Nazionalismo
Nel linguaggio politico e nel lessico delle scienze storico-sociali il termine 'nazionalismo' viene abitualmente impiegato per indicare fenomeni di natura e di scala assai diverse. Con esso, infatti, si fa di volta in volta riferimento al processo storico complessivo della formazione dello Stato nazionale; all'insieme delle idee, delle teorie e delle ideologie che in vario modo affermano il principio del valore eminente della 'nazione'; ai movimenti organizzati e ai partiti che sulla base di tali teorie progettano di fondare, di consolidare o di espandere il proprio Stato nazionale; a uno specifico sentimento di appartenenza, che può essere altresì 'naturale' o 'costruito'; e ancora, a un complesso di meccanismi di comunicazione e di integrazione sociale che svolgono una funzione decisiva nei processi di modernizzazione.
La parola è stata anche utilizzata in relazione a differenti epoche storiche. Se vi è, infatti, un generale consenso nel collocare gli inizi dell''età del nazionalismo' intorno alla seconda metà del XVIII secolo, non sono mancati tentativi di retrodatare tali inizi all'età del Rinascimento, di post-datarli alla svolta del 1870, oppure ancora di individuarne tracce significative nel Medioevo o nell'epoca dell'antico Israele. Rispetto alla stessa storia degli ultimi due secoli, infine, il termine sembra implicare una vera e propria coincidentia oppositorum (v. Winkler, 1985). Esso è stato associato nel medesimo tempo alle lotte di liberazione nazionale che si svolsero nell'Europa dell'Ottocento e ai disegni di oppressione e di conquista che sconvolsero il pianeta nel secolo delle due guerre mondiali; alle politiche imperialistiche delle grandi potenze europee e alle ideologie antimperialistiche delle nazioni emergenti del Terzo Mondo; a partiti di 'destra' e di 'sinistra'; a movimenti razzisti e democratici; a orientamenti reazionari e progressisti; a personaggi come Herder, Fichte, Mazzini e Wilson o come Corradini, Maurras, Mussolini e Hitler.
Prima di fissare i caratteri fondamentali del nazionalismo e di analizzare i tempi e i ritmi del suo sviluppo, è quindi necessario ricostruire la storia di una parola che è divenuta nel corso del tempo eminentemente polisemica. Come vedremo, ciò significa seguire il percorso estremamente complesso e a tratti frammentario di un termine-concetto che dal linguaggio normativo delle passioni politiche si è progressivamente introdotto nel vocabolario delle scienze storico-sociali. Almeno in parte, poi, la storia della parola è già una storia della cosa.
A differenza del termine nazione che fu coniato già in epoca romana, la parola nazionalismo è una creazione relativamente recente. Prima del XVIII secolo essa fu impiegata in rarissimi casi per indicare le nationes universitarie, vale a dire le corporazioni di studenti e professori in cui erano tradizionalmente suddivisi, sin dal Medioevo, i grandi atenei europei. In questo senso Nationalismus viene menzionato nello Hübner-Staats-Lexicon del 1704 (v. Kemiläinen, 1964; v. Smith, 1971; v. Koselleck e altri, 1992). Il termine ricompare poi nella seconda metà del XVIII secolo, in relazione a un concetto ormai compiutamente moderno di nazione. Lo si ritrova dapprima in un breve ma fondamentale passo di Ancora una filosofia della storia per l'educazione dell'umanità di J.G. Herder (1774), poi in uno scritto dell''illuminato' bavarese Adam Weishaupt (1787) e quindi, alla vigilia del nuovo secolo, nei Memoires pour servir à l'histoire du jacobinisme dell'abate Barruel (1798). Nel primo di questi testi Herder impiega la parola nazionalismo in un'accezione decisamente peggiorativa, unendo al sostantivo Nationalism (sic) l'aggettivo eingeschränkt (gretto, limitato). Non è peraltro chiaro il contesto preciso di questo uso linguistico. Secondo Federico Chabod (v., 1961) Herder avrebbe qui "crea[to] la parola nazionalismo" per indicare il complesso di quei "pregiudizi nazionali" che nel suo schema rendono i popoli felici, saldi e fiorenti (v. anche Viroli, 1995). Da una nuova lettura del testo emerge tuttavia un quadro almeno in parte diverso, su cui ha recentemente insistito Guido Franzinetti (v., 1996): lungi dal coniare una nuova parola, con l'espressione "gretto nazionalismo" Herder avrebbe inteso stigmatizzare ironicamente un uso spregiativo del termine probabilmente già consolidato prima del 1774. Se si prescinde tuttavia da Von dem deutschen Nationalgeist di Friedrich Carl von Moser (1766), dove compare l'espressione nationalistische Fühlung (v. Siccardo, 1984), di tale uso non si conoscono precedenti esempi. È altresì nel senso negativo criticato da Herder che la parola Nationalismus riappare in uno scritto di Adam Weishaupt del 1787, ripubblicato poi in una seconda edizione nel 1793. "Con la nascita delle nazioni e dei popoli - vi si legge - il mondo ha cessato di essere una grande famiglia, un unico impero: il grande legame della natura è stato distrutto [...]. Gli uomini hanno smesso di riconoscersi sotto un nome comune [...] e il nazionalismo ha preso il posto dell'amore per l'umanità [...]. Fu allora permesso di disprezzare gli stranieri, di ingannarli e di offenderli. E una simile virtù fu chiamata patriottismo". Questo passo fu citato testualmente, ma in chiave fortemente polemica, nei Memoires di Augustin Barruel, a cui è stata per qualche tempo erroneamente attribuita la paternità del termine (v. Godechot, 1970; per contro v. Bertier de Sauvigny, 1970; v. Franzinetti, 1996). Furono peraltro proprio i Memoires - presto tradotti in inglese, italiano, tedesco, portoghese, spagnolo, polacco e olandese - a fissare nelle principali lingue europee quel significato peggiorativo che abbiamo incontrato per la prima volta, sebbene in un contesto critico, nell'opera di Herder.
Nel corso del XIX secolo la parola entrò nel linguaggio corrente, ma con grandi difficoltà e, in ogni caso, soltanto a partire dagli anni trenta-quaranta. Secondo l'Oxford English Dictionary in Inghilterra essa comparve per la prima volta nel 1844, come sinonimo di 'egoismo nazionale'. In Germania, invece, essa non è riportata né dall'Allgemeines Handwörterbuch der philosophischen Wissenschaften di W.T. Krug (1828), né dal Deutsches Staatswörterbuch di J.K. Bluntschli (1862), né dal Deutsches Wörterbuch di J.W. Grimm (1889), che pure riportano un gran numero di derivati del termine nazione. In Francia la parola è registrata dal Larousse nel 1874 come un neologismo, mentre non compare ancora nel Littré del 1866. Essa fu in verità impiegata già nel 1813 dal giornalista e patriota tedesco Rudolf Zacharias Becker in un memorandum redatto per rispondere alle accuse mossegli dai tribunali napoleonici, ma si tratta di un caso precoce e isolato, in cui tra l'altro la parola viene utilizzata in senso positivo, come sinonimo di patriottismo, senza alcuna relazione con l'uso fissato da Herder, Weishaupt e Barruel. Fu altresì il vecchio Metternich, in una conversazione con il cattolico ultramontano Louis Veuillot (v., 1860) avvenuta a Bruxelles intorno alla metà del secolo, ad attestare un uso almeno relativamente diffuso della parola nationalisme in Francia. In quel contesto, anzi, egli suggerì al suo interlocutore un principio più generale affermando che "quando la lingua francese aggiunge la desinenza isme a un sostantivo essa tende a caricare la cosa menzionata di un'idea di disprezzo e di degradazione" - una tesi, questa, che lo stesso Veuillot riconfermò nei suoi Mélanges citando una lettura del controrivoluzionario spagnolo Donoso Cortés. Di un simile uso, tuttavia, non possediamo precisi riscontri. E la circostanza è almeno apparentemente strana nel paese di Barruel e della grande nation. Bertier de Sauvigny ha avanzato in proposito un'ipotesi convincente, e cioè che, proprio in ragione della sua valenza tipicamente negativa, la parola nationalisme stentò ad affermarsi là dove gli eventi straordinari della grande Rivoluzione avevano conferito alla parola nazione - si pensi solo a Sieyès e alla Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789 - un significato quasi sacro.
Nationalisme e poi 'nazionalismo' conobbero quindi una maggiore diffusione al di là dei confini francesi. Essi vennero infatti ripetutamente e consapevolmente impiegati da Giuseppe Mazzini per indicare una forma patologica, degenerata e pericolosa del legittimo "sentimento di nazionalità": così, per la prima volta, in un articolo pubblicato su "La jeune Suisse" nel marzo del 1836, e poi nuovamente in un testo del 1848, dove si contrappone in modo esplicito l'"esprit de nationalisme" all'"esprit de nationalité". Ancora nel 1861, in un contesto molto simile a quello che abbiamo incontrato nello scritto herderiano, Mazzini scriveva che la Germania non deve coltivare "un gretto nazionalismo", una brutale politica di espansione ai danni del diritto di tutti i popoli alla libertà, ma solo il proprio patrimonio spirituale e morale. Un'affermazione questa - sia detto per inciso - che rende meno netta la distinzione introdotta da Chabod (v., 1961) fra l'idea di nazione propria della tradizione franco-italiana (da Mazzini a Renan) e quella propria della tradizione tedesca (da Herder a Hitler).
Tra XIX e XX secolo, nel contesto più generale dell'età dell'imperialismo, furono soprattutto i movimenti della destra radicale ad appropriarsi del termine nazionalismo. A esso, tuttavia, fu conferita allora una valenza positiva: così ad esempio da Maurice Barrès e da Charles Maurras, da Enrico Corradini e, poi, dal fascismo italiano e dal nazismo tedesco, il quale peraltro rimase soprattutto legato alle retoriche della razza e del popolo inteso in senso etnico, al Volk più che alla Nation. Classica la formulazione corradiniana: "Certamente anche noi vogliamo essere buoni Italiani, e se il patriottismo significa amor di Patria, anche noi siam patrioti. [...] Ma con tutto ciò il nazionalismo è qualcosa di diverso dal patriottismo. È anzi, sotto un certo aspetto, l'opposto [...]. Il patriottismo è altruista, il nazionalismo è egoista. Non godano i perfetti borghesi a sentirci confessare il nostro egoismo, perché tutto abbiamo di diverso da loro, e soprattutto l'egoismo. Ma certo il nazionalismo è egoista. È l'egoismo dei cittadini rispetto alla nazione" (v. Corradini, 1911).
Dopo Marx - che non colse ancora il significato dirompente che le questioni nazionali avrebbero assunto verso la fine del secolo e che interpretò di conseguenza tali questioni alla stregua di fenomeni rilevanti ma premoderni, destinati cioè a esaurirsi nel corso della transizione dal capitalismo alla società senza classi - nel movimento socialista la parola mantenne la sua tradizionale valenza peggiorativa. Essa fu anzi spesso utilizzata - soprattutto nell'epoca della Seconda Internazionale - per stigmatizzare gli stessi avversari interni al partito. In Inghilterra, al contrario, nationalism iniziò ad assumere un significato positivo o quantomeno neutrale già verso la fine del secolo, probabilmente - com'è stato osservato - in relazione all'emergere della questione irlandese (v. Franzinetti, 1996).
Dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale il termine si è nuovamente caricato di pesanti connotazioni negative. Peraltro non dappertutto. Nel quadro dei processi di decolonizzazione e della lotta antimperialistica delle nazioni emergenti, esso ha spesso acquisito il significato positivo che Mazzini attribuiva al concetto di nazionalità. Esemplare, in questo senso, un intervento accademico del birmano Htin Aung, rettore dell'Università di Rangoon (il testo è del 1955): "Se il nazionalismo va oltre i suoi limiti, distruggendo altre nazioni, allora non è più nazionalismo. Il nazionalismo è come la libertà. Si ama la libertà solo se non si apprezza soltanto la propria, ma anche quella degli altri. Il nazionalismo è il nemico dell'imperialismo" (cit. in Lemberg, 1964).
Nella lingua inglese e nella cultura angloamericana, invece, nationalism è rimasta una parola priva di implicazioni normative, che indica in modo generico e puramente descrittivo il complesso delle dottrine e dei movimenti orientati in senso nazionale. Nelle principali lingue dell'Europa continentale infine - in tedesco, in francese e in italiano -, il termine ha mantenuto, in qualche caso rafforzandole, le tradizionali connotazioni peggiorative delle origini e tende quindi a designare una condizione surriscaldata, esasperata e in alcuni casi 'patologica' della coscienza o della politica nazionale.
Contemporaneamente a questi sviluppi - ma soltanto a partire dagli anni venti e trenta del XX secolo - le scienze storico-sociali hanno iniziato a occuparsi in maniera sistematica del problema del nazionalismo. Fin dal principio, tuttavia, esse hanno impiegato la parola nazionalismo in un senso assai ampio e per ciò stesso neutrale. In questa prospettiva l'opera di Carlton J.H. Hayes - il primo dei grandi 'padri fondatori' dello studio scientifico del nazionalismo - ha un'importanza fondamentale. In essa, infatti, nationalism viene a indicare idee e principî di valore opposto da un punto di vista normativo: così negli Essays on nationalism (1926), dove il termine è riferito al più puro e sincero patriottismo e nello stesso tempo allo spirito di intolleranza, al militarismo e all'imperialismo; così, ancora, nel saggio Two varieties of nationalism (1928), in cui la medesima opposizione viene per così dire storicizzata nella duplice categoria del "nazionalismo originario" e del "nazionalismo derivato"; e così, soprattutto, in The historical evolution of modern nationalism (1931), dove compare la tipologia divenuta poi classica del nazionalismo "umanitario" (Bolingbroke, Rousseau, Herder), "giacobino" (Robespierre), "tradizionale" (Burke, Bonald, Schlegel), "liberale" (Bentham, Humboldt, von Stein, Guizot, Mazzini, Cavour), "integrale" (Maurras, Barrès, Mussolini, Treitschke) ed "economico" (List, ma più in generale i fautori di politiche protezionistiche, autarchiche e poi imperialistiche).
Per quanto ci risulta, a prescindere da una schematica tipologia dei "sentimenti nazionalisti" elaborata dal politologo Max Sylvius Handman nel 1921, di una così radicale relativizzazione e neutralizzazione della parola non esistono tracce prima di Hayes. Certo, come abbiamo già visto, nella lingua inglese nationalism iniziò ad assumere valenze in qualche modo neutrali già verso la fine del secolo XIX. All'epoca degli Essays, tuttavia, nel linguaggio dominante delle passioni politiche 'nazionalismo' indicava principalmente una politica di egoismo nazionale. E ciò sia per gli 'apostoli della nazionalità' alla Mazzini, che la deprecavano, sia per i nazionalisti come Maurras, Barrès e Corradini, che ne esaltavano invece le virtù. Il fatto che Hayes abbia associato alla parola nationalism non soltanto ciò che Mazzini e Corradini intendevano per nazionalismo, ma anche il suo contrario - l'"esprit de nationalité" del primo e il "patriottismo" del secondo - segna senza dubbio, quantomeno dal punto di vista terminologico, una svolta di grande rilievo, le cui ragioni si possono ascrivere tanto all'esigenza metodologica di una maggiore neutralità scientifica quanto all'esperienza concreta e drammatica della prima guerra mondiale e, quindi, delle ambiguità storicamente connesse alla realizzazione del principio wilsoniano dell'autodeterminazione dei popoli.
Sta di fatto, comunque, che da allora in avanti nella letteratura scientifica il termine nazionalismo si è complessivamente spoliticizzato, è divenuto una parola priva di connotazioni normative forti. Nello stesso tempo, tuttavia, esso è diventato un concetto estremamente articolato e complesso. Esso non si riferisce più soltanto a un insieme variamente consapevole ed elaborato di idee e di teorie che possono poi iscriversi in costellazioni di significato e di valore radicalmente differenti. Ma indica anche - ed è questa l'altra fondamentale novità introdotta da Hayes - fenomeni strutturalmente eterogenei quali il processo storico concreto della formazione dello Stato nazionale, una disposizione d'animo più o meno cosciente degli individui e delle collettività e, ancora, i movimenti organizzati che pongono al centro di programmi politici coscientemente e coerentemente perseguiti le più diverse teorie della nazione e dello Stato nazionale: un complesso di fenomeni, in breve, suscettibili di essere fissati in definizioni, interpretazioni, classificazioni e cronologie assai differenti le une dalle altre.
È per l'appunto nel segno di questa accezione larga, spoliticizzata e articolata della parola che si è venuta svolgendo, negli ultimi settant'anni, la ricerca accademica e scientifica sul nazionalismo. Per Hans Kohn (v., 1944 e 1962) - che è considerato il secondo padre fondatore di questa letteratura - esso rappresenta in primo luogo uno "stato d'animo che permea la grande maggioranza di un popolo e che pretende di permeare tutti i suoi membri". In questo senso, se il nazionalismo diventa una forza storica operativa e consapevole nell'epoca di Rousseau e di Herder, della Rivoluzione americana e della Rivoluzione francese, della democrazia e dell'industrialismo, esso ha comunque una preistoria frammentaria ma assai significativa che dall'epoca dell'antico Israele giunge fino all'età dell'illuminismo, quando il nazionalismo moderno inizia a legare i suoi destini ai due diversi percorsi delle società aperte, pluralistiche e liberali dell'Europa occidentale e delle società chiuse, autoritarie e conservatrici dell'Europa centro-orientale. Anche per Louis L. Snyder (v., 1954 e 1968) il nazionalismo è in primo luogo uno stato d'animo, un 'sentimento politico'. Esso, tuttavia, è soprattutto una delle forze più intense e al tempo stesso più ambigue della storia degli ultimi due secoli: "una forza per l'unità" (Germania e Italia), "una forza per lo status quo" (Imperi austro-ungarico, russo e tedesco), "una forza per l'indipendenza" (Polacchi, Ucraini, Cechi, Slovacchi, Croati, Baltici e Finlandesi), "una forza per la fraternità" (irrendentismo italiano, greco, serbo, rumeno, bulgaro), "una forza per l'espansione coloniale" (Gran Bretagna, Francia, Portogallo, Spagna, Belgio, Paesi Bassi),"una forza per l'aggressione" (Germania guglielmina e poi nazista, Italia fascista, Giappone militarista), "una forza per l'espansione economica" (Stati Uniti e Unione Sovietica) e, ancora, "una forza per l'anticolonialismo' (in Asia, Africa e Medio Oriente). Per Eugen Lemberg (v., 1964) il nazionalismo è un fenomeno al tempo stesso psicologico, sociologico e storico. Esso è infatti il prodotto di un 'bisogno di appartenenza' al gruppo (v. anche Shafer, 1955 e 1972) che attiva un complesso di forze vincolanti e integrative le quali generano, attraverso diverse fasi di sviluppo, la nazione o lo Stato nazionale. In questo senso il nazionalismo è una realtà pressoché universale. Nella sua forma più matura tuttavia - vale a dire in quanto 'nazionalismo ideologico' contrapposto al 'nazionalismo primitivo' - esso inizia a manifestarsi soltanto nell'età del Rinascimento. Da allora, in epoche diverse a seconda dei differenti contesti storici, esso si sarebbe sviluppato ovunque: dapprima nella forma del 'nazionalismo risorgimentale', propria della fase del risveglio dei popoli, e poi in quella del 'nazionalismo integrale', propria della fase degli egoismi nazionali - una dicotomia, questa, che ricorda assai da vicino l'antinomia introdotta da Hayes tra il nazionalismo 'originario' e quello 'derivato'.
In una prospettiva molto diversa, Elie Kedourie (v., 1960) ha definito il nazionalismo come "una dottrina inventata in Europa all'inizio del XIX secolo" che, attraverso la fortuna di un complesso di idee filosofiche proprie della tradizione occidentale, avrebbe creato, insieme alla decisiva esperienza della Rivoluzione francese, un "nuovo stile della politica", fortemente ideologico da un lato ed estremamente ambiguo dall'altro. Allo stesso modo, per Maurizio Viroli (v., 1995) il nazionalismo è un sistema più o meno coerente di idee. Più esattamente: è un 'linguaggio' politico tipicamente moderno che ha progressivamente oscurato - dalla seconda metà del XVIII secolo fino alla seconda guerra mondiale - il linguaggio apparentemente molto simile, ma in realtà profondamente diverso, del patriottismo repubblicano. Per Miroslav Hroch (v., 1985) e per Eric J. Hobsbawm (v., 1990), ancora, il nazionalismo costituisce rispettivamente un fenomeno derivato rispetto all'esistenza storica e concreta delle nazioni e - esattamente al contrario - una realtà politica, un programma che 'costruisce' quegli oggetti artificiali che sono le nazioni stesse. Per entrambi, tuttavia, la storia del nazionalismo è innanzitutto la storia dei gruppi politici che hanno sviluppato in varie forme l'agitazione patriottica e i movimenti nazionalistici di massa. Per Ernest Gellner (v., 1983), infine, il nazionalismo è "un principio politico che sostiene che l'unità nazionale e l'unità politica dovrebbero essere perfettamente coincidenti".
Al di là delle tradizionali distinzioni tra nazionalismi 'universalistici' ed 'egoistici' e sulla scorta dell'importante studio di Karl W. Deutsch (v., 1953), esso è soprattutto una funzione specifica dei processi di modernizzazione: impensabile nelle società agricole tradizionali (le società 'agro-letterate') e per contro indispensabile - come principio di integrazione sociale e di legittimazione politica - nelle moderne società industriali di massa.Questa rapida rassegna di alcune tra le più rilevanti definizioni e classificazioni del nazionalismo non esaurisce in alcun modo il quadro estremamente articolato e in continua espansione della letteratura scientifica sull'argomento. A essa si dovrebbero infatti aggiungere ancora - per citare solo alcuni nomi - i lavori ormai classici di Boyd C. Shafer (v., 1955 e 1972), di Anthony D. Smith (v., 1971 e 1986), di Hugh Seton-Watson (v., 1977), di John Breuilly (v., 1982), di August Winkler (v., 1985), di Theodor Schieder (v., 1991), di Benedict Anderson (v., 1983), di Peter Alter (v., 1985), di Walker Connor (v., 1994) e di Hagen Schulze (v., 1994). E si dovrebbe ancora fare riferimento alle classificazioni elaborate dallo psicologo Gustav Ichheiser (v., 1941) e da sociologi come Louis Wirth (v., 1936) e Konstantin Symmons-Symonolewicz (v., 1965). Per non parlare poi dello sterminato numero di studi e ricerche sulle varie vicende nazionali dei nazionalismi vecchi e nuovi, che assai spesso introducono elementi di riflessione di carattere più generale - come accade ad esempio nel già citato lavoro di Hroch, che ha per oggetto i movimenti di liberazione nazionale europei di piccole dimensioni.
In questo contesto tuttavia - vale la pena di ribadirlo - era soprattutto necessario mostrare: a) come le scienze storico-sociali abbiano fatto sin dal principio un uso tipicamente neutrale e spoliticizzato del termine nazionalismo; b) come un tale uso della parola - per quanto poi ridefinita, aggettivata e riclassificata - non corrisponda affatto, se non nella lingua inglese, né al linguaggio inevitabilmente normativo della politica degli ultimi due secoli, né alla percezione comune che soprattutto in questo secolo si è avuta e si continua ad avere dei nazionalismi; c) come nella letteratura scientifica il concetto di nazionalismo abbia assunto significati estremamente diversi a seconda che si siano ricostruite la storia o le logiche di un'idea, di un movimento politico, di un sentimento di appartenenza o, ancora, del processo più generale della formazione dello Stato nazionale.
Sulla base di questa letteratura ma, nello stesso tempo, di una definizione in qualche modo meno larga di quelle che abbiamo sinora indicato, nel capitolo che segue fisseremo schematicamente i caratteri fondamentali del nazionalismo considerando soprattutto i tempi e i ritmi del suo sviluppo nella storia degli ultimi due secoli.
Come si è detto in principio, vi è un generale consenso sul fatto che il nazionalismo costituisce un fenomeno tipicamente ed esclusivamente moderno. In effetti, nel senso ampio che abbiamo sinora incontrato nella letteratura e a maggior ragione in quello più ristretto che qui ci interessa, affinché esso iniziasse a dispiegare la sua straordinaria efficacia storica dovevano svilupparsi alcuni decisivi presupposti, variamente collegati l'uno all'altro e tali da indurre radicali trasformazioni nella sfera dei comportamenti collettivi.
Il primo e il più ovvio di questi presupposti è lo sviluppo di una moderna idea di nazione che, attraverso percorsi complessi e differenziati, giunse a compimento nella seconda metà del XVIII secolo, con le filosofie di Herder e di Rousseau. Il secondo presupposto - su cui ha insistito soprattutto Ernest Gellner ma su cui aveva già posto l'accento, seppure in termini diversi, Hans Kohn - è la crisi terminale delle società cetuali e agro-letterate della vecchia Europa e, in prospettiva, la progressiva affermazione delle moderne società industriali di massa. Il terzo presupposto - che vale in verità soprattutto rispetto al modello rousseauiano di nazione, ma che dopo la Rivoluzione francese doveva legarsi indissolubilmente e problematicamente al principio dell'autodeterminazione nazionale - è il progressivo trionfo dei principî della sovranità popolare e della democrazia, che doveva stabilire un legame strutturale tra il concetto di popolo e quello di nazione. Il quarto presupposto infine - su cui ha fissato recentemente l'attenzione Jean-Luc Chabot (v., 1986; v. anche Winkler, 1985) - è il più generale processo di secolarizzazione del mondo e di ogni forma di agire associato, che, producendo tra l'altro la crisi definitiva delle formule della monarchia assoluta di diritto divino, creò lo spazio per nuove forme di legittimazione del potere, a cui doveva rispondere la concatenazione di nazione, democrazia e sovranità teorizzata in modo classico da Sieyès.
Da questi quattro punti di vista - che sono poi quelli quasi senza eccezioni universalmente richiamati nella letteratura, da Hayes a Kohn, da Shafer a Winkler, da Seton-Watson a Hobsbawm - l'età che si apre con Rousseau e Herder, con la Rivoluzione americana e la Rivoluzione francese, con l'avvento dell'industrialismo e della democrazia segna un punto di svolta davvero decisivo. È l'epoca in cui sorgono o iniziano a intravvedersi le nazioni moderne. Con le parole di Kohn, è il periodo da cui prende avvio l'"epoca del nazionalismo".
Fondamentale fu soprattutto l'esperienza della grande Rivoluzione: non soltanto perché essa fissò in maniera definitiva e irreversibile il binomio nazione-popolo e il concetto della sovranità popolare in contrapposizione alle concezioni dinastiche e territoriali dello Stato; non soltanto perché tali concetti, esportati con le armi nell'Europa di antico regime, continuarono a rimanere, anche nell'epoca della Restaurazione, un punto di riferimento decisivo per la lotta delle nazionalità emergenti; ma anche perché proprio l'avventura della Grande Nation (v. Godechot, 1956) e più in generale l'epoca napoleonica prefigurarono sotto alcuni aspetti, seppure in modo assai problematico, il nazionalismo inteso come l'ideologia espansionistica e aggressiva dello Stato-nazione.Nella storia ulteriore delle nazioni e dei nazionalismi dovevano tuttavia prodursi nuove e radicali trasformazioni.
All'idea di nazione di Rousseau e Herder, di Fichte e di Mazzini - che era ancora strutturalmente legata ai principî universalistici dell'umanità o al progetto di un'Europa dei popoli - subentrò nei teorici del nazionalismo 'integrale' il concetto ben più sinistro del 'sacro egoismo nazionale': ciò che per l'appunto sia Mazzini che Corradini definivano, senza aggettivi, 'nazionalismo'. Nello stesso tempo, come hanno mostrato Hroch e poi Hobsbawm, mutò radicalmente la struttura dei movimenti e dei gruppi nazionalistici i quali, superata la fase puramente letteraria e folclorica dei 'risvegliatori' e quella dell''agitazione patriottica' da parte delle prime minoranze militanti, riuscirono a conquistarsi un ampio seguito di massa. Nello stesso tempo, ancora, il nazionalismo divenne progressivamente l'ideologia - integrativa all'interno e aggressiva e militaristica all'esterno - di grandi e consolidati Stati di potenza. Questa triplice svolta si produsse intorno agli anni settanta del XIX secolo, dopo che la fondazione del Reich bismarckiano pose al centro dell'Europa - contro l'antica saggezza della diplomazia europea fin dall'epoca della pace di Vestfalia (1648) - uno Stato forte che doveva rendere fatalmente impossibile uno stabile equilibrio tra le grandi potenze e possibili le due guerre mondiali. È questa, per l'appunto e in senso stretto, l'epoca del nazionalismo tout court, o perlomeno del suo apogeo. Contemporaneamente a questo sviluppo dominante - strettamente vincolato alle dinamiche e ai conflitti dell'età dell'imperialismo - rimase altresì attivo un nazionalismo dell'autodeterminazione, seppure di segno più ambiguo rispetto al modello mazziniano: e ciò dapprima nell'epoca del lento declino dei grandi Imperi sovranazionali asburgico e ottomano e poi, dopo la loro dissoluzione all'indomani della prima guerra mondiale, nell'epoca wilsoniana.
Rispetto a tali trasformazioni la storia delle nazioni e dei nazionalismi tra il 1789 e il 1945 pone il problema di individuare delle scansioni che siano dotate di senso e al tempo stesso efficaci. Negli anni cinquanta L. Snyder ha individuato nella storia del nazionalismo contemporaneo quattro diverse fasi: la fase del nazionalismo integrativo (1815-1871), in cui il nazionalismo avrebbe operato come una "forza per l'unità" (così, ovviamente, nel caso dell'unificazione italiana e tedesca); la fase del nazionalismo smembrante (1871-1890), segnata dall'aspirazione all'indipendenza o all'autonomia di minoranze poste sotto il dominio di Stati sovranazionali quali l'Impero asburgico e quello ottomano; la fase del nazionalismo aggressivo (1900-1945), che fu alla radice dei conflitti imperialistici che produssero le due guerre mondiali; la fase del nazionalismo contemporaneo (dal 1945 in poi), caratterizzata dai movimenti di liberazione anticolonialisti del dopoguerra.
Questo modello, che pure descrive con una certa efficacia le dinamiche attivate dai nazionalismi del XIX e del XX secolo, ci sembra poco soddisfacente. Per almeno tre ragioni. Innanzitutto perché con la dizione puramente cronologica di "nazionalismi contemporanei" lascia altamente indefinita la natura dei nazionalismi della decolonizzazione (va sottolineato, del resto, che Snyder scrive a ridosso degli eventi). In secondo luogo, perché risulta francamente un po' incerta la distinzione tra un nazionalismo "integrativo" e uno "smembrante", dato che per certi aspetti anche l'Italia e la Germania preunitarie appartenevano in parte o in tutto a realtà politico-statuali più ampie, quali lo stesso Impero asburgico e la Confederazione germanica; e dato che anche in seguito - si pensi solo a quanto accadde dopo la prima guerra mondiale con la dissoluzione dell'Impero austroungarico e di quello ottomano - il nazionalismo continuò ininterrottamente a scomporre e ricomporre realtà politico-statuali più o meno consolidate. In terzo luogo, e soprattutto, perché una simile tipologia tende a suggerire l'idea che, al di là delle sue differenti dinamiche (integrare, smembrare, ecc.), il nazionalismo rimarrebbe fondamentalmente identico a se stesso, una realtà che muta soltanto in superficie, nei suoi predicati o nelle sue funzioni, e non nella sua natura: un'idea, questa, assai dibattuta e problematica in sede storiografica, a prescindere qui da qualsiasi questione terminologica.
È dunque più opportuno ricorrere, come si è già detto, a uno schema più tradizionale: quello cioè che individua un punto di svolta decisivo nella storia delle nazioni e dei nazionalismi contemporanei nel decennio compreso tra l'unificazione italiana (nel 1861-1870) e quella tedesca (1870-1871). Tra gli anni della Restaurazione e quelli in cui furono realizzate l'unificazione nazionale italiana e quella tedesca il linguaggio della nazione e dei nazionalismi svolse - a questo primo livello ci sembra ancora utile la tipologia di Snyder - una funzione di carattere prevalentemente integrativo. Esso, cioè, stimolò e registrò al tempo stesso gli sviluppi delle lotte per la libertà, l'indipendenza e l'unità delle nazionalità oppresse, dando così un significato forte, e in qualche modo 'progressivo', alla costruzione di nuove entità politico-statuali fondate sul principio dell'autodeterminazione dei popoli. Così avvenne per l'appunto - e su grande scala - nel caso dell'Italia e della Germania: si pensi a Mazzini da un lato, e agli uomini del Parlamento di Francoforte dall'altro. Certo, i processi di unificazione politica furono poi portati di fatto a compimento dall'alto, grazie cioè all'iniziativa militare e diplomatica di Stati dinastici consolidati quali il Piemonte dei Savoia e di Cavour e la Prussia degli Hohenzollern e di Bismarck. Sta di fatto, in ogni caso, che il linguaggio della nazione rimase ancora pressoché interamente costruito sull'idea di ricostituire la (presunta) unione originaria di popoli - per l'appunto le 'nazioni' - che si trovavano a essere sottomessi al dominio diretto o all'egemonia di Stati o dinastie 'straniere'.
In questa prima fase dunque - come è stato da più parti osservato - almeno in linea di principio l'idea di nazione fu il veicolo di un senso di appartenenza più che di esclusione. Non generò ancora guerre di 'conquista', ma solo guerre di 'liberazione' (anche se i confini tra i due tipi di conflitto possono diventare assai labili, come doveva dimostrare il tentativo hitleriano di 'liberare' i tedeschi dell'Europa centro-orientale). E soprattutto, si venne a configurare come un principio in qualche modo universalizzabile, conciliandosi così con i progetti di una riorganizzazione dell'Europa su basi federalistiche.
Dopo la costruzione degli Stati nazionali italiano e tedesco - e dunque a partire dall'ultimo trentennio del XIX secolo - per lo meno in Europa la sintassi della nazione e dell'idea di nazione prese a trasformarsi in maniera più o meno radicale, secondo alcune linee già peraltro anticipate dal corso dell'unificazione bismarckiana del mondo tedesco. Il mutamento in questo senso decisivo fu che la 'nazione' cessò di essere l'ideologia di un'élite politica e/o intellettuale impegnata nella costruzione di una più ampia unità politica e statuale per divenire, senza residui, l'ideologia legittimante e primaria di uno Stato ormai consolidato e dotato, per definizione, degli attributi caratteristici della sovranità. Di uno Stato, cioè, che all'interno - in quanto Stato burocratico centralizzato - rivendicava il monopolio dei mezzi dell'amministrazione e della coercizione fisica, e che all'esterno - in quanto Stato-potenza nel senso rankiano - andava confrontandosi con altri Stati sovrani nell'arena sostanzialmente anarchica della politica internazionale. Beninteso: fin dal XVI-XVII secolo gli Stati moderni avevano iniziato a definirsi in questo duplice senso, vale a dire come Stati burocratici e di potenza. È solo a partire dalla seconda metà dell'Ottocento tuttavia - con la rilevante anticipazione della Grande Nation francese all'epoca della Rivoluzione e delle guerre napoleoniche - che tali Stati fecero ricorso sistematico alle ideologie della nazione abbandonando il riferimento alle retoriche della dinastia o a quelle puramente politiche della ragion di Stato. Così avvenne, per fare solo due esempi classici, nella Francia di Napoleone III e poi della Terza Repubblica, e nella Prussia-Germania di Bismarck e poi di Guglielmo II. In ragione di questo nuovo e diverso riferimento, l'idea di nazione continuò a svolgere un importante ruolo di tipo integrativo, sostenuto tra l'altro dai processi di democratizzazione e da istituzioni pubbliche quali la scuola e l'esercito. Tale ruolo, tuttavia, poteva adesso caricarsi - come spesso accadde soprattutto nei regimi autoritari e totalitari del XIX e del XX secolo - di implicazioni profondamente illiberali, legittimando retoricamente tendenze all'omologazione e all'irreggimentazione che potevano a loro volta autorizzare la persecuzione di presunti 'nemici' interni: elementi 'antinazionali' quali l'ebreo, il socialista, l'internazionalista. Nello stesso tempo, in questa nuova costellazione, l'idea di nazione poteva di nuovo retoricamente legittimare e alimentare - come di fatto avvenne nell'età dell'imperialismo - la volontà di potenza dello Stato nazionale, le logiche classiche della ragion di Stato, l'oppressione coloniale, la nozione di una missione specifica dello Stato-nazione nella politica mondiale, e quindi la guerra.
Se si scompone il quadro che abbiamo sin qui schematicamente delineato si possono fissare alcune conclusioni più generali. La prima conclusione è che nel corso del suo sviluppo tra gli inizi dell'Ottocento e la prima metà del Novecento il linguaggio della nazione e del nazionalismo opera su due costellazioni di teorie e di pratiche politiche radicalmente diverse: fino al 1860-1870 circa, la tradizione del pensiero liberale e democratico; dopo di allora, le ideologie dell'imperialismo. La seconda conclusione è che risulta davvero opportuno distinguere tra 'idea di nazione', esprit de nationalité o 'nazionalitarismo' da un lato e 'nazionalismo' dall'altro, dato che furono proprio i contemporanei a utilizzare il termine nazionalismo, o gretto nazionalismo, per indicare e deplorare le profonde trasformazioni che il 'principio di nazionalità' venne a subire quando cessò di essere legato alla lotta di liberazione dei popoli oppressi per vincolarsi invece alla politica di potenza degli Stati burocratici centralizzati e alle logiche della ragion di Stato. La terza conclusione è che, come ideologia dello Stato burocratico e di potenza le retoriche nazionalistiche dovevano poi produrre effetti assai diversi se interpretate alla Renan, vale a dire nel senso di una comunità che vuole riconoscersi in quanto nazione, o invece nel senso di una comunità oggettivamente definita da fattori quali la lingua, il territorio, la cultura, l'etnia. Soprattutto in questo secondo caso infatti, e in modo particolare in quelle varianti che identificarono poi tout court la nazione con la razza, le ideologie nazionalistiche furono veicoli di rappresentazioni dell'appartenenza e dell'esclusione assai più radicali. Le quali non dovevano generare soltanto la guerra contro il nemico 'esterno' e l'opposizione contro il nemico 'interno', ma anche il genocidio e, durante il secondo conflitto mondiale, l'Olocausto. Una quarta conclusione, infine, riguarda il nesso tra Stato e nazione e quindi, in un senso più specifico, tra Stato nazionale e nazionalismo.
Nella seconda metà dell'Ottocento prevaleva ancora l'idea secondo cui la nazione doveva essere intesa in qualche modo come un'entità preesistente allo Stato nazionale: un'entità per così dire 'scoperta' o riscoperta dalle classi colte e posta in essere nella sua dimensione politico-statuale dalle classi politiche e dirigenti di aspiranti, nuovi o consolidati Stati nazionali. Già Benedetto Croce, peraltro, aveva messo in guardia contro simili interpretazioni, sostenendo che nel caso esemplare della nazione italiana non si poteva certo sostenere che la nazione esistesse prima della sua volontà di divenire Stato. Hobsbawm, su questa medesima lunghezza d'onda, ha dimostrato più in generale come non siano tanto le nazioni a generare lo Stato nazionale quanto piuttosto gli Stati e le istituzioni statali a produrre quegli artefatti ideologici che sono le nazioni: preparate già dalla monarchia di antico regime e poi poste in essere nel XIX secolo dalle élites dirigenti degli Stati nazionali. In un senso assai simile Ernest Gellner ha affermato che è il nazionalismo a generare le nazioni e non viceversa. Soprattutto per quanto riguarda la seconda fase della parabola delle nazioni e dei nazionalismi, il periodo compreso tra il 1860-1870 e il 1945, rimane quindi persuasiva la tesi di Mario Albertini (v., 1960) secondo cui i nazionalismi altro non sarebbero che l'ideologia specifica dello Stato centralizzato e burocratico moderno.
Dopo il 1945, in ragione del suo totale discredito, il nazionalismo ha cessato di essere un'ideologia sostenibile nella vecchia Europa e nel contempo ha perso di senso di fronte alla divisione del pianeta in sfere di influenza, alla guerra fredda e alla politica dei blocchi. Esso è tuttavia riemerso come una delle ideologie portanti dei processi di decolonizzazione e di liberazione nazionale dei paesi del Terzo Mondo, manifestando importanti analogie con il 'risveglio dei popoli' europei del secolo precedente ma anche un più accentuato carattere artificiale e ingegneristico. Esso ha avuto anche una funzione integrativa assai importante nei processi di modernizzazione, ma spesso nel quadro di costruzioni politiche autoritarie o, come nel caso dell'America Latina, populiste. Condizionato dalle logiche planetarie del bipolarismo, indebolito - soprattutto nel continente africano - dalla persistenza del tribalismo, in un rapporto complicato con i cosiddetti movimenti 'panistici' e con i fondamentalismi religiosi, questo nuovo nazionalismo non ha impresso tuttavia il suo marchio alla politica mondiale, come accadde invece nell'epoca classica del nazionalismo. Non per questo però si può affermare, con Hobsbawm (v., 1990), che il nazionalismo ha cessato di essere uno dei motori fondamentali della storia contemporanea. All'indomani della caduta del Muro di Berlino (1989) e poi della disintegrazione dell'Unione Sovietica, infatti, sembrano riprodursi, in forme straordinariamente violente, quelle stesse dinamiche 'smembranti' che tra XIX e XX secolo caratterizzarono la lunga agonia dell'Impero asburgico e dell'Impero ottomano. Con esiti ancora francamente imprevedibili. (V. anche Fascismo; Nazionalsocialismo; Nazione; Nazione, idea di).
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