Occupazione
Nel linguaggio comune il termine 'occupazione' designa l'uso o il possesso di qualcosa, oppure l'essere impegnati, coinvolti in qualche attività (dal latino capere, 'prendere' qualcosa). Gli economisti in generale hanno imposto un'accezione più ristretta del termine, più vicina a quella di 'impiego' (dal latino implicare, 'essere coinvolti' in qualcosa, che è la radice dell'equivalente inglese di 'occupazione', employment), per indicare lo scambio contrattuale in cui il lavoratore vende all'imprenditore il proprio lavoro in cambio di una remunerazione che prende il nome di 'retribuzione' o 'salario'. Diversamente da quanto accade nel sistema schiavile, in questo caso sono le prestazioni lavorative dell'individuo, e non l'individuo stesso, a essere 'impegnate' o 'occupate' sotto i termini del contratto. Quando tale 'impegno' presenta una certa regolarità, o è garantito da un accordo contrattuale, 'occupazione' diventa sinonimo di 'lavoro', 'impiego'. Il tipo di prestazioni lavorative che devono essere erogate, la remunerazione che spetta al lavoratore e la durata del contratto specificati nell'accordo contrattuale variano notevolmente a seconda del periodo storico e dei tipi di impiego. Ad esempio, il contratto può stabilire l'estensione e la distribuzione temporale della prestazione lavorativa, i risultati che devono essere conseguiti dal lavoratore, le operazioni o le azioni esatte che devono essere compiute, o può semplicemente prescrivere di attenersi alle istruzioni impartite dal datore di lavoro o da chi lo rappresenta. Il salario, o retribuzione, può essere calcolato in vari modi: per unità di tempo, ossia in base alle ore complessive di lavoro e alla loro distribuzione nell'arco della giornata (fascia diurna o notturna) e della settimana (giorni feriali o festivi), per unità di prodotto (cottimo), o in proporzione alle vendite del prodotto (provvigione). La retribuzione può essere corrisposta sotto forma di partecipazione ai prodotti o ad altri beni e servizi (vitto e alloggio), oppure può essere espressa in termini di unità monetaria o di altri mezzi di pagamento (come ad esempio buoni o titoli d'acquisto convertibili in beni presso gli esercizi commerciali dell'azienda).
Gli acquirenti delle prestazioni lavorative saranno altri individui o gruppi di individui organizzati in imprese, i quali possono utilizzare tali prestazioni o per il proprio beneficio personale, considerando il loro uso come una qualsiasi altra spesa in consumi, oppure per la produzione di beni o servizi, con la prospettiva di poterne più che compensare il costo d'acquisto. Poiché l'acquisto di lavoro per il proprio consumo personale di solito richiede un reddito da ricchezza accumulata, e il suo impiego per scopi produttivi in genere richiede il possesso di un capitale, gli acquirenti sono perlopiù redditieri o capitalisti che utilizzano le proprie ricchezze, oppure imprenditori che si fanno anticipare i capitali da questi ultimi o dalle banche; a volte però può trattarsi di individui che utilizzano il proprio reddito da lavoro, ad esempio per assumere un aiuto domestico oppure una persona che si prenda cura dei figli nel caso di genitori che lavorano entrambi fuori casa.
L'esistenza generalizzata di un mercato del lavoro richiede dunque che vi siano individui il cui unico mezzo per assicurarsi la sussistenza è la vendita del proprio lavoro, oppure che scelgono di vendere le proprie prestazioni lavorative anziché acquistare quelle di altri, organizzandole per produrre un reddito addizionale non da lavoro, o anziché produrre per il proprio consumo. Di conseguenza nelle società tribali non esisteva 'occupazione', né i servi e i contadini dell'epoca feudale erano 'impiegati' alle dipendenze del signore feudale. Di occupazione si può parlare solo a partire dalla rivoluzione industriale, con l'introduzione della produzione capitalistica nelle fabbriche.
Un prerequisito essenziale dell'occupazione nel senso sopra definito è quindi l'esistenza di una classe di lavoratori liberi che cercano di assicurarsi la sussistenza con i frutti del proprio lavoro. Ovviamente ciò presuppone che all'individuo sia riconosciuto il diritto di disporre liberamente della propria persona e del proprio lavoro. In Europa ciò avvenne con l'abolizione della schiavitù e sotto l'influenza dei filosofi illuministi, che si rifacevano alle teorie di John Locke, secondo il quale ogni individuo ha un diritto naturale di proprietà sulla propria persona nonché "sul lavoro del proprio corpo e l'opera delle sue mani". Ma perché potesse nascere un mercato del lavoro non era sufficiente il riconoscimento del diritto di vendere le proprie prestazioni lavorative; fintantoché l'individuo era in grado di mantenersi con il proprio lavoro poteva esserne egli stesso l'acquirente, come avveniva nella produzione artigianale o nell'agricoltura di sussistenza.
La vendita generalizzata di prestazioni lavorative da parte di una classe di lavoratori liberi presuppone che non vi sia l'alternativa del lavoro autonomo. In Inghilterra le enclosures delle terre comuni, che avevano fornito i mezzi di sussistenza a una classe di 'uomini liberi', contribuirono in maniera decisiva alla formazione di una classe di persone la cui sopravvivenza dipendeva dalla vendita del proprio lavoro. Tale processo fu ulteriormente favorito dai progressi tecnici nell'agricoltura, che ridussero la quantità di manodopera necessaria per lavorare la terra, e dal sistema del maggiorascato, che accrebbe il numero dei cadetti senza proprietà terriere. La domanda di lavoro aumentò a seguito dell'introduzione delle macchine - dapprima idrauliche e in seguito a vapore - nelle fabbriche e nelle miniere. Nello stesso tempo l'applicazione estensiva della divisione del lavoro e la crescente specializzazione delle mansioni lavorative comportò una perdita delle abilità generali richieste dalla produzione artigianale o di sussistenza. Il concetto di 'occupazione' come scambio contrattuale mediante il quale una classe di lavoratori liberi vende le proprie prestazioni in cambio di una retribuzione è dunque direttamente legata all'introduzione della produzione capitalistica nel corso della rivoluzione industriale.
Sin dagli inizi dell'età moderna è esistito il problema della disoccupazione per quella classe di individui la cui sussistenza dipende dalla vendita del proprio lavoro. L'entità del problema venne riconosciuta per la prima volta verso la prima metà del XVI secolo in Inghilterra, con la comparsa di masse di contadini non più legati al manor né ad alcun superiore feudale; la loro graduale trasformazione in una classe di lavoratori liberi fu il risultato combinato delle severe misure contro il vagabondaggio e dello sviluppo dell'industria domestica, incoraggiato dalla rapida espansione del commercio estero. Alla fine del XVI secolo questa massa crescente di poveri era diventata un notevole problema pubblico. All'epoca veniva definito 'povero' chiunque non possedesse un reddito derivato dal capitale o dalla terra che gli consentisse di vivere senza lavorare, ossia tutti coloro che non erano gentlemen (nel senso appunto di 'redditieri'). Non sussisteva dunque alcuna differenza tra la povertà di chi era senza lavoro e la povertà di quanti percepivano salari al di sotto del livello di sussistenza.
Per far fronte al problema del pauperismo si pensò di costituire un fondo per l'assistenza attraverso le 'tasse dei poveri' (Poor rates), istituite nel 1572. Ma già una legge del 1575, che prescriveva di fornire "ai poveri e ai bisognosi" un quantitativo di lana da filare e da porre in vendita per provvedere al loro sostentamento, segnalava una tendenza a passare dal welfare al cosiddetto workfare, ossia dall'assistenzialismo alla rieducazione al lavoro. Anche la Poor law del 1601 prescriveva di fornire lavoro ai bambini e a "tutte quelle persone sposate o meno" che non possedevano "i mezzi per mantenersi" o non avevano un'occupazione stabile che consentisse loro di guadagnarsi da vivere, al fine di autofinanziare le misure assistenziali utilizzando manodopera disoccupata per la produzione di beni da mettere in commercio.
Oltre a intraprendere queste misure per favorire l'occupazione, lo Stato interveniva anche nella determinazione dei salari. I primi controlli diretti dei salari vennero istituiti dopo l'epidemia di peste del XIV secolo, con l'introduzione di particolari statuti mirati a limitare l'aumento eccessivo dei salari causato dalla scarsità di manodopera. Nel 1563 lo Statuto degli artigiani prevedeva forme di lavoro coatto per i poveri e stabiliva un minimo di sette anni di apprendistato per l'esercizio di "qualsiasi arte o mestiere o lavoro manuale", affidando a un gruppo di funzionari locali il compito di stabilire i massimi salariali. Le regolamentazioni di questo Statuto erano estremamente dettagliate: venivano stabiliti gli orari di lavoro ("dovranno essere al lavoro alle cinque del mattino o prima, e continuare a lavorare sino alle sette e mezza della sera, tranne che nelle pause per la colazione, per la cena o per bere, che non dovranno superare le due ore e mezzo al giorno") e il tipo di lavoro ("scavare un fossato di 16 piedi e mezzo di lunghezza, 3 piedi di profondità e 5 piedi di larghezza su un terreno di ghiaia o sassi, trasportare sul medesimo due casse di piante ed erigere una siepe di recinzione, ricevendo per ogni tratto di siepe della lunghezza di una pertica, eseguito senza interruzioni per mangiare e per bere, non oltre 6 pence": cfr. A.E. Bland, P.A. Brown, R.H. Tawney, English economic history: selected documents, London 1921, pp. 327 e 346).
Durante il XVII secolo l'idea che i poveri fossero semplicemente degli oziosi idonei al lavoro lasciò il posto alla convinzione che il problema del pauperismo fosse la conseguenza di una errata organizzazione della società. Nel 1660 un quacchero di nome Lawson pubblicò un 'Appello al Parlamento' in cui si proponeva di favorire la mobilità dei lavoratori attraverso la creazione di un sistema di agenzie pubbliche di collocamento. Per tutta risposta, il governo della Restaurazione emanò nel 1662 l'Act of settlement and removal che andava in direzione esattamente opposta, vincolando i poveri alla parrocchia locale, fondamentalmente al fine di evitare la concorrenza tra i sistemi assistenziali delle diverse parrocchie. Così, per far fronte al problema dell'assistenza ai poveri si adottò la soluzione di regolamentare la vita di individui liberi, obbligandoli ad accettare un'occupazione nelle case di lavoro e privandoli di ogni libertà di scegliere il tipo di lavoro per sé e per i propri figli, il salario per il quale lavorare, e il luogo in cui risiedere.
Nel 1696 John Bellers propose di istituire dei 'collegi manifatturieri' (colleges of industry) con lo scopo di sfruttare l'ozio involontario dei poveri per usi produttivi. Lo scopo non era tanto quello di facilitare la ricerca di un datore di lavoro, quanto piuttosto di suggerire che quest'ultimo sarebbe diventato superfluo se i lavoratori avessero potuto scambiare direttamente i beni da loro prodotti. Poiché, secondo Bellers, "il lavoro dei poveri è la miniera dei ricchi", essi avrebbero potuto lavorare autonomamente, tenendo per sé i profitti. A questo scopo si sarebbe dovuto creare un 'collegio' o corporazione in cui i poveri avrebbero unito solidalmente i loro sforzi e avrebbero fatto "del lavoro, e non del denaro, il criterio con cui valutare tutti i beni di prima necessità". I lavoratori, trecento per ogni collegio, avrebbero lavorato collettivamente per la semplice sussistenza, ricevendo però una remunerazione per tutto ciò che avrebbero prodotto in più. La proposta di Bellers era destinata a ispirare tutta una serie di progetti, dai villaggi cooperativi di Robert Owen, ai falansteri di Fourier, alle banche di scambio basate sul valore del lavoro di Proudhon, agli ateliers nationaux di Louis Blanc, agli Stati nazionali del lavoro di Lassalle. Sempre nel 1696, John Cary fondò la Bristol Corporation for the Poor. L'iniziativa ebbe un momentaneo successo, ma al pari di tutte le altre imprese di questo genere non produsse alcun profitto (v. Polanyi, 1944).
Nel XVIII secolo il dibattito si spostò sull'introduzione di minimi salariali come misura di sostegno per i lavoratori poveri. Nel 1795 i giudici di pace della contea di Berkshire, riunitisi a Speenhamland, decisero all'unanimità che "l'attuale situazione dei poveri richiede una maggiore assistenza di quella che in generale sinora è stata loro fornita. [...] I magistrati decretano [...] di aumentare la paga dei lavoratori in proporzione al prezzo corrente dei generi di prima necessità [...] e di assegnare dei sussidi in base ai seguenti calcoli a tutti gli uomini poveri e industriosi e alle loro famiglie [...]. Ciò vale a dire, quando la pagnotta da un gallone di farina di seconda scelta, del peso di 8 libbre e 11 once, costerà uno scellino, allora ogni individuo povero e industrioso dovrà avere per il suo sostentamento 3 scellini alla settimana, o sotto forma di guadagno del lavoro suo o della sua famiglia, oppure sotto forma di sussidio proveniente dalle tasse dei poveri [...] e così in proporzione, a seconda che il prezzo del pane salga o scenda, (vale a dire), 3 pence per l'uomo e 1 penny per ogni altro membro della famiglia, per ogni aumento di un penny oltre lo scellino del prezzo della pagnotta". Il sistema di Speenhamland alla fine venne adottato in tutta l'Inghilterra, garantendo ai lavoratori il minimo salariale stabilito dalla legge attraverso integrazioni finanziate con denaro pubblico. Tale sistema prevedeva anche una sorta di assegni familiari, ed eliminava la necessità di accettare un'occupazione nelle case di lavoro locali; esso tuttavia non forniva alcun incentivo alle imprese affinché pagassero perlomeno i salari di sussistenza, né incentivava i lavoratori ad aumentare la propria produttività, dato che il minimo salariale era garantito comunque. Il sistema di Speenhamland fu introdotto in un momento in cui il numero dei poveri nei villaggi era in costante aumento a seguito della concorrenza del commercio straniero e dell'introduzione delle macchine a vapore nelle industrie manifatturiere.
Nel 1834 la Commissione per la Poor law cercò di eliminare quello che era di fatto un sussidio alle imprese, proponendo di adottare un sistema uniforme di assistenza che avrebbe dovuto essere fornita solo 'dall'interno', attraverso l'occupazione nelle case di lavoro, in modo da abolire i sussidi 'esterni' introdotti col sistema di Speenhamland. Le spese crescenti che questo aveva ingenerato furono all'origine di una delle prime proposte di 'privatizzare' l'assistenza ai poveri.Bentham, che si riteneva avesse determinato con le sue critiche il ritiro del progetto di riforma globale della Poor law presentato da Pitt, avanzò una serie di proposte miranti a sfruttare la manodopera dei poveri per azionare i macchinari della sua manifattura per la lavorazione della lana e dei metalli. L'idea di Bentham era semplicemente quella di estendere il progetto panottico da lui ideato per la costruzione dei penitenziari a una fabbrica in cui la manodopera fosse costituita da poveri anziché da carcerati. Lo sfruttamento del lavoro dei poveri avrebbe dovuto essere organizzato secondo il modello dello Statuto della Banca d'Inghilterra, con la sottoscrizione di azioni con diritto di voto. Un testo pubblicato pochi anni dopo proponeva di affidare "la gestione dell'assistenza ai poveri in tutta la Gran Bretagna meridionale [...] a un'unica autorità", usando il denaro di un unico fondo. L'autorità in questione, quella di una società di capitali che avrebbe potuto assumere una denominazione del tipo National charity company, avrebbe dovuto costruire non meno di 250 case di lavoro per circa 500.000 poveri.Il progetto era accompagnato da un'analisi dettagliata delle varie categorie di disoccupati, in cui Bentham anticipava di oltre un secolo i risultati di altre indagini in questo campo. La categoria dei disoccupati che erano stati licenziati di recente era distinta da quella di coloro che non riuscivano a trovar lavoro a seguito di una "stagnazione occasionale"; la "stagnazione periodica" che colpiva la manodopera stagionale era distinta dalla disoccupazione causata dall'introduzione nelle fabbriche delle macchine che si sostituiscono alla manodopera - ossia, in termini moderni, dalla cosiddetta 'disoccupazione tecnologica'; vi erano poi i militari in congedo, un'altra categoria moderna che aveva acquistato importanza, all'epoca di Bentham, a seguito della guerra con la Francia. La categoria più significativa, comunque, era quella dei disoccupati a seguito di una "stagnazione occasionale", che includeva non solo artigiani e artisti che esercitavano mestieri "dipendenti dalla moda", ma anche il gruppo assai più importante dei disoccupati a causa di una "stagnazione generale delle manifatture". I progetti di Bentham cercavano semplicemente di eliminare il pauperismo attraverso una commercializzazione privata della disoccupazione (v. Polanyi, 1944).
Nel 1819 Robert Owen riscoprì la vecchia idea di Bellers dei colleges of industry e presentò un progetto analogo per risolvere il problema della disoccupazione; sebbene tra i componenti della Commissione incaricata di raccogliere sottoscrizioni figurasse anche David Ricardo, nessun finanziatore si fece avanti. La stessa sorte toccò al progetto dei falansteri di Charles Fourier, basato su idee analoghe, che non riuscì a trovare alcun sostenitore. Owen fu più fortunato con le riforme intraprese nell'opificio di New Lanark, impresa cui partecipò anche Jeremy Bentham in qualità di socio non attivo. A un totale insuccesso andò incontro invece il tentativo compiuto da Owen nel 1832 di realizzare, con il National Equitable Labor Exchange, l'idea di Bellers di uno scambio di beni fondato sul valore del lavoro. Un'altra idea di Bellers, quella dell'autosufficienza della classe lavoratrice, fu alla base di un'iniziativa delle organizzazioni sindacali mirata a creare un'associazione generale di tutte le arti e i mestieri, senza escludere i piccoli imprenditori, con il vago obiettivo di farne un'unica società indipendente e autosufficiente. All'esperimento di Owen si ispirò Proudhon nel creare la Bank of Exchange, una banca di scambio basato sul valore del lavoro. Marx schernì le idee di Proudhon e da allora, così come era stato proposto nell'emendamento del 1578 alla Poor law originale, si affermò l'idea che toccava allo Stato il compito di fornire i capitali, anziché la lana per filare, per realizzare progetti collettivistici quali quelli di Louis Blanc e di Lassalle. I germi del socialismo scientifico di Marx erano già presenti nell'idea secondo cui il pauperismo si poteva risolvere se solo si fosse potuto trovare un datore di lavoro e se i poveri, adeguatamente guidati, avessero potuto svolgere un lavoro autonomo, liberandosi con ciò dal bisogno e dalla dipendenza dal lavoro salariato (v. Polanyi, 1944).
Non erano mancati gli scettici i quali avevano messo in dubbio la possibilità di ricavare un qualche profitto dall'occupazione dei poveri. In un pamphlet pubblicato nel 1704 Daniel Defoe sostenne che se i poveri avessero ricevuto un sussidio senza essere costretti a lavorare, non sarebbero più stati disposti a occuparsi in cambio di un salario, mentre se fossero stati impiegati nelle case di lavoro per produrre merci con salari sussidiati, sarebbero entrati in concorrenza con gli operai delle imprese private causandone la disoccupazione. Il pamphlet concludeva quindi che "fare l'elemosina non è un atto di carità, e dar lavoro ai poveri è un torto alla nazione". Questa tesi fu resa popolare dalla famosa favola di Mandeville sulle api raffinate che prosperano incoraggiando il vizio e lo spreco.In queste discussioni emergeva un generale consenso su due punti: la desiderabilità di una popolazione numerosa - poiché il potere dello Stato si basa sui cittadini che lavorano - e la necessità di una manodopera a basso costo affinché le imprese possano essere produttive. Sembrava dunque ovvio che si sarebbe potuto fare a meno dell'assistenza ai poveri se questi fossero stati vantaggiosamente impiegati per il profitto pubblico così come lo erano per il profitto privato. Le soluzioni avanzate per risolvere il problema del pauperismo si basavano quindi sull'idea che un'organizzazione appropriata del lavoro dei disoccupati avrebbe prodotto un surplus da distribuire o tra gli azionisti, secondo il progetto di Bentham, o tra i lavoratori stessi, secondo quello di Owen. Ciononostante l'onere dell'assistenza ai poveri continuò ad aumentare. Nei 120 anni che separano Bellers da Owen la popolazione triplicò, mentre il costo dell'assistenza ai poveri aumentò di ben venti volte. Il problema principale non era più quello di alleviare il pauperismo fornendo lavoro ai poveri, bensì quello di alleviare i contribuenti dagli oneri del pauperismo.
Verso la fine del Settecento il problema del pauperismo cominciò ad attirare l'attenzione degli economisti oltre che dei riformatori sociali e dei filosofi. Nel 1776 Adam Smith pubblicò la Ricchezza delle nazioni. Basandosi sull'idea che la domanda di manodopera può provenire solo da chi possiede capitali propri o può prenderli in prestito, Smith avanzò la tesi secondo cui il livello dell'occupazione sarebbe determinato dai "fondi destinati al pagamento dei salari", dati i tassi salariali che all'epoca erano ancora soggetti alla regolamentazione statale. Da questa idea scaturì la cosiddetta 'teoria del fondo salari', secondo la quale esisterebbe una quota fissa del capitale accumulato destinata all'assunzione di manodopera. Tale fondo può essere utilizzato per aumentare o i salari o il numero dei lavoratori occupati. Chiaramente, se il fondo salari è fisso, il numero dei lavoratori può aumentare soltanto attraverso la riduzione dei salari; esiste tuttavia un limite a tale riduzione, dal momento che i salari non possono essere inferiori al livello minimo di sussistenza necessario alla riproduzione della forza lavoro.
Un anno dopo l'entrata in vigore delle integrazioni salariali previste dal sistema di Speenhamland, Thomas Malthus pubblicò il suo Saggio sul principio della popolazione, in cui affermò che il pauperismo era l'effetto di una legge di natura, ossia del divario strutturale crescente tra mezzi di sussistenza e popolazione, in quanto i primi crescono in proporzione aritmetica mentre la seconda cresce in proporzione geometrica; la povertà, di conseguenza, è destinata inevitabilmente ad aumentare. Riecheggiando le idee di Defoe, Malthus sostenne che le misure assistenziali erano nel migliore dei casi un palliativo illusorio, incapace di risolvere il problema alle radici. Nassau Senior, sostenitore della teoria del fondo salari e membro della Commissione per la riforma della Poor law, affermò che le tasse dei poveri di fatto non facevano che peggiorarne la situazione, in quanto riducevano il fondo salari destinato alla retribuzione dei lavoratori; nel migliore dei casi avrebbero lasciato invariati i redditi totali (salari più sussidi). Sia per Malthus che per Nassau, l'intervento statale non avrebbe potuto alterare in modo permanente le leggi di natura, né le dimensioni del fondo salari. Ogni tentativo di eliminare il pauperismo consentendo un aumento dei salari al di sopra del livello minimo di sussistenza avrebbe avuto come unica conseguenza una crescita eccessiva della popolazione, e quindi dei lavoratori, che sarebbero entrati in concorrenza tra loro determinando nuovamente una riduzione dei salari al livello di sussistenza e un incremento della povertà.
Gli economisti meritavano pienamente la loro reputazione di cultori di una 'triste scienza'. In base a tali argomenti, la sospensione delle integrazioni salariali introdotte dal sistema di Speenhamland non avrebbe peggiorato ulteriormente la situazione dei poveri, mentre avrebbe alleviato quella dei contribuenti che formavano la popolazione attiva. Come unica alternativa restava la riduzione della crescita della popolazione o attraverso l'astinenza - soluzione per la quale optò alla fine Malthus - o attraverso programmi statali di controllo delle nascite - come proposero alcuni economisti liberali, da John Stuart Mill a Knut Wicksell.
Nonostante le riforme, l'assistenza ai poveri continuò ad aumentare e nel 1905 venne nominata un'altra Commissione per la riforma della Poor law. Essa riconobbe la possibilità di una carenza strutturale di occupazione, e pose le basi per l'approvazione, nel 1948, del Piano Beveridge per la previdenza sociale. Il problema dell'occupazione restava dunque legato a quello della povertà e di altre forme di ineguaglianza sociale.
L'introduzione implicita di un sistema di salari fissi attuata a Speenhamland sollevava il problema degli incentivi al lavoro e del rapporto tra salari e produttività del lavoro. All'inizio del secolo era generalmente accettata l'idea che salari più elevati potessero incrementare la produttività dei lavoratori e quindi la domanda di lavoro, indipendentemente dalle dimensioni del 'fondo salari'. La teoria del fondo salari venne dunque abbandonata e si preferì parlare di un 'flusso dei salari' determinato dai rendimenti attesi dall'impiego di manodopera.
Ciò aprì la strada all'applicazione dei principî marginalisti all'analisi dell'occupazione. La decisione di abolire il sistema di Speenhamland ebbe l'effetto di creare ciò che gli economisti definiscono un libero mercato del lavoro, svincolando i salari dalla regolamentazione statale ed eliminando le restrizioni poste alla mobilità dei lavoratori. La teoria del fondo salari venne abbandonata e gli economisti cominciarono ad analizzare il 'mercato' della merce 'lavoro', considerata alla stregua di qualsiasi altro tipo di bene o servizio.Il problema della povertà venne trasformato nel problema di un eccesso di offerta sul mercato del lavoro. Il problema di creare occupazione per eliminare la povertà venne trasformato nel problema di spiegare perché il mercato di concorrenza perfetta non elimina automaticamente la disoccupazione, ossia l'offerta in eccesso di individui che cercano di vendere le proprie prestazioni di lavoro in cambio di un salario. Così come il problema del pauperismo aveva afflitto il XVII e il XVIII secolo, quello della disoccupazione avrebbe afflitto i due secoli successivi.
Nella prospettiva marginalista, le cause della disoccupazione vanno ricercate in una eccedenza dell'offerta di lavoro, piuttosto che in una insufficienza della domanda. Le leggi della domanda e dell'offerta operanti sul mercato dei beni, infatti, sarebbero direttamente applicabili anche al mercato del lavoro. Se vi è un eccesso di offerta di un certo tipo di bene, ciò comporta un abbassamento dei prezzi sino a quando i produttori non si orienteranno verso altri prodotti per i quali le condizioni della domanda sono migliori, attirando nuovi compratori. Questo processo di sostituzione nella produzione e nel consumo dovrebbe continuare sino a che offerta e domanda si equilibrano al prezzo di mercato. Il mancato verificarsi di questa condizione di equilibrio significa o che la discesa dei prezzi è stata bloccata, o che il processo di sostituzione è stato ostacolato. Applicando la stessa analisi alla merce lavoro, è evidente che la disoccupazione è dovuta o al fatto che si è impedito il funzionamento del meccanismo del libero mercato, o alla mancata diminuzione dei salari, oppure a una insufficiente flessibilità dei lavoratori che non si orientano verso occupazioni alternative o non si adattano alle condizioni di lavoro esistenti. In breve, se vi è un eccesso di offerta, ciò è dovuto a una condizione di concorrenza imperfetta sul 'mercato del lavoro'. Le riforme della Poor law cercarono di porre rimedio a questa condizione eliminando ogni forma di integrazione e di sostegno dei salari.I risultati cui conduceva l'analisi marginalista non erano quindi molto diversi da quelli cui perveniva la teoria del fondo salari: a un aumento dell'occupazione doveva corrispondere una diminuzione dei salari. Dato lo stock di beni capitali, l'impiego di quantità di lavoro addizionali dà luogo a un incremento della produzione in quantità marginali decrescenti. Per l'impresa il profitto sarà massimizzato a quel livello di occupazione in cui l'incremento marginale della produzione apportato dall'impiego di quantità addizionali di lavoro eguaglia il costo reale del salario che l'impresa paga per esso. La massimizzazione del profitto implica dunque che la domanda di lavoro sia una funzione decrescente del tasso dei salari reali. L'offerta di lavoro d'altro canto è determinata dalla massimizzazione dell'utilità da parte del lavoratore, che attribuisce utilità negativa al lavoro e utilità positiva al tempo libero. La massimizzazione dell'utilità implica che l'offerta di lavoro è una funzione crescente del saggio del salario reale quando il lavoro è sostituito con il tempo libero. Il saggio del salario reale allora eguaglia l'offerta e la domanda di lavoro, e determina il livello di produttività. Il fattore più importante è la preferenza dei lavoratori tra lavoro e tempo libero, perché una preferenza decrescente per il tempo libero, rappresentata dalla disponibilità a lavorare per salari reali inferiori, determinerà un orientamento verso destra della curva dell'offerta e un maggior livello di occupazione e di produzione quando la curva della domanda interseca quella dell'offerta a un livello del salario reale inferiore. Sulla base di questa analisi, il fenomeno della disoccupazione andrebbe ricondotto unicamente alla preferenza dei lavoratori per il tempo libero, poiché un orientamento delle preferenze verso il lavoro comporterebbe un aumento automatico dell'occupazione. La domanda di lavoro è determinata principalmente dalle condizioni tecniche, rappresentate dal capitale investito, da cui dipendono i coefficienti tecnici di produzione; questi sono alla base della relazione inversa tra impiego di unità addizionali di lavoro e aumento della produzione, espressa dalla legge dei rendimenti decrescenti. Solo uno sconvolgimento di questa relazione causato da shocks tecnologici potrebbe causare uno spostamento della curva della domanda, ma finché i lavoratori sono liberi di scegliere tra lavoro e tempo libero, ogni riduzione della domanda di lavoro causata da un incremento della produttività del capitale o da una diminuzione della produttività del lavoro potrebbe essere compensata solo da una riduzione dei salari reali e da un incremento del numero dei lavoratori che scelgono di beneficiare di tempo libero addizionale. Di conseguenza, le principali cause della disoccupazione andrebbero ricercate dal lato dell'offerta sul mercato del lavoro.
Marshall fu tra i primi economisti moderni a mettere in dubbio la tesi secondo cui la determinazione dei salari sul mercato del lavoro avviene secondo le stesse leggi della domanda e dell'offerta che determinano i prezzi di mercato dei beni. Il processo di contrattazione che determina i prezzi in un mercato concorrenziale richiede un equilibrio approssimativo di forze tra il lato dell'offerta e quello della domanda. Riprendendo una tesi che si può ritrovare già in Adam Smith, Marshall osservò che "quando un lavoratore rischia la fame, il suo bisogno di denaro [l'utilità marginale che questo ha per lui] è molto grande; e se all'inizio ha la peggio nella contrattazione, ed è costretto ad accettare un salario basso, il suo bisogno resta grande, ed egli può continuare a vendere il proprio lavoro a un salario basso. Ciò è tanto più probabile in quanto, mentre nel mercato dei beni il potere contrattuale è quasi sempre ben distribuito tra il lato dell'offerta e quello della domanda, sul mercato del lavoro è assai più spesso dalla parte dei compratori. Un'altra differenza tra il mercato del lavoro e il mercato delle merci è data dal fatto che in questo caso ogni venditore di forza lavoro dispone di una sola unità di lavoro. Questi due fattori, assieme a numerosi altri, spiegano in gran parte l'istintiva avversione che le classi lavoratrici dimostrano nei confronti dell'abitudine di certi economisti, in particolare di quelli appartenenti alla classe degli imprenditori, di considerare il lavoro come una qualsiasi altra merce, e il mercato del lavoro come qualsiasi altro mercato; laddove di fatto le differenze tra i due, per quanto non essenziali dal punto di vista della teoria, sono nondimeno assai nette, e sul piano pratico spesso di grande importanza." (v. Marshall, 1920⁸, pp. 335-336).
Può dunque esservi una tendenza a fissare i salari al di sotto del livello di equilibrio, ma ciò implicherebbe un eccesso di domanda e di conseguenza non dovrebbe esservi sottoccupazione. Marshall chiaramente condivideva le preoccupazioni di Smith in merito alla forza contrattuale delle imprese, ma via via che le organizzazioni sindacali diventavano più forti ed erano in grado di esercitare una maggiore influenza sulle decisioni relative all'offerta di lavoro - configurandosi come un 'potere controbilanciante', per usare la definizione di Galbraith - la contrattazione sul mercato del lavoro venne considerata sostanzialmente più equilibrata. Non si affermò più allora che i salari erano troppo bassi, bensì che le organizzazioni sindacali tendevano a difendere livelli salariali eccessivamente alti, determinando così una riduzione della domanda di lavoro e una condizione di sottoccupazione. In entrambi i casi la causa del problema veniva individuata nel mancato funzionamento delle forze del libero mercato nella determinazione dei salari.
Il famoso studio di W.H. Beveridge, pubblicato nel 1902, si basava sull'approccio di Marshall, ma individuava le principali cause della disoccupazione nelle irregolarità causate dalle fluttuazioni economiche, nella mancata rispondenza tra le qualifiche professionali dei lavoratori e le esigenze delle imprese (si confrontino le teorie di Bentham cui abbiamo accennato in precedenza, anche se questo autore non viene citato nello studio di Beveridge) e, infine, nella tendenza delle aziende ad accumulare manodopera di riserva durante le fasi di contrazione del ciclo economico. "Gli individui che formano queste riserve passano costantemente dalla popolazione attiva a quella inattiva; essi inoltre tendono piuttosto a essere sempre più numerosi che non a trovare lavoro tutti insieme in un dato tempo" (v. Beveridge, 1930², p. 13). "L'inattività cui si trovano costretti periodicamente ora gli uni ora gli altri di questi lavoratori che formano la riserva è largamente responsabile dell'esistenza di un minimum irriducibile di disoccupazione" (ibid., p. 76). Il problema è aggravato dalla natura ciclica del processo, perché i lavoratori divenuti inattivi in fase di recessione in genere attendono di essere richiamati quando subentrerà la fase di espansione, anziché cercare lavoro in altre aziende o in altre aree. Ciò dà origine alla cosiddetta 'disoccupazione frizionale': anche in una situazione di equilibrio tra domanda e offerta sul mercato del lavoro, vi sarebbe comunque una certa quantità non specificata di disoccupazione dovuta alle 'frizioni' tra lavoratori e posti di lavoro disponibili. La soluzione proposta da Beveridge prevedeva un miglioramento dell'informazione, ad esempio attraverso la creazione di uffici di collocamento (si confronti la proposta di Lawson cui abbiamo accennato nel capitolo precedente) che avrebbero permesso di far incontrare le esigenze dei lavoratori con quelle delle imprese. La disoccupazione continuava a essere imputata a un imperfetto funzionamento del mercato del lavoro, dovuto però a una imperfetta distribuzione delle informazioni in una economia decentrata.
La prima edizione del libro di Beveridge apparve nel 1909; poiché negli anni del primo dopoguerra la disoccupazione non accennava a diminuire, i governi di vari paesi commissionarono una serie di studi sul problema. Nel 1923 vennero pubblicati negli Stati Uniti gli atti di una conferenza presidenziale su Cicli economici e disoccupazione; nel 1924 un gruppo privato pubblicò in Gran Bretagna uno studio dal titolo La disoccupazione è inevitabile? Entrambi i lavori seguivano l'impostazione di Beveridge, in quanto collegavano strettamente il problema della disoccupazione all'andamento ciclico dell'economia. La relazione statunitense proponeva, come la maggior parte degli economisti britannici dell'epoca, un aumento della spesa pubblica al fine di compensare gli effetti più negativi delle fluttuazioni cicliche.Se l'intervento statale per la realizzazione di progetti mirati a creare occupazione era ritenuto accettabile sul piano pratico, sul piano teorico la principale causa del problema continuava a essere individuata nelle disfunzioni del mercato del lavoro. Così, ad esempio, nella sua relazione al Macmillan Committee on Finance and Industry del 1931 l'allievo e successore di Marshall, A.C. Pigou, ripropose la vecchia soluzione di ridurre i salari al fine di incrementare la domanda di lavoro. Dennis Robertson, che successe a Pigou alla cattedra di Economia politica di Cambridge, ribadì la tesi secondo cui i salari erano troppo alti per essere compatibili con "il valore economico del lavoro in una situazione di piena occupazione" (v. Lekachman, 1966, pp. 59-60). Era l'esistenza di ostacoli all'azione delle forze del libero mercato in direzione di un abbassamento dei salari, come ad esempio lo sciopero generale del 1926, a impedire l'espansione dell'occupazione.
Nella sua Theory of unemployment Pigou (v., 1933) fornì quella che può essere considerata l'esposizione definitiva del suo punto di vista, estendendo l'analisi dai singoli mercati all'economia globale.
Sia Q la produzione reale aggregata e N il livello di occupazione; allora, se Q=f(N) [f′>0, f″⟨0], data la tecnologia, la quantità di moneta M e la velocità di circolazione 1/k, il reddito nominale è dato da M=kY=k(pQ). La divisione di Y nel prodotto reale e nel livello dei prezzi, p, così come il livello di N, sono dati allora dal livello del salario nominale, w, e dall'assunto della massimizzazione del profitto in un mercato concorrenziale, w/p=f′(Q). Il livello della produzione reale aggregata e il livello dell'occupazione sono inversamente proporzionali al salario reale. L'occupazione può aumentare solo se i salari nominali diminuiscono, data la quantità di moneta M, o se M e p aumentano, dato w (v. Roncaglia e Tonveronachi, 1985). Questa teoria finalmente istituiva una netta distinzione tra il problema della povertà e quello della disoccupazione, poiché era difficile sostenere che i lavoratori si impoverivano a causa dei salari troppo alti; la richiesta di salari troppo alti, e quindi la preferenza implicita per il tempo libero, era invece una spiegazione plausibile della disoccupazione; le cause della povertà dovevano essere ricercate in altri fattori.
Questa analisi dei fattori determinanti dell'occupazione venne messa in discussione a seguito della crisi causata dal crollo del mercato azionario statunitense, nel 1929, quando i tassi di disoccupazione aumentarono del 25% circa in presenza di una diminuzione dei salari. Non era più possibile sostenere che i lavoratori non erano disposti a occuparsi ai livelli di salario corrente, dato che mancavano le offerte di lavoro a qualsiasi salario. Nel 1931 John Maynard Keynes tenne una conferenza alla Harris Foundation di Chicago sulla disoccupazione come problema mondiale. Egli adottò un approccio radicalmente diverso per spiegare l'aumento della disoccupazione e la diminuzione dei salari. Anziché assumere come punto di partenza della sua analisi il mercato del lavoro, egli sostenne che la recessione, che aveva prodotto il calo dell'occupazione, era il risultato di una contrazione della spesa in investimenti. Tale contrazione era dovuta alla caduta dei profitti attesi, che secondo Keynes erano determinati a loro volta dagli investimenti. Per aumentare l'occupazione sarebbe stato allora necessario accrescere gli investimenti al fine di produrre maggiori profitti. Secondo Keynes la riduzione dei salari non poteva favorire tale processo, perché se i prezzi avessero subito una riduzione proporzionale a quella dei salari, ciò avrebbe avuto conseguenze negative sui profitti, mentre l'onere del debito pubblico sarebbe aumentato. D'altro canto, se i prezzi non fossero diminuiti, il potere d'acquisto dei salari si sarebbe ridotto e le vendite ne avrebbero sofferto, per non parlare poi delle conseguenze sociali negative provocate da una drastica riduzione dei salari (si dimentica facilmente che la recessione degli anni trenta veniva presentata come la crisi finale del capitalismo, e che la rivoluzione bolscevica era un ricordo ancora fresco nella mente dei liberali). La teoria di Keynes abbandonava dunque l'impostazione tradizionale secondo la quale il livello di occupazione è determinato principalmente sul mercato del lavoro e che si può influire su di esso solo attraverso una riduzione dei salari reali.
Nel 1936 Keynes pubblicò la Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta, che analizzava il livello di occupazione in base alla teoria della domanda effettiva in una economia monetaria. Keynes non solo abbandonava l'impostazione del problema che metteva in relazione il livello di occupazione con il comportamento dell'offerta di lavoro, ma forniva anche una spiegazione indipendente dall'analisi tradizionale del mercato del lavoro. In primo luogo, egli sostenne che in generale i lavoratori non sono in grado di decidere la propria posizione sulla scheda di offerta che rappresenta i salari reali e il lavoro, per il semplice motivo che i salari reali sono il risultato di due processi indipendenti: la determinazione del salario nominale attraverso la contrattazione tra le aziende e i lavoratori o le organizzazioni sindacali, e la determinazione dei prezzi effettuata attraverso il meccanismo della concorrenza oppure da imprenditori in grado di esercitare il potere di mercato. Né in un caso né nell'altro i lavoratori potrebbero avere un'influenza diretta sul livello dei prezzi che determina il potere d'acquisto reale dei loro salari monetari. Keynes riprendeva qui l'idea marshalliana secondo cui nella contrattazione tra aziende e lavoratori questi ultimi sono la parte più debole, ma si spingeva oltre, suggerendo che si tratta di un problema strutturale delle economie monetarie in cui i salari sono corrisposti in forma monetaria. L'offerta di lavoro può determinare il livello dei salari nominali, e dunque i prezzi nominali e il livello di inflazione, in condizioni di concorrenza, ma non il prezzo reale del lavoro. Quest'ultimo dipenderebbe dalla decisione di investimento, determinando il rapporto tra investimento e produzione dei beni di consumo. L'investimento è la componente più importante della domanda effettiva, insieme alle spese di consumo delle famiglie determinate dalla propensione al consumo, al livello delle esportazioni e al livello della spesa pubblica.
Secondo Keynes gli economisti tradizionali avevano trascurato la componente più importante della disoccupazione, che egli definisce 'disoccupazione involontaria'. A differenza della disoccupazione volontaria, essa non dipende dal comportamento dell'offerta, ossia dal fatto che i disoccupati sono disposti a lavorare solo a un salario superiore a quello corrente, bensì da una insufficienza della domanda, ossia dalla scarsità di posti di lavoro anche per i disoccupati disposti a lavorare a salari inferiori a quelli correnti. Questa impostazione suggeriva inoltre che è possibile un equilibrio del mercato del lavoro a qualsiasi livello di occupazione aggregata, condizione che rappresenta un paradosso per la teoria tradizionale dell'equilibrio, secondo cui l'offerta in eccedenza su un determinato mercato dovrebbe essere compensata dalla domanda in eccedenza su un altro mercato. In effetti, l'implicazione più radicale della teoria keynesiana è che in un'economia capitalistica non esiste un mercato 'del lavoro' in sé, ma solo una disponibilità di posti di lavoro associata a determinate decisioni di spesa aggregata da parte delle aziende e dello Stato, sulle quali l'offerta di lavoro non ha alcuna influenza diretta (v. Kregel, 1987). Piuttosto, saranno le decisioni di spesa determinate dai profitti attesi il principale fattore da cui dipenderà la domanda di lavoro. I salari avranno un ruolo solo nella misura in cui influenzeranno la domanda aggregata, principalmente attraverso la spesa in consumi.L'approccio keynesiano suggeriva inoltre l'esistenza di una spiegazione alternativa sia della domanda che dell'offerta di lavoro. Questa venne elaborata da Sidney Weintraub (v., 1956) a partire dall'assunto che ogni curva della domanda può essere tracciata solo sulla base di un dato livello e di una data distribuzione del reddito. Nella teoria keynesiana, in cui il livello del reddito è determinato endogenamente dalla domanda effettiva, la domanda di lavoro è rappresentata da una curva in cui il livello aggregato del reddito è determinato endogenamente dalla spesa aggregata. Analogamente, la curva dell'offerta è in genere tracciata considerando i prezzi come dati; ma se i lavoratori non possono determinare il salario reale attraverso le loro decisioni di offerta, allora il salario reale da cui dipende l'offerta di lavoro, in assenza di illusione monetaria (che Keynes rifiutava) dovrà essere determinato in modo endogeno sulla base delle aspettative relative ai prezzi e ai salari implicite nella determinazione della domanda. È evidente il rovesciamento teorico operato da Keynes, che sviluppa l'analisi microeconomica del mercato del lavoro a partire dalle condizioni di equilibrio macroeconomico che determinano il livello del reddito e dell'occupazione aggregati (v. Kregel, 1985).
Questa analisi alternativa dell'occupazione presupponeva una diversa definizione del concetto di pieno impiego, anch'essa svincolata dall'analisi della domanda e dell'offerta sul mercato del lavoro. Keynes compì vari tentativi in questa direzione, e alla fine arrivò alla conclusione che "la condizione in cui l'elasticità della produzione globale è zero rappresenta [...] il criterio più adeguato per definire la piena occupazione" (v. Keynes, 1937, p. 150). Ciò significa che un incremento della domanda effettiva di beni di consumo determinerà solo un aumento dei prezzi ma non del volume della produzione e dunque, dati i coefficienti tecnici di produzione, non apporterà nessun cambiamento nel numero di lavoratori che le imprese sono disposte ad assumere.Questa definizione solleva una serie di problemi. Ad esempio, essa implica che sia possibile un equilibrio di sottoccupazione sul mercato del lavoro (v. Darity e Horne, 1987-1988). Ne consegue logicamente che il movimento del sistema verso l'equilibrio di piena occupazione potrebbe dar luogo a un eccesso di domanda in base alla definizione tradizionale e, se esiste un legame tra prezzi e salari, a un incremento dei primi quando il sistema si avvicina alla piena occupazione. Keynes aveva già attirato l'attenzione su quest'ultimo problema nella Teoria generale, là dove introduceva la nozione di posizioni di 'semi-inflazione', che possono verificarsi quando il sistema si avvicina alla piena occupazione; queste potrebbero essere dovute a strozzature settoriali e fenomeni analoghi, ma non dovrebbero costituire cause permanenti di inflazione in quanto l'offerta di lavoro si adegua all'aumento della domanda. Nella teoria keynesiana, inoltre, l'inflazione non viene spiegata sulla base della quantità di moneta, bensì sulla base del livello dei salari nominali, sicché la politica salariale diviene un elemento cruciale della politica inflazionistica, come dimostra l'interesse mostrato dalla maggior parte degli economisti keynesiani per la politica dei redditi al fine di collegare il tasso di incremento dei salari alla produttività media (v. Weintraub, 1956).
La possibilità di una eccedenza della domanda in condizioni di piena occupazione diventa una componente della definizione di piena occupazione proposta da Beveridge: "'Piena occupazione' significa avere un numero di posti di lavoro sempre maggiore del numero dei disoccupati, e non leggermente inferiore" (v. Beveridge, 1944, p. 18). Questa definizione rappresentava un completo rovesciamento rispetto alle posizioni espresse da Beveridge nel 1909 e nel 1930, ed era perfettamente compatibile con la tesi keynesiana secondo cui può esservi un equilibrio di sottoccupazione. Il rapporto tra disoccupazione e posti di lavoro vacanti, che oggi prende il nome di 'curva di Beveridge', crea la possibilità di una serie di posizioni di equilibrio nel mercato del lavoro, alcune associate a un alto indice di posti vacanti, altre a un basso indice. Nel primo caso si avrà un aumento dei prezzi e dei salari, mentre nel secondo caso prezzi e salari saranno stabili o in diminuzione, anche se sia le une che le altre posizioni rappresentano una intersezione delle curve della domanda e dell'offerta. Ciò è compatibile con la tesi secondo cui il rapporto tra salari e prezzi, che rappresenta il salario reale, non è determinato sul mercato del lavoro, bensì da altre forze esterne che stabiliscono il rapporto tra i prezzi dei beni di consumo e i salari, come ad esempio il grado di imperfezione del mercato, il livello della domanda, la composizione di output e coefficienti tecnologici. Nell'approccio keynesiano la politica del pieno impiego non si focalizza più sui salari e sull'andamento dell'offerta, bensì sulla determinazione della domanda effettiva, e in particolare sulla composizione della domanda attraverso l'importanza degli investimenti rispetto alla spesa in consumi.
Le analisi di Keynes e di Beveridge ebbero importanti conseguenze sul piano pratico, stimolando i governi di vari paesi a prendere iniziative per assicurare la piena occupazione. Nell'immediato dopoguerra l'Inghilterra, l'Australia e il Canada produssero dei libri bianchi sulla employment policy; nel 1946 gli Stati Uniti approvarono l'Employment act; un richiamo esplicito ai problemi dell'occupazione trovò posto nella Costituzione francese, mentre sul piano internazionale i paesi membri delle Nazioni Unite si impegnavano a intraprendere misure congiunte e separate al fine di realizzare l'obiettivo della piena occupazione. L'adozione di programmi di spesa pubblica al fine di promuovere l'occupazione e la produzione segnalavano un radicale cambiamento di tendenza rispetto alla Poor law inglese e ai tentativi di regolamentare il mercato del lavoro attraverso interventi e controlli diretti da parte dello Stato.
Sebbene l'efficacia delle misure attuate nel dopoguerra sia oggetto di controversia, per quasi venti anni esse riuscirono a riportare l'economia verso la piena occupazione. In Giappone la disoccupazione rimase al di sotto del 2%, nella maggior parte dei paesi europei al di sotto del 3% e negli Stati Uniti intorno al 4%.
Nello stesso tempo vi è stato un importante riassetto nella composizione settoriale della domanda di lavoro, che è diminuita nel settore dell'agricoltura mentre è aumentata in misura marginale in quello dell'industria e in modo assai più marcato nel settore dei servizi. Questo processo, che avrebbe dovuto creare uno squilibrio tra domanda e offerta nei vari settori, non sembra invece aver causato un livello significativo di disoccupazione frizionale.
Nel Regno Unito la pubblicazione nel 1944 dello studio The economics of full employment da parte di un gruppo di economisti dell'Oxford Institute of Statistics influenzò in misura rilevante la politica occupazionale del dopoguerra. Tra gli autori figurava l'economista polacco Michal Kalecki, che aveva sviluppato una teoria dell'economia aggregata analoga a quella keynesiana. Nel suo contributo all'opera sopra menzionata egli individuava tre vie per raggiungere la piena occupazione: il ricorso al debito pubblico per finanziare la spesa dello Stato (il cosiddetto deficit spending), l'incentivazione dell'investimento privato e la redistribuzione del reddito. Nello stesso tempo, però, Kalecki osservava: "L'assunto secondo il quale un governo, all'interno di un'economia capitalistica, manterrebbe la piena occupazione se solo sapesse come farlo, è fallace" (v. Kalecki, 1943). Poiché la prima e la terza via al pieno impiego richiederebbero un sostanzioso intervento statale nell'attività economica privata e una redistribuzione del reddito in favore dei lavoratori con livelli retributivi inferiori, un periodo prolungato di piena occupazione potrebbe determinare significativi cambiamenti economici e politici, nonché una naturale resistenza da parte di quanti vengono colpiti negativamente da tali cambiamenti e un'opposizione all'intervento statale, interpretato come un primo passo verso l'abolizione del capitalismo e l'instaurazione del socialismo e dello statalismo. Nella sua analisi del 1944 Kalecki osservava inoltre che il deficit spending avrebbe infine trovato un limite nell'aumento del debito rispetto al coefficiente di reddito e nell'aumento degli interessi passivi sul debito. La maggior parte delle previsioni di Kalecki erano destinate a trovare conferma nella seconda metà degli anni settanta, in particolare nelle politiche britanniche e statunitensi finalizzate a ridurre le dimensioni dello Stato e a introdurre bilanci in pareggio. Si è anche verificato un aumento dei disavanzi pubblici, e la maggior parte dei paesi attualmente si trova a dover far ricorso al finanziamento in disavanzo con i limiti imposti dalle dimensioni degli interessi sul debito. Tuttavia Kalecki non aveva previsto che solo una minima parte della spesa pubblica sarebbe stata utilizzata, nel periodo in questione, per aumentare il livello di occupazione in modo coerente con la teoria keynesiana. I trasferimenti sociali hanno costituito la voce più importante della spesa pubblica; le spese per la sicurezza sociale sono aumentate in rapporto al PIL, laddove sono diminuite le spese in investimenti. Ciò significa che il problema del benessere è stato privilegiato rispetto a quello dell'occupazione.
All'aumento della spesa pubblica non ha fatto riscontro né un taglio delle spese né un aumento della pressione fiscale, e ciò ha portato a una crescita costante del fabbisogno finanziario dei governi. La Gran Bretagna costituisce a riguardo l'unica eccezione, ma ciò si spiega con la politica, adottata negli anni ottanta, di finanziare la spesa pubblica attraverso la vendita di beni dello Stato.
L'aumento del debito pubblico è stato accompagnato, come aveva previsto Kalecki, da un netto incremento della spesa per il pagamento degli interessi passivi, e in alcuni paesi il deficit pubblico è ora interamente costituito dal pagamento degli interessi sul debito.
Come conseguenza, i governi hanno abbandonato ogni forma di sostegno diretto alla piena occupazione, e ciò ha comportato un aumento dei tassi di disoccupazione rispetto al ventennio del secondo dopoguerra. L'andamento della disoccupazione ha subito dunque un cambiamento radicale dopo la crescita delle spese in armamenti con la guerra del Vietnam negli anni sessanta e la crisi petrolifera degli anni settanta. Per la prima volta, in questo periodo, acquistarono importanza, per il tasso di variazione dei salari e dei prezzi, le implicazioni della definizione di piena occupazione fornita da Beveridge. La relazione istituita da quest'ultimo tra basso livello di disoccupazione e alti tassi di variazione di salari e prezzi venne confermata empiricamente da uno studio di A.W. Phillips, che dimostrava uno stretto collegamento tra il tasso di variazione dei saggi dei salari nominali e il livello di occupazione. Phillips (v., 1958) osservò anche che tassi di disoccupazione in diminuzione tendevano a essere associati a tassi di incremento dei salari più alti rispetto a quelli associati a livelli di disoccupazione analoghi, ma accompagnati da una tendenza all'aumento della disoccupazione. Inoltre, la sua analisi statistica di quanto era avvenuto in Gran Bretagna nel periodo 1861-1957 dimostrava che l'indice di variazione dei salari si approssimava allo zero solo a un livello di disoccupazione positivo di circa il 6%. Questo risultato poteva essere interpretato in due modi: o con l'esistenza di un eccesso di domanda sul mercato del lavoro con indici di disoccupazione ben al di sopra di quelli ritenuti compatibili con il pieno impiego, o con la presenza di ostacoli che impedivano il rapido adeguamento (verso il basso) dei salari alle condizioni di eccedenza dell'offerta.In presenza di squilibri strutturali tra le qualificazioni professionali dei lavoratori e quelle richieste dalle imprese, un eccesso di domanda accompagnato da alti tassi di disoccupazione può essere ricollegato a problemi strutturali o frizionali legati all'offerta, sicché includendo nella definizione della domanda i posti di lavoro vacanti (v), e in quella dell'offerta la popolazione attiva più coloro che cercano lavoro (u), l'equilibrio nel mercato potrebbe richiedere livelli relativamente elevati di disoccupazione frizionale. Il pieno equilibrio sarebbe ancora caratterizzato dall'eguaglianza tra domanda e offerta di lavoro, ma con u=v. Si tratta, ovviamente, della soluzione proposta originariamente da Beveridge.Una spiegazione alternativa venne offerta da Phelps (v., 1968), il quale sostenne che in condizioni di informazione imperfetta i lavoratori occupati non sarebbero in grado di valutare il salario reale di equilibrio dopo uno shock negativo dell'offerta sul sistema che riduce il salario di equilibrio. Se le aziende cercassero di adeguare i salari direttamente al nuovo livello di equilibrio inferiore, i lavoratori si licenzierebbero nella convinzione di poter trovare altrove un impiego al salario reale precedente. Ciò creerebbe una resistenza agli adeguamenti del salario fino a che la nuova informazione non fosse percepita dai lavoratori, e produrrebbe un incremento di disoccupati in cerca di offerte di lavoro ai precedenti tassi salariali che però non esisterebbero più. Come ha osservato Darity (v., 1981-1982), questa spiegazione fu avanzata per la prima volta nell'analisi di Beveridge del 1909: Phelps parla in proposito di 'isole separate', laddove Beveridge si era servito dell'esempio di scaricatori di porto che lavorano su navi differenti. L'inclinazione negativa della curva di Phillips che esprime la relazione tra il tasso di disoccupazione e il tasso di incremento dei salari viene dunque spiegata, in questo caso, con l'informazione imperfetta relativa al salario di equilibrio. In particolare, essa implicherebbe un'illusione monetaria da parte dei lavoratori, almeno sul breve periodo. L'analisi di Phillips fu applicata per indagare la relazione tra il tasso di variazione dei prezzi (inflazione) e la disoccupazione da Samuelson e Solow, i quali introdussero l'ipotesi di variazioni della produttività del lavoro e di una relazione di mark up tra salari e prezzi di mercato. La conferma di una relazione negativa portò all'idea di uno scambio (trade off) tra tasso di disoccupazione e tasso di inflazione.
L'effetto principale di questa discussione fu quello di ricondurre nuovamente l'attenzione sulle condizioni del mercato del lavoro (e non più sulla spesa aggregata, come nell'approccio keynesiano) al fine di spiegare i fattori determinanti del livello di occupazione, e di portare in primo piano il problema dell'inflazione rispetto a quello della disoccupazione. Friedman, un convinto sostenitore dell'efficienza del libero mercato, mise in discussione gli assunti dell'informazione imperfetta e dell'illusione monetaria quali spiegazioni del ritardo dell'adeguamento dei salari agli shocks dell'offerta. Egli sostenne che si tratta di condizioni di breve durata: i lavoratori ben presto si rendono conto che i salari reali di equilibrio sono cambiati e adegueranno di conseguenza il loro comportamento di offerta; essi potrebbero essere vittime di una illusione monetaria, ma solo temporaneamente. Ciò implica che ogni posizione a sinistra dell'intersezione della curva di Phillips che collega inflazione e disoccupazione rappresenta uno squilibrio, poiché in questo punto le aspettative dei lavoratori relative ai salari reali andrebbero disattese. Non appena si rendono conto di ciò, i lavoratori reagiscono chiedendo salari nominali superiori per ripristinare i salari reali, ritornando alla posizione di equilibrio originaria sulla curva dell'offerta. Ciò implica che sul lungo periodo occupazione e produttività tornerebbero al punto di intersezione della curva di Phillips sull'ascissa della disoccupazione. Questa posizione viene definita da Friedman "tasso naturale di disoccupazione", e poiché è compatibile con un saggio di inflazione costante, anche "tasso di disoccupazione che non accelera l'inflazione". Friedman implicitamente non aveva fatto altro che riproporre la tesi dell'aggiustamento immediato dei salari all'eccesso di domanda, ma sul lungo periodo. Ben presto alcuni economisti, tra cui Lucas e Rapping, sostennero che se nel mondo del lavoro i problemi decisionali possono essere letti in chiave di ottimizzazione intertemporale, e i lavoratori apprendono dall'esperienza che l'aumento dell'occupazione comportato da una politica fiscale di espansione è sempre associato a una caduta dei salari reali, essi cominceranno ad anticipare questi effetti attraverso 'aspettative' razionali, rifiutando ogni aumento dell'occupazione e della produzione al di sopra del saggio naturale. Gli aggiustamenti tra salari e prezzi sarebbero allora immediati, e il problema di spiegare l'inclinazione della curva di Phillips si risolverebbe rendendola verticale nel lungo e nel breve periodo. Questa posizione segnava un netto distacco dall'approccio keynesiano, in quanto focalizzava nuovamente l'attenzione sul mercato del lavoro, e suggeriva l'ipotesi che la domanda aggregata non possa influenzare il livello di disoccupazione se non in modo casuale e imprevedibile, e quindi del tutto inutile a fini pratici. Lo stesso argomento si può applicare anche alla politica monetaria, che può essere efficace solo se i suoi effetti non sono prevedibili. È questo il fondamento della cosiddetta 'ipotesi dell'inefficacia' delle politiche economiche, secondo cui non si possono alterare in modo permanente i livelli naturali di produzione e di occupazione del sistema economico.
L'attenzione si spostò dunque dalla relazione inversa tra tasso di variazione dei salari e tasso di disoccupazione al punto di intersezione della curva di Phillips sull'ascissa, che determina il tasso naturale di disoccupazione, dato secondo Friedman dall'azione delle istituzioni, nonché da imperfezioni strutturali e del meccanismo concorrenziale. Verso la fine degli anni settanta divenne evidente che il saggio naturale di disoccupazione compatibile con un saggio di inflazione costante era esso stesso estremamente instabile. Il tasso naturale di disoccupazione non era una costante naturale. Una delle scoperte di Phillips era stata che livelli di disoccupazione simili erano compatibili con diversi tassi di incremento dei salari, a seconda che vi fosse una tendenza all'aumento o alla diminuzione dell'occupazione. Da ciò nacque l'idea di applicare all'analisi della disoccupazione l'approccio della path dependence, secondo cui gli esiti dei processi economici dipendono dal percorso seguito dal processo nel tempo storico; in questa prospettiva, i livelli di occupazione sarebbero determinati da fenomeni di 'isteresi' (v. Blanchard e Summers, 1987). Se i tassi di disoccupazione hanno avuto un rapido incremento, il tasso naturale tenderà a essere più elevato, e viceversa. In questo modo la teoria abbandonava le spiegazioni originarie basate sull'equilibrio tra domanda e offerta, e reintroduceva l'ipotesi che l'evoluzione storica dei livelli di disoccupazione fosse influenzata da forze esogene. Questa teoria però ha fatto ben poco per incoraggiare un'attività politica occupazionale, in quanto implica che gli interventi mirati a ridurre un elevato livello naturale di disoccupazione produrranno solo inflazione nel breve periodo. Al massimo essa reintroduce l'idea di un trade off o scambio tra due obiettivi della politica economica, quello di un più alto livello di occupazione e quello di un minore tasso di inflazione.Altre teorie riconsiderano le cause che possono produrre una forte inclinazione negativa della curva di Phillips individuando alcuni fattori che potrebbero ritardare il processo di aggiustamento salari-prezzi. Lindbeck e Snower (v., 1986) hanno suggerito che a differenza di quanto accade per altri mercati, sul mercato del lavoro i salari sarebbero determinati solo dai lavoratori occupati che effettuano le contrattazioni salariali, non dai disoccupati che sono esclusi da tali contrattazioni, sicché l'eccesso di offerta ha poca o nessuna influenza sulla velocità di aggiustamento del salario reale a quello di equilibrio. I lavoratori occupati che agiscono all''interno' del sistema perseguono i propri interessi, mentre i disoccupati che ne sono al di fuori non hanno alcuna influenza sugli esiti del mercato.
Secondo un altro approccio, salari e occupazione vengono determinati da lavoratori e imprese sulla base di accordi impliciti mirati alla massimizzazione dell'utilità per gli uni, e dei profitti per gli altri. Bailey afferma che se le imprese sono meno avverse al rischio dei lavoratori in quanto hanno maggiori capacità di sopportare fluttuazioni di reddito, potrebbe essere vantaggioso per esse offrire ai lavoratori un duplice contratto di lavoro, uno relativo alle prestazioni lavorative e l'altro che assicuri i lavoratori dai rischi di variazioni salariali dovute alle fluttuazioni del ciclo economico. Ai lavoratori verrebbe offerto dunque un salario fisso, che potrebbe essere inferiore a quello di equilibrio in periodi di eccesso di domanda, ma che in cambio li assicurerebbe contro il rischio di licenziamento o di riduzioni salariali in periodi di ristagno della domanda. Questo modello contrattuale potrebbe massimizzare i profitti per le imprese e l'utilità per i lavoratori, ma non spiega perché l'offerta effettiva di posti di lavoro resta inferiore a quella necessaria affinché si abbia la piena occupazione. Offrire salari fissi può essere vantaggioso, ma non vi è alcun motivo perché ciò debba avvenire a un livello di occupazione aggregata al di sotto del pieno impiego della forza lavoro. Questa linea di ragionamento è stata sviluppata da Okun con la sua teoria del contratto implicito. Azariadis (v., 1975) ha ampliato tale approccio per dimostrare che l'eventuale variazione temporale dei livelli di occupazione è il risultato di sospensioni dal lavoro (layoffs) piuttosto che dell'abbandono volontario da parte dei lavoratori in cerca di salari migliori; Bailey tuttavia ha dimostrato che se il passaggio da un'impresa all'altra o la ricerca di nuovo personale comporta costi elevati, le aziende cercheranno di garantire i lavoratori anche dai layoffs attraverso la creazione di 'riserve' di lavoro.Un'altra teoria abbandona la spiegazione della disoccupazione basata sull'imperfetto funzionamento del mercato del lavoro per cercare spiegazioni razionali dell'esistenza di una rigidità dei salari. La teoria del cosiddetto efficiency wage si basa sul contributo di Akerlof (v., 1984) al fine di spiegare perché la flessibilità dei salari potrebbe non produrre piena occupazione. Se si parte dal presupposto che vi sono lavoratori efficienti e lavoratori poco produttivi (v. Shapiro e Stiglitz, 1984) e che le imprese non hanno modo di scoprire a quale categoria appartengano i propri dipendenti sinché non li hanno assunti, è razionale assumere che tutti i lavoratori abbiano una produttività media e una preferenza media per il tempo libero. Partendo da questi presupposti, è logico assumere che ogni disoccupato disposto a lavorare per un salario inferiore a quello corrente adeguerà automaticamente il proprio impegno sul lavoro al salario - inferiore - che gli viene corrisposto. Egli viene classificato come poco efficiente, e ci si attende che una volta occupato, avrà una produttività inferiore alla media anche se gli verrà corrisposto il salario corrente, più alto di quello per cui sarebbe stato disposto a lavorare. Secondo questa teoria, anche se gli aggiustamenti tra prezzi e salari fossero immediati e automatici, il mercato del lavoro non tenderebbe a produrre la piena occupazione poiché i segnali del mercato ora danno luogo a risultati perversi. La riduzione della preferenza per il tempo libero non garantisce più un incremento dell'occupazione. Questo approccio però contempla la possibilità di un'attiva politica occupazionale mirata a migliorare l'informazione e l'addestramento professionale dei lavoratori.Alla fine del XX secolo, così come accadeva alla fine del secolo precedente, l'attenzione si è focalizzata nuovamente sugli alti costi delle misure previdenziali per i disoccupati sostenuti dallo Stato. Come aveva previsto Kalecki, a seguito della crescita della spesa e dei disavanzi pubblici il problema della disoccupazione e della povertà è passato in secondo piano rispetto all'esigenza, sentita da molti, di ridurre le dimensioni e il ruolo dello Stato. Come conseguenza, vi è stato un progressivo smantellamento dei programmi previdenziali dello Stato del benessere elaborati sulla base del Rapporto Beveridge, e un ritorno alla tesi secondo cui la disoccupazione è il risultato di una eccessiva regolamentazione del mercato e l'indigenza di misure assistenziali troppo generose. Si può concludere dunque che nel corso di quattro secoli i termini del dibattito sulle cause e i rimedi della disoccupazione endemica, tipica delle economie moderne, sono rimasti sostanzialmente inalterati. (V. anche Disoccupazione; Economia; Economia e politica del lavoro; Lavoro; Politica economica e finanziaria; Salari e stipendi; Sviluppo economico).
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