Offerta
L'offerta è la quantità di beni o servizi che gli agenti economici sono disposti a vendere. La curva di offerta di un bene rappresenta la sequenza delle diverse possibili quantità offerte in funzione dei vari prezzi di vendita in un dato istante di tempo, ferme restando tutte le altre condizioni. La curva di offerta indica, quindi, l'offerta potenziale (o virtuale) in funzione di prezzi alternativi. Essa va distinta dall'offerta effettiva (o osservata), che è pari all'ammontare di beni effettivamente venduti in un dato mercato e che quindi corrisponde a un solo punto della curva di offerta. Per offerta individuale si intende l'offerta di una singola impresa; per offerta collettiva l'offerta di un intero settore di attività; infine, per offerta aggregata il volume totale della produzione offerta in un sistema economico nel suo complesso. Come vedremo, le condizioni di offerta dipendono dalla struttura dei costi delle imprese e dalla forma di mercato ipotizzata.
Gli economisti classici conferivano particolare importanza all'offerta, ritenendo che le condizioni tecniche di produzione, rappresentate dai costi fisici, fossero alla base dei valori di scambio. Nell'ambito dell'analisi statica di lungo periodo in cui si ipotizza assenza di progresso tecnico, l'aumento della quantità prodotta di una merce non può che comportare un aumento proporzionale della quantità di lavoro, e quindi la costanza del 'costo reale' di produzione per unità di prodotto. Se il costo medio di una singola merce non varia al crescere della produzione, non vi è alcuna interdipendenza tra il valore di scambio e la quantità prodotta. Il valore di scambio è determinato dai costi di produzione che sono costanti, mentre la quantità prodotta varia in relazione al livello della domanda. Nel lungo periodo l'offerta delle singole merci è molto elastica a causa della concorrenza che tende a spostare i capitali dai settori in declino, meno profittevoli, ai settori in espansione, in cui il profitto è maggiore. David Ricardo (1772-1823) pone come oggetto della sua analisi proprio quelle merci sulle quali agisce la concorrenza e che per questo sono riproducibili con "l'impiego della operosità umana". Questi beni costituiscono "la parte di gran lunga maggiore delle merci" scambiate giornalmente sul mercato (v. Ricardo, 1817, tr. it., p. 8; v. Marx, 1867-1894, vol. III, tr. it., p. 230).
Per Ricardo, tuttavia, la legge secondo cui la produzione di una data merce o anche la coltivazione di uno specifico prodotto possono essere accresciute senza che questo comporti un incremento dei costi di produzione, non vale nel caso della produzione del complesso dei prodotti agricoli di un dato paese. Infatti secondo la teoria della rendita - esposta da Thomas R. Malthus (1766-1834), Robert Torrens (1780-1864) e dallo stesso Ricardo - un aumento generale della domanda farebbe inevitabilmente lievitare i costi, giacché "la quantità di terra non è illimitata e la sua qualità non è uniforme" (v. Ricardo, 1817; tr. it., p. 409). I classici ritenevano, tuttavia, che questo aumento dei costi non influenzasse i prezzi relativi delle singole merci, giacché, derivando quasi esclusivamente dalla produzione agricola, esso avrebbe inciso in misura uniforme sulle quotazioni di mercato di tutte le merci (v. Sraffa, 1925, p. 17; v. Sraffa, 1951, tr. it., pp. 162-168).Se si abbandona l'analisi statica e si ammette la possibilità di progresso tecnico, l'espansione della produzione di una singola merce può comportare, come ha illustrato Adam Smith (1723-1790), una tendenza alla crescita della produttività e quindi, a parità dei prezzi degli inputs, una riduzione del costo unitario di produzione. Tale crescita della produttività è determinata dal fatto che l'aumento del volume della produzione, legato all'espansione del mercato, rende possibile una maggiore divisione del lavoro. Una maggiore divisione del lavoro aumenta, a sua volta, l'efficienza dei processi produttivi perché accresce la destrezza dei lavoratori, riduce i tempi morti e offre la possibilità di installare macchine più efficienti (v. Smith, 1776; tr. it., pp. 12, 17-20).
Ricardo condivideva l'idea di Smith che le possibilità di aumentare la divisione del lavoro, e quindi la produttività, fossero minori in agricoltura che nell'industria manifatturiera. All'epoca di Ricardo era diffusa l'opinione che l'abbassamento dei costi, derivante dal progresso tecnico, non sarebbe stato sufficiente a compensare l'aumento dei costi causato dall'abbassamento delle rese unitarie connesso all'estensione e intensificazione della coltivazione agricola conseguente all'aumento della popolazione.Karl Marx (1818-1883) ritiene invece che il progresso tecnico sia in grado di contrastare i rendimenti decrescenti della produzione agricola nel suo insieme, e addirittura pone in evidenza un pericolo, in certo senso, opposto: la possibilità che i rendimenti crescenti, legati al progresso tecnico, comportino crisi di sovrapproduzione. Questa possibilità sarebbe dovuta al fatto che le singole imprese tendono ad aumentare le dimensioni dei macchinari per sfruttare le opportunità offerte dalle economie di scala, determinando così un incremento della capacità produttiva, che a sua volta porterebbe a un aumento della quantità offerta (v. Marx, 1867-1894, vol. I, tr. it., pp. 353-371; vol. II, tr. it., p. 77; vol. III, tr. it., pp. 111-112). Se la domanda non si espande allo stesso ritmo e con la stessa composizione dell'offerta, si possono manifestare crisi, settoriali o generali, di sovrapproduzione. In Marx emerge, dunque, una possibile incompatibilità tra la scelta individuale e il risultato collettivo: se tutte le imprese sono portate ad aumentare la dimensione dei macchinari per ridurre i costi e accrescere i profitti, si potrà determinare un eccesso di capacità produttiva che comporterà pesanti perdite per tutti i produttori.All'interno dello schema classico le condizioni d'offerta tendono a condizionare i bisogni e la struttura della domanda, determinando una subordinazione del consumo alla produzione. Marx osserva, in proposito, che "la produzione fornisce non solo un materiale al bisogno, ma anche un bisogno al materiale", creando sempre nuovi bisogni (v. Marx, 1857-1858; tr. it., pp. 16-17).
Con il progressivo affermarsi della scuola neoclassica, viene abbandonata la relazione causale che va dalle condizioni di offerta ai prezzi relativi. La crisi del pensiero classico determina uno spostamento dell'analisi dalla produzione allo scambio, ossia dalla riproducibilità dei beni, in relazione alla quantità di lavoro impiegata, alla scarsità delle risorse date, in relazione ai bisogni dei consumatori. Nel caso limite di un'economia di puro scambio è la scarsità relativa dei beni che assume il ruolo fondamentale nella determinazione dei prezzi. Se la quantità delle risorse è data, i prezzi rappresentano indici di scarsità rispetto alla distribuzione e all'intensità delle preferenze individuali. Il costo, inteso come la somma dei prezzi degli inputs, dipende dall'utilità dei beni di consumo ottenuti con i mezzi di produzione in questione e quindi dalla composizione della domanda finale (v. Walras, 1874-1877, tr. it., pp. 422, 534-539; v. Jevons, 1871, tr. it., pp. 136-139). Secondo il principio della sovranità del consumatore, sono allora le preferenze individuali a determinare le condizioni e le caratteristiche dell'offerta.
Per Alfred Marshall (1842-1924) il "prezzo normale di offerta" di una data merce è dato dalle "spese normali di produzione" dell'impresa, compresi i guadagni lordi di direzione. Tali spese sono costituite dai prezzi che si devono pagare per suscitare l'offerta degli sforzi dei lavoratori e delle "attese" dei risparmiatori, che costituiscono il "costo reale soggettivo" in termini di disutilità jevonsiana (v. Marshall, 1890; tr. it., pp. 477-478, 482-491). Dunque, come alla base della domanda vi è l'utilità sperimentata dal consumatore, alla base dell'offerta vi è la disutilità e il sacrificio di chi partecipa alla produzione. Ciò garantisce la simmetria tra domanda e offerta. "Il valore normale di ciascuna cosa", scrive Marshall in un passo famoso, "si regge come la chiave di volta di un arco, in equilibrio fra opposte forze che premono ai suoi due lati: le forze della domanda premono da una parte, quelle dell'offerta dall'altra" (v. Marshall, 1890, Prefazione alla seconda edizione).
Nell'ambito dell'analisi statica, Marshall separa il breve periodo, in cui si considera fisso "l'ammontare esistente dei mezzi di produzione", dal lungo periodo, in cui si suppone che le forze economiche presenti in un dato momento possano esplicare pienamente i loro effetti e che le imprese siano in grado di ampliare il volume della produzione. Nell'analisi statica di lungo periodo è ovviamente esclusa la possibilità di progresso tecnico. Nel breve periodo il prezzo di offerta è crescente perché un aumento della produzione porta a una crescita più che proporzionale delle spese di produzione a causa dell'impiego, sempre meno efficiente, degli inputs variabili (v. Marshall, 1890; tr. it., pp. 519 s.). Nel lungo periodo le imprese sono invece in grado di aumentare la quantità assoluta di tutti i mezzi di produzione, utilizzando "ciascun fattore nella debita proporzione" e ottenendo "una migliore organizzazione". Secondo Marshall nell'agricoltura e nelle attività estrattive, dove è preponderante il peso delle risorse naturali, si manifesta la tendenza verso rendimenti decrescenti; mentre nell'industria manifatturiera e nel settore dei trasporti, dove l'attività dell'uomo prevale, agisce la legge dei rendimenti crescenti (ibid., pp. 275-276, 450-451). Marshall è però consapevole dell'incompatibilità dei rendimenti crescenti interni all'impresa con l'ipotesi di libera concorrenza, giacché i rendimenti crescenti potrebbero portare qualsiasi impresa, che ottenga condizioni iniziali favorevoli, a conquistare il monopolio dell'intera attività del suo ramo (ibid., p. 622). Tuttavia, secondo Marshall, se si abbandona l'analisi statica e si osserva lo sviluppo effettivo delle imprese, è possibile rilevare degli ostacoli che, in genere, impediscono che in una singola impresa prevalgano costi decrescenti. Infatti la storia delle imprese è, per lo più, caratterizzata da un ciclo vitale, ossia da una fase iniziale di espansione e da una successiva fase di declino, legata al venire meno dell'originalità e dello spirito di iniziativa del fondatore. Inoltre la crescita delle dimensioni della singola impresa trova un ostacolo nella difficoltà di espandere le vendite, a causa del fatto che la "curva particolare di domanda" è "generalmente molto ripida", cosicché "ogni rapido aumento della produzione abbasserà probabilmente in quel mercato il prezzo di domanda in misura sproporzionata alle nuove economie di cui essa godrebbe" (ibid., pp. 413-414, 620-624). I riferimenti contenuti in Marshall sull'evoluzione delle imprese, sui distretti industriali, sui rapporti di collaborazione tra imprese e sulla permanenza di elementi di consuetudine nella vita economica hanno portato a interessanti sviluppi (v., ad esempio, Becattini, 1975; v. Tani, 1987; v. Dardi, 1984; v. Loasby, 1991-1992).
Marshall pone in evidenza i pericoli che possono derivare dal mettere "in forma definitiva" la teoria statica dell'equilibrio, perché più essa "è spinta alle più remote e complicate conseguenze logiche", più "si allontana dalla vita reale". L'ipotesi di stato stazionario riferito a "periodi relativamente lunghi è pericolosa", poiché è necessario forzare molto la realtà per supporre che le forze che vengono escluse dalla considerazione rimangano inerti (v. Marshall, 1890; tr. it., pp. 526, 624, 671). Ad esempio, la teoria statica dell'equilibrio di lungo periodo non è applicabile alle merci che obbediscono alla legge dei rendimenti crescenti, a causa della irreversibilità delle economie di scala. Infatti, gli "sviluppi di applicazioni meccaniche della divisione del lavoro e dei mezzi di trasporto" e i "miglioramenti organizzativi [...], una volta conseguiti, non si abbandonano facilmente". Pertanto, se per una qualsiasi ragione la produzione dovesse essere ridotta, dopo un periodo di espansione, "il prezzo di offerta non ritornerebbe per lo stesso cammino [...] ma seguirebbe un percorso meno elevato" (ibid., p. 1069). La convinzione dell'inadeguatezza dell'analisi statica di equilibrio a cogliere la complessità dei fenomeni che regolano la produzione e il consumo inducono Marshall a non applicare strettamente l'ipotesi di stato stazionario e di concorrenza perfetta, e a non spingersi fino alla costruzione analitica delle curve di offerta di breve e lungo periodo basate sull'equilibrio della singola impresa (v. Loasby, 1976, pp. 174-175; v. Sylos Labini, 1985, tr. it., pp. 8-11). La costruzione analitica delle curve di offerta, nell'ambito dell'analisi statica di concorrenza perfetta, è invece effettuata da Francis Ysidro Edgeworth (1845-1926) e Arthur Cecil Pigou (1877-1959) (v. Edgeworth, 1913, pp. 209-215; v. Pigou, 1920, tr. it., pp. 690-699, e 1928, pp. 241 s.). Nella rappresentazione delle curve di offerta Edgeworth e Pigou non risolvono però le contraddizioni insite nel modello e che erano in gran parte già state segnalate da Marshall. Come vedremo nel prossimo capitolo, su tali contraddizioni si sofferma in particolare Piero Sraffa (1898-1983), che interviene a più riprese in un interessante dibattito sviluppatosi negli anni venti (v. Del Vecchio, 1937, pp. 591-643).
In un articolo pubblicato sull'"Economic journal" nel 1922 John Harold Clapham (1873-1946) osservava acutamente che le categorie dei rendimenti decrescenti, crescenti e costanti erano rimaste, fino a quel momento, delle "scatole vuote" prive di qualsiasi contenuto empirico (v. Clapham, 1922; tr. it., p. 160). Piero Sraffa dimostra che le "scatole vuote" di cui parla Clapham non sono state riempite con industrie concrete per la mancanza di un criterio non arbitrario di classificazione delle diverse industrie. Nel lungo periodo, una stessa industria può, infatti, essere considerata a rendimenti decrescenti o a rendimenti crescenti, a seconda della definizione di 'industria' che si ritiene preferibile adottare. "Quanto più larga sarà la definizione che daremo di 'un'industria', cioè quanto più vicina a includere tutte le aziende che impiegano un dato fattore della produzione, come ad esempio l'agricoltura o la siderurgia, tanto più sarà probabile che in essa abbiano importanza le forze che tendono a operare nel senso della produttività decrescente". Al contrario, quanto più restrittiva sarà quella definizione, "e quindi quanto più vicina a includere solo quelle aziende che producono un dato tipo di merce consumabile, per esempio la frutta e i chiodi, tanto più sarà probabile che in essa predominino le forze che tendono a operare nel senso della produttività crescente" (v. Sraffa, 1926, tr. it., p. 70, e 1925, pp. 57-58).
Nel primo caso, i rendimenti decrescenti derivano dal fatto che la disponibilità di almeno uno degli inputs resta costante all'aumentare della produzione, per cui mutano le proporzioni in cui si combinano i diversi fattori della produzione. Nel secondo caso, i rendimenti crescenti derivano dalla possibilità di aumentare la quantità assoluta di tutti gli inputs utilizzati al crescere della produzione, e quindi di utilizzare i mezzi di produzione nelle combinazioni via via migliori. Se le cause alla base degli andamenti decrescenti e crescenti di lungo periodo sono così eterogenee, non stupisce, secondo Sraffa, che i classici trattassero queste due tendenze in ambiti analitici molto diversi. Come abbiamo visto, la produttività decrescente era trattata nell'ambito della teoria della rendita, e quindi della distribuzione del reddito, mentre la produttività crescente era discussa da questi economisti in relazione all'aumento della divisione del lavoro. "Nessuno fino a tempi relativamente recenti - osserva Sraffa - aveva pensato di fondere quelle due tendenze in una sola legge della produttività non proporzionale, e considerare questa come una delle basi della teoria del prezzo" (v. Sraffa, 1925, p. 17). Solo dopo che gli studi sull'utilità decrescente avevano attirato l'attenzione sul rapporto fra prezzo e quantità consumata, è sorta per analogia l'idea di una connessione fra costo e quantità prodotta. L'incrocio delle curve di domanda e offerta è condizionato dalla non-proporzionalità del costo di produzione rispetto alla quantità prodotta (ibid., pp. 18, 54, 56-57).
Scopo principale dell'articolo del 1925 di Sraffa era di verificare se, ed entro quali limiti, fosse possibile costruire una curva statica collettiva di offerta di lungo periodo simmetrica alla corrispondente curva di domanda, rispettando la condizione di ceteris paribus necessaria all'analisi di equilibrio parziale. Tale condizione imponeva che mutassero solo la quantità e il prezzo del bene considerato, mentre tutte le altre variabili dovevano rimanere immutate. In altre parole, l'analisi di equilibrio parziale richiede che la curva di offerta di un bene sia indipendente dalle condizioni di domanda e di offerta di tutte le altre merci, inputs inclusi.La prima conclusione di Sraffa fu che la curva di offerta può essere considerata valida solo per piccole variazioni della quantità prodotta. Se ci si allontana troppo dalla posizione iniziale di equilibrio, può rendersi necessaria la costruzione di una curva interamente nuova, perché una grande variazione sarebbe appunto incompatibile con la condizione di ceteris paribus (ibid., pp. 59, 64-65).
La seconda, non meno importante, conclusione è che la condizione di ceteris paribus rende logicamente incompatibile con un sistema statico di equilibrio parziale di concorrenza perfetta l'andamento crescente o decrescente della curva collettiva di offerta di lungo periodo, fatta eccezione per due casi particolari. I rendimenti decrescenti non contrastano con l'assunzione di ceteris paribus solo nel caso di un'industria che utilizzi pienamente tutta l'offerta di un input. Infatti solo in questo caso un eventuale aumento del prezzo dell'input utilizzato, dovuto all'aumento della produzione dell'industria in esame, non influenza direttamente i costi delle altre industrie. Invece, i rendimenti crescenti sono logicamente ammissibili solo se derivano da economie esterne all'impresa e interne all'industria. È già stato notato che rendimenti crescenti interni alle imprese sono incompatibili con l'ipotesi di concorrenza perfetta. D'altra parte, se i rendimenti crescenti fossero esterni all'industria considerata, non si concilierebbero con la condizione di ceteris paribus, giacché interesserebbero i costi di molte altre industrie oltre quella in esame. Dunque, l'unico caso ammissibile di rendimenti crescenti è appunto quello dovuto a economie esterne all'impresa e interne all'industria. Tuttavia, questo caso, pur potendo assumere molta importanza in alcune situazioni locali (v. Becattini, 1979, pp. 15-16), difficilmente può essere invocato nella spiegazione dei rendimenti crescenti di una data industria, anche perché in genere le economie esterne si sviluppano in modo tale da travalicare i confini delle singole industrie, tendendo a interessarne più d'una. In ogni caso, osserva Sraffa, le economie esterne-interne non possono avere un ruolo importante nella teoria dei prezzi in equilibrio parziale, perché tale teoria si basa su variazioni marginali delle quantità prodotte, mentre questo tipo di economie esterne alle imprese e interne all'industria non possono essere causate da "piccoli" aumenti della produzione (v. Sraffa, 1925, pp. 43-44 e 1926, tr. it., p. 73; v. Panico e Salvadori, 1994, p. 335). La conclusione logica del ragionamento di Sraffa è che, all'interno dell'analisi statica di equilibrio parziale, in regime di concorrenza perfetta si debba in generale ipotizzare un andamento orizzontale delle curve di offerta. In questo caso la simmetria fra domanda e offerta è spezzata: il prezzo è infatti fissato esclusivamente in base alle spese di produzione, senza alcuna influenza della domanda, che determina esclusivamente la quantità venduta (v. Sraffa, 1925, pp. 54, 65 e 1926, tr. it., pp. 73-74). In una lettera a John Maynard Keynes (1883-1946), Piero Sraffa precisa che questa conclusione logica non implica che nella vita reale non possano prevalere rendimenti crescenti e che quindi non vi sia connessione fra costo e quantità prodotta; ma tale connessione non può essere considerata in un sistema di equilibrio parziale (v. Sraffa, 1926 e 1975).
In sostanza, emerge chiara una contraddizione tra la coerenza interna dell'analisi di equilibrio parziale in condizioni di concorrenza perfetta - che richiede l'esistenza di costi medi di lungo periodo per la singola impresa a U (in modo che la dimensione dell'impresa sia determinata) e di una curva di offerta di lungo periodo orizzontale per l'industria (per rispettare le condizioni di ceteris paribus) - e l'evidenza empirica, che indica invece casi frequenti di rendimenti crescenti sia a livello di impresa che a livello di industria.Per quanto riguarda le singole imprese, Sraffa osserva che esse, operando generalmente con costi medi totali decrescenti, non hanno come limite alla loro espansione i costi crescenti, bensì le difficoltà di vendere una maggiore quantità di beni senza ridurre il prezzo. Come aveva precedentemente posto in evidenza Marshall, quando ogni azienda opera in un mercato particolare, dobbiamo accostare la curva di offerta di ogni azienda con la sua particolare curva di domanda. In questo caso, conclude Sraffa, non è possibile sommare curve particolari delle singole aziende in modo da formare una sola coppia di curve collettive di domanda e offerta (v. Sraffa, 1926, tr. it., pp. 79-80; v. Marshall, 1890, tr. it., p. 612, nota a).
Queste considerazioni costituirono la base, diretta o indiretta, degli studi successivi sulle forme di mercato non concorrenziali (v. cap. 7). Tuttavia, negli anni seguenti, Sraffa non sviluppò l'analisi di equilibrio parziale in condizioni di concorrenza imperfetta, ma formulò una teoria dei prezzi relativi basata sulla interdipendenza tra le varie industrie, senza ricorrere all'analisi marginale e ai concetti di curva di domanda e di offerta (v. cap. 6).
Negli anni trenta si sviluppò la convinzione che la teoria dell'equilibrio economico generale, introdotta da Léon Walras (1834-1910), fosse l'unica in grado di fornire una teoria coerente dei prezzi relativi in regime di concorrenza perfetta. È significativo, al riguardo, il giudizio espresso da Lionel Robbins (1898-1984): "l'esperienza di almeno venti anni di controversie - egli scrive - suggerisce che l'uso delle curve di offerta" proprie dell'analisi dell'equilibrio parziale, "piuttosto che dell'apparato analitico dell'equilibrio economico generale [...] comporti dei pericoli che possono intrappolare anche le menti più sottili e acute" (v. Robbins, 1934; rist. 1973, p. 32, corsivo nostro).Il modello di equilibrio economico generale non presenta i limiti dell'analisi dell'equilibrio parziale, perché descrive l'economia come un sistema totalmente disaggregato di mercati reciprocamente interdipendenti, mediante un sistema di equazioni la cui soluzione determina simultaneamente i prezzi delle merci prodotte, i prezzi degli inputs e le quantità prodotte e scambiate. In equilibrio "le azioni desiderate degli agenti economici sono mutuamente compatibili e possono essere intraprese simultaneamente" (v. Arrow e Hahn, 1971, pp. 16, 35 s., 309 s.). I prezzi degli inputs, e quindi i costi di produzione, sono determinati simultaneamente ai prezzi e alle quantità dei beni prodotti, in un contesto delimitato da un insieme molto restrittivo di assiomi circa le preferenze dei consumatori e le tecniche di produzione (v. Hahn, 1973, pp. 5 s.; v. Ingrao e Israel, 1987, pp. 166-169, 345). Un eccesso di domanda sposta i prezzi verso l'alto, mentre un eccesso di offerta sposta i prezzi verso il basso. I prezzi di equilibrio corrispondono ai prezzi che permettono di "sgombrare il mercato", annullando gli eccessi di offerta e di domanda, e comportando, quindi, sempre il pieno utilizzo delle risorse.
Il modello di equilibrio economico generale non analizza il comportamento della singola impresa. Come ha osservato Walras, esso "può persino prescindere dall'intervento degli imprenditori", in quanto nello stato d'equilibrio "gli imprenditori non fanno né guadagno né perdita. Essi sussistono non come imprenditori, ma come proprietari fondiari, lavoratori o capitalisti nelle proprie imprese o in altre" (v. Walras, 1874-1877; tr. it., p. 323). Per analizzare le condizioni di offerta dell'impresa è necessario ricorrere all'analisi dell'equilibrio parziale supponendo che i prezzi dei mezzi di produzione siano dati. Lo schema di equilibrio parziale viene visto, dunque, come un'integrazione della teoria dell'equilibrio economico generale per quanto riguarda il comportamento dell'impresa e le condizioni di offerta. L'analisi di equilibrio parziale di breve e lungo periodo è stata così riformulata in modo che risulti compatibile con le assunzioni di concorrenza atomistica e comportamento razionale da parte degli agenti economici. Essa è stata depurata da tutti quei riferimenti all'analisi dinamica che risultano incompatibili con le ipotesi rigorosamente statiche. Questo lavoro di sistemazione della teoria marshalliana dell'equilibrio parziale, iniziato da Edgeworth e Pigou nei due primi decenni del secolo, fu portato a compimento, negli anni trenta, grazie al contributo di numerosi economisti (v. ad esempio, Harrod, 1931; v. Viner, 1931; v. Robinson, 1933; v. Chamberlin, 1933; v. Stigler, 1939).
Nel breve periodo si assumono fissi il lavoro specializzato e le dimensioni dell'impianto, mentre si considerano variabili, in relazione alla quantità prodotta, il lavoro non specializzato, le materie prime e l'energia. Si suppone, inoltre, che gli inputs siano sostituibili gli uni agli altri.Il costo marginale (CMg) corrisponde all'incremento del costo totale al crescere di una quantità infinitesimale dell'output (dCT/dy). Secondo la legge delle proporzioni variabili, nel breve periodo il costo marginale è prima decrescente e poi crescente, in quanto l'incremento della quantità prodotta può essere ottenuto solo attraverso l'aumento delle dosi degli inputs variabili. Se si suppone che nel breve periodo gli inputs fissi siano indivisibili, in una prima fase essi saranno impiegati in eccesso rispetto a quelli variabili, e quindi il progressivo aumento delle dosi di inputs variabili aumenta l'efficienza, provocando una crescita della produttività marginale e, di conseguenza, una riduzione del costo marginale. La situazione si capovolge una volta raggiunta la combinazione ottimale tra inputs fissi e variabili: dal punto di flesso in poi della curva del costo totale, la combinazione tra inputs fissi e inputs variabili diviene sempre meno efficiente, determinando una caduta progressiva della produttività marginale e una corrispondente crescita del costo marginale (per una discussione approfondita sulla legge degli incrementi decrescenti di prodotto, v. Menger, 1979; v. Tani, 1986).
In condizioni di concorrenza perfetta, i prezzi degli inputs e degli outputs sono dati per il singolo imprenditore. Dunque, il prezzo dell'output, che corrisponde al ricavo marginale, è rappresentabile da una retta parallela all'asse delle ascisse, perché è indipendente dalla produzione della singola impresa. Come si vede dalla fig. 1A, ciascun imprenditore massimizza il profitto espandendo la produzione fino al punto in cui l'ultima unità prodotta fornisce un ricavo pari al relativo costo aggiuntivo, cioè fino al punto in cui la retta orizzontale tratteggiata del prezzo (p), che rappresenta il ricavo marginale, interseca la curva ascendente del costo marginale (CMg). In altre parole, il profitto è massimo quando il ricavo marginale, dato dal prezzo, è pari al costo marginale nel tratto ascendente del costo marginale:
p=dCT/dyi, in corrispondenza di d2CT/dyi2>0. (1)
La curva di offerta della singola impresa nel breve periodo (BSi) risulta, quindi, dall'insieme delle possibili intersezioni tra la retta orizzontale del prezzo e il tratto crescente della curva del costo marginale (CMg). Se il prezzo corrisponde al punto di minimo dei costi medi totali (CMeT), esso ricopre tutti i costi, compresi gli interessi sul capitale monetario (p₂ nella fig. 1A); se il prezzo è superiore a tale punto di minimo (ad esempio, p₃), l'impresa realizza un profitto; se il prezzo è invece compreso tra p₁ e p₂, l'impresa recupera solo parte dei costi fissi, dati appunto dalla differenza tra i costi medi totali (CMeT) e i costi medi variabili (CMeV). Al di sotto del prezzo p₁ la quantità offerta è zero, perché a questo prezzo l'impresa non recupera nemmeno i costi variabili, e quindi minimizza le perdite se esce dal mercato. Perciò, nel breve periodo, affinché l'impresa possa continuare a operare, il prezzo non deve essere inferiore al prezzo p₁ che è tangente al punto di minimo dei costi medi variabili. In conclusione, la funzione individuale di offerta di breve periodo dell'impresa (BSi, in grassetto nella fig. 1A) ha valore pari a zero fino al prezzo pari al punto di minimo della curva dei costi medi variabili, da quel prezzo in poi essa coincide con la curva dei costi marginali. Per la singola impresa i.ma (i=1, 2, ..., n), avremo dunque che la quantità offerta è funzione del prezzo:
yi=yi(p), con yi=0 per p< CMeVmin. (2)
Nel costruire la curva collettiva di offerta supporremo che i prezzi degli inputs rimangano costanti al crescere della quantità offerta dall'industria. Come si è accennato nel capitolo precedente, questa ipotesi è imposta dalla condizione di ceteris paribus, necessaria all'analisi di equilibrio parziale. Infatti, se si esclude il caso particolare in cui l'industria in esame sia l'unica utilizzatrice dei propri mezzi di produzione, una crescita dei prezzi degli inputs influenzerebbe anche le altre industrie che li utilizzano. Dobbiamo, inoltre, tenere presente che nel breve periodo le dimensioni dei singoli impianti non sono aumentabili e che è fisso il numero (n) di imprese appartenenti all'industria. Per costruire una curva di offerta statica di un'industria è necessario ipotizzare: che esistano le funzioni di offerta delle singole imprese; che la produzione di ogni impresa sia rappresentabile da una funzione di produzione continua e derivabile; e che i vari inputs siano omogenei (v. a questo proposito Fisher, 1992, pp. 2 e 122; v. Green, 1977, p. 190). In base a queste ipotesi, la curva di offerta di breve periodo dell'industria (BSc) è data dalla somma orizzontale delle curve di offerta delle singole imprese appartenenti a quell'industria (v. fig. 1B). Avremo quindi:
formula (3)
Nel breve periodo la funzione collettiva di offerta è crescente perché un aumento della quantità offerta dell'industria è ottenuto grazie all'aumento della quantità prodotta dei singoli impianti che operano con costi marginali crescenti.
Nell'analisi statica di lungo periodo, in condizioni di concorrenza perfetta si assume che tutti i fattori produttivi possano aumentare al crescere della quantità prodotta e che vi sia libertà di entrata di nuove imprese. Come abbiamo visto, in concorrenza si deve escludere la possibilità che un'impresa espanda la propria offerta fino a tal punto da conquistare l'intero mercato, quindi si assume che, oltre a una certa dimensione di scala, prevalgano rendimenti decrescenti. Affinché vi siano rendimenti decrescenti è necessario che anche nel lungo periodo si possa applicare la legge delle proporzioni variabili e che quindi almeno un input sia costante. Si ipotizza, dunque, che la capacità organizzativa imprenditoriale sia data e non trasferibile (v. Kaldor, 1934, tr. it., p. 311; v. Hicks, 1939, tr. it., p. 90; v. Arrow e Debreu, 1954, p. 62). In base a questa ipotesi, la curva dei costi medi di lungo periodo assume un andamento a U: nel primo tratto, grazie alle economie di scala, i costi medi sono decrescenti; nel secondo tratto, oltrepassata la 'dimensione ottima di scala', i costi medi divengono crescenti per il prevalere delle diseconomie organizzative. La curva individuale dei costi medi di lungo periodo è data dall'inviluppo delle varie curve dei costi medi totali di breve periodo relative ai singoli impianti (v. Harrod, 1931, p. 575; v. Viner, 1931, tr. it., pp. 108-109; v. Chamberlin, 1957, tr. it., pp. 176-179).
Nel lungo periodo la quantità offerta dalla singola impresa è pari alla quantità corrispondente al punto di minimo della curva del costo totale medio dell'impianto ottimale (CMeTB*) (v. fig. 2A). In tale punto la curva dei costi medi di lungo periodo (CMeL) è tangente alla curva dei costi medi totali dell'impianto più efficiente (CMeTB*). Inoltre, sempre in questo punto, la curva del costo marginale dell'impianto più efficiente (e quindi la curva di offerta di breve periodo, BSi) interseca il punto di minimo delle due curve dei costi medi totali di breve e dei costi medi di lungo periodo. Nel lungo periodo, la possibilità di entrata e uscita delle imprese comporta, infatti, che la retta del prezzo (p₁) sia tangente al punto di minimo della curva dei costi medi (CMeL).
Passiamo ora a costruire la curva di offerta collettiva di lungo periodo. L'analisi di equilibrio parziale impone che si assuma in generale un andamento orizzontale della curva di offerta collettiva di un'industria, in quanto sia l'andamento crescente (dovuto all'aumento dei prezzi degli inputs), sia l'andamento decrescente (dovuto a economie esterne alle imprese) sono in generale incompatibili con la condizione di ceteris paribus (v. cap. 5). Perciò qui di seguito considereremo il caso generale di una curva di offerta collettiva orizzontale. Supponiamo che le imprese operino con lo stesso impianto ottimale e che quindi siano tutte identiche tra di loro. Di fronte a una crescita della domanda (ad esempio, da D₁ a D₂), le imprese esistenti aumenteranno la propria produzione in base alla curva di offerta dell'impianto adottato (v. fig. 2B). Ciò comporterà naturalmente un aumento del prezzo dell'output da p₁ a p₂, lungo la curva di offerta collettiva di breve periodo (BSi). I maggiori margini di profitto attrarranno nuove imprese. Se si suppone che i prezzi degli inputs siano dati, il numero di imprese aumenterà fino a quando l'offerta dell'industria nel suo insieme corrisponderà alla nuova domanda D₂ e fino a quando il prezzo ritornerà al livello precedente all'aumento della domanda. In questo caso la curva di offerta collettiva sarà data da una retta formata dalla somma delle quantità prodotte da un numero crescente di aziende operanti a costi medi di lungo periodo minimi. Dunque, la quantità offerta dall'insieme delle imprese appartenenti a un'industria sarà pari alla quantità ottima di ciascuna impresa moltiplicata per il numero di equilibrio delle imprese presenti nel mercato.Se la curva di offerta dell'industria è orizzontale, la domanda ha rilevanza nel determinare la quantità prodotta e venduta, ma non ha alcuna influenza sul livello del prezzo, che invece coincide con i costi medi minimi delle singole imprese operanti nell'industria considerata.
La teoria dei prezzi relativi, presentata da Sraffa nel 1960, non utilizza il concetto di curva di offerta. Tale teoria, infatti, "riguarda esclusivamente quelle proprietà di un sistema economico che sono indipendenti da variazioni nel volume della produzione". Se si assume che la quantità offerta sia data, "la questione se i rendimenti siano costanti o variabili non sorge nemmeno" (v. Sraffa, 1960; tr. it., pp. V-VI). L'assunzione di livelli di produzione dati consente di esaminare un sistema economico in cui nulla muta tranne i prezzi relativi e la distribuzione del reddito. Se il sistema economico è in grado di produrre sovrappiù e se il salario supera il livello di sussistenza, i prezzi relativi possono essere determinati simultaneamente da una delle variabili distributive (i salari o il saggio di profitto), qualora siano note la tecnologia e l'altra variabile distributiva (v. Roncaglia, 1975, p. 6).
In Sraffa, al pari dei classici, i prezzi relativi riflettono le condizioni della produzione e vengono determinati indipendentemente dalle variazioni delle quantità prodotte. Anche il concetto di concorrenza, legato all'assunzione di libertà di movimento dei capitali e di saggio uniforme di profitto, è analogo a quello utilizzato dai classici. Tuttavia, a differenza dei classici, nello schema sraffiano le quantità prodotte sono date e non vi è una relazione causale univoca che va dai costi ai prezzi, perché i prezzi degli inputs e degli outputs sono determinati da un sistema simultaneo di equazioni. Tale relazione causale sarebbe ammissibile solo nel caso in cui i costi fossero "grandezze suscettibili di essere misurate indipendentemente dalla determinazione dei prezzi dei prodotti, e anteriormente a essa", circostanza questa che si verifica esclusivamente nel caso delle merci non necessarie alla produzione (merci non base). Viceversa per tutte le merci che direttamente o indirettamente entrano nella produzione (merci base) vi è interdipendenza reciproca tra costo e prezzo, poiché "i prezzi dei mezzi di produzione" di una merce base "dipendono dal suo stesso prezzo non meno di quanto quest'ultimo dipenda da quelli" (v. Sraffa, 1960; tr. it., p. 11).
Il modello di Sraffa permette di non incorrere nelle difficoltà logiche dell'analisi statica di equilibrio parziale, evidenziate negli articoli del 1925 e 1926 (v. cap. 4). Infatti, la considerazione dell'interdipendenza tra le varie industrie rimuove le limitazioni imposte dalla condizione di ceteris paribus, consentendo di tener conto delle influenze delle variazioni dei costi della quantità prodotta di un singolo bene sui costi di produzione di altre industrie. Inoltre, l'ipotesi di quantità date permette di separare l'analisi statica dei prezzi relativi dall'analisi dinamica del mutamento delle condizioni di produzione. Tale separazione appare importante se si considera che un mutamento nelle quantità prodotte può comportare dei cambiamenti irreversibili nell'organizzazione dei mercati e delle tecniche produttive, incompatibili con l'analisi statica.
Le assunzioni alla base dello schema di Sraffa da una parte consentono l'elaborazione di una teoria rigorosa dei prezzi relativi, ma dall'altra escludono la possibilità di studiare, nell'ambito della stessa teoria, gli effetti del mutamento tecnico, della varietà delle forme di mercato, dei problemi dell'inflazione, dell'occupazione e dello sviluppo economico. Ciò porta a una separazione analitica tra i differenti campi d'indagine, ossia la possibilità di ricorrere a differenti livelli d'analisi per trattare temi diversi. Questa separazione analitica non implica però necessariamente un'incompatibilità tra linee di ricerca non-neoclassiche che affrontino l'analisi di problemi differenti (v. Roncaglia, 1990, p. 257). Un'estensione dell'analisi di Sraffa alle forme di mercato non concorrenziali e ai problemi dello sviluppo economico è contenuta in Sylos Labini (v., 1992, pp. 66 ss.). Per quanto riguarda l'analisi del mutamento tecnico e della dinamica strutturale si veda il modello settoriale verticalmente integrato proposto da Pasinetti (v., 1981 e 1993).
In condizioni non perfettamente concorrenziali, il produttore non si limita ad adeguare la quantità prodotta secondo i diversi livelli di prezzi stabiliti dal mercato, ma ha un certo potere discrezionale sul prezzo. In regime di monopolio viene meno l'idea stessa di curva di offerta in quanto il produttore stabilisce simultaneamente il prezzo e la quantità. In regime di oligopolio le decisioni di offerta di ciascun imprenditore sono complicate dalla necessità di prevedere le reazioni delle imprese concorrenti. Si crea, quindi, un problema di interdipendenza tra gli offerenti. Inoltre, il limite all'espansione dell'offerta è dato non dai costi, ma dalla domanda, le cui dimensioni sono limitate dall'ampiezza del 'mercato particolare' di ciascuna impresa.
Se supponiamo che nel breve periodo gli inputs fissi siano divisibili, allora il costo totale è rappresentato da una retta ascendente fino al punto corrispondente alla piena utilizzazione della capacità produttiva dell'impianto esistente. Una volta raggiunta la quantità prodotta che satura la capacità dell'impianto, il costo totale inizia a crescere più che proporzionalmente. Nel primo tratto, finché la curva del costo totale ha inclinazione costante, il costo medio variabile (CMeV) e il costo marginale (CMg) coincidono e sono rappresentati da una retta parallela all'asse delle ascisse, mentre il costo medio totale (CMeT) ha andamento decrescente; nel secondo tratto, in cui l'inclinazione del costo totale è crescente, il costo medio variabile (CMeV) e il costo marginale (CMg) assumono andamento divergente e crescente (v. fig. 3).
In concorrenza perfetta è la parte a destra della linea verticale in grassetto del grafico riportato alla fig. 3 che è rilevante nella determinazione delle condizioni di offerta. Infatti, si ricorderà che, in condizioni perfettamente concorrenziali, l'imprenditore, di fronte a una domanda infinitamente elastica, che assorbe qualsiasi quantità di merce al prezzo corrente di mercato, è indotto a utilizzare l'impianto al massimo della sua capacità produttiva, fino al punto in cui i costi marginali crescenti uguagliano il prezzo. Viceversa, in oligopolio le imprese progettano impianti di dimensioni tali che il volume medio previsto di produzione sia di norma superiore alla quantità corrispondente al punto di pareggio, ma al contempo inferiore alla produzione massima ottenibile, in modo da garantirsi una riserva di capacità produttiva per far fronte a improvvisi aumenti della domanda (v. Sylos Labini, 1956, pp. 54-57). In oligopolio la parte rilevante del grafico riportato alla fig. 3 è quella posta a sinistra della retta verticale tratteggiata. A sinistra di questa retta verticale i costi medi variabili sono costanti e i costi medi totali sono decrescenti. Inoltre, in oligopolio il prezzo è piuttosto vischioso perché il singolo offerente teme che una variazione del prezzo del bene da lui prodotto non porti alcun vantaggio in termini di ricavo totale. Un aumento del prezzo da parte di un singolo offerente potrebbe, infatti, determinare una riduzione delle vendite, in quanto è probabile che i concorrenti non siano disposti a seguirlo. Invece una riduzione del prezzo non porterebbe a un aumento sufficiente della quantità venduta, perché in questo caso i concorrenti potrebbero essere indotti a seguirlo riducendo anche il loro prezzo di vendita.
Nel breve periodo e in condizioni di mercato non perfettamente concorrenziali, sia l'andamento dei costi medi variabili nel tratto rilevante per l'offerente, sia le regole di fissazione del prezzo portano a supporre, come prima approssimazione, che il prezzo di offerta tenda a non mutare al variare della quantità prodotta, cioè che non vi sia una relazione diretta tra prezzo e quantità prodotta.Nel lungo periodo, l'impresa può aumentare la propria offerta installando un impianto di dimensioni maggiori. Se l'impresa dispone già dell'impianto di dimensioni massime progettabili, è necessario che moltiplichi il numero degli impianti: ci troviamo così di fronte non a una curva di offerta, ma a una serie di punti discreti. La presenza di un numero finito di tecnologie adottate dalle diverse imprese appare come una delle caratteristiche fondamentali del mercato oligopolistico (v. Sylos Labini, 1956, pp. 57-58, 64 s.). In molti casi, la discontinuità delle dimensioni di scala e la diversità delle soluzioni tecniche utilizzate dalle singole imprese sono accentuate dalla necessità di equilibrare le diverse capacità produttive delle attrezzature impiegate e delle varie fasi in cui è diviso il processo produttivo. Il mancato bilanciamento delle diverse capacità produttive causerebbe cadute di efficienza, in quanto alcune macchine o fasi rimarrebbero per certi periodi inattive, anche quando il processo è in funzione. Ciò comporterebbe un costo per unità di prodotto più elevato rispetto alla situazione di pieno utilizzo delle attrezzature. Dunque, in presenza di macchinari e fasi entrambi indivisibili, la dimensione di scala complessiva deve rispecchiare l'esigenza economica di bilanciare le varie capacità produttive in modo da eliminare i periodi d'ozio dei mezzi di produzione. Una volta stabilita una scala che elimini, o riduca al minimo, i tempi di inattività qualsiasi espansione della dimensione deve avvenire in base a salti discreti, vale a dire secondo multipli interi della scala corrispondente alla piena utilizzazione della capacità produttiva (v. Georgescu-Roegen, 1965, tr. it., pp. 176-184; v. Tani, 1986, pp. 197 ss.).
Se si abbandona l'ipotesi, necessaria allo schema di concorrenza perfetta, di capacità di coordinamento date da parte dell'imprenditore (v. cap. 5), è possibile tener conto, oltre che delle economie di scala tecniche relative alle caratteristiche degli impianti, anche delle economie di scala organizzative. Si hanno economie di scala organizzative quando il passaggio a dimensioni più grandi comporta una maggiore efficienza e minori costi medi nelle attività amministrative e di controllo. L'aumento di efficienza deriva dal fatto che la crescita della dimensione dell'impresa permette di adottare, nello svolgimento dei vari compiti organizzativi, una migliore divisione del lavoro, utilizzando così personale sempre più specializzato. Se si assume che la capacità di coordinamento possa espandersi, tale capacità può rappresentare, in ogni dato momento, un limite al saggio di sviluppo dell'impresa, ma non un limite alla dimensione di per sé (v. Marris, 1972, tr. it., p. 367; v. Silva, 1991, pp. 257 s.). Numerosi studi empirici concordano sul fatto che le economie di scala, nel loro complesso, raggiungono in molti settori dell'industria manifatturiera notevoli proporzioni in rapporto all'intera capacità produttiva del settore (per una rassegna della letteratura, v. Pratten, 1988).
È stato osservato che le condizioni di offerta non sono solo legate alla dimensione dell'unità produttiva, come potrebbe far pensare l'usuale rappresentazione bidimensionale dei costi, ma anche a molti altri fattori: la dotazione di capitale, le condizioni dei mercati finanziari, le caratteristiche della imprenditorialità, la quantità di output cumulata nel tempo, il profilo temporale dei processi produttivi, le soluzioni organizzative adottate per ridurre i tempi d'ozio degli elementi della produzione, le discontinuità tecniche dovute a fenomeni di indivisibilità, l'apprendimento mediante l'esperienza, il numero di beni prodotti da una singola impresa, i costi transazionali e le caratteristiche dei mercati, le normative del lavoro, la legislazione fiscale e i meccanismi di diffusione delle innovazioni. Tutti questi fattori cambiano da impresa a impresa e in relazione all'evoluzione del contesto istituzionale. Di conseguenza il problema della quantità ottima offerta da parte di un'impresa non è univocamente predeterminato (v. Robinson, 1931; v. Georgescu-Roegen, 1964, rist. 1976, p. 296).
Nel considerare la quantità offerta dalle singole imprese, è molto difficile isolare le economie di scala dalle economie derivanti dal progresso tecnico, perché spesso un aumento delle dimensioni favorisce l'adozione di nuove tecniche, così come l'introduzione di nuove tecniche consente spesso un aumento della scala di produzione. La connessione, presente nell'analisi di Adam Smith, tra ampliamento del mercato, aumento della quantità prodotta, intensificazione della divisione del lavoro, crescita della produttività e progresso tecnico, è stata ripresa da Nicholas Kaldor (1908-1986). Egli ha sottolineato il ruolo delle economie di scala dinamiche nel determinare un processo cumulativo tra aumenti della domanda, indotti da incrementi dell'offerta, e incrementi dell'offerta generati in risposta a incrementi di domanda. Il processo di sviluppo sarà tanto più rapido quanto più alta sarà la propensione al consumo del sistema e maggiore la tendenza a utilizzare gli incrementi di reddito per l'acquisto di prodotti industriali nella cui produzione è possibile godere di economie di scala. In breve, l'espansione del mercato condiziona l'introduzione di innovazioni e, al tempo stesso, l'attività innovativa permette un'espansione della domanda attraverso l'aumento della produttività. Si determina così, secondo quanto enunciato dalla 'legge di Verdoorn', una relazione fra l'aumento della produzione e l'aumento della produttività (v. Kaldor, 1966, pp. 8-9, 25-26; v. Sylos Labini, 1989, pp. 67-68).
Nella moderna letteratura la curva di offerta aggregata individua l'ammontare di produzione che le imprese, nel loro insieme, intendono offrire in corrispondenza di diversi livelli dell'indice generale dei prezzi. Se si assume che nel sistema economico si produce un solo bene, allora le ipotesi necessarie per costruire la curva di offerta sono le stesse menzionate nella costruzione dell'offerta di un'industria nel suo insieme (v. § 5b). Se invece si assume che nel sistema economico si producono più beni, è necessario aggiungere a quelle ipotesi molto restrittive anche la condizione che nell'economia si producano i vari beni in proporzione costante, in modo che "sia possibile aggregare i vari beni in un solo paniere nel quale essi entrano con pesi fissi" (v. Musu, 1987, pp. 21-22; v. Davidson e Smolensky, 1964, p. 123; Blackorby e Schworm, 1984, pp. 633-647; v. Casarosa, 1991, pp. 111 s., 467 s.).
Nel modello neoclassico il meccanismo di concorrenza perfetta garantisce che le risorse siano sempre pienamente utilizzate. La funzione di offerta aggregata di lungo periodo è quindi rappresentata da una retta verticale, in corrispondenza della produzione di pieno impiego. Con una curva di offerta aggregata verticale, una variazione dell'offerta di moneta provoca immediatamente una pari variazione nel livello generale dei prezzi, senza alcun effetto sui livelli del reddito e dell'occupazione.
John Maynard Keynes, pur mantenendo l'ipotesi di concorrenza perfetta e gli strumenti microeconomici marshalliani, giunge a conclusioni diverse rispetto al modello neoclassico a cui si è appena accennato. Nel modello keynesiano originario la funzione di offerta aggregata indica il valore minimo delle vendite che, nel breve periodo, porta le imprese nel loro insieme a occupare un certo numero di lavoratori. Se Z è il valore delle vendite e N il numero dei lavoratori occupati, avremo:
Z=Φ(N). (4)
L'occupazione N è calcolata secondo unità di lavoro omogenee, assumendo che rimangono costanti i salari relativi e la distribuzione dell'occupazione tra le industrie. Keynes ipotizza che nel breve periodo la produttività marginale del lavoro sia decrescente e che quindi il costo marginale per le singole imprese sia crescente; ne segue che gli imprenditori nel loro insieme sono disposti a offrire una maggior quantità di merce solo se a fronte di un prezzo crescente, muovendosi, quindi, lungo una curva di offerta aggregata crescente all'aumentare dell'occupazione (v. Keynes, 1936, tr. it., pp. 22-23, 36; v. Casarosa, 1978, pp. 1372-1374; v. Schlicht, 1991-1992, pp. 516 s.). La flessibilità dei prezzi, dovuta all'operare della concorrenza, non garantisce tuttavia che la curva decrescente della domanda aggregata e la curva crescente dell'offerta aggregata si intersechino proprio in corrispondenza del punto di piena occupazione. E ciò a causa dell'estrema sensibilità degli investimenti rispetto al grado di fiducia degli imprenditori circa l'andamento futuro della domanda e dei livelli di profittabilità. Se, ad esempio, le previsioni sono negative e gli investimenti risultano minori del risparmio, la domanda sarà inferiore all'offerta aggregata. Di conseguenza, le imprese ridurranno la produzione e l'occupazione in modo da annullare l'eccesso di offerta aggregata. L'equilibrio tra offerta aggregata e domanda aggregata, così raggiunto, corrisponde a un livello di produzione (e di reddito) inferiore a quello necessario per garantire la piena occupazione. La conclusione di Keynes è che, al contrario di ciò che afferma la legge di Say, l'offerta di beni non crea sempre la propria domanda (v. Keynes, 1936, tr. it., pp. 23-24; v. Costa, 1980, pp. 9 s.). Se si determina un eccesso di offerta, solo un aumento della domanda può garantire una crescita del reddito e dell'occupazione.Alla fine degli anni sessanta e nel corso degli anni settanta il modello neoclassico è stato sviluppato con riferimento al ruolo delle aspettative e all'assunzione che gli agenti prendano decisioni in modo sequenziale nel tempo storico. Se all'interno del modello neoclassico introduciamo l'ipotesi che i lavoratori siano caratterizzati da aspettative adattive e che le imprese, al contrario, percepiscano esattamente l'andamento dei prezzi, la curva di offerta aggregata di breve periodo può risultare inclinata positivamente. Si hanno aspettative adattive quando la previsione del saggio di variazione dell'indice generale dei prezzi del periodo corrente si basa sul saggio di variazione dell'indice generale dei prezzi del periodo precedente (o più precisamente quando la previsione della variazione dell'indice generale dei prezzi è modificata di un ammontare proporzionale all'errore di previsione del periodo precedente). In base a queste ipotesi, nel caso di un aumento improvviso del saggio di variazione dell'indice generale dei prezzi, le imprese tendono a espandere la domanda di lavoro, per effetto della riduzione del salario reale, e i lavoratori dal canto loro, non percependo immediatamente l'aumento dei prezzi, tendono ad accrescere l'offerta di lavoro, sebbene il salario reale sia in effetti sceso. Ciò determina una variazione della produzione al di sopra del livello di piena occupazione. La curva di offerta aggregata di breve periodo risulta così inclinata positivamente. Questo scostamento dal livello di reddito di piena occupazione è comunque temporaneo perché i lavoratori con il passare del tempo si rendono conto dell'errore di valutazione e riducono quindi l'offerta di lavoro fino a raggiungere il livello precedente di pieno impiego. Di conseguenza, con aspettative adattive, nel lungo periodo la curva di offerta aggregata risulta verticale in corrispondenza del livello di piena occupazione (v. Friedman, 1968, tr. it., p. 268; v. Lucas, 1972, pp. 93 ss.).
Se infine si assume, come fa la nuova macroeconomia classica, che gli agenti siano caratterizzati da aspettative razionali - nel senso che essi formulano previsioni in media corrette circa le variazioni dell'offerta di moneta e del livello generale dei prezzi - la curva di offerta aggregata appare, anche nel breve periodo, verticale in corrispondenza del livello di pieno impiego (v. Lucas, 1973, pp. 133-137). Dunque, con aspettative razionali gli aggiustamenti hanno luogo, sia nel breve che nel lungo periodo, attraverso variazioni dei prezzi e non attraverso aggiustamenti delle quantità reali (reddito e occupazione).Secondo Frank H. Hahn (n. 1925) vi è tuttavia un'insanabile contraddizione logica nel modello della nuova macroeconomia classica. Tale modello utilizza i risultati dello schema di equilibrio economico generale, proposto da Arrow e Debreu, in cui esistono tutti i mercati futuri e contingenti e in cui tutte le decisioni sono prese in un unico istante iniziale, all'interno di un'analisi in cui i mercati sono invece incompleti e le decisioni sono prese nel tempo storico in maniera sequenziale (v. Hahn, 1982, tr. it., pp. 35-36; v. Bianchi, 1991, p. 79).
Gli economisti postkeynesiani hanno mostrato come i risultati dell'analisi di Keynes risultino notevolmente rafforzati dall'abbandono dell'ipotesi di concorrenza perfetta: se si assume che i prezzi e i salari siano vischiosi, gli aggiustamenti hanno luogo soprattutto attraverso variazioni delle quantità (v. Harcourt, 1977). All'interno dei modelli postkeynesiani le condizioni d'offerta sono condizionate da una serie di elementi: le condizioni di incertezza in senso forte, derivanti dall'impossibilità di conoscere completamente le contingenze possibili, le imperfezioni del mercato del lavoro, la scarsità di credito e l'instabilità finanziaria, il prevalere di rendimenti crescenti in molti settori di attività (v. Lavoie, 1992; v. Roncaglia e Tonveronachi, 1992).
Le microfondazioni dell'offerta aggregata sono uno dei temi su cui si concentra maggiormente l'attenzione dei recenti modelli appartenenti alla nuova economia keynesiana. Questi modelli si differenziano dai modelli postkeynesiani perché assumono un comportamento massimizzante e razionale degli agenti (v. Greenwald e Stiglitz, 1993). Tuttavia, a differenza del modello neoclassico originario, la nuova economia keynesiana imputa l'esistenza di equilibri con disoccupazione involontaria alla compresenza di concorrenza imperfetta, costi di transazione e informazione asimmetrica e incompleta. La nuova economia keynesiana rifiuta l'idea che i prezzi e i salari si aggiustino velocemente e che quindi tutti i mercati siano costantemente in equilibrio. Nell'analisi dell'offerta aggregata i nuovi economisti keynesiani danno particolare enfasi ai meccanismi di allocazione del credito in presenza di razionamento e all'effetto delle rigidità presenti sul mercato del lavoro (v. Mankiw e Romer, 1991; v. Romer, 1993; v. Boitani e Salanti, 1994). Tali rigidità sono spiegate sulla base, sia del modello insider-outsider, che dell'ipotesi di salari d'efficienza e di scaglionamento dei contratti salariali tra le varie categorie (v. Occupazione; v. Salari e stipendi). Nel caso in cui i mercati siano caratterizzati da rigidità di varia natura, la curva di offerta aggregata non risulta verticale, ma inclinata positivamente. Di conseguenza, eventuali variazioni della domanda aggregata danno luogo ad aggiustamenti sulle quantità reali.
Va infine osservato che improvvisi cambiamenti nelle condizioni di produzione (dovuti, ad esempio, a mutamenti tecnologici, a calamità naturali), o repentine e consistenti variazioni dei prezzi degli inputs (causate, ad esempio, da variazioni nei prezzi dei beni importati o nel livello dei salari) determinano uno spostamento verso l'alto della curva di offerta aggregata. Le crisi petrolifere del 1973-1974 e del 1979 sono degli esempi di questo tipo di perturbazioni dal lato dell'offerta. Negli ultimi anni, il forte aumento del prezzo dei prodotti energetici e le trasformazioni subite dal mercato del lavoro hanno portato a un rinnovato interesse verso lo studio delle condizioni di offerta. (V. anche Concorrenza; Costi; Economia; Equilibrio economico; Monopolio e politiche antimonopolistiche; Occupazione; Oligopolio; Prezzi; Produzione; Salari e stipendi; Valore, teorie del).
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