Indipendente, cinema
Con l'espressione cinema indipendente si definisce un insieme di modalità realizzative, produttive e distributive, e un ambito creativo il cui sviluppo avviene al di fuori, e spesso in alternativa, alla logica del mercato cinematografico ufficiale e dell'industria oligopolistica delle grandi compagnie di produzione. Lo sviluppo del c. i. si è andato articolando e diversificando in modo parallelo in quei Paesi le cui strutture cinematografiche si sono organizzate su scala industriale, per es. negli Stati Uniti a partire dagli anni Trenta-Quaranta e in Europa dagli anni Sessanta-Settanta, rappresentando un contraltare anzitutto produttivo rispetto ai procedimenti realizzativi dei film ad alto budget, cui sono state contrapposte l'economicità di mezzi e di pianificazione del basso budget, e la ricerca di soluzioni indipendenti dal mercato consolidato. Da ciò sono derivate, in particolare a partire dal secondo dopoguerra, due immediate conseguenze. Da un lato, l'individuazione da parte dei produttori indipendenti di spazi distributivi e sbocchi di mercato sganciati dalla grande distribuzione e dall'esercizio delle grandi sale cinematografiche, con l'organizzazione di circuiti alternativi o di listini distributivi caratterizzati da scelte lontane da logiche puramente commerciali. Dall'altro, soprattutto nel caso frequente in cui il regista del film sia anche produttore, l'elaborazione di un linguaggio innovativo rispetto ai codici espressivi di opere concepite per il mercato dominante. Ciò non toglie che ci siano stati esempi, soprattutto nel cinema inglese degli anni Ottanta o in quello statunitense degli anni Settanta e Novanta, di produttori indipendenti dai cartelli produttivo-distributivi legati agli studios americani, che hanno tentato strade autonome e remunerative con prototipi di film di qualità anche a budget medio-alto. D'altronde la stessa modalità, in ambito statunitense, del low budget si è rivelata, soprattutto dagli anni Quaranta-Cinquanta, caratteristica di una produzione di tipo commerciale (b-movies), basata sui generi più popolari (horror, western, poliziesco ecc.) e rivolta a un pubblico di massa, spesso modellata sulla serialità dei fumetti e realizzata per lo più da piccole società specializzate, e solo talvolta da majors companies. Proprio questo fenomeno di piccole produzioni indipendenti legate a generi popolari ha conosciuto un suo sviluppo nel secondo dopoguerra anche nel cinema orientale, in particolare in quello giapponese, trovando esempi nel film erotico, nel cinema d'azione, nelle opere di fantascienza. Analogamente negli Stati Uniti, tra gli anni Cinquanta e Settanta, si sono affermati giovani produttori di cinema commerciale orbitanti intorno a Hollywood: importante, in particolare, è stato il ruolo svolto a partire dal 1954 da Roger Corman con l'American International Pictures, società specializzatasi nel filone giovanilista del cosiddetto exploitation movie, destinato alla distribuzione nelle sale delle zone più periferiche del Paese e in nuovi spazi di visione come i drive-in. Il modello a bassissimo costo di cui è stato artefice Corman con la sua factory (una struttura produttiva leggera e veloce, antitetica ai colossi gerarchizzati di Hollywood, in grado di realizzare in tempi brevi, con una distribuzione capillare e alternativa, i progetti più disparati), oltre a immettere sul mercato un gran numero di registi esordienti non legati all'apprendistato tecnico e ideologico degli studios, ha avuto come effetto un graduale rilancio del cinema di genere, che ha fortemente influenzato la generazione di registi indipendenti degli anni Settanta (v. new hollywood).
Esempi di c. i. si svilupparono in parallelo (e già in contrapposizione) ai primi embrionali meccanismi di industria cinematografica. Nella prima decade del Novecento l'espressione era riferita alle piccole compagnie che sfidavano in maniera semiclandestina l'oligopolio dei cartelli di produttori, distributori ed esercenti, producendo film senza pagare i diritti per macchine e pellicole. Negli Stati Uniti gli anni Dieci del Novecento coincisero con la fase di passaggio dell'interesse economico delle prime compagnie dalla proprietà delle sale a una struttura produttiva organizzata su scala industriale, con la quale garantirsi i diritti di proprietà intellettuale dell'opera. Al tempo stesso avvenne la trasformazione dei vecchi teatri di posa in studios, luoghi blindati dove le lavorazioni erano tenute segrete per porre argine alla pirateria e allo sfruttamento incontrollato di film e tecniche di ripresa da parte della concorrenza. Al cartello MPPC (Motion Pictures Patent Company, corporazione che raccoglieva il 95% della produzione circolante sul territorio americano, inclusa la francese Pathé), alleato del produttore di pellicola Eastman Kodak, fece fronte un consorzio europeo con sede a New York, la International Producing and Projecting Company, che includeva produzioni francesi, inglesi, italiane e tedesche, e aveva come presidente l'impresario americano J.J. Murdock.
In quella fase del mercato il c. i. assunse, negli Stati Uniti, una connotazione di maggior spessore culturale, meno improntata ai criteri di intrattenimento popolare tipici delle vecchie società: le produzioni che operavano fuori dei trust, per distinguersi, allungarono il metraggio delle pellicole e infransero gli schemi dei generi dominanti all'epoca (comiche e western anzitutto), producendo soggetti 'all'europea', in prevalenza drammi storici e sentimentali.
In Europa la connotazione 'd'arte' e di qualità fu sovente abbinata a una concezione di c. i. che assunse così un significato riferito all'innovazione del linguaggio o addirittura circoscritto al cinema sperimentale. Nel cinema europeo, dove il potere delle grandi società era più frammentato e meno improntato a criteri monopolistici, il fenomeno fiorì negli anni Venti soprattutto grazie all'intervento di mecenati che sostennero con capitali privati la stagione artistica delle avanguardie, legate sul piano distributivo all'allora recente fondazione dei cineclub (v.), dove circolavano i film d'arte diretti da esponenti di movimenti artistici come il Surrealismo (v.) in Francia (Luis Buñuel, Jean Cocteau) o vicini alle esperienze estetiche del Bauhaus in Germania (Walter Ruttmann, Hans Richter ecc.).
Negli anni Quaranta nel cinema europeo e, in particolare, in quello italiano, si affermò una nuova concezione dell'opera filmica che venne messa direttamente a confronto, fuori da ogni artificio, con gli avvenimenti storici e la drammatica realtà sociale all'indomani del secondo conflitto mondiale. Il Neorealismo (v.) non fu soltanto uno stile ma anche l'invenzione di un procedimento produttivo necessariamente al di fuori dei modelli industriali, che faceva uso di mezzi e ambientazioni assolutamente anticonvenzionali e riconducibili a un'indipendenza creativa e produttiva. Il contesto urbano, un crudo realismo, l'impegno sociale, l'anticonformismo nella recitazione, la ricerca della verità 'in presa diretta' (come nel Cinéma vérité o nel Cinema direct in Francia e in Canada), la militanza politica, la volontà di sperimentare nuovi linguaggi, l'autarchia artistica nella realizzazione del film, nonché la dicotomia sempre più accentuata tra prodotto commerciale e opera d'autore caratterizzarono così il contesto del c. i. dagli anni Cinquanta in avanti.
Lontano da Hollywood e dalla sua influenza, sulla costa occidentale americana, principalmente a New York, vennero realizzati all'inizio degli anni Cinquanta esperimenti di cinema narrativo girato (sull'esempio del Neorealismo italiano) fuori degli studios e dei teatri di posa, sostenuti da società indipendenti legate all'ambiente della sinistra newyorkese, che risentirono dell'influsso di movimenti teatrali e cinematografici realisti e legati alla sinistra politica: cineasti come Sidney Meyers (che diresse The quiet one, 1948, L'escluso, uno dei film con cui si inaugurò questa tendenza), o Morris Engel (autore, con Ray Ashley e Ruth Orkin, di The little fugitive, 1953, Il piccolo fuggitivo, premiato con il Leone d'argento alla Mostra del cinema di Venezia) affrontarono tematiche fino ad allora invise al codice di autoregolamentazione come la violenza, la droga e il razzismo, e si fecero portatori di un modello produttivo autonomo dalla distribuzione ufficiale, che nel tempo è divenuto sinonimo di ricerca estetica e libertà espressiva, fino ad assumere la valenza di una categoria di gusto. L'impulso a una simile libertà d'espressione giunse qualche anno dopo in Europa attraverso il fenomeno generazionale delle nouvelles vagues cinematografiche, i cui film erano spesso prodotti a basso costo dagli stessi cineasti (è il caso degli esordi di Claude Chabrol nell'ambito della Nouvelle vague, v., in Francia) o sostenuti da incentivi statali (il Free Cinema, v., in Inghilterra, e più tardi lo Junger Deutscher Film, v., nella RFT ecc.). Durante gli anni Sessanta, accanto a movimenti esplicitamente anti-hollywoodiani come il New American Cinema Group (v. new american cinema), che perseguiva forme radicalmente anti-narrative, il fenomeno del c. i. si sviluppò ulteriormente: l'insieme di cineasti che fu definito dalla critica 'scuola di New York', e in cui la tendenza realista combinava un insieme di osservazioni documentarie a una traccia di finzione, produsse film di grande valore testimoniale delle minoranze e delle sottoculture americane come The connection (1962; Il contatto) e The cool world (1963; Il mondo freddo), entrambi diretti da Shirley Clarke, sul mondo delle gangs nere giovanili e del jazz.
Orientati verso il film a soggetto furono anche registi come Michael Roemer o Adolfas Mekas, e ancora di più Frank e Eleanor Perry, autori di uno spaccato familiare come David and Lisa (1962; David e Lisa), che ottenne un notevole successo di pubblico e critica: opere che tracciarono una poetica della quotidianità e che, pur mantenendo un'accessibilità di lettura, segnavano un netto scarto rispetto agli schematismi narrativi dello stile commerciale hollywoodiano ormai entrato in profonda crisi. Negli stessi anni, registi che avevano operato nell'ambiente della sperimentazione si cimentarono nel circuito indipendente con film di tipo narrativo: è il caso di Curtis Harrington, che diresse Night tide (1963; Marea notturna) o Stanton Kaye con Brandy in the wilderness (1967; Brandy nel deserto), mentre gli alfieri della cultura letteraria beatnik come Allen Ginsberg e Jack Kerouac venivano portati sullo schermo nelle loro gesta anticonvenzionali da un film a metà tra documentario e Cinéma vérité come Pull my Daisy (1959) diretto da Robert Frank e Alfred Leslie.
Negli ultimi decenni del Novecento negli Stati Uniti la dialettica tra majors e independents è rimasta operante: ne sono testimonianza il notevole sviluppo di società di produzione indipendenti come la Miramax dei fratelli Weinstein, e, sul piano artistico, fenomeni estetici come quelli rappresentati da David Lynch, da Jim Jarmusch, o da Quentin Tarantino, nuovi autori che hanno potuto sviluppare uno stile decisamente personale grazie a un più o meno ampio margine di autonomia produttiva dal sistema hollywoodiano.
In Italia il c. i. è stato caratterizzato da una connotazione sperimentale, artistica o di militanza poetico-politica che ha estremizzato le logiche del cinema d'autore e ha reagito contro la normalizzazione narrativa, spesso supinamente ripetitiva, del periodo più florido dell'industria cinematografica italiana, quello degli anni Cinquanta-Sessanta. Fu a metà degli anni Sessanta che autori 'fuori dall'ufficialità' come Tonino De Bernardi, Alberto Grifi, Adamo e Antonio Vergine, Romano Scavolini, Piero Bargellini, Mario Schifano, Luca Patella si riconobbero in un'idea di c. i. formando gruppi di lavoro o cooperative e sperimentando formati e stili (il film d'artista, il super 8, i primi videotape) oltre che modelli produttivi 'contro' e fuori dal mercato. Negli anni Settanta cineasti radicalmente innovatori sul piano linguistico e di intransigente militanza estetico-politica come Carmelo Bene o la coppia costituita da Jean-Marie Straub e Danièle Huillet furono punti di riferimento per il c. i. italiano, così come, successivamente, una personalità quale quella di Nanni Moretti (il cui lungometraggio d'esordio, Io sono un autarchico, 1978, fin dal titolo vuole sottolineare una cifra produttiva e stilistica non omologata al prodotto medio dell'industria cinematografica italiana) ha emblematicamente rappresentato, anche per il suo impegno di produttoredistributore-esercente, l'esempio più significativo, a livello europeo, di un'operatività indipendente non di-sgiunta da un'idea di cinema d'impronta fortemente autoriale. Altrettanto esemplare in questo senso è in Francia il cinema di Jean-Luc Godard, irriducibilmente personale sul piano linguistico e nella logica creativa e produttiva, sempre antagonista rispetto ai meccanismi mercantili dell'industria cinematografica. Così come lo sono i film di Eric Rohmer, realizzati facendo ricorso a un procedimento creativo-produttivo basato su mezzi leggeri, sulla presa diretta, sull'economia di effetti o di artifici spettacolari. Nel cinema tedesco, ma con una risonanza internazionale, l'operatività di cineasti come Rainer Werner Fassbinder, Werner Herzog o Wim Wenders ha costituito l'esempio di un nesso stretto tra cifra d'autore e indipendenza produttiva, anche nel nome di un'affermazione del prodotto europeo rispetto al dominio sul mercato di quello statunitense. In generale l'Europa cinematografica degli ultimi decenni del Novecento ha prodotto opere di qualità il cui valore artistico si rivela connesso a un'idea produttiva alternativa rispetto alle confezioni industriali e ai moduli del cinema commerciale. In questo senso cineasti 'apolidi' quali Raúl Ruiz, Amos Gitai, Atom Egoyan e produttori indipendenti come il portoghese Paulo Branco o la francese Martine Marignac hanno lavorato indifferentemente in vari Paesi, mostrando una ferma predilezione per l'indipendenza produttivo-distributiva, nell'ambito della quale hanno saputo inventare soluzioni e sinergie diversificate.
Cinema off e videoarte a New York, a cura di E. De Miro, Genova 1981.
New American Cinema, a cura di A. Aprà, Milano 1986.
Innamorati e lecca-lecca. Indipendenti anni 60, a cura di E. Martini, Torino 1991.
Il grande occhio della notte. Cinema d'avanguardia americano 1920-1990, a cura di P. Bertetto, Torino 1992.