Nazionalizzazioni
Nella letteratura politica ed economica degli ultimi anni il fenomeno delle nazionalizzazioni viene sottoposto a una profonda - talvolta devastante - rilettura, mentre il termine stesso, oltre ad assumere sovente valenze negative, è evocato soprattutto in connessione con il suo opposto 'privatizzazioni', al fine di sottolineare l'inversione di tendenza di recente registrata nelle politiche economiche della maggior parte dei paesi occidentali.
La declinante fortuna delle nazionalizzazioni trova spiegazione innanzitutto nelle difficoltà economiche, finanziarie e gestionali che hanno via via caratterizzato le attività nazionalizzate, a causa della loro natura pubblica e 'politica'. Tuttavia la vicenda complessiva che le ha contraddistinte, ovvero la loro parabola, non può essere disgiunta dai mutamenti dell'ambiente economico, politico e sociale intervenuti nel corso del XX secolo. In particolare, sul versante economico e politico, le scelte autarchiche e dirigiste di numerosi paesi dell'Europa centromeridionale, l'estendersi dell'opzione collettivistica nei paesi dell'Est e infine la progressiva affermazione dell'economia mista nei paesi occidentali, appaiono come risposte, seppur profondamente diverse, alla crisi evidenziata dal capitalismo liberale fra la prima e la seconda guerra mondiale. Esse avevano però almeno due elementi in comune: la consapevolezza che l'economia del libero mercato aveva fallito e la convinzione che lo Stato avrebbe potuto e dovuto avere un ruolo maggiore (quando non assoluto) nel porre riparo a tale fallimento. La nazionalizzazione dell'economia, o di certi suoi settori, rappresentò l'elemento strategico delle nuove politiche economiche, anche là dove vennero mantenuti regimi democratici.
Al contrario, le poco brillanti performances delle economie miste degli anni settanta e ottanta e il tracollo dei regimi collettivisti dei primi anni novanta hanno contribuito a ridimensionare il fenomeno anche nelle economie occidentali e a porre in crisi la stessa nozione di nazionalizzazione.
Qualche rilievo terminologico preliminare risulta essenziale per precisare i confini della presente indagine. In effetti il vocabolo 'nazionalizzazioni' non è esente da ambiguità. Mentre esso, in senso lato, sottintende una qualche forma di intervento diretto dello Stato nell'attività economico-imprenditoriale, il suo significato specifico varia a seconda dell'ambito disciplinare e col mutare del contesto storico, politico e sociale del quale riflette il diverso atteggiarsi del rapporto Stato/mercato o, in senso più generale, del rapporto pubblico/privato.
Il termine è entrato nel lessico dei paesi occidentali con l'affermarsi delle economie miste a cavallo della seconda guerra mondiale, e ha guadagnato subito grande favore. Esso viene frequentemente usato in sostituzione di altri termini più precisi e differenziati (statizzazione, socializzazione, collettivizzazione, ecc.), rispetto ai quali presenta il vantaggio di indicare "i tratti essenziali (e si potrebbe dire minimi) dei suddetti fenomeni" e di "sottolineare più nettamente la necessaria presenza d'un interesse realmente e obbiettivamente generale, riconducibile allo Stato-comunità" (v. Spagnuolo Vigorita, 1960, p. 143).
Nel linguaggio della scienza politica e della sociologia il termine 'nazionalizzazione' ha incontrato minor fortuna che in altri ambiti disciplinari e spesso ad esso vengono preferiti termini quali collettivizzazione o socializzazione, che implicano concetti più ampi e fondamenta teoriche più solide: nell'Encyclopaedia of the social sciences, la voce non compare neppure negli aggiornamenti e il termine è evocato soltanto come possibile e comunque riduttiva declinazione di socialization, lemma cui invece viene dedicato largo spazio. G.D.H. Cole, il suo estensore, nel ripercorrere l'evoluzione del significato di 'socializzazione' sino a quel momento (1934), notava come esso avesse perso progressivamente la rigida connotazione che Karl Marx gli aveva attribuito, ovvero quella di fase ineludibile del processo storico, che avrebbe portato alla scomparsa del capitalismo e alla sua sostituzione col socialismo (v. Cole, 1934, p. 221).
Negli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale, andava in effetti guadagnando consenso, nel lessico politico della borghesia illuminata, un significato di socializzazione alquanto sfumato, che lo avvicinava a quello più tardi assunto nel linguaggio comune dal termine 'nazionalizzazione': ovvero una forma di proprietà indiretta dello Stato, attraverso enti e agenzie appositamente costituiti, regolati e controllati dall'autorità pubblica. Era un concetto, questo, che, maturato nella crisi della Germania imperiale, avrebbe aperto la strada nella Repubblica di Weimar a un più deciso intervento dei pubblici poteri, ma la cui portata era destinata a valicare gli stretti confini nazionali e a fornire un contributo determinante al movimento di ristrutturazione e di razionalizzazione del capitalismo liberale ormai in atto, pur con tempi e modalità differenti, in tutti i paesi occidentali.
Questa accezione 'debole' del termine socializzazione/i (per molti aspetti sovrapponibile a quella di nazionalizzazione/i), ormai prevalente nel socialismo riformista e laburista, non era condivisa dall'ala pura, marxista, del pensiero socialista (cui appartenevano anche i tedeschi Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg) che, nel marzo del 1919, sarebbe confluita nella Terza Internazionale. Per essa il crescente ruolo assunto dallo Stato nella Germania in guerra e l'esperienza riformistica di Weimar non erano altro che una forma di capitalismo di Stato - il "comunismo senz'anima" di Gramsci - che non aveva nulla in comune con il sistema economico socialista.
Le origini di questo dibattito in seno alla tradizione di pensiero socialista possono essere fatte risalire al Congresso di Basilea del 1869. Fu in quell'occasione, infatti, che venne per la prima volta tracciata una netta separazione tra i termini 'statizzazione' e 'nazionalizzazione', da una parte, e 'socializzazione' e 'collettivizzazione', dall'altra, separazione che presupponeva visioni e ideologie profondamente diverse: gestione statale e proprietà pubblica di determinate attività all'interno di un sistema caratterizzato da una struttura capitalistica e dalla prevalenza della proprietà privata, nel primo caso; dalla socializzazione dei mezzi di produzione e dalla progressiva abolizione della proprietà privata, nel secondo.
Questa distinzione ha retto a lungo e, per certi aspetti, mantiene ancora oggi una certa validità, anche se nel lessico dei paesi socialisti del secondo dopoguerra si è affermata la tendenza a ricomporre le diverse denominazioni e a ricondurle a un unico sostrato ideologico e concettuale (v. Katzarov, 1960, p. 225), che trae ispirazione dalle considerazioni avanzate da Marx ed Engels già nel Manifesto del 1848, quando essi indicavano nelle misure di collettivizzazione da attuare all'interno dello Stato capitalista la premessa per il suo definitivo passaggio alla dittatura del proletariato.
Anche la dottrina giuridica, tradizionalmente e statutariamente precisa nelle questioni di linguaggio e nel corretto uso dei termini, non è omogenea nell'individuare l'esatta nozione di nazionalizzazione e nel differenziarla da quelle di collettivizzazione, socializzazione e così via. L'ambiguità nasce probabilmente dal fatto che questi termini hanno origine nel linguaggio politico e non in quello giuridico e che sovente, oltrettutto, assumono sfumature diverse nelle varie lingue.
Nella dottrina italiana, alla quale verrà di necessità limitata la nostra analisi nel presente paragrafo, il punto di riferimento è l'articolo 43 della Costituzione, che prevede la possibilità di trasferire o riservare allo Stato la proprietà di "imprese o categorie di imprese" di interesse preminentemente "globale". Articoli di simile tenore, peraltro, si ritrovano nelle leggi fondamentali di numerosi Stati (a partire dalle Costituzioni spagnola del 1931 e peruviana del 1933, per arrivare a quelle francesi della Quarta e della Quinta Repubblica) e traggono ispirazione, direttamente o indirettamente, dall'art. 156 della Costituzione di Weimar dell'agosto 1919 (v. Predieri, 1960, pp. 402-403).
Nella suddetta disposizione costituzionale non ci si sofferma sulle eventuali forme che tali processi possono assumere, tanto che né il termine nazionalizzazione, né alcuna delle locuzioni alternative vi compaiono: il che ha lasciato spazio a interpretazioni semantiche differenziate. Oggi, comunque, sembra aver guadagnato un certo consenso la classificazione terminologica proposta di recente da Massimo Severo Giannini (v. ad esempio Stammati, 1986; v. Belli e altri, 1986; v. Bocchini, 1986), il quale considera le nazionalizzazioni come una delle subspecie delle collettivizzazioni. Egli nota, infatti, che nel linguaggio giuridico è ormai prevalente la tendenza a "chiamare collettivizzazioni quegli istituti giuridici per i quali beni o attività produttive si trovano in mano al pubblico potere che è il solo legittimato a detenerli o a svolgerle" e opera poi una distinzione fra tre diverse possibili forme di collettivizzazione: 1) le statizzazioni (o regionalizzazioni, o municipalizzazioni), ovvero le collettivizzazioni nelle quali "potere pubblico riservatario è l'ente territoriale esponenziale della collettività, ente a fini generali" (quindi in primo luogo lo Stato, e poi comuni e altri enti territoriali esponenziali); 2) le nazionalizzazioni, ovvero le forme in cui potere pubblico è un organismo centrale diverso dallo Stato, per solito un ente pubblico; 3) infine le socializzazioni, in cui pubblico potere è una collettività di settore organizzata, che si esprime mediante suoi uffici (v. Giannini, 1977, p. 132).
Giannini ritiene che nell'esperienza italiana si possa parlare di nazionalizzazioni in senso proprio solo nel caso dell'energia elettrica, in conseguenza delle disposizioni della legge n. 1643 del 6 dicembre 1962, che riservava all'Ente nazionale per l'energia elettrica la produzione, l'importazione, il trasporto e la distribuzione dell'energia elettrica. L'ENEL è nata come tipica impresa-ente pubblico: quindi "la sua struttura è aziendale, i suoi rapporti giuridici [...] contrattuali", mentre "i dipendenti sono legati da rapporto di lavoro privato" (ibid., p. 159). In ciò è riscontrabile la principale differenza con i settori statizzati (poste, telegrafo, settore telematico e, fino a qualche tempo fa, ferrovie e telefono), il cui vertice aziendale è rappresentato dal ministro competente e il cui personale rientra fra le fila del pubblico impiego, anche se talvolta con un rapporto speciale di lavoro.
Sulla base di questa schematizzazione concettuale, tuttavia, le stesse attività (e altre ancora come la produzione di gas e carbon fossile) in altri paesi - fra cui la Francia e la Gran Bretagna, prima della svolta liberista dell'amministrazione Thatcher - dovrebbero essere ascritte al campo delle nazionalizzazioni più che a quello delle statizzazioni: in effetti lo stesso Giannini ammette che da un punto di vista pratico i due istituti possono essere considerati in buona sostanza equivalenti.
Una accezione non dissimile da quella dell'uso comune - che, come detto, tende a identificare l'oggetto della specifica attività di nazionalizzazione, le attività e i beni nazionalizzati, con l'impresa pubblica delle economie miste in generale - è quella per solito ammessa, implicitamente o esplicitamente, dalla dottrina economica. La teoria economica dell'impresa pubblica è stata a lungo dominata da proposizioni normative, secondo le quali i comportamenti e gli obiettivi dell'impresa pubblica devono essere indirizzati innanzitutto al benessere sociale. Più recentemente hanno invece prevalso analisi positive, incentrate su questioni di sostanza, come la redditività, l'analisi costi/benefici, la gestione strategica, ma è rimasto comunque scarso l'interesse a indagare sull'origine, le forme e l'evoluzione storica del settore pubblico o ad approfondire distinzioni giuridiche e lessicali che possono invece assumere grande rilievo nelle altre scienze sociali. In questo spirito, ad esempio, si collocava la definizione proposta già nel 1946 da Gino Zappa: "Molte imprese nazionali sono sorte come tali e non per nazionalizzazione di imprese private. S'intende però spesso per nazionalizzazione anche la gestione della produzione svolta sotto il controllo dello Stato o di altro ente pubblico, così nelle imprese nazionali come nelle imprese nazionalizzate" (v. Zappa, 1946, p.3).
Ancora ampia è la definizione avanzata in tempi più recenti da un'autorità in materia di economia pubblica quale William A. Robson: "Col termine 'nazionalizzazione' s'intende la creazione e l'acquisizione da parte dello Stato di industrie o servizi che soddisfino determinate condizioni. Queste industrie o servizi possono essere definiti aziende nazionalizzate" (v. Robson, 1979, p. 498). Robson fa rientrare espressamente nel settore nazionalizzato dell'economia le imprese miste, ovvero le imprese nelle quali enti pubblici e privati partecipano ampiamente tanto al capitale quanto alla conduzione aziendale, come nel caso di Italia, Gran Bretagna e Francia. E questa è, sostanzialmente, l'accezione prevalente nella letteratura economica, soprattutto in quella anglosassone, ove si tende a trattare in modo univoco e omogeneo gli enti pubblici, pur designandoli in modi differenti (nazionalized industries, state-owned enterprises, public industries, public corporations, ecc.), che, come detto, possono sottintendere significative differenze in ordine al regime giuridico e ai meccanismi di formazione (ad esempio, v. Shonfield, 1965; v. Posner e Woolf, 1967; v. Holland, 1972; v. Nove 1973; v. Vernon e Aharoni, 1981; v. Bös, 1986).
Più problematica appare una tale indifferenziata accezione quando dalla teoria economica e dalla dottrina aziendale si passa al campo della storia economica e a quello della politica economica, ovvero quando dall'analisi degli effetti e dei comportamenti derivanti da determinate scelte si passa a spiegare in una prospettiva diacronica le origini, le motivazioni e le forme che tali scelte hanno assunto o assumeranno. L'elemento del tempo storico diviene allora una componente essenziale e i processi di formazione del settore pubblico nelle diverse economie o all'interno di una stessa economia acquistano valenze significativamente differenti proprio in funzione delle diversità di tempi e modi con cui sono avvenute. È ad esempio tutt'altro che secondario - tanto sul piano della spiegazione storica che su quello delle decisioni di politica economica - se la scelta di 'deprivatizzare' sia stata effettuata per motivi politici o economici o sociali, oppure per una qualsiasi combinazione degli stessi; se essa abbia riguardato un intero settore o singole imprese e, in questo caso, se si sia raggiunta la completa proprietà o se si sia attuata soltanto una partecipazione maggioritaria al capitale; se abbia preso in considerazione la gestione o la proprietà, o entrambe; se abbia colpito imprese e attività nazionali o estere; se si sia effettivamente trattato di un reale trapasso di proprietà dalla mano privata a quella pubblica e non, invece, della creazione ex novo da parte dello Stato di settori ritenuti strategici per lo sviluppo nazionale. La casistica, come si vede, è pressoché illimitata e spazia dalle iniziative imprenditoriali del governo giapponese nel periodo Meiji alla nazionalizzazione del Canale di Suez effettuata da Nasser nel 1956, dalla costituzione della Tennessee Valley Authority nell'America roosveltiana ai recenti, massicci interventi nei settori dell'industria e del credito realizzati dal governo francese nel 1982, dalla creazione dell'Azienda Generale Italiana Petroli del 1926 alla nazionalizzazione della Anglo Iranian Oil Company effettuata dalla Persia nel 1951. Inoltre, benché con il suddetto termine si intenda di solito denotare proprietà (e/o conduzione) a carattere nazionale, esso sovente viene applicato anche a imprese alla cui proprietà concorrano tanto il governo centrale quanto enti regionali o comunali: è questo il caso, ad esempio, della Damodar Valley Authority in India - che è di proprietà del governo centrale e dei governi degli Stati del Bihar e del Bengala occidentale - o di numerose aziende di produzione e distribuzione di energia elettrica in Germania, che appartengono congiuntamente al governo federale e ai singoli Länder.
Ai fini della presente indagine è comunque importante il fatto che le nazionalizzazioni, anche intese nel senso più restrittivo di trasferimento di proprietà dal settore privato allo Stato, hanno rappresentato la via principale attraverso la quale si è andato formando il settore pubblico nelle economie contemporanee; inoltre, a prescindere dai modi di formazione di questo e dalle diverse forme giuridiche che l'impresa pubblica assume, resta alla base un comune sostrato di motivazioni e di questioni concettuali.
Molteplici ragioni possono essere alle origini della scelta di nazionalizzare attività private o di dar vita ex novo a imprese a proprietà e gestione pubblica: sovente tale scelta non persegue un obiettivo singolo e talvolta le motivazioni possono essere non chiaramente definite o addirittura conflittuali (v. Zamagni, 1987, p. 122).Vi sono innanzitutto motivazioni di carattere politico-ideologico: queste sono state ovviamente determinanti nei processi di collettivizzazione dell'intera economia nei paesi comunisti, ma hanno avuto un ruolo molto importante anche nei programmi di nazionalizzazione realizzati nei paesi occidentali nel secondo dopoguerra. Alla loro base vi è la convinzione che la proprietà pubblica su larga scala comporti un profondo cambiamento nella distribuzione del potere all'interno della società, determinando un nuovo equilibrio fondato sul ridimensionamento del potere del capitale privato e sul rafforzamento di quello del lavoro. Inoltre, poiché i responsabili delle imprese pubbliche sono tenuti a rispondere delle proprie scelte non più semplicemente ad azionisti privati bensì all'intera collettività e, al medesimo tempo, quelle stesse imprese vengono governate da lavoratori e managers, le nazionalizzazioni possono essere intese come lo strumento per la realizzazione di una 'genuina' democrazia industriale (v. Holland, 1972; v. Attali, 1978).
In secondo luogo vi sono motivazioni di carattere sociale: queste possono riguardare, ad esempio, la volontà di garantire l'occupazione, di offrire migliori condizioni di lavoro alla manodopera e di promuovere nuove relazioni industriali, come nel caso delle nazionalizzazioni italiane e francesi del secondo dopoguerra "che hanno agito da pioniere nel campo dell'innovazione sociale" (v. Fridenson, 1987, p. 149); o possono porsi l'obiettivo di stimolare lo sviluppo di una classe imprenditoriale nazionale ancora assente o troppo debole, come nel caso delle numerose iniziative (ferrovie, siderurgia, cantieristica, ecc.) portate avanti dal governo Meiji in Giappone nella seconda metà del secolo scorso.
Vi sono infine numerose ragioni di carattere economico, di cui quella forse più comunemente addotta riguarda i fallimenti dell'economia di mercato: la proprietà pubblica è non solo giustificata ma necessaria in situazioni in cui vi è assenza o insufficienza di informazioni, oppure quando l'esistenza di effetti economici e sociali esterni (le cosiddette 'esternalità') assume importanza tale da rendere insoddisfacente il criterio della convenienza privata (v. Nove, 1973). Il caso più tipico è quello dei monopoli naturali, che si hanno nei settori dei servizi di pubblica utilità (luce, gas, acqua, ecc.), nei quali "è più economico che vi sia una sola impresa a produrre e i potenziali concorrenti possono essere tenuti fuori dal mercato senza ricorrere a misure predatorie" (v. Bös, 1986, p. 27): qui è inevitabile che una gestione in regime di monopolio, ispirata a criteri puramente privatistici, generi diseconomie per il consumatore, sotto forma soprattutto di un eccessivo sfruttamento delle potenzialità del mercato (tariffe) e di incertezza nelle forniture. Al contrario, la nazionalizzazione di industrie e servizi che appartengono alla categoria dei monopoli naturali dovrebbe essere in grado di assicurare prezzi equi (sotto il profilo sia economico che 'politico') e di garantire l'affidabilità dell'offerta. Questa, del resto, è stata la via fin qui seguita nella maggior parte dei paesi occidentali. Là dove invece, come ad esempio negli Stati Uniti, si è preferita l'alternativa di lasciare tali servizi in proprietà o in gestione ai privati, si è resa necessaria una rigorosa regolamentazione di prezzi, tariffe, qualità delle prestazioni e livello dei profitti. Peraltro, la creazione di agenzie e autorità speciali per la regolamentazione, che traggano ispirazione dal modello americano, sembra essere un prerequisito indispensabile per quelle scelte di privatizzazione di ampi settori dei servizi pubblici che hanno guadagnato recentemente consenso anche in Europa, e alla cui base stanno tanto un profondo ripensamento del ruolo delle nazionalizzazioni quanto l'erosione del monopolio naturale provocata dal progredire della tecnologia, in particolare nel settore della telefonia e delle telecomunicazioni.
Un secondo ordine di motivazioni economiche è connesso agli effetti di redistribuzione del reddito e di stabilizzazione del sistema economico che deriverebbero da un'attenta politica di nazionalizzazione. I primi non si limitano agli eventuali cambiamenti di proprietà e alle forme e alla misura dell'indennizzo, ma derivano anche dalle politiche di prezzi e tariffe dei beni e servizi, richiesti soprattutto dalle classi a basso reddito, che le imprese pubbliche, a differenza di quelle private, sono tenute a praticare. Quanto ai possibili effetti di stabilizzazione, si è sostenuto che l'esistenza di un vasto settore pubblico rappresenti una piattaforma favorevole per l'attuazione di politiche di investimento di carattere anticiclico (v. Tinbergen, 1956).
Occorre infine rammentare perlomeno una terza categoria di ragioni economiche delle politiche di nazionalizzazione, quella relativa agli obiettivi di promozione della crescita economica e dello sviluppo sociale nelle aree e/o nei settori arretrati. L'argomento a favore dell'impresa pubblica sta in questo caso nel fatto che essa "assume decisioni sulla base di considerazioni di lungo periodo e queste non sono, o possono non essere, governate dall'ottica del profitto" (v. Kaldor, 1980, p. 5). A livello settoriale, poi, l'intervento diretto dello Stato nell'economia può essere mirato a stimolare settori strategici o a mettere in atto iniziative produttive in settori industriali trascurati. Ampio è lo spettro delle possibili azioni: esso va dallo sfruttamento delle risorse naturali - la nazionalizzazione, ad esempio, delle compagnie petrolifere o la creazione di enti nazionali per lo sfruttamento e l'approvvigionamento di risorse energetiche (come nel caso di AGIP ed ENI in Italia o di ELF-Aquitaine in Francia) - alla creazione delle infrastrutture - come nel caso delle ferrovie e delle autostrade (in entrambi i casi la Germania ha fornito un precoce, lucido esempio) - o, ancora, alla larga presenza dello Stato nei settori dell'industria di base al fine di fornire a prezzi convenienti gli inputs necessari alla crescita dell'industria nel suo complesso, situazione che si è verificata in molti paesi europei.
Quanto fin qui detto fornisce già un'idea sufficientemente chiara degli ambiti in cui si sono trovate a operare, di preferenza, le imprese nazionalizzate, ambiti che sono raggruppabili in tre categorie principali: 1) quella dei pubblici servizi (elettricità, gas, acqua, poste, telefoni, ferrovie, aviazione civile, radio e televisione, porti e così via); 2) quella dei settori dell'industria di base (miniere, siderurgia, petrolio, chimica di base, ecc.); 3) quella delle banche e delle assicurazioni (banche centrali, casse di risparmio, istituti di previdenza). Si tenga presente, comunque, che l'impresa pubblica può essere trovata praticamente in qualsiasi settore dell'attività economica e che quindi la casistica è pressoché illimitata, spaziando dalla lavorazione del tabacco alla produzione delle automobili, dall'industria alimentare alla distillazione della birra, dall'attività editoriale alla produzione di ceramiche.
Benché l'ampliarsi del ruolo dello Stato nell'economia - in particolare nella qualità di imprenditore e/o gestore di risorse scarse - sia principalmente un fenomeno di questo secolo, numerosi e niente affatto trascurabili sono i precedenti storici di interventi e iniziative diretti della mano pubblica. Ai fini di una maggiore chiarezza espositiva, si è preferito suddividere in tre fasi l'evoluzione storica di tale fenomeno fino ai giorni nostri: 1) una prima fase, che affonda le sue radici nell'età moderna e che giunge sino alla fine dell'Ottocento, della quale importa mettere in rilievo, più che la consistenza degli interventi, la progressiva maturazione di un nuovo atteggiamento dello Stato nei confronti dell'economia e della società; 2) i primi quarant'anni di questo secolo, nei quali, a seguito delle vicende del primo conflitto mondiale e, soprattutto, dei disastrosi effetti della grande crisi, si incepparono i tradizionali meccanismi di funzionamento dell'economia di mercato e si ebbero i primi, significativi interventi dello Stato nella sua funzione di imprenditore; 3) infine, il periodo che va dalla seconda guerra mondiale ai giorni nostri, la fase cioè dell'apogeo, prima, e della crisi, poi, delle politiche di nazionalizzazione tanto nei paesi occidentali, quanto in quelli avviatisi con ritardo all'industrializzazione. Alla pur sintetica ricostruzione di tale cammino è dedicata la parte finale di questa voce.
Fino all'epoca della rivoluzione industriale, le esperienze di nazionalizzazione ebbero per lo più carattere occasionale e sporadico e furono comunque limitate a settori strategici per la difesa, quali il minerario e il metallurgico, che formavano la base dell'industria degli armamenti. Vi fu tuttavia qualche eccezione di rilievo, quali le 'manifatture reali della Corona' volute da Enrico IV e potenziate da Jean Baptiste Colbert in Francia o l'imitazione, a dire il vero meno fortunata, che ne venne fatta in Prussia da Federico il Grande.
È comunque soprattutto nell'Ottocento che vanno ricercate le premesse economiche, politiche e ideologiche di quel diverso atteggiarsi dei rapporti fra Stato e mercato (così come fra Stato e società civile) e fra pubblico e privato (così come fra politica ed economia e fra diritto pubblico e privato), che si sarebbero concretizzate appieno soltanto in questo secolo. Tali premesse maturarono principalmente nei paesi 'secondi arrivati' sul cammino dell'industrializzazione, Stati Uniti, Belgio, Francia e Germania, e cioè paesi che, pur differenti quanto a struttura politico-istituzionale, erano accomunati dalla crescente convinzione che lo Stato potesse e dovesse svolgere un ruolo di primo piano nel processo di rincorsa alla nazione leader sul piano industriale, quell'Inghilterra rimasta invece a lungo ancorata a posizioni di non interventismo statale e di liberismo economico. Inoltre, per i tre paesi di più recente formazione - Stati Uniti, Belgio e Germania -, così come per la stessa Italia, una più attiva presenza del potere pubblico sembrava indispensabile per favorire anche l'effettiva unificazione politica ed economica.Verso la fine dell'Ottocento, tuttavia, si precisava con chiarezza come, dalle medesime premesse, potessero successivamente scaturire sostanzialmente due diversi modelli di intervento della mano pubblica: quello continentale, nel quale la presenza dello Stato nell'economia era destinata a divenire sempre più massiccia, attraverso il diretto coinvolgimento nella produzione stessa, e quello statunitense, caratterizzato da una quota ridotta di produzione pubblica, ma da una più severa regolamentazione dei mercati da parte di apposite autorità esterne. In altri termini, nel primo caso emergeva una prevalenza dello Stato imprenditore sullo Stato regolatore, mentre nel secondo avveniva il contrario.
Il modello 'forte' trovò concreta applicazione dapprima nelle politiche dirigiste culminate nell'ondata di nazionalizzazioni che numerosi Stati continentali effettuarono alla vigilia della seconda guerra mondiale e, in seguito, dopo il conflitto, nell'affermazione dei sistemi a economia mista nell'Europa occidentale. Alla sua formulazione contribuirono tradizioni e influenze di diversa matrice, delle quali almeno quattro meritano menzione: 1) la tradizione francese di una burocrazia fortemente autoritaria e accentratrice, che fin dal Seicento attribuiva alle pubbliche amministrazioni "poteri molteplici ed eterogenei, che tocca[vano] fra l'altro l'ordine pubblico, la realizzazione di opere pubbliche, l'imposizione fiscale, la giurisdizione" (v. D'Alberti, 1992, p. 15); 2) la nuova visione dello Stato, sotto il profilo sia economico che giuridico-amministrativo, maturata in Germania nella seconda metà dell'Ottocento sulla scorta della filosofia idealistica: essa può essere sintetizzata nella convinzione di Adolf Wagner che l'azione individuale non fosse in grado di risolvere i problemi d'interesse collettivo e che fosse ormai in atto una tendenza inevitabile alla graduale sostituzione dell'impresa pubblica a quella privata, incapace di reggere i ritmi del progresso tecnico e organizzativo (v. Wagner, 1877-1901); questa posizione di 'socialismo dalla cattedra' era solo apparentemente convergente con 3) la tradizione del socialismo scientifico che propugnava la collettivizzazione dei mezzi di produzione; e infine 4) l'influenza della scuola di pensiero keynesiana che fornì il contributo più importante alla fondazione teorica dell'economia mista.
Il modello americano dello 'Stato regolatore' quale si venne delineando nell'ultimo quarto del XIX secolo, dopo la creazione della Interstate Commerce Commission (1887) e delle successive 'agenzie indipendenti' per il controllo e la regolamentazione dell'attività economica, è il risultato originale dell'evoluzione di un sistema giuridico-amministrativo nel quale convergono la tradizione della common law e l'influenza politica, culturale e giuridica francese. Anzi, nel periodo precedente la guerra civile, quando quest'ultima sembrava prevalere sulla matrice anglossassone, il potere pubblico americano, sia a livello federale che a livello statale, fu diretto protagonista di iniziative nel campo della costruzione di strade nazionali, di canali e nella costituzione della prima e della seconda Banca degli Stati Uniti; nel periodo successivo, poi, per quanto indubbiamente l'aspetto della regolamentazione divenisse prevalente, non furono assenti comunque aspetti tipici da Stato-imprenditore, quali la creazione di federal government corporations - come la Panama Canal Co. (1903), la Alaska Railroad (1923, ceduta nel 1983 allo Stato dell'Alaska) o la Tennessee Valley Authority (1933) - oppure la nazionalizzazione di servizi pubblici quali le poste (US Postal Service, 1970) o il trasporto ferroviario passeggeri (Amtrak 1970, poi divenuta società a capitale misto) (v. Scheiber, 1987).
Sicuramente più ampia era comunque la dimensione raggiunta dall'impresa pubblica nella maggior parte delle altre economie miste, in Europa e altrove, nella sua fase di maggior fortuna, cioè intorno alla metà degli anni settanta. Da un'indagine relativa ai settantasei principali paesi a economia mista al di fuori degli Stati Uniti si ricava che, a quella data, le varie forme di impresa classificate col termine di impresa pubblica - imprese nazionalizzate, imprese a partecipazione statale maggioritaria, enti pubblici di gestione e così via (con esclusione quindi delle municipalizzate) - fornivano in media quasi il 10% del prodotto interno lordo e contribuivano con una quota del 16,5% alla formazione del capitale lordo (v. Short, 1984, p. 115). Peraltro, dalla disaggregazione di quest'ultimo dato nei due valori relativi, rispettivamente, ai paesi industrializzati (Stati Uniti compresi) e ai paesi in via di sviluppo, risulta che in questi ultimi gli investimenti annui lordi del settore pubblico ammontavano in media al 27% del totale e mostravano una tendenza a un'ulteriore crescita, rispetto a una media del primo gruppo dell'11%, a testimonianza del fatto che l'assunzione diretta da parte dello Stato di iniziative imprenditoriali rappresentava in tempi ancora molto recenti una componente strategica fondamentale delle politiche di sviluppo.
Nei paesi industrializzati le variazioni poco sopra osservate fra i primi anni sessanta e i primi anni ottanta sono poco significative, se si fa eccezione per gli incrementi nella quota del PNL e della formazione del capitale registrati in Francia nel 1982. Nella maggior parte dei paesi occidentali, e in particolare in Europa, la grande stagione delle nazionalizzazioni si era avuta nel trentennio successivo alla Grande depressione, anche se già nelle prime tre decadi del Novecento (e in particolare nel quinquennio di guerra e negli anni immediatamente successivi) non erano mancati significativi interventi diretti dello Stato nell'economia. Questi avevano riguardato tanto la nazionalizzazione di attività preesistenti, quanto la creazione di nuove attività che avevano assunto la forma sia di agenzie speciali, sia di società a capitale pubblico o misto.Il caso più macroscopico era rappresentato dalla Germania di Weimar, dove fra Reich e singoli Stati, larghi settori non solo dei servizi e delle infrastrutture (ferrovie, poste, elettricità), ma anche della produzione (miniere, chimica, alluminio) erano finiti sotto il controllo della mano pubblica, sovente nella forma dell'azionariato di Stato (ad esempio la VIAG e la VEBA). In effetti, nella Germania del primo dopoguerra il problema della riconversione industriale era apparso inscindibilmente legato a quello di una razionalizzazione spinta fino alla socializzazione: per Walter Rathenau - il teorico dell''economia nuova', presidente nel 1920 della Commissione per la socializzazione e successivamente titolare dei dicasteri della Ricostruzione e degli Esteri - la Sozialisierung assumeva in primo luogo il significato di una rigenerazione sociale e di una rivitalizzazione produttiva e razionale del sistema capitalistico; per Rathenau 'economia nuova' non significava economia di Stato, ma "economia privata sottoposta al giudizio dei poteri pubblici" (v. Rathenau, 1918; tr. it., p. 62).
Ma a prescindere dalla fase bellica, iniziative tutt'altro che trascurabili, anche se isolate, avevano accomunato le esperienze dei principali paesi dell'Europa occidentale: per fare qualche esempio la creazione in Inghilterra della Port of London Authority (1908), della BBC (1926) e del Central Electricity Board (1926); in Italia, la statizzazione delle ferrovie (con la costituzione dell'Azienda Autonoma delle Ferrovie dello Stato, 1905) e la creazione dell'Istituto Nazionale Assicurazioni (INA, 1912) e dell'Agenzia Generale Italiana Petroli (1926); in Francia, la costituzione dell'Office National Industriel de l'Azote (1914), della Compagnie Nationale du Rhône (1921) e della Compagnie Française des Petroles (1924); in Spagna, infine, le numerose iniziative in campo bancario e finanziario (tra cui il Banco de Credito Industrial, 1920), la nazionalizzazione delle costruzioni navali (SECN, 1908) e la costituzione del monopolio statale sul commercio e la vendita dei prodotti petroliferi (CAMPSA, 1927).
Se già con la guerra 1914-1918 il processo di intervento degli organi statali nella vita economica aveva subito una accelerazione e una estensione, le crisi sociali e politiche manifestatesi nel dopoguerra e, soprattutto, i disastrosi effetti sull'economia e sulla società provocati dalla crisi del 1929 e dalla successiva lunga depressione, portarono a un vero e proprio cambiamento di clima e a un radicale ripensamento dei tradizionali modi di funzionamento dell'economia di mercato. Ora non più soltanto le componenti social-riformiste e autoritarie dello schieramento politico, ma anche strati sempre più larghi delle forze democratico-liberali e cattoliche - queste ultime ispirate dall'enciclica Quadragesimo Anno di Pio XI, pubblicata nel maggio 1931 - individuavano nell'intervento governativo, e nella possibilità di riservare alla sua azione alcuni settori cruciali dell'economia, il rimedio ai fallimenti del mercato e allo strapotere delle grandi concentrazioni economiche private.
Fu così che negli anni trenta venne intrapresa una prima, intensa politica di nazionalizzazioni soprattutto nei paesi europei che più avevano risentito della crisi economica, molto spesso per salvare imprese o intere industrie in crisi. Basti pensare, in Italia, alle origini dell'Istituto di Ricostruzione Industriale (IRI, 1933) che, concepito come ente temporaneo per liberare le tre maggiori banche italiane (Banca Commerciale, Credito Italiano, Banco di Roma) dai loro eccessivi e soffocanti immobilizzi, deteneva il controllo, al momento della sua costituzione, del 42% del capitale complessivo delle società italiane, e che, in seguito alla trasformazione in ente permanente (1937), acquisì il ruolo di principale attore pubblico all'interno dell'economia mista del nostro paese, ruolo mantenuto anche nel secondo dopoguerra. Anche in Germania, prima dell'avvento del nazismo, lo Stato venne direttamente coinvolto nella ristrutturazione del sistema bancario e divenne grande azionista delle principali Grossbanken: dati gli stretti legami esistenti anche qui fra banca e industria, queste misure conferirono allo Stato un potere reale su tutte le maggiori imprese manifatturiere, alcune delle quali - quelle più in difficoltà - furono acquistate o poste sotto il controllo diretto dello Stato. La successiva fase autarchica, con le misure imposte coattivamente (cartelli e consorzi obbligatori), portò a un accentuato dirigismo e a forme di statizzazione vera e propria dell'economia. In un altro regime autoritario come la Spagna di Franco, invece, la creazione nel 1941 dell'Instituto Nacional de Industria (INI), che si ispirava direttamente al nostro IRI, fu motivata soprattutto dalla volontà di stimolare l'industria nazionale, con l'obiettivo primario di ridurre le importazioni e la dipendenza dall'estero, in una situazione di scarso dinamismo imprenditoriale privato.
Fra i paesi democratici, la Francia fu senz'altro quello che, sotto il governo del Fronte popolare (1936-1937), si spinse più avanti sul terreno delle nazionalizzazioni. Fra queste, la più importante fu quella delle ferrovie, con la creazione di una società mista con partecipazione maggioritaria dello Stato (SNCF). Altri interventi riguardarono il settore delle armi e delle costruzioni aeronautiche, mentre venne avviata la nazionalizzazione della Banca di Francia (con l'ampliamento e la democratizzazione del suo Consiglio di amministrazione), progetto poi completato nel 1945. Forse ancora più importante delle effettive realizzazioni fu comunque il cambiamento di mentalità allora maturato, con la raggiunta consapevolezza di poter incidere sulle strutture economiche. La stessa cosa può dirsi della Gran Bretagna: le nazionalizzazioni realizzate nel decennio furono limitate _ le più importanti riguardarono il sistema dei trasporti passeggeri nella regione di Londra (London Passanger Transport Board, 1933) e alcune linee aeree (British Overseas Airways Corporation, BOAC, 1939) - ma furono quelli gli anni in cui presero forma i progetti di intervento dello Stato elaborati dal Partito laburista, che li applicherà poi al momento della sua salita al potere, nel 1945.In altri paesi, invece, che pur presentando condizioni politiche favorevoli avevano accusato meno i colpi della recessione, come Svezia, Norvegia e Olanda, il processo delle nazionalizzazioni stentò a decollare: in Olanda, tuttavia, lo Stato entrò con consistenti partecipazioni nel settore dei trasporti (ferrovie e aviazione) e in alcuni istituti di credito. Anche al di fuori dell'Europa, poi, in Giappone, nell'America Latina e, in misura minore, negli Stati Uniti, si preferì piuttosto ricorrere a forme di intervento indiretto per stimolare la ripresa.
La vera grande stagione delle nazionalizzazioni prese avvio all'indomani del secondo conflitto mondiale: l'assunzione (diretta o indiretta) della proprietà e della gestione di attività economiche da parte dello Stato e gli sforzi rivolti alla programmazione economica - come il famoso Rapporto Beveridge in Inghilterra (1942) o il Plan de Modernisation e d'Equipement di Jean Monnet in Francia (1945) - divennero i capisaldi delle politiche di ricostruzione e di sviluppo nei paesi a economia mista. Queste erano volte, da un lato, "all'eliminazione di squilibri settoriali e divari regionali, nonché alla realizzazione di un regime di pieno impiego" e, dall'altro, a "un'estensione della proprietà pubblica finalizzata sia al ridimensionamento di posizioni monopolistiche e di rendita, sia al potenziamento di determinate infrastrutture e attività di interesse collettivo". In Europa, inoltre, "se piani economici e nazionalizzazioni assunsero un'ampiezza senza precedenti, ciò fu dovuto soprattutto all'intento di porre rimedio alla penuria di materie prime, di riorganizzare il sistema produttivo e di assicurare il funzionamento di alcuni servizi indispensabili" (v. Castronovo, 1989, pp. 4-5).
A livello politico, invece, tutt'altro che trascurabile fu il fatto che il peso specifico delle forze di sinistra, del cui bagaglio teorico-politico il binomio nazionalizzazione-pianificazione costituiva una parte integrante, divenisse più rilevante che in passato. In Gran Bretagna il settore pubblico si andò allargando soprattutto durante i governi laburisti guidati da C. Attlee (1945-1951), H. Wilson (1964-1969) e J. Callaghan (1974-1979), durante i quali passarono in mano pubblica la Banca d'Inghilterra e l'industria del carbone (1946), le ferrovie, la navigazione interna, l'aviazione civile, l'industria elettrica (1947), quelle del gas (1948), del ferro e dell'acciaio (1949), le poste (1969), la cantieristica e il settore aerospaziale (1976). La nazionalizzazione della Rolls-Royce venne invece effettuata da un governo conservatore (1971), per evitare il fallimento della prestigiosa azienda automobilistica.In Francia le due fasi più importanti di espansione postbellica del settore pubblico dell'economia si sono avute nel 1944-1948 e nel 1982. Nella prima, caratterizzata dalla partecipazione dei partiti socialista e comunista al governo, oltre alla Banca di Francia, alle quattro principali banche di deposito, al trasporto aereo e a gran parte del settore assicurativo, venne nazionalizzato circa il 20% dell'industria del paese - l'intero settore energetico (carbone, elettricità e gas) e imprese come la Renault e la Gnome-Rhône (accusate di collaborazionismo con i tedeschi). Dopo una lunga fase nella quale gli interventi dello Stato furono saltuari e trascurabili, una nuova, imponente ondata di nazionalizzazioni si è avuta con il governo socialista di Pierre Mauroy, a seguito della quale circa il 53% degli immobilizzi delle società francesi venne a trovarsi in mano pubblica: con la legge dell'11 febbraio 1982 furono nazionalizzate l'industria siderurgica e la quasi totalità del sistema bancario, l'industria delle telecomunicazioni e cinque gruppi industriali di primo piano (Saint-Gobain, Rhône-Poulenc, CGE, Thompson-Brandt e PUK). Mai provvedimento è stato tuttavia più effimero. Il governo di centro-destra, insediatosi nel 1986, ha infatti provveduto nel giro di pochi anni a riprivatizzare gran parte delle attività da poco nazionalizzate, iniziando anche a smantellare l'apparato di imprese pubbliche preesistenti.
Anche nei Paesi Scandinavi e nei Paesi Bassi le forze socialdemocratiche al governo nel dopoguerra si fecero interpreti di una politica di riforme strutturali e stimolarono lo sviluppo delle imprese pubbliche, soprattutto nel settore delle comunicazioni, dei servizi e delle risorse naturali; in Austria, lo Stato entrò anche nella proprietà di numerosi settori industriali e nelle principali banche. In Italia, infine, la convergenza della sinistra cattolica e dei partiti della sinistra laica su posizioni di sostegno alle nazionalizzazioni, portò a un ulteriore, consistente ampliamento delle attività dello Stato imprenditore, che intorno al 1976 era giunto a fornire circa un quinto del valore aggiunto del settore industriale (v. Grassini e Scognamiglio, 1979, p. 80): le tappe più significative di questo processo possono essere rinvenute nella costituzione dell'ENI (1953), cui venne riservato il monopolio dello sfruttamento delle riserve di idrocarburi della Pianura Padana, nella creazione del Ministero delle Partecipazioni Statali (1956) e, a seguito dell'avvento del centro-sinistra, nella nazionalizzazione pressoché totale del settore dell'energia elettrica con la costituzione dell'ENEL (1962).
La creazione del sistema delle PP.SS. ha rappresentato l'aspetto forse più originale dell'intera vicenda dell'impresa pubblica nel nostro paese. Il sistema aveva struttura piramidale: alla base vi erano le società operative, aventi forma giuridica di società per azioni, e quindi assoggettate al diritto privato, che mantenevano la responsabilità esecutiva della gestione economica; a livello intermedio, gli enti di gestione (IRI, ENI e, dal 1963, EFIM), enti di diritto pubblico, che detenevano il controllo del capitale delle diverse società operative e svolgevano funzioni di assistenza finanziaria e di coordinamento tecnico e programmatico delle politiche settoriali; al vertice, infine, era collocato il Ministero delle PP.SS., che dettava le direttive generali e coordinava i programmi settoriali degli enti, assumendo quindi la responsabilità politica della condotta dell'intero complesso di attività (v. Saraceno, 1975). La storia recente dell'impresa pubblica italiana ha mostrato tuttavia come tale modello, che sulla carta appariva logico e razionale, sia stato fortemente condizionato nella sua applicazione da crescenti difficoltà finanziarie e gestionali e da soffocanti vincoli di carattere politico e partitico, che ne hanno causato la degenerazione.
Nel secondo dopoguerra il fenomeno delle nazionalizzazioni non è stato comunque limitato al continente europeo: fra i paesi industrializzati, il Canada ha rappresentato probabilmente il caso più significativo, con il passaggio di larghi settori dei trasporti pubblici e del comparto energetico alla mano pubblica. Tuttavia, come si è visto, nei paesi in via di sviluppo il fenomeno è stato sovente più ampio e intenso che non nel mondo industrializzato: in India, ad esempio, il Bombay Plan, varato a metà degli anni cinquanta dal governo riformista di Jawaharal Nehru, portò il paese "a possedere verosimilmente la più ampia economia non di mercato al di fuori del mondo comunista" (v. Berend, 1994, p. 191). Occorre però ricordare che in molti paesi in via di sviluppo la politica di nazionalizzazione, in cui sovente giocò un ruolo non secondario l'espropriazione di imprese estere operanti sul suolo nazionale, fu il prodotto di politiche dirigiste e di regimi autocratici, se non di vere e proprie dittature, come accadde in numerosi Stati dell'America Latina, in Egitto, in Indonesia, nella Corea del Sud e in diversi altri paesi dell'Asia e dell'Africa.
Un'importante, anche se parziale, eccezione a questa tendenza generale è rappresentata, oltre che dagli Stati Uniti, da Germania e Giappone. Nel caso tedesco, definito come la "variante neoliberale" dell'economia mista (v. Van der Wee, 1989, pp. 251-257), lo sforzo di ricostruzione postbellico fu accompagnato dal tentativo di smobilizzare almeno in parte l'imponente apparato pubblico creato dal nazismo e dalla guerra, cui fece seguito a partire dagli anni sessanta una sempre meno timida politica di programmazione economica. In Giappone, invece, la pur importante presenza dello Stato nell'economia prese in prevalenza le forme dello stimolo indiretto e della pianificazione, sotto la direzione dell'attivissimo Ministero del Commercio Internazionale e dell'Industria (MITI).
L'ondata di denazionalizzazioni ancora in atto ha oggi portato a una progressiva erosione del settore dell'impresa pubblica: basti pensare che in Inghilterra nei primi dieci anni dell'amministrazione Thatcher (prima ancora quindi della privatizzazione del settore energetico), le percentuali del PIL e dell'occupazione attribuite alle imprese nazionalizzate e alle public corporations sul totale si erano più che dimezzate (a confronto con i valori del 1978, rispettivamente dell'11,1% e dell'8,2%). Essa coinvolge ora anche quei paesi nei quali il processo di sviluppo non è ancora completato e che fino a ieri avevano perseguito con più decisione politiche di espansione della proprietà pubblica ai fini della crescita.
La declinante fortuna delle nazionalizzazioni sembra quindi aver assunto un carattere definitivo: molte delle motivazioni che ne erano all'origine sono venute a cadere, mentre gli obiettivi che esse si proponevano sono stati, almeno in parte, raggiunti. Nel frattempo l'incalzare delle innovazioni nel campo della tecnologia, dell'organizzazione e dell'informazione ha reso obsolete le pesanti strutture burocratiche delle imprese pubbliche, rivelatesi particolarmente inefficienti di fronte alle esigenze di massima flessibilità indotte dalla internazionalizzazione dei mercati e sempre più esposte a condizionamenti e vincoli di carattere politico. Anche nella teoria economica il recente sviluppo, accanto al tradizionale approccio normativo, di un'analisi positiva dell'impresa pubblica ha consentito di dimostrare come i casi di government failure siano tanto possibili quanto quelli di market failure e di iniziare a spiegarne le cause. Prima di celebrare la morte definitiva dell'intervento statale in economia, tuttavia, non è fuori di luogo ricordare il monito di Arnold Heertje: "l'esperienza ci indica il continuo alternarsi di episodi di eccessiva attività dello Stato seguiti da reazioni nella direzione opposta" (v. Introduzione a Stiglitz, 1989; tr. it., p. 16). (V. anche Finanza pubblica; Impresa pubblica; Monopolio e politiche antimonopolistiche).
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