Nomadismo
Il termine 'nomadismo', come si desume dalla sua etimologia (dal greco νέμειν, pascolare), indica uno stile di vita legato all'allevamento degli animali, che, al tempo stesso, comporta un movimento nello spazio. Quest'ultima sfumatura di significato ha preso il sopravvento sulla prima, sicché con il termine nomadismo si intende oggi, per estensione, qualunque forma di esistenza sociale che implichi spostamenti periodici necessari alla sopravvivenza e alla riproduzione del gruppo umano. Che si tratti pertanto di gruppi che vivono della raccolta di vegetali selvatici e/o della cattura di selvaggina; che praticano l'allevamento mediante lo spostamento periodico delle greggi di animali addomesticati; o che, infine, conducono una vita 'mobile' solo parzialmente finalizzata alla ricostruzione delle basi materiali dell'esistenza, ci troviamo in tutti i casi in presenza del fenomeno del nomadismo. In questo senso, tanto le forme quanto i ruoli strutturali assunti dal nomadismo all'interno della storia umana sono molteplici e riguardano gruppi molto diversi dal punto di vista dell'organizzazione economica, politica e sociale in genere. Al giorno d'oggi il termine nomadismo è riferibile tanto allo stile di vita degli ultimi cacciatori-raccoglitori delle foreste pluviali e delle aree desertiche del pianeta, quanto a quello delle comunità di pastori nordafricani e asiatici, ma anche dei gruppi generalmente chiamati 'peripatetici', gruppi 'senza fissa dimora' come gli Zingari asiatici ed europei, e i 'girovaghi' e 'vagabondi' presenti un po' ovunque nel mondo.
Storicamente il nomadismo si presenta come legato, almeno all'inizio, alla necessità degli esseri umani di procurarsi del cibo. La raccolta di vegetali selvatici, prima, e la caccia di erbivori gregari migratori, poi, sono le attività che, a partire dal Pleistocene, orientano in senso nomadico la vita della nostra specie.
Nella storia del moderno Homo sapiens (comparso tra i cinquanta e i quarantamila anni or sono), il nomadismo di caccia e raccolta ha costituito, in quanto specifico stile di vita, il tratto più durevole sino al compimento della rivoluzione neolitica (X millennio a.C.). Questa forma di nomadismo correlato alla ricerca del cibo, che a quell'epoca costituiva ancora il modo di vita caratteristico della totalità delle comunità umane, venne infatti scalzata gradualmente, ma in maniera sempre più rapida, dai nuovi stili di vita legati all'emergenza dell'agricoltura e dell'allevamento come principali attività di sussistenza. Secondo i calcoli compiuti dagli specialisti, la percentuale dei cacciatori-raccoglitori, pari al 100% della popolazione mondiale (10 milioni) nel 10.000 a.C. - ossia alla vigilia della rivoluzione neolitica -, si sarebbe ridotta all'1% del totale (350 milioni) nel 1.500 d.C., per scendere infine, come dato assolutamente residuale, allo 0,001% del totale (3 miliardi) agli inizi degli anni settanta del XX secolo (v. Lee e DeVore, 1968). Tali dati, oltre a rendere immediatamente evidente la riduzione in termini numerici dei cacciatori-raccoglitori, sono significativi in quanto mostrano l'arretramento progressivo della caccia-raccolta rispetto ad altre forme di sussistenza, e quindi di questa specifica forma di nomadismo rispetto alla vita sedentaria e/o a stili di vita legati ad altre forme di nomadismo, come ad esempio la pastorizia nomade.
Queste considerazioni relative alla drastica diminuzione del nomadismo legato alla caccia e alla raccolta non devono farci perdere di vista il fatto che non è comunque possibile stabilire una linea di continuità assoluta tra le società di caccia-raccolta del Paleolitico e quelle attuali. Sul piano delle attività di sussistenza è infatti impossibile stabilire una vera e propria analogia tra le comunità di cacciatori del Paleolitico - dedite allo sfruttamento di grandi mammiferi gregari e migratori (mammut, elefanti, bufali, ecc.) - e le comunità attuali dedite alla caccia di piccoli mammiferi, di roditori e di rettili. Quest'ultimo tipo di caccia non implica quelle tecniche di conservazione del cibo (essiccazione, affumicatura, ecc.) utilizzate invece dai cacciatori paleolitici: tecniche che, unitamente al tipo di selvaggina cacciata, dovettero senz'altro influire sul genere e sulla frequenza degli spostamenti effettuati dalle comunità umane di allora. Anche sul piano tecnologico le comunità di cacciatori del Paleolitico appaiono 'incommensurabili' a quelle odierne: basti pensare all'eccezionale fioritura delle industrie litiche della preistoria europea per rendersi conto di quanto sarebbe fragile un qualsiasi raffronto, in materia di tecnologia, con i cacciatori-raccoglitori attuali.
Ancor più difficile è stabilire una qualche continuità tra i cacciatori-raccoglitori paleolitici e i loro omologhi odierni qualora si consideri che questi ultimi sono molto spesso il prodotto - tranne che in casi peraltro difficili da accertare - di una vera e propria emarginazione operata ai loro danni dalle società agricole e pastorali. Non sarà inutile ricordare, a tale proposito, che i gruppi di cacciatori-raccoglitori ancora oggi presenti vivono nelle zone del pianeta di più difficile accesso (v. Service, 1966): fascia artica, foresta amazzonica, giungla equatoriale africana e asiatica, deserti africani e australiani, tutte aree nelle quali questa modalità di esistenza è stata 'confinata' dalla diffusione e dall'avanzata di altre forme di sussistenza. Ora tale processo di emarginazione ha fortemente influenzato la vita di questi gruppi i quali, ben lungi dall'essersi preservati 'intatti', sono stati profondamente influenzati dalla presenza di altre forme di società (v. Ingold e altri, 1988).
Il carattere 'residuale' della caccia-raccolta, e quindi del nomadismo a essa legato, non deve pertanto indurre a considerare questi gruppi come delle 'sopravvivenze' di società del passato. Spesso, infatti, è stato possibile dimostrare che le comunità odierne di cacciatori-raccoglitori sono costituite da individui che hanno scelto, o sono stati obbligati a scegliere, questa forma di sussistenza in seguito a una progressiva esclusione, ad opera di altri gruppi, da aree nelle quali era invece possibile praticare l'agricoltura. Sembra sia questo il caso di alcune società amazzoniche, e forse di alcuni gruppi di nativi nordamericani (v. Lee e DeVore, 1968).Il nomadismo dei cacciatori-raccoglitori odierni è strettamente legato alla distribuzione delle risorse sul territorio entro il quale è loro consentito di condurre le loro specifiche attività di sussistenza al riparo della pressione esercitata da altri tipi di comunità. Di solito i movimenti di questi gruppi sono influenzati, in primo luogo, dalla reperibilità di cibo vegetale - i cui ritmi di crescita e riproduzione determinano la necessità degli spostamenti sul territorio - ma anche dalla combinazione, di volta in volta differente, dell'attività di raccolta con la caccia e, in alcuni casi, con la pesca (v. Arioti, 1980). A questi fattori di variabilità del movimento bisogna aggiungere inoltre la presenza di altri gruppi omologhi coi quali si può rivelare necessario coordinare i movimenti allo scopo di accedere in maniera non concorrenziale alle risorse di un determinato territorio.
La variabilità degli spostamenti dei gruppi di raccoglitori e cacciatori in relazione alla distribuzione delle fonti di cibo, soprattutto animale, è un dato che fa parte dello stesso processo che determinò, nel Vicino Oriente del X millennio a.C., il passaggio da questa forma di sfruttamento delle risorse all'agricoltura (v. Bobeck, 1962). Si suppone che uno degli elementi determinanti il passaggio dalla caccia-raccolta al domesticamento dei cereali selvatici sia stato l'assottigliarsi della selvaggina nei bassopiani di questa regione. Tale diminuzione del numero degli animali fu, a quanto sembra, la conseguenza di due fattori combinati: l'eccessivo sfruttamento dei branchi di selvaggina per opera dei gruppi umani, da un lato, e l'inaridimento progressivo del clima della regione dall'altro. Questa situazione complessiva si tradusse dapprima in uno spostamento dei gruppi umani al seguito degli animali che cercavano nuovi pascoli in zone meno aride come le pendici dei monti del Kurdistan; e poi in una riduzione dei movimenti e in una maggiore tendenza alla stanzialità, effetto a sua volta delle ridotte migrazioni degli animali cacciati.
La riduzione degli spostamenti, in quanto aspetto essenziale della vita economica dei cacciatori-raccoglitori del Vicino Oriente, fu certamente un processo graduale e assai lento, i cui effetti sono tuttavia già visibili intorno al IX-VIII millennio a.C., con la comparsa dei primi villaggi nell'area della Mezzaluna Fertile. È bene ricordare che la sequenza degli eventi, sequenza complessa e non lineare, che portò da uno stato di nomadismo a una condizione di sedentarietà, coinvolse dapprima gruppi assai limitati sul piano numerico. In breve tempo, tuttavia, le tecniche di coltivazione si diffusero con una rapidità sorprendente, soprattutto se si considera il fatto che per circa quarantamila anni Homo sapiens era stato esclusivamente raccoglitore e cacciatore. Secondo i calcoli compiuti da Ammerman e Cavalli-Sforza (v., 1973), la diffusione dell'agricoltura avrebbe proceduto, a partire dai centri di irradiazione del Vicino Oriente, a una velocità media di un chilometro all'anno, estendendosi all'intera regione e quindi a tutta l'Europa nel giro di pochi millenni.
La trasformazione delle comunità di raccoglitori e cacciatori nomadi in comunità di coltivatori sedentari - un processo durato qualche millennio - non fu, naturalmente, un fenomeno esclusivo del mondo antico. La 'colonizzazione' del continente americano, iniziata nel 40.000 a.C. e poi più volte interrottasi, vide fluire nel Nuovo Mondo fin verso il 10.000 a.C. gruppi di cacciatori-raccoglitori provenienti dall'Asia. Molti di questi gruppi, distribuitisi nell'interno del continente, rimasero nomadi, mentre altri divennero coltivatori addomesticando le specie vegetali e animali (ma non i grossi erbivori) autoctone. I nomadi odierni o quelli ancora presenti nel continente all'epoca dell'arrivo degli Europei, non vanno considerati come i diretti discendenti dei cacciatori-raccoglitori originari. Molti di tali gruppi comparvero in epoche recenti, come ad esempio i Guayaki del Paraguay che, una volta agricoltori, divennero cacciatori e raccoglitori solo nel XVI-XVII secolo (v. Clastres, 1972), o come i nativi delle pianure del Nordamerica che, da agricoltori semisedentari, si trasformarono in cacciatori di bisonti grazie all'adozione del cavallo introdotto dagli Spagnoli nel XVI secolo (v. Weber, 1992).
Non dobbiamo perdere di vista il fatto che in epoca storica il nomadismo, in quanto stile di vita e di occupazione dello spazio, ha mostrato una continua tendenza al regresso. Ciò ha dato adito, soprattutto tra gli autori del XVIII e del XIX secolo, a speculazioni relative alle fasi che, nel tempo, avrebbero caratterizzato il passaggio dell'umanità dallo 'stato selvaggio' alla 'barbarie', e da quest'ultima alla 'civiltà'. Tali periodizzazioni della storia umana assumevano come parametro di riferimento lo stato delle società europee di allora, costituite da comunità agricole sedentarie e da concentrazioni di popolazione in aree urbane. La 'fissità', oltre che degli insediamenti, anche dei mezzi di produzione (campi, laboratori artigianali, industrie) e dei luoghi di scambio (mercati), appariva come la condizione finale, e 'naturale', della vita associata. Questo stile di vita sedentario veniva di conseguenza contrapposto a ciò che poteva apparire come la sua antitesi più radicale: la vita errante dei selvaggi e dei barbari all'inseguimento delle loro prede o al seguito dei loro armenti.
Su queste premesse doveva costituirsi, nella seconda metà del XVIII secolo, una visione della storia umana, condivisa da filosofi, storici ed economisti, caratterizzata dalla successione di caccia-raccolta, pastorizia nomade e agricoltura come altrettante fasi di sviluppo delle tecniche produttive e delle forme di sussistenza. Tale sequenza si è rivelata abbondantemente illusoria allorché gli studi archeologici e filologici sulle civiltà del Vicino Oriente antico hanno posto in luce come il nomadismo dei pastori di questa regione sia un fenomeno relativamente recente, di molto posteriore addirittura alla comparsa dell'agricoltura e dei primi insediamenti urbani. Non si può negare che il nomadismo pastorale di gruppi di ridotte dimensioni abbia costituito, a partire dalla caccia-raccolta in rapido declino, uno sviluppo parallelo alla comparsa di comunità agricole localizzate in insediamenti stabili. Tuttavia è certo che il nomadismo pastorale, così come si presenta attualmente nelle aree asiatica e nordafricana - corrispondenti grosso modo alla più vasta zona arida del pianeta -, fu un fatto posteriore di parecchi secoli alla nascita delle grandi civiltà della Mezzaluna Fertile.
La pastorizia nomade è un fenomeno tipico del mondo antico. Qui, infatti, nasce e si sviluppa. Prima dell'arrivo degli Europei nel continente americano essa vi era infatti sconosciuta. La causa di ciò deve essere fatta risalire all'assenza, nel Nuovo Mondo, di grandi erbivori gregari fino al momento in cui questi vi furono introdotti dagli Europei. Ma anche successivamente la pastorizia nomade rimase un fenomeno limitato: infatti essa venne adottata, come stile di vita e forma di adattamento ecologico-produttivo, soltanto da pochi gruppi allevatori di bovini, come ad esempio i Guajiros della Colombia settentrionale (v. Picon, 1983).
La comparsa del nomadismo pastorale nel mondo antico risale, probabilmente, al IV-III millennio a.C. e ha come scenario i margini delle aree delle culture irrigue e pluviali. Secondo alcuni studiosi il nomadismo pastorale sarebbe stato una risposta adattiva messa in atto da comunità emarginate dalle aree agricole. Con l'inizio della rivoluzione neolitica le comunità umane conobbero infatti una forte espansione sul piano demografico. Ciò spinse quelle comunità umane che si erano convertite alla coltivazione dei cereali addomesticati a mettere a frutto sempre nuove terre. Tale espansione dovette tuttavia trovare un limite nello sviluppo delle forze produttive e delle tecniche agricole. L'impossibilità, in queste condizioni, di sostenere una popolazione in crescita sul piano demografico, determinò probabilmente una serie di tentativi miranti a sostituire, almeno parzialmente, le fonti di sussistenza. Le fasce marginali delle aree agricole non potevano offrire altra possibilità che l'allevamento di qualche caprino o ovino addomesticato, animali in grado di nutrirsi dei vegetali selvatici tipici degli ambienti aridi di quelle regioni.
È difficile stabilire con precisione quando e a quali condizioni possa essere avvenuto il distacco di questi gruppi marginali dalle comunità agricole delle aree pluviali e irrigue. Tale distacco non fu netto e improvviso. Probabilmente, come avviene ancora oggi in alcune zone del Medio Oriente, i gruppi coinvolti nell'allevamento degli animali dovettero conservare un rapporto periodico con l'agricoltura, dedicando solo alcune stagioni dell'anno alle attività pastorali. In questa situazione solo una parte della comunità adottava uno stile di vita nomade, mentre l'altra, molto probabilmente costituita dalle donne, i bambini e gli anziani, restava nelle aree agricole, come avviene anche oggi presso alcuni gruppi beduini del Vicino Oriente (v. Marx, 1967) o alcune popolazioni agropastorali dell'Africa orientale subsahariana (v. Gulliver, 1955). Secondo le distinzioni introdotte dagli studiosi, questa separazione temporanea della comunità non dovrebbe essere identificata con il nomadismo pastorale, come questo è comunemente inteso. Infatti, là dove l'allevamento degli animali comporta lo spostamento periodico solo di una parte della comunità interessata si preferisce parlare di transumanza, anche se con questo termine si è soliti definire un fenomeno specifico dell'Europa, e in particolare delle penisole e delle isole mediterranee (v. Fabietti, 1987).
Qualunque possa essere stata la sequenza degli eventi che portò alla costituzione di comunità nomadi che fondavano la propria sussistenza sullo sfruttamento degli animali, queste comunità non furono mai veramente in grado di sopravvivere grazie ai soli prodotti della pastorizia. Tale mancanza di autonomia produttiva ha rappresentato un elemento centrale della vita dei popoli nomadi dediti all'allevamento. Innanzitutto perché ha determinato la necessità, da parte di queste popolazioni, di mantenere contatti e scambi più o meno regolari con le comunità sedentarie e agricole; poi perché la necessità di fare riferimento al mondo dei sedentari ha favorito l'instaurazione e la conservazione di forti legami sul piano linguistico e culturale in genere (tipico esempio i Beduini d'Arabia); infine perché questa dipendenza dal mondo dei sedentari ha sempre profondamente determinato le logiche degli spostamenti periodici, la natura dei movimenti e la loro frequenza (v. Khazanov, 1984).
I contatti tra nomadi e sedentari hanno costituito anche il motivo di veri e propri rivolgimenti politici nella storia di alcune regioni. Si pensi all'invasione dell'Impero cinese ad opera dei Mongoli, o alle periodiche invasioni dei regni nordafricani ad opera dei nomadi in epoca medievale. In un caso come nell'altro, tuttavia, i nomadi vennero assorbiti dai sedentari, con il conseguente amalgama della loro cultura con quella dei popoli vinti.
Per quanto riguarda la tipologia degli spostamenti è possibile distinguere diverse varietà di nomadismo. Nella letteratura è frequente trovare espressioni come 'nomadi puri' o 'semi-nomadi' per distinguere i gruppi che fondano la loro sussistenza esclusivamente sullo spostamento periodico e regolare di animali addomesticati da quelli che, al contrario, si dedicano in parte all'agricoltura. Questa distinzione non è tuttavia in grado di descrivere le forme di nomadismo realmente esistenti. Il nomadismo dovrebbe essere considerato piuttosto come un continuum tra una ideale società del tutto sedentaria e una sempre in movimento.Secondo i geografi culturali i principali fattori che caratterizzano lo stile degli spostamenti di un gruppo sono: il tipo di animali allevati; il posto che i prodotti dell'agricoltura hanno nell'alimentazione del gruppo; il carattere e la frequenza delle piogge; la fisiografia delle regioni sfruttate; la quantità e la qualità delle risorse reperibili (v. Johnson, 1969).
Un'altra distinzione è quella tra nomadismo 'orizzontale' e 'verticale'. Con la prima espressione si intende indicare quel tipo di nomadismo che non utilizza le variazioni altimetriche per reperire i pascoli utili al bestiame allevato. Tipico nomadismo orizzontale è quello dei Beduini d'Arabia: la frequenza dei loro spostamenti e la scelta del percorso non sono influenzate da alcuna variazione altimetrica. Con l'espressione 'nomadismo verticale' si intende invece indicare quel tipo di nomadismo per il quale la distinzione tra pascoli di pianura e pascoli di altura ha un preciso significato nel ciclo riproduttivo degli animali. Un tipico caso di nomadismo verticale è quello dei nomadi iranici, che si spostano, con ritmi precisi, dal piano al monte e viceversa in concomitanza all'avvicendarsi delle stagioni (v. Barth, 1961; v. Tapper, 1979).
Qualunque riflessione sulle società nomadi contemporanee non può tuttavia prescindere da quanto si è detto precedentemente: il contatto con il mondo dei sedentari costituisce un aspetto essenziale, addirittura costitutivo, della vita di queste società. La figura del nomade che percorre gli spazi desertici e che conduce una vita completamente avulsa dal contesto sedentario è fortemente illusoria ed è dovuta all'immaginario romantico occidentale.
La comparsa di comunità nomadi con forme di organizzazione sociale e istituzioni proprie sembra essere un evento non posteriore al III millennio a.C. È infatti in quest'epoca che, stando alle testimonianze, si registra la comparsa di gruppi di allevatori di bestiame di piccola taglia (ovini e caprini) nella regione mesopotamica (v. Kupper, 1957). Forse eredi di quei primi gruppi che, costretti dall'insufficienza produttiva delle terre agricole, furono indotti a tentare adattamenti di tipo alternativo, queste comunità del III millennio praticavano probabilmente un nomadismo alquanto limitato per ciò che riguarda l'ampiezza degli spostamenti, e tuttavia abbastanza marcato da suscitare la preoccupazione dei sovrani della regione. Se infatti la natura specializzata della loro economia ha sempre costretto i nomadi a fare riferimento alle comunità sedentarie al fine di ottenere quei beni che la loro economia non era in grado di produrre, è anche vero che i pastori nomadi hanno sempre costituito un 'problema politico' per le comunità a base agricola, e urbana in particolare.
Difficilmente controllabili negli spostamenti, impossibili da tassare in maniera regolare, non sempre affidabili come alleati, i pastori nomadi del Medio Oriente e del Nordafrica hanno da sempre costituito la classica spina nel fianco dei proto-Stati e degli Stati del mondo antico. Inizialmente essi furono soltanto dei fuggiaschi di fronte all'incalzare delle autorità urbane.
Secondo alcuni autori, il nomadismo pastorale che si sviluppò nell'area del Vicino Oriente a partire dal III millennio a.C. costituì, in larga misura, una risposta politica di una parte della popolazione di questa regione alla pressione militare e fiscale delle organizzazioni politiche che avevano base nei centri urbani. Non è inverosimile pensare che l'ecologia da un lato, e lo sviluppo delle formazioni politiche dall'altro, abbiano contribuito congiuntamente all'emergere di comunità nomadi chiaramente distinguibili da quelle sedentarie. È interessante per esempio notare come nel Vicino Oriente la nascita e lo sviluppo della società palaziale abbia portato, nel II millennio, a un inasprimento della pressione fiscale del centro sulla periferia (v. Liverani, 1988). E come la risposta delle comunità delle aree marginali abbia coinciso con la tendenza, da parte di alcuni gruppi, a rifugiarsi in zone irraggiungibili dall'autorità centrale e per lo più non occupate da altre comunità. Questa fuga, riecheggiata dal mito biblico di Abramo che con il suo popolo lascia la città mesopotamica di Ur alla ricerca di una terra promessa, dovette probabilmente portare alla formazione di nuove comunità costituite da elementi provenienti da zone diverse. Tali comunità, conosciute in certe zone con il nome di habiru, che in lingua cananea sembra significasse appunto 'fuggiaschi' (e che è forse possibile mettere in relazione con il termine 'ebrei': v. Liverani, 1988, p. 663), rappresentano il primo tentativo generalizzato di sottrarsi all'autorità politica dei centri urbani. Simili gruppi, molti dei quali già fondavano, almeno parzialmente, la loro sussistenza sull'allevamento degli animali, dovettero essere facilitati in questo processo di sganciamento dalle comunità a base sedentaria e agricola dal fatto di essere già allevatori di animali.
Sulla base di questi antecedenti storici, e di quanto è stato possibile accertare per i secoli successivi - epoca attuale inclusa -, il nomadismo pastorale, così come si configura nelle varie aree del mondo antico, potrebbe essere considerato, oltre che come una risposta adattiva a certe condizioni ecologico-produttive, anche come una risposta a determinate condizioni di tipo politico. Ne sono un esempio alcuni gruppi nomadi dell'area anatolica, le comunità beduine della penisola arabica, oltre che le grandi confederazioni nomadi dell'area iranica. Il fatto che questi gruppi preferiscano conservare uno stile di vita fondato sugli spostamenti periodici dei loro animali anche quando gli si offrono - come talvolta oggi avviene - favorevoli condizioni per l'abbandono della vita nomade e concrete e vantaggiose possibilità di riconversione dell'economia pastorale, deve essere messo in relazione, oltre che all'introiezione di un modello di vita plurisecolare, anche alla volontà di mantenere le distanze da un potere politico avvertito come estraneo, quando non apertamente ostile (v. Irons, 1974; v. Fabietti, 1994). Infatti, fin dalle epoche più remote il potere centrale a base urbana ha sempre cercato di contrastare, o per lo meno di controllare, i movimenti dei gruppi nomadi attirandoli nella propria sfera di influenza, specialmente da quando tali gruppi sono entrati in possesso, tra la fine del II e gli inizi del I millennio a.C., di un animale come il cammello, nelle sue varianti di Camelus dromedarius (fornito di una sola gobba) e di Camelus camelus (a due gobbe): il primo, caratteristico del Nordafrica, del Vicino Oriente, dell'area iranica meridionale e della penisola indiana nordoccidentale; il secondo, diffuso in parte dell'area iranica, nell'Asia centrale, in Mongolia e nella parte occidentale del mondo cinese (v. Bulliett, 1975).
Fin dalla sua comparsa nel Vicino Oriente, da dove si sarebbe diffuso in tutte le regioni aride del mondo antico nello spazio di breve tempo, il dromedario contribuì all'affermazione di una nuova forma di nomadismo. A quello delle piccole comunità di allevatori di animali di piccola taglia subentrò infatti, tra il II e il I millennio a.C., un nomadismo 'montato', veloce negli spostamenti e in grado di penetrare nel cuore delle aree desertiche più lontane da quelle agricole e dai centri di scambio. Fino a quel momento, invece, il nomadismo degli allevatori di ovini e caprini era stato prevalentemente caratterizzato da spostamenti lenti, libertà d'azione limitata nei confronti delle formazioni politiche a base sedentaria e scarsa capacità di penetrazione nelle aree desertiche più lontane da quelle agricole.
Se le comunità nomadi dell'area vicino-orientale hanno sempre subito la pressione delle comunità sedentarie, queste cominciarono a soffrire della pressione dei nomadi a partire dal momento in cui questi ultimi si dotarono di una cavalcatura come il dromedario e, in misura assai minore, del cavallo. Benché in quest'area i rapporti di forza tra nomadi e sedentari si siano risolti quasi sempre a vantaggio dei secondi, il fenomeno del nomadismo assunse una consistenza diversa dacché questi gruppi cominciarono a utilizzare un animale come il dromedario. L'adozione e la diffusione di questo animale nelle regioni semiaride del Vicino Oriente e del Nordafrica devono naturalmente essere messe in relazione alle sue particolari doti di resistenza in tali ambienti. Tuttavia alla sua diffusione, e quindi al consolidamento della vita nomade in queste regioni, contribuì anche il carattere di precarietà di gran parte della vita sedentaria. Esaurimento di falde freatiche, deviazioni di correnti di traffico carovaniero, crisi politiche di vario genere, sono tutti elementi che hanno provocato periodici regressi della vita sedentaria di fronte a quella nomade, e portato a una crescita dell'importanza di quest'ultima di fronte al collasso dei centri agricoli e commerciali (v. Caskel, 1954).Nonostante i nomadi si siano spesso trovati in contrapposizione ai sedentari, specie nelle zone semiaride, tuttavia essi hanno rappresentato un elemento insostituibile nella vita economica e culturale del mondo antico, al punto che appare ormai del tutto illegittimo considerarli come rappresentanti di una società e di una cultura distinte da quelle dei sedentari.
Attualmente il nomadismo riguarda soprattutto le comunità di allevatori di animali erbivori, gregari e addomesticati. Da questo punto di vista il nomadismo odierno è un erede diretto di quello sviluppatosi tra il IV e il II millennio a.C. nel Vicino Oriente e nelle steppe dell'Asia centrale. Benché in regresso in alcune aree - come ad esempio nella penisola arabica - esso è fortemente radicato in Africa e in parte della regione iranica, dove continua a costituire un'efficace forma di sfruttamento delle risorse naturali di tipo vegetale disponibili in aree sterminate e altrimenti non utilizzabili.
Certamente alcuni aspetti del nomadismo tipici del passato sono ormai scomparsi, come ad esempio la funzione svolta dai nomadi nel commercio trans-sahariano, per non parlare poi di quello che collegava regioni lontane come la Cina e il sud dell'Arabia con le coste del Mediterraneo orientale (la via della seta, la via dell'incenso, ecc.). Anche la loro funzione di rifornitori di animali sui mercati è largamente in declino. L'allevamento nomade condotto con metodi tradizionali si è rivelato non concorrenziale rispetto a quello stanziale condotto con tecniche moderne. I gruppi che sono rimasti radicati a questa forma di esistenza hanno però, almeno in alcuni casi, saputo sfruttare le nuove opportunità offerte dai governi dei loro paesi (v. Fabietti, 1984, 1990 e 1994), o sono riusciti a integrare le attività tradizionali con altre fonti di reddito, praticando lavori stagionali nelle città o presso gruppi di agricoltori (v. Salzman, 1971).
Il nomadismo pastorale è complessivamente in declino ma non è morto. Non ci si dimentichi infatti delle sue origini, che furono non solo di tipo produttivo ma anche politico. Il nomadismo pastorale, così come si presenta oggi nelle regioni aride dell'Africa e del Medio Oriente, continua a costituire un'opzione adattiva sempre praticabile di fronte a determinate circostanze di tipo politico.
Tuttavia, se per nomadismo si intende, come si è detto all'inizio, qualsiasi stile di vita sociale che implichi spostamenti periodici necessari alla sopravvivenza e alla riproduzione del gruppo umano, attualmente vi sono altri tipi di vita riconducibili a questa forma di esistenza. Vi sono, come si è visto, gli ultimi gruppi di cacciatori-raccoglitori che, in aree marginali del pianeta, conducono una vita basata su spostamenti funzionali alla ricerca del cibo che la natura offre loro spontaneamente. Alcune di queste comunità, però, come ad esempio alcuni gruppi di Pigmei centroafricani, hanno cominciato da parecchio tempo ad adattare i loro spostamenti alla presenza degli agricoltori bantu, presso i quali i cacciatori-raccoglitori trascorrono alcuni periodi dell'anno come prestatori di manodopera agricola o impiegata ad altro scopo (v. Turnbull, 1961 e 1965).
Oltre agli ultimi cacciatori-raccoglitori esiste poi una folta schiera di popoli 'peripatetici' ai quali gli studiosi hanno dedicato negli ultimi decenni un'attenzione sempre maggiore (v. Rao, 1987). Tra questi sono da annoverare gli Zingari, la cui origine pare vada individuata nell'area del subcontinente indiano. Il caso degli Zingari, i quali si sono diffusi in tutto il mondo negli ultimi duecento anni (in Europa sembra siano comparsi a partire dal IX secolo), è particolarmente interessante per il modo in cui essi percepiscono la propria identità in rapporto agli altri. Sempre più emarginati sul piano sociale ed economico in conseguenza della progressiva avanzata della società industriale, essi hanno tuttavia mantenuto una forte identità che si oppone a qualunque forma di assimilazione (v. Piasere, 1992). Fatti oggetto di rappresentazioni e di credenze degradanti (quando non di vere e proprie persecuzioni) gli Zingari hanno fino a oggi ostentato un'identità di 'basso profilo' che, almeno da noi, non ha fatto loro assumere quell'atteggiamento di rivendicazione del proprio diritto alla differenza che ha invece caratterizzato la vita di altri gruppi etnici o religiosi presenti in Europa. Questo loro atteggiamento sembra ispirarsi alla volontà di essere scarsamente 'visibili' nel panorama sociale odierno, mentre rimane solidissima la loro non-volontà di assimilazione al mondo dei Gage, come essi chiamano indistintamente tutti gli altri. L'interesse suscitato dagli odierni popoli peripatetici 'senza fissa dimora', unitamente a quello, di più antica data, relativo ai pastori nomadi (che, al contrario dei primi rivendicano diritti territoriali ancestrali), si è concretizzato nella costituzione di una speciale sezione della International Union of Ethnological and Anthropological Sciences denominata Commission on nomadic peoples, con una propria rivista ("Nomadic people") pubblicata in Svezia, a cui collaborano studiosi di tutto il mondo.(V. Allevatori, società di; Cacciatori e raccoglitori, società di; Neolitica, rivoluzione).
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