli anni successivi nel consolidamento del proprio regime dinastico, mirando a espandere la sua autorità sulla Siria, affidata al fratello al-Ashraf, e concependo il disegno di subentrare al declinante potere selgiuchide in Asia Minore. Le sue mire furono tuttavia ostacolate da al-Ashraf e dagli altri principi ayyubidi: la guerra fratricida, sul punto di scoppiare nel 1237 a causa della successione all'emirato di Aleppo, fu tuttavia annullata dalla morte di al-Ashraf nello stesso anno, seguita l'anno dopo da quella di al-Malik al-Kāmil, che era tuttavia riuscito, prima di morire, a occupare Damasco, restituendola al dominio del proprio ramo dinastico.
Gli avvenimenti successivi furono dominati dalle conseguenze di dinamiche iniziate nei territori più orientali del dominio musulmano o addirittura fuori dei suoi confini, e che ne avrebbero cambiato radicalmente, venti anni dopo, gli equilibri geopolitici. Il califfo abbaside al-Nāṣir li-Dīn allāh (1180-1225), l'ultimo ad aver concepito un disegno politico di rifondazione del califfato islamico unitario, aveva infatti richiesto l'aiuto del Khwārazm-Shāh (v. Corasmi) contro il declinante sultanato selgiuchide, che costituiva la principale istanza antagonista del califfato. L'intervento del Khwārazm-Shāh tuttavia si era rivelato ben presto assai più oneroso del previsto e contro questa nuova potenza nascente al-Nāṣir aveva richiesto l'aiuto dei persiani ghuridi, quindi, quando i corasmi mossero contro Baghdad nel 1219, quello dei mongoli, con la probabile mediazione dei cristiani nestoriani iracheni.
Il califfo non tardò a rendersi conto dell'errore commesso, dichiarando ǧihād tanto la lotta contro i corasmi quanto quella contro i mongoli, ma gli ayyubidi di Siria rifiutarono di rispondere all'appello, senza dubbio memori dell'analoga indifferenza mostrata dal califfo in occasione della quinta crociata. In questo modo, le due nuove potenze militari avrebbero giocato un ruolo di ago della bilancia negli avvenimenti politici dei trent'anni successivi, a partire dalla difficile successione ad al-Kāmil, contesa fra i suoi due figli, al-῾Ādil II e al-Sālih. Quest'ultimo, al quale il padre aveva destinato la Siria, fu respinto dagli ayyubidi siriani, mentre gli emiri del Cairo gli offrirono l'Egitto, che era invece stato dato ad al-῾Ādil II. I principi siriani impedirono tuttavia ad al-Sālih di rivendicare la sua autorità sull'Egitto, temendone probabilmente la potenza, e lo detennero brevemente. Quando, nel 1240, gli ayyubidi del Cairo deposero al-῾Ādil, al-Sālih entrò in possesso dell'Egitto e di parte della Ǧazīra.
L'invasione della Siria da parte di bande di corasmi, che vi erano stati sospinti dall'incalzare dei mongoli e forse attirati da al-Sālih, fece sì che i principi ayyubidi di Siria si alleassero con i franchi, ai quali resero interamente Gerusalemme con il diritto di stabilirvi fortificazioni, venendo meno alle condizioni di relativa tolleranza stabilite da Federico II. Contro quest'alleanza si scatenò la reazione dei corasmi, manovrati da al-Sālih, che, nel 1244, si abbatterono sulla città massacrandovi i cristiani. L'anno successivo al-Sālih rientrò in possesso della Siria, dove riorganizzò le forze ayyubidi per scacciarne gli incontrollabili alleati corasmi, ai quali sostituì prigionieri turchi di sua assoluta fedeltà, i mamelucchi (dall'arabo mamlālik, 'proprietà personali'). In apparenza, il sultano ayyubide era così riuscito nell'intento di riunire sotto il comando del proprio ramo dinastico l'Egitto e la Siria, ma, di nuovo, l'intervento delle due forze esterne che minacciavano la regione, i franchi e i mongoli, fece precipitare gli eventi: nel 1249 ebbe infatti inizio la crociata di Luigi IX, suscitata dall'orrore dei massacri di Gerusalemme, nel corso della quale al-Sālih morì. La resistenza e la vittoria finale, nel 1250, con la cattura di Luigi IX, furono interamente l'opera del reggimento mamelucco, al comando di Baybars, che ne ricavò enorme potere. Quando il giovane principe ereditario, Tūrānshāh, cercò di liberarsi dal giogo dei suoi pretoriani, ne venne eliminato, e al suo posto prese il potere il capo dei mamelucchi, prima come reggente in vece di un principe ayyubide minorenne, quindi come consorte della madre di Tūrānshāh, ponendo così fine al potere ayyubide in Egitto. In Siria, il gruppo di potere ayyubide si riunì allora intorno al principe di Aleppo, al-Nāṣir Yūsuf, che si rivelò tuttavia incapace di rivendicare la sovranità sull'Egitto: nel 1253, questa fu riconosciuta al regime mamelucco del Cairo dall'ultimo califfo abbaside di Baghdad, al-Musta῾ṣim.
La fine del regime ayyubide si compì nel giro di circa quindici anni: nel 1244 erano iniziate le prime incursioni dei mongoli in territorio ayyubide, senza alcuna reazione da parte di al-Nāṣir Yūsuf; dopo l'invasione di Baghdad e l'esecuzione di al-Musta῾ṣim, nel 1258, i mongoli s'impadronirono anche di Aleppo e di Damasco. Quando al-Nāṣir venne a consegnarsi nelle mani di Hülagü, questi lo fece giustiziare, dopo aver appreso della sua partecipazione alla battaglia di ῾Ayn Ǧalūt in Palestina, nel 1260, grazie alla quale i mamelucchi e i loro alleati avevano fermato l'avanzata mongola verso ovest. Fu questa la fine dello stato ayyubide siriano e del regime dinastico istituito da Saladino: di fronte alla scomparsa delle tradizionali istanze legittimanti e alla radicale discontinuità delle nuove forze in gioco, si vanificò la pretesa di governare ampi territori del dominio islamico per delegazione dell'autorità universale del califfato arabo-islamico, che era stata la principale dinamica politica del secolo precedente, e questo permise la formazione di regimi fondati su nuovi equilibri politici e sociali.
fonti e bibliografia
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