New American Cinema
Se storicamente l'esperienza di Jonas Mekas e dei registi riuniti nel New American Cinema Group (NACG) viene identificata nell'etichetta di N. A. C., in un senso molto più ampio numerosi altri cineasti statunitensi possono vantarsi di aver dato il loro contribuito a un 'nuovo cinema americano'. D'altra parte il cinema d'arte, indipendente, sperimentale e d'avanguardia non è certo un fenomeno recente negli Stati Uniti; si può anzi rintracciarne ammirevoli vestigia almeno sin dal 1927, in un film diretto da Robert Florey e Slavko Vorkapitch, The life and death of 9413 ‒ A Hollywood extra. Ma è pur vero che mai come alla fine degli anni Cinquanta, nel pieno della grande crisi dell'industria cinematografica provocata dalla concorrenza della neonata televisione, si sentì forte la voce di coloro che, negli Stati Uniti, teorizzavano e praticavano un'idea di cinema del tutto lontana dal tipico prodotto hollywoodiano.
Maya Deren, che si era distinta con i suoi saggi visivi d'avanguardia negli anni Quaranta, nel decennio seguente continuò la sua attività di rinnovamento sul versante organizzativo fondando la Film Artists Society (1953) e la Creative Film Foundation (1955). Erano, quelli, gli anni in cui Morris Engel, Ruth Orkin e Ray Ashley giravano The little fugitive (1953; Il piccolo fuggitivo), suscitando scalpore alla Mostra del cinema di Venezia, e Kenneth Anger realizzava Eaux d'artifice (1953) e Inauguration of the pleasure dome (1954-1956), scuotendo lo stesso cinema underground. Ed erano anche gli anni in cui fu fondato un settimanale di controcultura, "The Village voice" (1955), che presto avrebbe dettato legge nel milieu artistico e intellettuale nazionale. I tempi erano maturi dunque per un'elaborazione teorica generale e per una sorta di manifesto di gruppo (anche se di un vero e proprio gruppo, cosciente di sé stesso in quanto tale, all'epoca non si poteva ancora parlare). Nel 1955 il giovane lituano Mekas fondò la rivista "Film culture", che sarebbe divenuta il massimo punto di riferimento per chiunque rifiutasse la concezione hollywoodiana di cinema come industria a favore di una concezione artistica che, come scrisse lo stesso Mekas nel suo editoriale del 4 febbraio 1959, permettesse film meno perfetti ma più liberi. Sul terreno di "Film culture" nacque nel 1960, riunendo una trentina di giovani cineasti, il NACG, un'egida che doveva accogliere le forze nuove, avanguardistiche e sperimentali espresse dal giovane cinema statunitense.
È difficile dire sino a che punto il lavoro di "Film culture" abbia incoraggiato e favorito i prodotti cinematografici alternativi di quel periodo. Certo, i due fenomeni nacquero dallo stesso humus innovativo, dalla forte aria di fronda che si stava respirando da tempo nei confronti della tirannia del modello hollywoodiano. Inoltre, non va dimenticato che la formazione del NACG denunciava anche una sfumatura campanilistica, come risposta newyorkese al dominio californiano. Peraltro, la spinta controculturale che animava Mekas e l'intera produzione del NACG andava ben oltre lo stretto ambito cinematografico. Negli stessi anni si era distinto, per es., un movimento letterario ‒ che presto avrebbe preso il nome di Beat generation ‒ il quale aveva come proprio obiettivo primario il rinnovamento della poesia e della narrativa nordamericane in una direzione di maggior aderenza a bisogni di rivolta che riguardavano non solo le forme espressive ma il sesso, la moralità individuale e la politica. Era inevitabile che le due aree finissero per incontrarsi, e anzi per un certo tempo esse operarono di concerto, ottenendo il risultato maggiore (o comunque quello più noto) in sede cinematografica con Pull my daisy (1959) diretto da Robert Frank e Albert Leslie, su sceneggiatura di Jack Kerouac e con la presenza in scena di Allen Ginsberg.
L'attività di J. Mekas, affiancato da suo fratello Adolfas, includeva anche la regia cinematografica: Jonas firmò Guns of the trees (1961; I fucili degli alberi) e Adolfas Hallelujah the hills (1963; I magnifici idioti). Ma per certi versi anche più importante fu l'attività di distributore: nel 1962 infatti il suo gruppo fondò la Film-Makers Cooperative, ben presto forte di 4000 titoli, che includeva tutti i film sperimentali in 16 mm, e alla quale seguì nel 1964 l'apertura a New York di una cineteca. Negli stessi anni furono realizzate opere come Flaming creatures (1963) di Jack Smith, Twice a man (1964) di Gregory J. Markopoulos, Scorpio rising (1963) di Anger, film diversissimi fra loro, che proprio per questo testimoniano non solo delle differenti personalità dei loro autori, ma anche e soprattutto di quanto poco precisa e rigorosa fosse la teorizzazione del NACG. In realtà Mekas non aveva alcun modello cinematografico da proporre. Non a caso, pur ammirando Jean-Luc Godard, evitò accuratamente di teorizzare una versione nordamericana della contemporanea Nouvelle vague francese, che pure stava tentando a sua volta di rinnovare il cinema nazionale su basi teoriche non dissimili, nella loro genericità, da quelle del NACG; e anzi, a volte ebbe parole dure nei suoi confronti ("Non è così nuova, e non è così diversa dal resto del cinema commerciale francese, o di qualunque cinema. Se sono così convenzionali a vent'anni, immaginatevi quel che saranno a quaranta!"; Movie journal. The rise of a New American Cinema 1959-1971, 1972). D'altra parte, non di rado Mekas si trovò a lodare non soltanto Orson Welles, ma anche Howard Hawks, Alfred Hitchcock e in genere l'artificialità hollywoodiana, che egli preferiva di gran lunga al (falso) realismo caldeggiato dalla critica ufficiale, sempre pronta a rimproverare il cinema commerciale di esserne carente.
Il NACG insomma era certo di ciò che non voleva, ma non aveva elaborato una chiara proposta alternativa. Se un imperativo esso aveva alla base della propria idea di cinema, questo era soprattutto di carattere economico: la produzione di film a basso e bassissimo budget non era soltanto un modo per permettere a chiunque di avvicinarsi alla creazione filmica, ma era anche la garanzia di un potenziale di sperimentazione che gli alti costi hollywoodiani escludevano a priori, dal momento che essi dovevano in primo luogo garantire una larga affluenza di pubblico. Per di più, il basso costo implicava quasi necessariamente che l'ideatore del film ricoprisse varie funzioni operative, non solo la regia ma anche la sceneggiatura e talvolta persino la produzione. In tal modo il NACG dava forma concreta a un ideale di autore che Hollywood aveva escluso, ed elaborava un'idea produttiva che avvicinava il cinema alla pratica degli altri ambiti artistici (poesia, romanzo, pittura, musica ecc.), ai quali ovviamente era estraneo il grande investimento finanziario in sede operativa.
È impossibile ridurre o riportare il NACG a un'unica matrice teorico-pratica: le varie personalità che vi militarono produssero e diressero opere dalle caratteristiche molto diverse, talché uno studio del fenomeno non può che rifarsi alla personalità, alla cultura, alla stessa idea di cinema coltivata dai singoli individui. Harry Smith e le sue geometrie colorate non hanno nulla a che fare con Peter Gessner, del tutto alieno da qualsiasi interesse formale e legato a un concetto documentario di cinema. Va notato che i due cineasti più interessanti tradizionalmente connessi dalla critica con il NACG, John Cassavetes e Shirley Clarke, non ne fossero in realtà fra i principali fautori. La seconda versione di Shadows (1960; Ombre) di Cassavetes attirò anzi qualche critica da parte di Mekas, che però ne intuì l'importanza, anche se non rese a Cassavetes l'onore di un riconoscimento senza riserve; mentre soltanto dopo il suo primo, importante film sul mondo degli eroinomani, The connection (1962), la Clarke si unì attivamente a Mekas ‒ del cui gruppo faceva però parte sin dal 1960 ‒ nell'azione di supporto ai cineasti indipendenti, continuando nel suo lavoro di regista con opere come The cool world (1963), sulle gang nere giovanili di Harlem, e il lungo monologo Portrait of Jason (1967), che Ingmar Bergman definì il film più affascinante che avesse mai visto, ma dirigendo anche un documentario commissionatole da J.F. Kennedy sul poeta Robert Frost (Robert Frost: a lover's quarrel with the world, 1963), che vinse un Oscar a Hollywood.Nemmeno una localizzazione geografica sarebbe sufficiente ad analizzare l'esperienza del NACG: se New York, infatti, ne fu l'epicentro, San Francisco ne interpretò degnamente il ruolo di succursale. Città da sempre identificata nella bohème, nella stravaganza, nella libertà di pensiero e di costume e anche nell'eccesso, San Francisco fu la sede della Canyon Cinema, associata alla cooperativa di Mekas, nella quale si radunarono alcuni talenti della controcultura della costa occidentale. Ma anche qui è impossibile rintracciare una qualche omogeneità: l'attenzione partecipe di Bruce Baillie alla vita dei reietti o la sua capacità di eroicizzare alcune icone della civiltà contemporanea (la motocicletta), ma anche momenti e ambienti trascurati dalla civiltà dei consumi (l'attività manuale di piccoli scolari), non trovano immediati punti di contatto con la ricerca archivistica di Robert Nelson e con la sua dissacrazione della retorica cronachistica statunitense. Da San Francisco, peraltro, proveniva Anger, la cui straordinaria fantasia decadente, unita a un senso mistico dei rituali di gruppo, non trovava confronti nemmeno all'interno della pratica sperimentale di altri cineasti (forse in certo modo Gregory J. Markopoulos).In un certo senso la grande avventura del gruppo finì tra il 1966 e il 1967, rispettivamente la data della cessazione della pubblicazione regolare di "Film culture", e quella dell'enorme successo di The Chelsea girls di Andy Warhol. Quest'ultimo era noto nel mondo del cinema controculturale almeno dal 1963, anno di Sleep e di Eat, cui seguirono Empire (1964) e My hustler (1965), tutti film che suscitarono ‒ soprattutto i primi tre ‒ indignate reazioni da parte del pur sofisticato pubblico della Film-Makers' Cinematheque, del tutto impreparato ad affrontare ore e ore di proiezione nelle quali viene mostrato un uomo dormiente o l'Empire State Building. The Chelsea girls fu invece un trionfo. Neanche in quest'opera accadeva gran che, ma Warhol vi instillò con intelligenza un senso di movimento fornito più che dai gesti dei personaggi dalla tecnica dello split screen, cioè dello schermo ritagliato in due o più piccoli quadrati, ognuno con un'immagine diversa (o uguale). The Chelsea girls era certamente il film che più si avvicinava ai quadri che l'avevano reso famoso e che dunque poteva attirare un pubblico ormai familiarizzato con metodi e icone tipici del suo stile. Il successo del film ebbe un valore in qualche modo epocale, nel senso che, almeno idealmente, portò l'avanguardia cinematografica che orbitava attorno al NACG in un'area decisamente meno sotterranea, e dunque inserì la controcultura del gruppo di Mekas nelle varie forme della cultura corrente e in qualche misura ufficiale. D'altra parte, era evidente che qualcosa stava ormai mutando anche nel gruppo: vi fu chi abbandonò la pratica cinematografica decidendo di passare ad altri ambiti artistici, chi, come Mekas e Stan Brakhage, diradò invece l'attività di regia, e persino chi, come Anger, pubblicò un annuncio mortuario su "The Village voice" alludendo alla propria fine in quanto uomo di cinema.
Come spesso avviene, l'esperienza del NACG trovò eredi che la radicalizzarono in una sublimazione teorico-pratica magari rigorosa, ma di certo meno accattivante. Proprio in quel fatidico 1966, che segnò il tramonto dello sviluppo storico del gruppo, un altro gruppo, il Fluxus, proponeva un programma di rinnovamento attraverso la voce del suo leader, George Maciunas, che di lì a non molto avrebbe fatto proprie le teorizzazioni e le formulazioni di P. Adam Sitney sul 'film strutturale' (apparse proprio su un numero di "Film culture" del 1969): un tipo di film, cioè, la cui forma è predeterminata e semplificata in modo da proporsi immediatamente allo spettatore sin dalla prima impressione. In realtà, si trattava di un cinema estremamente minimalista, spesso giocato su piccole variazioni permesse dall'alternanza di buio e luce. È però vero che attorno al Fluxus ruotarono artisti di notevole rilevanza come George Landow, Paul Sharits, Hollis Frampton, lo stesso Michael Snow e persino Yoko Ono.Su scala nazionale sono rintracciabili nel tempo altre esperienze, magari di tipo diverso, il cui intento era comunque quello di opporsi alla concezione industriale e commerciale di cinema imposta da Hollywood: non tanto le produzioni semi-indipendenti che sin dagli anni Venti costellavano Poverty Row, un'area centrale di Hollywood nella quale fiorirono varie compagnie (alcune delle quali, come la Columbia Pictures Corporation, destinate a salire di rango), e nemmeno gli esperimenti di cinema afroamericano condotti da Oscar Micheaux negli anni Quaranta, e tutto sommato nemmeno le piccole compagnie indipendenti che in un certo modo salvarono Hollywood durante la grande crisi post-televisiva degli anni Cinquanta, come la ben nota American International Pictures; ma piuttosto alcune figure singole e isolate che soprattutto negli anni Sessanta elaborarono un cinema per taluni versi amatoriale, ma denso di presagi e suggestioni in relazione agli sviluppi della Hollywood futura.Si pensi a Herk Harvey, un improvvisato cineasta del Kansas, e al suo Carnival of souls (1962), una storia orrifica fatta di nulla eppure non poco efficace proprio grazie a ciò che in essa mancava dell'apparato retorico cui Hollywood ‒ anche la Hollywood degli indipendenti come Roger Corman ‒ aveva abituato il pubblico dell'epoca. Si pensi a Herschell Gordon Lewis, l'inventore del gore (in cui dominano sangue, lacerazioni, amputazioni e orrori fisici d'ogni tipo), la cui Blood trilogy ‒ Blood feast (1963), Two thousand maniacs! (1964) e Color me blood red (1965) ‒ assunse presto dimensioni mitiche, aprendo in seguito la strada al cosiddetto slasher, ovvero un tipo di cinema fondato su una diretta e insistita visione del corpo ferito e del sangue. Si pensi al re del sexploitation (il cinema che sfrutta l'argomento sessuale), Russ Meyer, cineasta tutt'altro che sprovveduto e inventore del roughie (film che coniuga sesso e violenza), il cui Lorna (1964) aprì nuove dimensioni al soft core, e che spesso irrobustì le proprie opere mediante una goliardica componente comico-satirica. Ma soprattutto si pensi a Frederick Wiseman, ex professore di giurisprudenza, già produttore di un film diretto dalla Clarke, che nel 1967 scelse di girare nel manicomio criminale di Bridgewater un documentario improntato allo stile del Cinéma verité, Titicut follies, opera che venne immediatamente bandita in patria a causa della sua estrema crudezza nel ritrarre le nudità dei condannati e nel riprendere le atroci violenze (omicidio compreso) perpetrate dai secondini nei loro confronti. Destinata a subire una lunga serie di processi (perlopiù per infrazioni alla legge sulla privacy, dal momento che non si poterono trovare altri capi di imputazione) sino al 1972, ha ottenuto soltanto nel 1991 il lasciapassare della Corte Suprema del Massachusetts.Gli anni Sessanta dunque furono particolarmente prolifici e ricchi di cineasti e di produzioni indipendenti, anche di personalità che nel tempo avrebbero avuto uno spazio all'interno del sistema hollywoodiano, il quale del resto proprio in quel decennio avrebbe subito importanti cambiamenti. Registi come Samuel Fuller (peraltro già molto attivo negli anni Cinquanta) o Monte Hellman o George A. Romero avrebbero impresso ‒ ovviamente insieme a molti altri ‒ nuove direzioni alla capitale del cinema.Altri ancora non possono esser inscritti in alcun gruppo né storicizzati in alcun modo. Non tanto perché operanti individualmente al di fuori del sistema e persino geograficamente lontani da esso, come nel caso dei citati Harvey e Lewis, quanto perché nei loro film si legge bene da un lato una critica della lezione hollywoodiana e dall'altro una parodia (magari involontaria) del cinema d'avanguardia. L'esempio probabilmente più chiaro è quello dei fratelli George e Mike Kuchar di San Francisco. Nel celebrato Sins of the fleshapoids (1965) di M. Kuchar, per es., si può individuare un modello che sarebbe diventato classico nel cinema di fantascienza a partire da Blade runner (1982) di Ridley Scott (ma che in certa misura è rintracciabile anche in Westworld, 1973, Il mondo dei robot, di Michael Crichton), vale a dire l'umanità degli androidi e la corruzione decadente (o semplicemente la stupidità) degli umani. Naturalmente la cifra produttiva, scenografica, tecnica e strutturale del film è ben lontana dagli esempi hollywoodiani citati, dato che la concezione del film è di marca esemplarmente amatoriale; ma l'inusitato gusto per gli accostamenti incongrui ne fa una sorta di prezioso kitsch cinematografico al quale non è possibile trovare antecedenti.
Quale strano oggetto impossibile a definirsi univocamente fosse in realtà il film indipendente di quegli anni lo dimostra anche la sua potenziale polivalenza nelle direzioni più diverse. Se infatti, per es., i Kuchar non giunsero mai ad avere rapporti con la produzione hollywoodiana regolare, autori altrettanto giovani operanti nel medesimo periodo, come, per fare ancora un esempio, Brian De Palma, pur esordendo con film certo non appartenenti al mainstream, finirono poi per lavorare nell'area della produzione regolare, portandovi, peraltro, in varia misura il soffio della loro esperienza extra moenia, talché non è difficile ravvisare in uno dei suoi primi film, Greetings (1968; Ciao America), le sue personali ossessioni sulla pornografia, la politica e la natura dello spettacolo cinematografico che sarebbero ritornate in seguito nei suoi film di carattere produttivo più regolare. Del resto non è affatto azzardato affermare che il rilancio della New Hollywood e più in generale del cinema statunitense dopo la crisi degli anni Cinquanta e Sessanta è dovuto soprattutto all'opera di giovani autori che iniziarono a fare cinema con film di produzione indipendente: da Martin Scorsese a Peter Bogdanovich, la lista sarebbe molto lunga.
Talvolta, soprattutto nel decennio seguente, vi furono opere che avrebbero ben figurato in un'ideale selezione proposta da "Film culture": per es. Wanda (1971) di Barbara Loden, moglie del regista Elia Kazan, pur concedendo spazio ai modelli del cinema narrativo trasudava un'interiorità, una pensosità, un penchant per l'abiezione e il fallimento quali non è difficile trovare nei film lodati da Mekas e soci dieci anni prima. Il cinema indipendente degli anni Settanta, inoltre, portò alla luce una componente tematica che si era percepita solo superficialmente nel NACG (e che ovviamente era da sempre bandita dal cinema hollywoodiano): l'omosessualità. Ormai agli albori del movimento di liberazione omosessuale, la stessa Hollywood aveva licenziato The boys in the band (1970; Festa per il compleanno del caro amico Harold), uno dei primi film di William Friedkin; ma fu ovviamente nell'ambito del cinema indipendente che si produssero le opere più sincere sull'argomento, da Some of my best friends are… (1971) di Mervyn Nelson a A very natural thing (1974) di Christopher Larkin, aprendo la strada ai piccoli capolavori che, come Lianna (1983) di John Sayles, sarebbero giunti, sempre in area indipendente, nel decennio successivo.
Il cinema indipendente che seguì l'esperienza del NACG si sviluppò insomma in molte direzioni e con un numero impressionante di cineasti, talché è operazio-ne impossibile darne dettagliato conto: dai cartoons di Ralph Bakshi alle commedie di John Korty (che poi passerà a lavorare per la televisione); dalla straordinaria attività documentaristica dei fratelli Albert e David Maysles e di Richard Leacock ‒ collaboratori, fra l'altro di Donn A. Pennebaker sul set del suo Monterey pop (1969), che aprì la strada a un vero e proprio genere, il concert movie, di gran voga negli anni Settanta ‒ ai registi che, come Romero, Wes Craven e Tobe Hooper, avrebbero tenuto a battesimo quella che insieme al film fantascientifico sarebbe presto stata la maggiore svolta nel cinema statunitense dell'ultimo quarto di secolo, il rilancio e l'enorme successo del film horror. Peraltro, l'Underground ufficiale avrebbe continuato la sua strada, talora con opere memorabili quali David Holzman's diary (1968) di Jim McBride o anche taluni titoli di Warhol e del suo allievo Paul Morrissey.
È necessario citare infine un nome che non permette addentellati di alcun tipo: quello di John Waters, un giovane di Baltimora che portò a picchi mai raggiunti una sua personale estetica del cattivo gusto con film come Multiple maniacs (1971), Pink flamingos (1973), Female trouble (1975), parte dei quali interpretati da un'icona come il travestito Divine. Waters, un vero esploratore del limite, lesse nel cinema la possibilità di dare ordine (disordinato, naturalmente) all'abiezione attraverso una commedia grottesca che non esclude alcun colpo di scena nella direzione dell'insopportabilità e del disgusto. Se il cinema hollywoodiano è pensato e realizzato esattamente come opposto a quello di Waters, è logico che fra i due poli si situino le esperienze del cinema underground e di quello più largamente indipendente. E dunque, il cinema di Waters è quel che il cinema indipendente sarebbe stato senza un'idea di arte che, per quanto lontanissima dalle pratiche hollywoodiane, andava comunque nella direzione di parametri e valori non così antiborghesi come la stessa avanguardia aveva creduto. John Waters, insomma, prima di essere la cattiva coscienza del perbenismo hollywoodiano, è anche e soprattutto quella della presunzione e dell'orgoglio delle avanguardie, indipendenti come lui.
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