Nuoto
«Water is our world» (logo della FINA)
La lunga storia del nuoto
17 luglio
Si apre a Roma la 13a edizione dei FINA World Championships, durante i quali 2500 atleti provenienti da 170 nazioni si sfideranno per 17 giorni in gare di nuoto, pallanuoto, tuffi, nuoto sincronizzato e nuoto in acque libere, riproponendo il fascino di uno degli sport da più lungo tempo praticati dall’uomo.
Il nuoto degli antichi
Alcuni animali, per esempio il cavallo e il cane, nuotano istintivamente anche quando siano gettati in acqua per la prima volta e raggiungono la perfezione in pochi secondi o al massimo minuti. L’uomo, al contrario, anche se riesce (ed è il caso meno frequente) a mantenersi subito a galla, deve poi studiare abbastanza lungamente prima di rendere la sua nuotata sicura, razionale e redditizia. Tale differenza dipende dal fatto che, mentre il cavallo e il cane riproducono nuotando i movimenti della deambulazione in terra, e mantengono in posizione naturale la testa più in alto della linea del dorso, l’uomo deve invece esercitare uno sforzo attivo per mantenere, mentre procede, la testa o parte di essa fuori dell’acqua, e deve impiegare per avanzare movimenti nuovi e quasi completamente diversi da quelli del camminare o del correre. Nonostante ciò, il nuoto è stato praticato dall’uomo fin dalle sue origini, come rivelano pitture murali, incisioni o graffiti di età preistorica. Naturalmente per le testimonianze risalenti a più antica data, non si parla di attività sportiva, essendo probabile che la capacità di nuotare si sia affermata per esigenze utilitaristiche e belliche. Le prime raffigurazioni di nuotatori che si conoscono risalgono al 5° millennio a.C. e si trovano nel Sahara egiziano, nel Wadi Sora, la valle delle pitture, dell’altipiano del Gilf el-Kebir: sono le esili figure stilizzate dalla testa rotonda rappresentate in rosso sulle pareti della Grotta dei nuotatori, scoperta nel 1933 dal conte ungherese László Almásy. Anche alcune figurette che compaiono nel ricco apparato di pitture rupestri della grotta della stessa zona chiamata Mestekawi-Foggini dal nome degli scopritori ricordano i movimenti del nuoto.
Al 3° millennio a.C. risale invece un sigillo egizio, contenente i primi geroglifici con accenni al nuoto in forma ideografica. Altri ideogrammi della stessa epoca rappresentano l’azione del nuotare: i personaggi hanno le braccia posizionate davanti al capo e le gambe distese e separate, come per un movimento dall’alto verso il basso. Per l’Egitto è noto che il nuoto era praticato dal faraone, dai dignitari, ma anche dai ceti sociali inferiori. Lo dimostra un òstrakon in calcare conservato presso il Museo egizio di Torino che raffigura, con uno stile fresco ed efficace, una ragazza nuda che nuota fra la vegetazione e i pesci del Nilo. Il frammento, databile alla XVIII dinastia (1550-1292 a.C.), proviene da Deir el-Medina, un insediamento che accoglieva gli artigiani e i pittori ingaggiati per lavorare presso il complesso funerario di Tebe, il che dimostra che la pratica del nuoto era diffusa pure fra le classi meno abbienti e, comunque, poteva esser priva di quei risvolti bellici che invece la caratterizzavano presso gli Assiri. Un rilievo assiro del 9° secolo a.C., proveniente da Nimrud e conservato al British Museum, raffigura infatti un gruppo di soldati che attraversano a nuoto l’Eufrate per attaccare una città sulla costa: dei tre guerrieri due si sostengono con piccoli otri, mentre il terzo ha le braccia piegate e pronte a spingere e le gambe allungate e leggermente flesse al ginocchio, che sembrano accennare un movimento alternato dei piedi nel piano verticale; la testa è alta con lo sguardo rivolto nella direzione di avanzamento. Per quel che riguarda la documentazione letteraria, è da ritenere un accenno alla pratica del nuoto un particolare della tav. 11 dell’Epopea di Gilgamesh, secondo il quale l’eroe «vide un pozzo le cui acque erano fresche e si tuffò». Nuotano anche gli eroi greci e troiani nell’Iliade e nell’Odissea raggiunge a nuoto le rive del regno dei Feaci il naufrago Ulisse. Nella mitologia greca il nuotatore più abile è Leandro, che ogni notte attraversa le acque dell’Ellesponto, gli odierni Dardanelli, per raggiungere l’amata Ero. In età classica, sebbene il nuoto non fosse compreso nel programma dei giochi olimpici o degli altri giochi panellenici, i Greci lo praticavano tenendolo in grandissima considerazione. Ne sono testimonianza le opere di storici come Erodoto o Tucidide. Le più belle testimonianze pittoriche di attività natatorie dell’antichità vengono da ambiente italico e si trovano nella tomba della Caccia e della Pesca a Tarquinia (circa 520 a.C.) e nella tomba del Tuffatore a Paestum (circa 480 a.C.). In ambedue la simbologia del defunto che entra nella nuova realtà dell’oltretomba è espressa da un tuffatore, che si lancia dall’alto delle rocce nel primo caso, verso uno specchio d’acqua dall’alto di una costruzione appositamente realizzata nel secondo. La tomba di Tarquinia rappresenta il tuffo come un gesto tecnicamente evoluto, eseguito alla presenza di spettatori che seguono la scena da una barca, segno dell’interesse che questo tipo di esibizioni, programmate o estemporanee che fossero, aveva presso gli Etruschi.
Presso i Romani il nuoto, oltre a essere praticato come esercizio militare (i legionari si allenavano attraversando i fiumi con il loro pesante equipaggiamento) era considerato tra le principali attività sportive. Fra le testimonianze letterarie in proposito si possono ricordare quella di Cicerone che, nell’orazione Pro Caelio (56 a.C.), accenna alla folla di gente che si riversava sul Tevere per nuotare e quella di Marziale, il quale parla di ragazze che nel 1° secolo d.C. si esibivano in spettacoli di nuoto artistico nella piscina di un anfiteatro. Per quanto riguarda le popolazioni del Nord Europa, nel De origine et situ Germanorum (98 d.C.) Tacito racconta che presso i popoli germanici gli eroi erano spesso campioni di nuoto e di tuffi; lo stesso storico ricorda l’abilità nel nuoto dei Batavi, dei Germani e degli Svevi.
Non mancano testimonianze della pratica del nuoto presso le antiche popolazioni dell’America. Tra gli esempi più celebri, i dipinti murali della camera di Tepantitla a Teotihuacán (presso Città del Messico), che mostrano uomini nell’atto di bagnarsi nelle acque di Tlalocán, paradiso del dio Tlaloc. Per quanto riguarda le regioni asiatiche, le popolazioni che vivevano lungo il grande fiume Indo costruivano, già dal 3° millennio a.C., città dotate di veri e propri impianti per la balneazione.
I trattati
Nel Medioevo il nuoto, al pari di altre pratiche fisiche, ebbe una diffusione molto limitata, benché per tale periodo si abbiano notizie di gare di remi e natatorie. All’inizio del Trecento sono attestate competizioni nella laguna di Venezia e nel Tevere a Roma. Un secolo dopo, il nuoto rientra nell’innovativo progetto educativo proposto da Vittorino da Feltre sulla base del noto motto latino mens sana in corpore sano. Vittorino fondò nel 1423 a Mantova una scuola per i principi Gonzaga che affiancava alla preparazione intellettuale basata sull’insegnamento della storia, del greco e del latino, quella ginnica impostata sulla pratica del nuoto e della corsa. L’ideale dell’uomo rinascimentale aspirava, infatti, all’armonico equilibrio fra un corpo perfetto ed efficiente e una mente pronta e aperta. Un crescente interesse per la pratica natatoria è più tardi testimoniato da diversi specifici trattati pubblicati in Italia e in altri paesi europei tra i secoli 16° e 18°. Inizia la serie il manuale dell’umanista Nicolaus Wynman, il cui primo volume fu pubblicato nel 1538 ad Augusta con il titolo Colymbetes, sive de arte natandi dialogus et festivus et iucundus lectu. Sotto forma di dialogo tra maestro e scolaro, Wynman descrive nei particolari gli stili del dorso e della rana, raccomandando inoltre che non solo i ragazzi, ma anche le giovani si dedichino all’apprendimento della disciplina. In Inghilterra, il primo manuale fu pubblicato a Londra nel 1587 da sir Everard Digby, con il titolo De arte natandi libri duo: accompagnato da una ricca serie di incisioni, spiega le varie tecniche del nuoto, di dorso, di pancia e sul fianco. Ampiamente illustrato è anche l’Art de nager demontré par figures avec des avis pour se baigner utilement di Melchissédec Thévenot, dato alle stampe a Parigi nel 1696. In Italia, il primo trattato risale al 1794 ed è L’uomo galleggiante, o sia l’arte ragionata del nuoto del diacono Oronzio De Bernardi, che divenne l’opera più tradotta e più letta in Europa sull’argomento. Con l’aiuto del libro di De Bernardi il tedesco Johann Christoph Friedrich Guts Muths preparò un proprio metodo di insegnamento, divenendo il divulgatore delle attività natatorie. Nel 1833, a Berlino sul fiume Sprea, organizzò le prime gare di nuoto, che comprendevano anche prove di tuffi.
Il nuoto agonistico
Come molti altri sport, anche il nuoto fu codificato in Inghilterra. Accadde nel 1837 con la nascita della National swimming society, che lo stesso anno diede vita a Londra alle prime competizioni programmate. L’Australia ebbe una federazione analoga pochi anni dopo e fu ai Robinson Baths di Sydney che le gare di nuoto vennero per la prima volta cronometrate al secondo. Nel 1858 a Melbourne venne organizzata la prima competizione di nuoto a carattere internazionale: fu disputata sulla distanza di 100 yard e solennemente definita Campionato del mondo. I britannici, tuttavia, ebbero il merito di capire che il futuro della pratica sportiva era nell’associazionismo. Così a Londra, nel 1869, nacque una federazione che riuniva alcuni club nazionali di nuoto, disposti ad accettare regole chiare e valide per tutti. Man mano che il nuoto cresceva di popolarità venivano costruite nuove piscine, e quando nel 1880 fu creato un nuovo organismo direttivo, la Amateur Swimming Association, questo contava più di 300 società iscritte. Nel 1896 il nuoto fu inserito tra gli sport delle prime Olimpiadi moderne di Atene, restando sempre da allora disciplina olimpica. Nel 1908 a Londra, in occasione della quarta edizione dei Giochi olimpici, rappresentanti di otto nazioni europee diedero vita alla FINA (Fédération Internationale de Natation Amateur), l’organismo mondiale che ancora oggi presiede all’organizzazione delle manifestazioni di nuoto, stabilendone le regole e certificandone i record.
Alla fine dell’Ottocento gli stili del nuoto, a parte la rana, erano molto diversi da quelli oggi comunemente adottati nel nuoto di competizione. In Europa e nel mondo occidentale non era ancora noto il crawl, che si sarebbe dimostrato in seguito il più veloce tra i possibili modi di avanzare in acqua. Il dorso era nuotato in posizione supina, ma la bracciata era effettuata con un movimento simultaneo delle braccia, sia durante il recupero all’indietro sia durante la fase di spinta, mentre le gambe eseguivano un movimento di calcio di ‘rana rovesciata’. Gli stili di competizione più affermati, perché ritenuti più veloci, erano essenzialmente due: l’over (abbreviazione di single over-arm sidestroke «nuotata sul fianco con un solo braccio sollevato»), con propulsione esercitata da un braccio e l’altro utilizzato come sostegno, e il trudgen (dal nome del primo nuotatore che lo praticò, l’inglese J. Arthur Trudgen), che consisteva nel muovere le braccia in modo alternato. L’over era stato studiato e codificato attorno al 1850 dall’australiano C.W. Wallis che, in un corso d’acqua presso Sydney, aveva osservato una variante introdotta da alcuni aborigeni al nuoto sul fianco all’inglese allora in voga. Anziché tenere entrambe le braccia immerse – sia nella fase di ‘passata’ (quella che provoca l’avanzamento) sia in quella di ‘recupero’ del braccio verso la posizione avanzata da cui ha inizio la nuova fase attiva – gli aborigeni portavano un braccio al di sopra dell’acqua durante il recupero, eliminando quindi la resistenza del liquido e soprattutto riducendo la durata della fase non attiva. Wallis adottò questo modo di nuotare e lo esportò successivamente in Inghilterra, insegnandolo a F.R. Beckwith, che divenne campione d’Inghilterra. Alcuni decenni più tardi, nel 1894, un nuotatore di over, l’inglese Jack H. Tyers, stabilì il record del mondo delle 100 yard in 1´01,2ý; nel 1896 l’ungherese Alfréd Hajós vinse le prime gare olimpiche nuotando l’over.
In quel periodo si stava però diffondendo la pratica del trudgen, uno stile che il suo scopritore aveva osservato in Sudafrica, praticato da nuotatori cafri. Durante un viaggio, tra il 1870 e il 1872, Trudgen aveva notato infatti che gli indigeni eseguivano il recupero in avanti delle braccia riportandole entrambe esternamente e alternativamente sopra la superficie dell’acqua. Al suo ritorno in Inghilterra, nel 1873, cominciò a insegnare la nuova bracciata e, sebbene i nuotatori continuassero a usare il colpo di gambe a rana, la tecnica di movimento delle braccia diede loro molta più velocità e potenza. Con lo stile trudgen i nuotatori abbassarono il record delle 100 yard da 70 a 60 secondi e la posizione cambiò dal fianco a quella ventrale piatta. Più tardi, intorno al 1890, il colpo di gambe a rana fu modificato in una sforbiciata. Nel 1897 l’inglese John H. Derbyshire, nuotando il trudgen, abbassò a l´00,2ý il record mondiale delle 100 yard. Soltanto sei anni più tardi, tuttavia, il limite fu abbassato a 59,6ý dall’australiano Frederick Lane.
Gli insegnamenti di Trudgen avevano spostato l’attenzione dalla resistenza alla velocità, ma la rivoluzione non era ancora completata. Artefice della seconda parte del cambiamento fu un altro inglese, Frederick Cavill, che, dopo aver raggiunto una grande notorietà in Inghilterra con lo stile rana, nel 1878 emigrò in Australia. A Sydney ebbe modo di veder gareggiare il dodicenne Alick Wickham, il quale otteneva grande velocità in gara battendo i piedi in modo alternato, diverso dalla classica sforbiciata o dalla gambata a rana, movimento che fu descritto con il verbo to crawl («strisciare»). Anche il modo di nuotare di Alick aveva un’origine ‘indigena’: suo fratello durante un soggiorno in un’isola del Pacifico lo aveva osservato nel nuoto praticato dai nativi. Cavill comprese le potenzialità della nuova gambata e la insegnò al figlio Richard, che nel 1902 in Inghilterra nuotò le 100 yard in 58,8ý. Il crawl è identificato con lo stile libero odierno, la più efficace tecnica adottata nelle competizioni sportive di nuoto, che ne è una versione appena modificata. L’ungherese Zoltán Halmay fu il primo atleta a laurearsi campione olimpico nuotando a crawl: nel 1904 vinse a St. Louis le 50 e le 100 yard stile libero e nel 1905 a Vienna, in una vasca di 34 m, nuotò 102 m in 1´05,8ý, un tempo che la FINA, al momento della sua costituzione nel 1908, riconobbe come il primo record mondiale sui 100 m. L’hawaiano Duke Kahanamoku – vincitore dei 100 m nelle gare olimpiche del 1912 a Stoccolma e del 1920 ad Anversa – stabilì i suoi record con un ciclo di 6 battute, che ora viene considerato la forma classica di stile libero. Ogni ciclo completo di bracciata (entrata in acqua, trazione e recupero delle due braccia) era accompagnato da 6 battute di gambe. Tuttavia sulle distanze prolungate resistevano i cultori del trudgen. Fu soltanto dopo la Prima guerra mondiale, ai Giochi del 1920 e quindi ancora in periodo pionieristico, che il crawl fu usato anche in mezzofondo. La convinzione che il crawl fosse troppo faticoso per lunghi tragitti o traversate fu abbandonata quando nel 1926 la statunitense Gertrude Ederle – già medaglia di bronzo all’Olimpiade di Parigi del 1924 – attraversò la Manica nuotando a crawl per tutto il percorso e realizzando il miglior tempo in assoluto.
Olimpiadi e competizioni internazionali
Ai primi Giochi olimpici moderni, nel 1896, il programma di nuoto prevedeva solo gare a stile libero, eseguite con varie interpretazioni della rana
o del trudgen. Nel 1900 fu aggiunta una gara a dorso e il crawl divenne dominante nelle prove di stile libero; la rana ebbe una propria distanza di gara nel 1904. Le competizioni femminili furono inserite nel programma dei Giochi nel 1912 a Stoccolma, ma solo progressivamente furono inclusi tutti gli stili. Fino al 1920 le grandi gare internazionali erano state organizzate senza definire precisi standard per i campi di gara, spesso rasentando i limiti della regolarità tecnica, ma soprattutto determinando situazioni non confrontabili tra loro per la diversità delle condizioni in cui si svolgevano le singole competizioni. Alle Olimpiadi di Atene del 1896 le gare di nuoto si disputarono in un campo marino ricavato nel porto del Pireo; ai Giochi di Parigi (1900) nelle acque della Senna, con un campo di gara di 100 m di lunghezza; alle Olimpiadi di St. Louis (1904) fu realizzato un piccolo bacino artificiale, peraltro caldissimo; anche a Londra (1908) fu creato appositamente un bacino artificiale e protetto, ricavato nello stadio di atletica e lungo 100 m; ai Giochi di Stoccolma (1912) le gare si svolsero in una piccola baia riparata dal fiordo ma non certo dalle fredde correnti e maree; infine, alle Olimpiadi di Anversa (1920) venne utilizzata una vasca di 100 m, ricavata nelle antiche fortificazioni cittadine, con acqua non riscaldata e addirittura gelida. Soltanto nel 1924, a Parigi, le gare ebbero finalmente luogo in una piscina costruita appositamente per ospitare competizioni sportive e lunga 50 m. La definizione delle condizioni, della lunghezza e delle dimensioni del campo di gara divenne da quel momento un punto fisso per tutte le competizioni sotto l’egida della FINA. Terminò quindi il periodo pionieristico, legato all’empirismo e all’improvvisazione; erano ormai possibili e attendibili i confronti non solo sulla base dello scontro diretto ma anche a distanza, sulla base dei record e dei tempi. In quel momento gli stili codificati erano il crawl, il dorso e la rana. Ai Giochi di Melbourne del 1956 fece la sua prima comparsa olimpica la gara a farfalla, oggi nuotata con la battuta di gambe a delfino.
Il nuoto in Italia
La diffusione del nuoto come pratica sportiva fu dovuta all’opera di proselitismo di alcuni pionieri, tra i quali spiccano le figure di Giuseppe Cantù e Achille Santoni, fondatore quest’ultimo del primo dei circoli Rari Nantes, istituito il 15 agosto 1891 a Roma, con sede sul Tevere. Il primo Campionato italiano si disputò sul lago di Bracciano il 14 agosto 1898: vinse, sul miglio, il diciottenne milanese Arturo Saltarini. Nel 1899 venne costituito a Como il collegio Pionieri del nuoto, dal quale un anno dopo ebbe origine la Federazione Italiana Rari Nantes (FIRN) che coordinò per un lungo periodo l’attività natatoria in Italia e che aderì alla FINA nel 1910. L’Italia è stata rappresentata nelle Olimpiadi di nuoto fin dal 1900. In quell’occasione i nuotatori italiani furono solo due: Paolo Bussetti, che fu settimo nei 200 m dorso, e Fabio Mainoni, sesto nei 4000 m stile libero. I primi Campionati italiani in campo chiuso, con i quali nacque il nuoto di velocità, si svolsero a partire dal 1919 ed erano riservati a nuotatori maschi. Le distanze di gara erano quelle del programma olimpico: 100, 400, 1500 m stile libero, 100 m dorso e 200 m rana, staffetta 4x200 m stile libero. Le donne furono ammesse a partire dal 1921, gareggiando solo sui 100 m stile libero. La prima competizione in piscina si svolse nel 1923 nel Centro di educazione fisica di Roma. Nel programma maschile furono inseriti i 100 m rana a partire dal 1920 e i 50 m stile libero sei anni più tardi. Questa gara fu introdotta contemporaneamente anche nel settore femminile, che si arricchì di lì a poco anche dei 400 m stile libero (1929), dei 100 m dorso e dei 200 m rana due anni dopo, e della staffetta 4x100 m stile libero nel 1935. Nel 1927 fu organizzato il primo grande evento sportivo italiano: nello stadio del Littoriale, edificato a Bologna tra il 1925 e il 1927, si svolse il secondo Campionato europeo di nuoto, il primo sotto l’egida della LEN (Ligue Européenne de Natation), l’associazione delle federazioni europee di nuoto, fondata proprio quell’anno. Giuseppe Perentin, secondo nei 1500 m stile libero, diede all’Italia la sua prima medaglia nella storia di questa manifestazione. La FIRN fu ufficialmente incorporata nel CONI nel 1928 e, come per tutte le altre federazioni, la sua sede fu trasferita d’obbligo a Roma nel 1929. In quell’anno Augusto Turati, allora segretario del Partito nazionale fascista, assunse la carica di presidente del CONI e temporaneamente anche di tutte le federazioni; il nome della FIRN fu trasformato in FIN. L’organizzazione tecnica del nuoto italiano registrò un notevole impulso sotto la presidenza di Luigi Arpinati, tra il 1930 e il 1933. In quegli anni fu istituita la Coppa federale, riorganizzato il sistema delle categorie atleti, creato il campionato a squadre di nuoto e furono programmati corsi di formazione dei tecnici tenuti da esperti stranieri. Nella seconda metà degli anni 1930 risultavano censite in Italia 22 piscine coperte e 83 piscine scoperte. Gioielli del regime erano il Littoriale di Bologna e il Foro Mussolini (poi Foro italico) di Roma. Dopo la pausa della guerra, l’attività agonistica del nuoto riprese fin dal 1945. L’anno successivo fu approvato il nuovo statuto federale, che organizzava l’attività periferica in comitati regionali, mentre sul piano delle competizioni nazionali riprese il campionato a squadre di nuoto (la Coppa federale del periodo fascista), con il nome di Torneo federale. Sebbene in Italia per gli effetti della guerra fossero in funzione due sole piscine coperte, la FIN riuscì a inviare una sua rappresentativa ai Campionati europei di Montecarlo del 1947: 18 nuotatori (8 dei quali donne) che conquistarono una sola finale, nella 4x200 m stile libero maschile (sesta posizione). Nessun nuotatore azzurro prese parte ai Giochi olimpici di Londra del 1948, dove si registrò però lo straordinario successo della squadra di pallanuoto, già vincitrice del titolo europeo l’anno precedente a Montecarlo. Sul piano nazionale, nel 1951 si verificavano la nascita dello stile a farfalla e la sua separazione dalla rana in sede di campionato italiano, in leggero anticipo sul regolamento internazionale che sancirà la separazione dei due stili alla fine del 1952. Nel 1954 la Federazione organizzò a Torino i Campionati europei, mentre il CONI, a partire da Roma e Trieste, istituì i Centri di addestramento al nuoto in tutte le città sedi di piscina coperta che, voluti fortemente da Mario Saini (allora vicesegretario del CONI), produrranno nei decenni successivi risultati fondamentali sia sul piano tecnico sia in termini di diffusione del nuoto. Nel 1957 la FIN fu trasferita a Roma, dove il CONI volle tutte le federazioni in preparazione dei Giochi olimpici di Roma, per i quali furono realizzate opere strutturali di grande importanza, quali lo Stadio del nuoto, inaugurato nel 1959 attraverso un torneo internazionale di nuoto, pallanuoto e tuffi. Altra decisione di Saini, nominato commissario straordinario nel 1962, fu il varo del Trofeo Sette Colli, che divenne la gara internazionale per eccellenza del nuoto italiano, entrato nel 2000 nel circuito internazionale Mare Nostrum. Dopo la reggenza di Saini, conclusasi nel 1964, e la lunga presidenza di Aldo Parodi (1964-82), la Federazione ha vissuto un periodo tormentato da commissariamenti e dimissioni. Tuttavia, durante la gestione di Bartolo Consolo (1987-99), si raccolsero grandi risultati sportivi, preludio al magico momento vissuto dall’Italia del nuoto tra il 2000 e il 2008, sotto la presidenza di Paolo Barelli. In questi anni i nuotatori italiani hanno vinto, infatti, 10 medaglie olimpiche (4 d’oro, 3 d’argento e 3 di bronzo), 25 medaglie in sede di Campionato del mondo e 79 medaglie nei Campionati europei. È la punta di un movimento cresciuto sino a sfiorare i 6 milioni di praticanti tesserati nel 2008, che testimoniano a sufficienza la diffusione dello sport dell’acqua come parte integrante della cultura sportiva del paese.
Gli stili del nuoto
Il crawl
Il crawl consiste in un movimento quasi alternato delle braccia accompagnato a una propulsione continua degli arti inferiori, effettuato in posizione orizzontale sull’acqua e con il viso rivolto verso il basso. Il movimento si svolge prevalentemente con la testa al di sotto del livello dell’acqua, mentre si effettuano torsioni del busto a ogni ciclo di bracciata (rollio). Grazie alla sua tecnica di esecuzione, il crawl consente di respirare semplicemente riportando il capo in asse rispetto alle spalle, migliorando così la fluidità e la continuità del gesto, e defaticando i muscoli del collo. L’azione del rollio garantisce inoltre un aumento di ampiezza nella bracciata, una riduzione della superficie in attrito con l’acqua (una spalla e parte del busto rompono la superficie) e un aiuto all’azione muscolare degli arti superiori, portando il corpo in appoggio sugli stessi nella fase di presa.
Il crawl si identifica in genere con lo stile libero. Infatti, anche se secondo il regolamento internazionale in una gara di stile libero il concorrente può nuotare in qualsiasi stile, con l’eccezione delle gare dei misti individuali e di quelle della staffetta mista, nelle quali stile libero significa qualsiasi stile diverso da dorso, rana o farfalla, lo stile generalmente usato è il crawl, essendo il più veloce.
Al completamento di ogni vasca e all’arrivo il concorrente deve toccare la parete della piscina e può farlo con qualunque parte del corpo. Una parte qualsiasi del corpo del nuotatore deve inoltre rompere la superficie dell’acqua per tutta la durata della gara. Tuttavia, al nuotatore stesso è consentito rimanere in completa immersione nel corso delle virate e per una distanza non superiore a 15 m dopo la partenza e dopo ogni virata. A quel punto, la testa deve aver rotto la superficie dell’acqua.
La rana
Il nuoto a rana consiste nell’alternarsi di un’ampia gambata (in cui il calcio produce una lunga fase di scivolamento che è sfruttata per espirare) con un’azione di braccia anch’essa piuttosto ampia. La spinta all’indietro delle mani si arresta all’altezza delle spalle e l’inspirazione avviene contemporaneamente all’azione delle braccia.
Due importanti episodi hanno accompagnato l’evoluzione della rana: la nascita dello stile a farfalla e l’uso della nuotata subacquea. La farfalla nacque infatti negli anni 1920 per dare maggiore velocità alla rana, in quanto facendo girare le braccia simultaneamente ed esternamente da sott’acqua a davanti alla testa, dopo aver prolungato la spinta delle mani fin oltre i fianchi, il nuotatore può acquisire ulteriore impulso. I due stili sono stati accomunati a livello olimpico fino al 1952. L’anno successivo rana e farfalla furono separate, dando vita così a due gare distinte. In questo modo la rana, che sembrava dovesse scomparire, sopravvisse e la farfalla aprì la strada alla nascita di un nuovo stile, il delfino. Quando le competizioni furono separate, la rana divenne lo ‘stile silenzioso’, poiché i nuotatori trovavano più facile ottenere tempi migliori nuotando sott’acqua. Infatti la rana subacquea era consigliabile dal punto di vista del rendimento agonistico, essendo più veloce di quella di superficie, in particolare perché, oltre alla normale trazione, consentiva durante la bracciata l’esecuzione della spinta delle mani oltre i fianchi, del tutto improduttiva in emersione. Essa aveva tuttavia l’ovvio inconveniente di non consentire la respirazione dell’atleta, costretto a riemergere per prendere aria. Considerata pericolosa per la salute dei concorrenti, la rana subacquea fu proibita dalle regole della FINA che dichiarò obbligatorio nuotare con la testa fuori dall’acqua durante tutto il ciclo braccia-gambe. In anni più recenti questa norma, assai penalizzante, fu attenuata, obbligando i nuotatori a rompere la superficie dell’acqua con la testa entro la realizzazione di ogni ciclo di nuotata. L’evoluzione tecnica di questo stile ha preso la direzione di un progressivo e continuo incremento del ritmo di nuotata, fino ad arrivare a una prevalenza dell’azione delle braccia su quella delle gambe.
Secondo il regolamento internazionale, dall’inizio della prima bracciata dopo la partenza e dopo ogni virata il corpo deve essere mantenuto sul petto ed entrambe le spalle devono essere in linea con la superficie dell’acqua. Le braccia devono essere spinte in avanti, contemporaneamente, dall’altezza del petto e sotto alla superficie dell’acqua. Anche i gomiti devono rimanere sott’acqua, tranne che nell’ultima bracciata prima di ogni virata, durante le virate e nella bracciata finale al termine della gara. I movimenti delle gambe devono essere simultanei e sullo stesso piano orizzontale, senza movimenti alternati. Durante la parte propulsiva del colpo di gambe, i piedi devono essere ruotati verso l’esterno. Non sono permessi calci a forbice, battute di gambe rapide e irregolari e calci a delfino. A ogni virata e all’arrivo della gara, il tocco deve essere effettuato con entrambe le mani simultaneamente, al livello dell’acqua o sopra o sotto di esso. Durante ogni ciclo completo, costituito nell’ordine da una bracciata e da un colpo di gambe, la testa del concorrente deve rompere la superficie dell’acqua, a eccezione del momento dopo la partenza e dopo ogni virata, quando il nuotatore può eseguire una bracciata completa all’indietro fino alle gambe e un calcio di gambe fintanto che è completamente immerso.
La farfalla e il delfino
La farfalla deriva dalla rana, ma per circa 25 anni le due tecniche furono eseguite senza particolare distinzione. Dopo la definitiva separazione dei due stili, da una modifica della farfalla nacque il delfino. Da tempo, infatti, si studiava il modo di introdurre nella nuotata a farfalla un calcio nel piano verticale (anziché la gambata a rana); tuttavia i regolamenti internazionali imponevano per la rana e la farfalla movimenti delle gambe esclusivamente simultanei e sul piano orizzontale. Una volta maturata la divisione dei due stili e sancita la differente natura di rana e farfalla, fu ovvio consentire l’evoluzione tecnica del secondo stile. Vennero meno, quindi, le ragioni di principio e di regolamento che ostacolavano l’adozione del calcio verticale, eseguito con una doppia, contemporanea battuta di piedi a crawl, sia pure con un movimento assai più accentuato della flessione delle gambe al ginocchio. Nasceva così il delfino, denominazione che restò nell’uso senza mai divenire ufficiale, poiché la nuova tecnica mantenne sempre il nome di farfalla. Il nuovo stile è nato con precise caratteristiche tecniche (forte colpo di gambe, innalzamento e abbassamento delle anche e immersione del capo), ma in seguito ha subito numerose interpretazioni che lo hanno portato, spesso e sempre più, ad assomigliare a un crawl nuotato con braccia e gambe in movimento simultaneo e simmetrico, con i fianchi tenuti il più possibile orizzontali sull’acqua.
La regolamentazione vieta in modo esplicito la possibilità di eseguire la gambata a rana e prescrive la posizione ventrale piatta del corpo durante tutte le fasi della nuotata, a eccezione di quelle in immersione dopo la partenza e dopo le virate. Come in tutti gli stili, la testa deve rompere la superficie dell’acqua entro i 15 m dopo la partenza e dopo ogni virata. In questa fase si può nuotare in immersione e anche sul fianco e si possono effettuare colpi di gambe a piacere, ma è ammessa una sola trazione di braccia per emergere. Gambe e braccia devono muoversi in modo simultaneo (non necessariamente simmetrico). Dall’inizio della prima bracciata, dopo la partenza e dopo ogni virata, le spalle devono essere tenute in linea con la superficie dell’acqua e le braccia devono essere portate in avanti insieme sopra l’acqua e riportate indietro simultaneamente per tutta la gara. I movimenti in alto e in basso delle gambe devono essere simultanei e non è necessario che la posizione delle gambe o dei piedi mantenga lo stesso livello. A ogni virata e all’arrivo si deve toccare la parete di fondo con entrambe le mani simultaneamente, al livello dell’acqua o sopra o sotto di esso.
Il dorso
Inizialmente il dorso veniva nuotato in modo simmetrico, con un movimento di gambe speculare rispetto a quello della nuotata a rana, mentre il recupero delle braccia si effettuava fuori dall’acqua. A modificarne la tecnica fu per primo, negli anni 1910, lo statunitense Harry Hebner, che introdusse un movimento alternato delle braccia (dorso-crawl o crawl sul dorso) mentre il colpo di gambe era eseguito con un movimento simile a una sorta di pedalata. Questa tecnica non subì evoluzioni fino alle Olimpiadi di Los Angeles del 1932, quando i dorsisti giapponesi esibirono un calcio a gamba quasi distesa, simile a quello del crawl, e uscirono trionfatori dalle prove di dorso della manifestazione. Negli anni fra il 1935 e il 1945 fu introdotta la virata a capriola, con una spinta delle braccia laterale, quasi in superficie rispetto a quella assai più profonda usata fino a quell’epoca. Questa tecnica fu superata intorno agli anni 1960 dai dorsisti australiani, che scoprirono di poter ottenere una spinta più efficace piegando leggermente il braccio mentre eseguivano la fase subacquea, diminuendo così la dispersione laterale della spinta. Nel corso degli anni si sono sviluppate altre variazioni tecniche, legate alla posizione del corpo (disteso piatto sull’acqua, arcuato in posizione ‘seduta’ con testa e spalle sollevate, bracciata iniziata dietro il capo oppure in posizione più esterna rispetto alla spalla).
Da quando ha fatto la sua prima apparizione ai Giochi olimpici di Parigi del 1900 e da quando fu redatta la prima stesura del regolamento internazionale, nel 1912, il dorso ha subito pochi cambiamenti da un punto di vista regolamentare. È l’unica nuotata di competizione in cui si parte dall’interno della piscina, spingendosi dalla parete, anziché tuffarsi dai blocchi di partenza. L’azione delle gambe è essenzialmente una variazione al contrario della battuta del crawl, con le braccia che si muovono verso l’alto, da dentro a fuori dall’acqua. La posizione sul dorso è tassativamente obbligatoria, salvo nelle fasi appositamente regolamentate dell’entrata in virata, ma non è necessariamente piatta; le oscillazioni non debbono però raggiungere i 90° rispetto al piano parallelo alla superficie dell’acqua. Nelle fasi in immersione dopo la partenza e dopo ogni virata è consentito battere le gambe anche simultaneamente, come in un’azione di delfino sul dorso.
Prima del segnale di partenza i nuotatori devono prendere posto nell’acqua, rivolti verso il bordo di partenza, con entrambe le mani aggrappate alle maniglie di partenza. I piedi, incluse le dita, devono essere sotto la superficie dell’acqua. È proibito prendere posizione con i piedi dentro o su un’eventuale canaletta di sfioro o piegare le dita sopra il bordo della canaletta stessa.
Al segnale di partenza e dopo l’esecuzione della virata il concorrente dovrà spingersi e nuotare sul dorso durante tutta la gara, eccetto, come si è detto, quando esegue una virata. La posizione della testa non è rilevante. Durante tutta la gara il concorrente deve rompere la superficie dell’acqua con una qualsiasi parte del corpo. È tuttavia permessa l’immersione durante la virata e per una distanza non superiore ai 15 m dopo la partenza e dopo ogni virata.
Durante la virata le spalle possono essere ruotate oltre la verticale, dopodiché può essere usata una trazione continua di un singolo braccio o simultanea di entrambe le braccia. Una volta che il corpo ha lasciato la posizione sul dorso, qualsiasi battuta di gambe o trazione di braccia deve far parte dell’azione continua di virata. Nell’esecuzione della virata il nuotatore deve toccare la parete, ma può farlo con qualsiasi parte del corpo. Unica condizone è che il concorrente sia ritornato alla posizione sul dorso nel momento in cui si stacca dalla parete. Al termine della competizione il concorrente deve toccare la parete rimanendo sul dorso; al tocco della parete il corpo può essere sommerso.
Altre specialità
Il nuoto in acque libere
Per lungo tempo, prima che la piscina divenisse la sede ufficiale delle competizioni, il nuoto in ambienti naturali (canali, fiumi, navigli, laghi e mare) è stato incontrastato protagonista della conquista sportiva dell’acqua. In Italia, e in quasi tutte le nazioni del mondo, fin dai primi decenni del Novecento si disputarono con regolarità campionati nazionali di nuoto in acque libere, su distanze che andavano dal miglio marino (1852 m) a percorsi quattro volte più lunghi. Nella sua forma sportiva il nuoto di fondo ha assunto una precisa configurazione a partire dagli anni 1990, da quando la LEN prima e la FINA poi ne hanno fatto una delle discipline del nuoto di competizione, divenendone gli organismi di riferimento.
Nel 1992 la FINA ha istituito il Comitato tecnico acque libere, con il fine di disciplinare la materia e dare regole certe per le competizioni e promuovere sistematici confronti a livello mondiale. In seguito a questi lavori, è stato approvato il regolamento mondiale del nuoto di fondo, definendo open water swimming qualsiasi competizione che abbia luogo in fiumi, laghi, mari o oceani. In questo ambito prende il nome di long distance swimming (nuoto di fondo) qualsiasi evento programmato su distanze fino a 10 km, e di marathon swimming (maratona di nuoto) qualsiasi evento programmato su distanze superiori ai 10 km.
Le regole FINA stabiliscono precise norme riguardanti il controllo della manifestazione in ogni aspetto dello svolgimento, da quello arbitrale a quello della sicurezza. Sono definite le figure del giudice arbitro, del suo assistente, del capo dei cronometristi, del responsabile dei giudici, dei giudici di gara, di arrivo, di boa e della sicurezza della competizione. Per quanto riguarda le competizioni, in sede di campionato mondiale esse si svolgono sulle distanze dei 5, 10 e 25 km per i settori maschile e femminile. Le gare possono avere luogo sia in acqua salata sia in acqua dolce, ma il campo di gara deve essere esposto relativamente poco alle correnti e alle onde e avere ovunque profondità superiore al metro. L’aspetto più rilevante, in merito alle caratteristiche del campo di gara, è quello della temperatura dell’acqua. Essa deve essere rilevata due ore prima dell’inizio della gara, nel centro del percorso e a una profondità di circa 40 cm; in queste condizioni non deve essere inferiore ai 14 °C. La partenza della gara avviene con tutti i concorrenti in piedi dietro a una linea di contenimento e immersi in acqua sufficientemente profonda perché possano immediatamente cominciare a nuotare al segnale di partenza. All’arrivo i concorrenti toccano un apposito tabellone verso il quale sono normalmente canalizzati, alto circa 40 cm sulla superficie dell’acqua e largo almeno 5 m.
Tutte le gare sono a stile libero con possibilità di cambiare stile di nuoto durante lo svolgimento. I nuotatori non possono trarre vantaggio dal sostegno o dalla scia di imbarcazioni presenti a qualsiasi titolo sul campo di gara. Essi possono invece raggrupparsi, sfruttare eventuali scie di altri concorrenti, entrare in contatto in modo non pericoloso. Non possono essere indossati indumenti o attrezzi finalizzati ad aumentare il galleggiamento o l’efficienza propulsiva dei nuotatori. Gli atleti possono essere autorizzati a cospargersi di grasso o di sostanze simili, per proteggersi dal freddo, solo dal giudice arbitro ed entro limiti da lui giudicati non eccessivi.
Rispetto al nuoto in piscina le gare in acque libere presentano molte variabili in più, relative alle condizioni meteorologiche e dell’acqua (temperature e gradienti nel campo di gara, moto ondoso, correnti, densità variabile), alle caratteristiche del percorso (presenza e identificabilità delle boe, sviluppo in senso rettilineo o no, passaggi difficili) e infine al problema di individuare la rotta ottimale da tenere e alla qualità dell’assistenza da parte della barca nelle competizioni di maratona. L’aspetto tattico risulta pertanto più evidente che in altre specialità del nuoto. Esso si risolve in una serie di abilità specifiche: preparazione della gara (scelta delle direzioni di nuoto, degli avversari da controllare, del piano tattico da svolgere); controllo della gara (partenza, fase centrale, fase conclusiva); capacità di giudicare correttamente la posizione degli avversari anche se non a contatto; distribuzione dell’impegno nelle varie fasi di gara (attacco, difesa, preparazione del finale).
Determinante, come nel nuoto di competizione in piscina, è l’acquisizione di una tecnica corretta. Nelle condizioni di gara, però, essa è soggetta ad alcuni fattori di controllo non sempre presenti nel nuoto di velocità. Tali fattori inducono e talvolta impongono alcune variazioni rispetto alla tecnica di nuoto abituale: per esempio, è spesso necessario abbandonare il crawl e nuotare a testa alta, sia per orientarsi sia per controllare la gara; può rendersi utile, magari uscendo per primi da una boa, cambiare stile dal crawl al dorso per identificare le posizioni degli avversari o dei compagni. È comunque indispensabile avere una frequenza di nuotata costante, con il giusto controllo dell’ampiezza di avanzamento per ciclo. Su questa base deve però essere sviluppata una particolare abilità nel variare repentinamente il ritmo, come soluzione per togliere di scia un avversario, per colmare distanze con avversari in vantaggio, per imporsi nello sprint finale.
Il nuoto sincronizzato
Pur avendo la stessa età del nuoto, il nuoto sincronizzato è entrato nei Giochi olimpici solo nel 1984. Inizialmente furono i nuotatori maschi a esibirsi in danze circolari nell’acqua, creando una forma artistica del nuoto. La prima gara, riservata agli uomini, si tenne nel 1891 a Berlino; ne seguì un’altra l’anno successivo a Londra. Nuotare in forma artistica divenne però ben presto un’attività tipicamente femminile, favorita dal migliore galleggiamento, in particolare delle gambe, che consentiva alle atlete di eseguire più facilmente figure sopra la superficie dell’acqua. Lo sviluppo del nuoto sincronizzato femminile procedette tuttavia con molta lentezza nei primi tre decenni del 20° secolo. La stessa posizione sociale della donna costituiva infatti una netta limitazione all’affermarsi di questa come di altre forme sportive femminili.
Nel 1924 si tenne a Montreal, in Canada, il primo Campionato (mondiale, in quanto aperto a tutti) con competizioni per figure e nuotate, rigorosamente riservato alle donne. La vincitrice, la nuotatrice canadese Peg Seller, divenne il personaggio di riferimento della nuova disciplina. Solo due anni dopo si sarebbe disputato in Canada un Campionato nazionale di esecuzione di figure, vinto ancora da Seller.
Nel corso degli anni 1930 il nuoto sincronizzato ebbe un notevole sviluppo, dapprima negli Stati Uniti e poi anche in Europa. A questa notorietà contribuì anche il mondo dello spettacolo. Infatti in questo periodo grandi campioni del nuoto divennero anche divi del cinema, come nel caso di Johnny Weissmuller ed Esther Williams (celebre il loro duetto del 1940), di Buster Crabbe e di Eleanor Holm. Nel 1948 la FINA, riunita a Londra per i Giochi olimpici, mostrò per la prima volta interesse per questa nuova disciplina acquatica. Finalmente, alla fine degli anni 1940, il termine ‘sincronizzato’ si impose definitivamente sulle altre definizioni fino ad allora utilizzate (nuoto artistico, figurato, scientifico, balletto acquatico o danze circolari) e Seller formulò il primo regolamento internazionale per il singolo e per il duo.
Le gare di nuoto sincronizzato si articolano in esercizi obbligatori ed esercizi liberi. Gli esercizi obbligatori, o technical routine, richiedono l’esecuzione di una serie di elementi prestabiliti per ciascuna delle competizioni del programma: singolo, duo e squadra. Questi elementi sono scelti ogni quattro anni dalla Commissione tecnica del nuoto sincronizzato della FINA. Nelle fasi eliminatorie dell’esercizio libero combinato, quarta specialità del nuoto sincronizzato, non vi è invece restrizione alcuna né per quello che riguarda la scelta degli elementi, né per l’accoppiamento con la musica. In questo esercizio esegue la prestazione di squadra un numero massimo di 10 nuotatrici, presentando combinazioni di singolo, duo e squadra in un massimo di 5 minuti. L’esercizio deve contenere un singolo, ripetuto una o due volte, oppure due singoli, eseguiti una volta ciascuno; un duetto, ripetuto una o due volte, oppure due duetti, eseguiti una volta ciascuno; una squadra (da 4 a 8 componenti) per una o due volte e per una durata complessiva non inferiore a 2 minuti. Deve inoltre essere articolato nella presentazione di almeno tre parti (due alternanze) e di non più di sei parti (cinque alternanze) in ordine libero. Nei Giochi olimpici per la prova di squadra si disputano due turni: esercizi obbligatori ed esercizi liberi (free routine); per la gara di duo tre turni: esercizi obbligatori, preliminari degli esercizi liberi, finale degli esercizi liberi. Nei Campionati del mondo si disputano tre turni per tutte le prove di singolo, duo e squadra.
Alle fasi finali di ciascuna gara sono ammessi solo 12 concorrenti per ciascuna prova (singoli, duetti, squadre); nelle prove di squadra dei giochi olimpici e dei campionati del mondo, tuttavia, alla finale possono partecipare solo 8 concorrenti.
I competitori sono valutati da una giuria che si esprime con voti da 10 a 0, in base alla maggiore o minore qualità della prestazione. Le 19 posizioni e figure base che le atlete debbono imparare a eseguire e che i giudici sono chiamati a valutare sono dettagliatamente descritte nei regolamenti della FINA. Allo stesso modo sono descritti i 16 movimenti per assumere una delle posizioni base e infine le figure (nei termini delle parti che concorrono a comporle).
Le basi fisiche del nuoto
Il nuoto presenta alcune peculiarità rispetto alle altre forme di locomozione umana. La prima è l’elevato costo energetico richiesto dall’avanzamento in acqua: il nuoto è infatti la forma di locomozione umana che presenta il più alto costo energetico. Per costo energetico si intende la quantità di energia complessiva (o totale) che viene spesa per percorrere l’unità di distanza (o anche una distanza prefissata come riferimento). Complessiva nel senso che è comprensiva sia di quella disponibile in forma di energia meccanica sia di quella che viene dispersa in forma di calore. Minore è il costo energetico di un soggetto, maggiore è la sua efficienza: questo è valido per il nuoto come per tutte le altre forme di locomozione.
L’acqua è un fluido incompressibile e viscoso. Pertanto, quando un corpo solido si muove al suo interno con una certa velocità, essa si oppone al suo avanzamento sottraendogli una parte dell’energia meccanica (resistenza di pressione) per effetto della viscosità. Per avanzare il nuotatore deve vincere l’insieme delle forze resistenti date dal fluido, che sono definite, nel loro complesso, come forze di drag. Il drag viene distinto in passivo o attivo, a seconda che il nuotatore sia trascinato da una forza esterna o produca lui stesso la forza propulsiva necessaria all’avanzamento.
Il drag attivo Fδ è posto in collegamento funzionale con il quadrato della velocità di nuoto, secondo la relazione:
Fδ = δ v2
in cui δ è il coefficiente individuale di drag; Fδ è la risultante delle forze di propulsione generate dai movimenti del nuotatore; v è la velocità media di nuoto. Molto spesso il drag attivo di un nuotatore, soprattutto se di alta qualificazione, risulta inferiore a quello passivo. Nessuna relazione funzionale è stata però finora esplicitata tra le due forme di drag. Le forze sono determinate principalmente da tre cause: la resistenza opposta al trascinamento dell’acqua dovuto all’avanzamento del nuotatore (drag di pressione: FP); l’attrito di superficie o di viscosità che dipende dai fenomeni di aderenza tra pelle e liquido (drag di viscosità: FV); l’ulteriore forma di resistenza dovuta alla formazione di sistemi d’onda e di vortici durante l’avanzamento (drag d’onda: FO). La relazione tra la forza totale di drag Fδ e le cause che la determinano è quindi:
Fδ = FP+FV+FO
Per quanto riguarda il coefficiente di drag individuale, cioè la resistenza che l’acqua oppone all’avanzamento a velocità unitaria di uno specifico nuotatore, esso dipende da fattori antropometrici quali l’altezza, la forma del corpo nel piano perpendicolare all’avanzamento (sezione trasversa del corpo) e il galleggiamento degli arti inferiori. Più alto è un nuotatore, a parità delle altre caratteristiche fisiche, minore è la resistenza; non diversamente le imbarcazioni, a parità di sezione della chiglia, incontrano meno resistenza ad avanzare quanto più sono lunghe. Tuttavia, se le gambe tendono ad affondare, trascinandole passivamente si incontra una maggiore resistenza dell’acqua. Per riallinearle in superficie e annullare questo incremento è necessario batterle, spendendo comunque maggiore energia.
Altri fattori, connessi alla tecnica di nuotata e alla coordinazione, influenzano il drag attivo. Le oscillazioni del tronco, del bacino e delle gambe sulla superficie dell’acqua o su piani a essa perpendicolari concorrono a un incremento diretto del drag; una corretta simmetria di movimento degli arti e la distribuzione degli impulsi propulsivi delle gambe e delle braccia in modo fluido e senza interferenze determinano invece una sua riduzione.
La dipendenza delle forze di drag dalle caratteristiche antropometriche, quali altezza e sezione trasversa del corpo, è poco modificabile con soluzioni tecniche. Sono invece largamente riducibili le resistenze aggiuntive, tipiche dei nuotatori di minore qualificazione, causate da oscillazioni e movimenti superflui nel piano orizzontale e da cattiva coordinazione. Quanto all’attrito di viscosità, è praticata la depilazione del corpo e degli arti, spesso anche della testa (quando non protetta dalla cuffia), per gli effetti di sostanziale miglioramento delle prestazioni cronometriche dovuti alla riduzione dell’aderenza del primo strato di liquido al corpo. Attualmente questo problema è in buona parte risolto con l’uso dei costumi integrali idrorepellenti, capaci di diminuire l’effetto viscoso dell’acqua.
Dovendo l’energia del nuotatore essere spesa per vincere questo tipo di forze, di rilevante entità, risulta del tutto naturale che il costo energetico sia particolarmente elevato nel nuoto. Inoltre, contrariamente a quanto avviene in altre discipline sportive, il costo energetico nel nuoto ha una variabilità individuale elevata: varia con lo stile di nuoto; varia, a parità di stile, con il sesso; varia, infine, con la velocità di nuoto (e questa è la seconda peculiarità di questo sport). Nel nuoto le oscillazioni del costo energetico fra atleti mediocri e nuotatori di alta qualificazione arrivano anche al 300%.
Nelle donne, a pari velocità, il costo energetico del nuoto è più basso di quello degli uomini in misura pari a circa il 30%. In generale ciò si spiega perché le donne galleggiano meglio. Il migliore galleggiamento delle donne è determinato dal fatto che hanno più grasso soprattutto nella parte bassa del corpo (distribuzione che dipende da fattori ormonali): questo fa sì che le loro gambe affondino meno e che quindi diminuisca la resistenza all’avanzamento. Anche la lunghezza minore delle gambe, che diminuisce il momento torcente proprio degli arti inferiori, è un fattore con una significativa incidenza sul minore costo energetico.
Poiché il costo energetico nel nuoto è superiore a quello delle forme di locomozione terrestre, il rendimento idrodinamico sarà necessariamente inferiore: tenuto conto della densità dell’acqua (che è circa 800 volte maggiore di quella dell’aria) e dei fenomeni di viscosità, il rendimento atteso risulterebbe all’incirca pari all’8-10%. Tuttavia, anche questo valore risulta ampiamente sovrastimato e il rendimento del nuoto è di fatto sensibilmente più basso. Nel nuoto interviene infatti un altro fattore, detto efficienza propulsiva, ad abbassare ulteriormente il rendimento della trasformazione di energia biologica (o metabolica) in energia meccanica utile. Questo fattore esprime, in definitiva, il rendimento legato al gesto tecnico e in particolare alla produzione delle forze propulsive.
È questa la terza peculiarità del nuoto, che dipende anch’essa dalle caratteristiche dell’acqua. Per quanto visto in precedenza, tutta l’energia disponibile per l’avanzamento dovrebbe essere utilizzata per vincere la resistenza opposta dall’acqua. L’energia meccanica EM, generata dal nuotatore nella propulsione, e l’energia meccanica Ed, assorbita dal mezzo per effetto delle resistenze proprie, dovrebbero bilanciarsi perfettamente. La realtà è però diversa: l’energia meccanica generata dal nuotatore nella propulsione non è interamente spesa nel lavoro contro le forze resistenti che il mezzo gli oppone: essa è in parte utilizzata per vincere il drag e in parte dispersa sotto forma di energia cinetica Ek trasferita all’acqua. La causa principale sta nella natura dell’acqua, la quale non offre un punto d’appoggio fisso per applicare la forza delle mani e degli arti, ma cede e si muove in senso opposto a quello dell’avanzamento. Infatti la mano arretra rispetto al punto d’entrata durante l’esecuzione della bracciata sotto la superficie dell’acqua: si fa riferimento, naturalmente, allo spostamento reale, misurato rispetto a un riferimento solidale con la piscina, non già con il nuotatore. Poiché l’arretramento della mano dei nuotatori di alta qualificazione è inferiore rispetto a quello dei nuotatori mediocri, la sua stima è utilizzata proprio come uno dei criteri per valutare le qualità di un nuotatore. Come effetto finale del fatto che l’acqua non offre un punto d’appoggio fisso, circa il 50% dell’energia cinetica è disperso accelerando acqua in direzione opposta all’avanzamento. Ne consegue che il rendimento effettivo scende da circa l’8-10% al 4-6%.
Il valore che indica la frazione o quota d’energia disponibile per il lavoro esterno, che viene realmente utilizzata durante l’avanzamento, rispetto a quello speso dal nuotatore è il parametro adimensionale noto come efficienza propulsiva ηP. Essa è data dal rapporto tra l’energia che effettivamente determina l’avanzamento del nuotatore e l’energia EM disponibile ai fini del lavoro esterno (quella totale diminuita della quantità trasformata in calore).
Il lavoro utile LU ai fini della prestazione è la differenza tra l’energia meccanica totale EM, di cui il nuotatore dispone per effetto della conversione dell’energia biochimica, e l’energia cinetica Ek che disperde accelerando l’acqua nella direzione opposta al movimento di nuoto, cioè:
LU = EM – Ek
Ciò consente di calcolare il rendimento effettivo della propulsione o efficienza propulsiva ηP come rapporto tra lavoro utile LU ed energia meccanica totale EM:
ηP = LU/EM
L’energia Ed che potrà essere spesa per vincere le forze resistenti è ovviamente solo quella disponibile come lavoro utile LU:
Ed = LU
L’efficienza propulsiva dipende in modo direttamente proporzionale da fattori antropometrici e da altri connessi alla tecnica di nuotata, alla coordinazione e agli aspetti energetici. Hanno una relazione funzionale positiva con l’efficienza propulsiva i movimenti che comportano ricerca di acqua ferma su cui esercitare la presa con la mano; quelli che aumentano la distanza totale coperta dalla mano sott’acqua; quelli che si sviluppano accelerando la mano sott’acqua nella fase di spinta e decelerandola, decontraendo la muscolatura, nella fase di recupero; infine, quei movimenti che si realizzano con elevato contributo aerobico alla fornitura di energia biochimica.
I fattori antropometrici principali che influenzano positivamente l’efficienza propulsiva sono la lunghezza delle braccia, perché in realtà la superficie d’appoggio nel generare propulsione è rappresentata da tutto il braccio e dall’avambraccio e non solo dalla mano; le dimensioni delle mani e dei piedi, perché più grandi sono le mani e i piedi, maggiore è la possibilità di esercitare pressione su ampie superfici, servendosi dell’acqua come se fosse un appoggio fisso.
Da quanto detto si comprende chiaramente come la tecnica sia un elemento di alta qualificazione nel nuoto di competizione. Usare una tecnica corretta significa utilizzare al meglio il proprio potenziale energetico, sviluppando un’alta efficienza propulsiva; nello stesso tempo significa diminuire le forze di drag da vincere e quindi ridurre il costo energetico associato alla prestazione. Perciò non esistono modelli di tecnica che non si basino sulla comprensione della genesi delle forze di propulsione e sulla valutazione delle forze che si oppongono al movimento in acqua. I requisiti fondamentali per valutare la tecnica di un nuotatore non si risolvono quindi in schemi motori o coordinativi prestabiliti, ma vanno ricercati nell’efficacia ed economicità: sono riferibili alla produzione della velocità (efficacia) e alla riduzione del costo energetico (economicità), inteso come quella quantità di energia complessiva che è necessaria per percorrere una certa distanza.