oggetto
L’espressione complemento oggetto (o semplicemente oggetto) indica un costituente di frase (di varia natura) che dipende da un verbo transitivo e che, secondo la definizione tradizionale, si riferisce alla persona o la cosa sulla quale ‘si trasferisce’ l’azione espressa dal verbo:
(1) Maria ha picchiato Luca
(2) ho imparato la lezione
L’oggetto, non essendo introdotto da preposizione, si lega direttamente al verbo (di qui anche la denominazione di oggetto diretto). La nozione di complemento oggetto si contrappone quindi a quelle di ➔ soggetto e di complemento indiretto (➔ complementi).
La possibilità di reggere un oggetto diretto rientra tra le caratteristiche specifiche dei verbi transitivi (➔ transitivi e intransitivi, verbi; ➔ reggenza). I verbi intransitivi, invece, reggono sintagmi preposizionali, che rientrano nella classe dei complementi indiretti:
(3) Lucia ama il volontariato ~ Lucia si dedica al volontariato
Complementi come al volontariato in (3) sono però anche chiamati oggettoidi (Siller-Runggaldier 1996): oggettoidi e oggetti diretti sono accomunati dal fatto di essere in rapporto di dipendenza strutturale con il verbo. Il concetto di oggettoide permette di distinguere, nell’ampia classe dei complementi indiretti, i sintagmi preposizionali argomento del verbo dai complementi circostanziali o aggiunti, che non rientrano nella struttura argomentale del verbo:
(4) ci si dedica alla musica durante le vacanze
Nelle lingue flessive (➔ flessione; ➔ morfologia) l’oggetto diretto è realizzato col caso accusativo (lat. Petrus amat Clodiam «Pietro ama Clodia»; ted. ich habe einen Apfel gegessen «ho mangiato una mela»). Nelle lingue prive di un sistema casuale, invece, la funzione di oggetto diretto è in genere segnalata dall’ordine dei costituenti. In italiano, ad es., l’oggetto tende a seguire il verbo (➔ frasi nucleari), almeno nelle frasi non marcate (➔ ordine degli elementi). Nella serie dei ➔ pronomi personali e relativi (➔ caso), però, esistono forme specifiche per l’espressione della funzione di oggetto.
L’oggetto può essere costituito da nomi, pronomi personali tonici, clitici, pronomi relativi e intere frasi.
Quando l’oggetto è rappresentato da nomi, può ricorrere senza articolo oppure può essere preceduto dall’articolo determinativo o indeterminativo:
(5) sto cercando casa
(6) prendi il caffè
(7) posso offrirti un bicchiere di birra?
In alcuni casi è preceduto dall’articolo partitivo (Korzen 1996: II, 337-516; ➔ articolo; ➔ partitivo), cioè da una forma della preposizione di + articolo:
(8) vorrei del pane [= «vorrei un po’ di pane»]
Un diverso fenomeno è invece l’➔ accusativo preposizionale, che ricorre con particolare frequenza nei dialetti dell’Italia meridionale, nel sardo e nelle varietà di italiano regionale parlate in queste zone, oltre che in alcune varietà centro-settentrionali (Fiorentino 2003). In questo caso l’oggetto è introdotto dalla preposizione a:
(9) va cercando a Luigi
Questo fenomeno, diffuso anche nelle varietà standard dello spagnolo e del romeno, interessa soprattutto i referenti animati definiti.
Un altro fattore che ne favorisce la comparsa consiste nel grado di empatia che è associato al referente. Nel romanesco (➔ Roma, italiano di), ad es., l’accusativo preposizionale ricorre perlopiù in frasi marcate in cui l’oggetto è dislocato e poi ripreso mediante un pronome (➔ dislocazioni):
(10) a Gigi non lo posso vedere.
L’oggetto diretto può essere anche un pronome personale tonico o clitico (➔ personali, pronomi; ➔ clitici). Come si è anticipato, l’italiano conserva in questo ambito una flessione di caso: le forme oggetto differiscono da quelle soggetto nell’ambito dei pronomi tonici (io ~ me, tu ~ te), mentre tra i pronomi atoni di terza persona esistono forme oggetto distinte dalle forme oblique (lo ~ gli, la ~ le, li / le ~ loro).
I pronomi tonici oggetto (me, te, lui, lei, sé, noi, loro) vengono usati anche nei complementi preposizionali (dico a te; parla con lei). Il pronome oggetto per la ripresa di referenti non umani o inanimati è rappresentato dalle sole forme atone lo, la, le, li. I corrispondenti pronomi tonici (esso, essa, esse, essi) si impiegano soltanto in complementi preposizionali (portami il libro → portamelo e non *portami esso).
Tra i pronomi atoni oggetto figura anche ne che riprende l’oggetto partitivo:
(11) vuoi dei biscotti? → ne vuoi?
Nelle sequenze di due pronomi atoni il pronome oggetto compare dopo il pronome indicante il complemento di termine (daglielo).
Anche tra i pronomi relativi (➔ relativi, pronomi) c’è una distinzione tra la forma che impiegata per l’oggetto e per il soggetto (i fiori che ho comprato ieri) e la forma cui, usata, con o senza preposizione, come dativo e complemento indiretto (la persona cui ti devi rivolgere / con cui devi parlare).
Possono svolgere funzione di oggetto anche le subordinate oggettive (➔ completive, frasi; ➔ oggettive, frasi):
(12) ammetto che la situazione è pericolosa
La subordinata in (12) svolge una funzione argomentale e può essere nominalizzata mediante un oggetto diretto (ammetto la pericolosità della situazione; ➔ nominalizzazioni).
Nella zona dell’enunciato occupata dall’oggetto possono occorrere diversi costituenti. Essi possono essere classificati in: (a) oggetti diretti veri e propri; (b) complementi predicativi dell’oggetto (➔ predicativo, complemento); (c) oggetti incorporati; (d) pronomi oggetto di verbi procomplementari; (e) oggetti interni; (f) oggetti latenti.
3.1.1 Ruoli dell’oggetto. L’oggetto diretto prototipico (o canonico) rinvia a un referente (animato o inanimato) che partecipa al processo verbale, assumendo il ruolo di paziente (entità che subisce l’azione: 13), di beneficiario (entità che trae beneficio dall’azione: 14) o di esperiente (entità che è sede di un certo stato psicologico: 15):
(13) Maria picchia Luca
(14) gli elicotteri hanno rifornito le truppe
(15) la tua scenata ha sconvolto i presenti
È inoltre possibile distinguere, seguendo la grammatica tradizionale, tra obiectum affectum e obiectum effectum. Nel primo caso l’oggetto indica un referente esterno all’azione verbale ed esiste a prescindere da essa:
(16) Luca ripara il computer
L’obiectum effectum invece scaturisce dall’azione espressa dal verbo:
(17) mio padre costruisce una barca
Il complemento oggetto di (17) rimanda a un’entità la cui esistenza deriva dal compimento del processo verbale.
3.1.2 Proprietà sintattiche. Sul piano sintattico l’oggetto presenta le seguenti proprietà:
(a) diventa soggetto in seguito al processo di passivizzazione: Maria picchia Luca → Luca è picchiato da Maria (➔ diatesi);
(b) può essere pronominalizzato e ripreso da un pronome relativo: Maria picchia Luca → Maria lo picchia / Luca che Maria picchia;
(c) se si incorpora una frase in un costrutto causativo (➔ causativa, costruzione), l’oggetto diretto iniziale mantiene inalterato il suo ruolo e la sua forma: Gianni fa picchiare Luca a Maria.
3.1.3 Accordo del participio. Sebbene la proprietà di determinare l’➔accordo del verbo sia una proprietà specifica del soggetto, anche l’oggetto diretto può influire sulle marche morfologiche del verbo. Infatti il participio passato dei tempi composti (➔ participio; ➔ tempi composti) è accordato in genere e numero con l’oggetto diretto se quest’ultimo è costituito da un pronome clitico di terza persona singolare e plurale (l’ho vista; le ho viste), dal clitico ne partitivo (– ha voluto dei soldi? – no, non ne ha voluti) o da pronomi riflessivi (vi siete vestiti; vi siete vestite). L’accordo è invece facoltativo con i pronomi oggetto di prima e seconda persona (Maria, Luca ti ha cercato; Maria, Luca ti ha cercata).
In italiano contemporaneo, se l’oggetto è rappresentato da un ➔ sintagma nominale pieno (cioè non costituito da pronomi), il participio resta di solito invariato (ho comprato due rose, più raramente ho comprate due rose: cfr. Serianni 19912: 465). Al contrario in italiano antico e nelle varietà più letterarie e arcaizzanti il participio è più spesso accordato all’oggetto lessicale (La Fauci 1988; Salvi 2010), specialmente se quest’ultimo figura tra l’ausiliare e il participio:
(18) elli hae bene morte servita (Novellino LXIII, p. 234)
Potrebbero rientrare tra i fenomeni di accordo anche alcuni casi di ridondanza pronominale (l’ho letto il libro), in genere classificati nell’ambito delle ➔ dislocazioni. Secondo alcuni (Berretta 1989; Koch 1994) la ripresa o l’anticipazione dell’oggetto mediante un pronome atono potrebbe costituire una sorta di «coniugazione oggettiva». In tal caso, i pronomi atoni formerebbero con il verbo un’unica parola fonologica e funzionerebbero come marca di accordo tra il verbo e il suo complemento (allo stesso modo in cui le marche di persona del verbo realizzano la coniugazione soggettiva, segnalando l’accordo tra soggetto e verbo). La tendenza a marcare l’oggetto sul verbo è condizionata dal contesto e da fattori pragmatici (come accade anche in francese). In altre lingue la coniugazione oggettiva è un tratto più stabile: in ungherese infatti il fenomeno (impiegato con oggetti definiti) è segnalato mediante affissi, cioè elementi completamente grammaticalizzati, proprio come avviene nella coniugazione soggettiva (mondok «dico»; mondom «lo dico»).
Con verbi appellativi (nominare, denominare, chiamare, ecc.), estimativi (credere, dichiarare, stimare, ecc.), elettivi (eleggere, proclamare, designare, ecc.), causativi (rendere, fare) e di percezione (vedere, sentire), all’oggetto può essere riferito un complemento predicativo, costituito da un aggettivo, un nome o un participio, eventualmente introdotto da preposizioni o locuzioni preposizionali (a, da, in, per, come, quale, in qualità di).
Anche se concorda con l’oggetto, il complemento predicativo è parte integrante del sintagma verbale:
(19) hanno eletto Luca rappresentante degli studenti
(20) lo considero una brava persona
I complementi predicativi possono essere anche non argomentali (o accessori): in tal caso esprimono la condizione dell’oggetto durante l’evento (la pasta, mangiala calda; ha scelto francese come prima lingua). Il costrutto è particolarmente frequente con il verbo avere (hai le mani sporche).
Possono avere funzione predicativa anche alcune relative (➔ relative, frasi) il cui antecedente è retto da verbi di percezione o di contatto e dal verbo avere (ho visto Maria che fumava; ho trovato il cane che dormiva sul divano; ho le mani che tremano).
Alcuni oggetti diretti, specialmente se privi di articolo, non individuano un referente su cui si dirige l’azione del verbo, bensì modificano il predicato, come se l’oggetto fosse incorporato nel verbo. Si crea in questo modo un costrutto sintattico e semantico molto coeso che «esprime un’attività verbale, senza entità partecipanti localizzate o individuate» (Korzen 1996: 148). Tale fenomeno interessa tanto i nomi astratti (dotati di per sé di un basso valore referenziale: mostrare simpatia, chiedere consiglio), quanto gli oggetti costituiti da nomi concreti e determinante zero.
Si vedano i seguenti esempi:
(21) Gianni mangia panini
(22) Gianni mangia i panini
La frase in (21) sembra indicare che Gianni si dedica a una regolare pratica alimentare: di solito mangia panini, anche se non lo fa in questo momento. L’espressione mangiare panini costituisce una specie di sottocategoria dell’azione più generale del mangiare. In (22) l’inserzione dell’articolo fornisce valore di argomento pieno all’oggetto, che passa a indicare un’entità coinvolta nel processo verbale.
Talvolta il fenomeno dell’incorporazione analitica dell’oggetto dà luogo a una locuzione fissa o idiomatica, in cui verbo e oggetto formano un blocco (➔ polirematiche, parole; ➔ modi di dire; Voghera 2004: 68): chiudere baracca e burattini, cambiare aria, cercare casa, dare buca.
Un processo analogo si determina anche con i ➔ verbi supporto (avere, fare, prendere, ecc.). Nelle locuzioni con verbo supporto il significato si concentra nel complemento, mentre il verbo, semanticamente vuoto, ha solo la funzione di esprimere i tratti di tempo, aspetto, modo e persona. In locuzioni come fare luce o avere fame l’oggetto è privo di valore referenziale e non svolge un ruolo semantico autonomo rispetto al verbo: tali espressioni sono predicati composti (fare luce equivale a illuminare; avere fame equivale a essere affamato).
Tra le locuzioni a verbo supporto che reggono un oggetto si segnalano per la loro frequenza:
(a) il tipo avere + oggetto, che indica uno stato: avere fame, avere sonno, avere importanza;
(b) il tipo fare + articolo indeterminativo + nome deverbale: fare una corsa, fare una mangiata; rispetto ai verbi corrispondenti (correre, mangiare), le espressioni con verbo supporto esprimono l’occasionalità dell’azione o la sua brevità;
(c) il tipo fare + nome astratto: fare spavento, fare schifo, fare tristezza;
(d) il tipo fare + articolo determinativo + nome di professione: fare l’avvocato, fare l’infermiera; va segnalato che questo costrutto è specifico dell’italiano, dato che manca in tutte le altre lingue romanze, che usano piuttosto la struttura «essere» + nome di professione (spagn. es abogado «fa l’avvocato», lett. «è avvocato»; strutture simili in francese e in portoghese: La Fauci & Mirto 2003);
(e) il tipo fare + aggettivo sostantivato (fare lo scemo), che esprime una condizione non permanente o un atteggiamento del soggetto.
Sono ‘falsi oggetti’ i pronomi lo, la, le, li, ne, che compaiono nei cosiddetti verbi procomplementari (De Mauro 1999: XXXIV), diffusi nel parlato e nelle varietà informali (➔ pronominali, verbi). Dotati di un significato proprio specifico o persino non riconducibile al verbo principale, i verbi procomplementari accettano «a complemento di significato uno o due elementi pronominali» (Viviani 2006: 258): farcela «riuscire a fare qualcosa», prenderle «essere picchiato», bersela «credere a qualcosa non vero», avercela (con) «essere irritati (con qualcuno)», prendersela «offendersi».
Il clitico che ricorre in tali verbi non ha funzione di rinvio anaforico (➔ anafora) rispetto a un sintagma nominale già menzionato (Russi 2008). Tuttavia, in alcune espressioni come farsela addosso, prenderle o darla, il parlante è in grado di risalire al referente che il pronome indica, anche se non compare nel cotesto precedente (➔ contesto). In tal caso il pronome rimanda a oggetti extralinguistici (di solito tabuizzati: le feci o l’urina in farsela addosso, le botte in prenderle, l’organo genitale femminile in darla; ➔ tabu linguistico). In altri casi la referenza del clitico è divenuta opaca; il parlante non è più in grado di individuare l’entità extralinguistica cui ricondurre il clitico oggetto (finirla, smetterla, piantarla, avercela, prendersela, tirarsela «darsi delle arie»).
Alcuni verbi procomplementari (come finirla o smetterla) non sembrano distanziarsi molto dal valore semantico del verbo principale, anche se veicolano un significato più specifico:
(23) smetti di mangiare
(24) smettila di mangiare
La frase (24) esprime un più alto grado di coinvolgimento del parlante: il clitico si comporta come una marca semantico-pragmatica di soggettività. Rispetto alla forma principale del verbo, smetterla enfatizza l’imperativo, veicolando anche una connotazione negativa.
Talvolta i verbi procomplementari sono seguiti da un aggettivo (accordato ovviamente al femminile), che costituisce un complemento predicativo dell’oggetto: farla grossa «commettere un’azione grave», farla sporca «commettere un’azione riprovevole», farla breve «essere sintetici».
L’oggetto interno è un nome corradicale del verbo (vivere una vita serena) oppure un nome che riprende in tutto o in parte il senso del verbo (dormire sonni tranquilli; danzare un valzer). Anziché indicare un partecipante dell’azione, gli oggetti interni qualificano, caratterizzano o quantificano il contenuto semantico del verbo introducendo delle specificazioni. Il fenomeno può ricorrere con i verbi intransitivi (che normalmente dovrebbero avere un solo argomento: correre una maratona, vivere la propria vita). In dipendenza di verbi che denotano versi di animali o rumori l’oggetto interno determina un cambiamento di significato (tuonare anatemi, sibilare insulti, miagolare lusinghe):
(25) il candidato si rivolse al pubblico tuonando parole di fuoco contro l’avversario
Nell’es. (25) l’inserzione di un oggetto interno (rappresentato nella maggior parte dei casi da nomi che indicano prodotti della comunicazione umana: parole, insulti, complimenti, frasi, ecc.) deriva da un processo di metaforizzazione al livello del discorso: si determina infatti una trasposizione metaforica dal dominio [– umano] a quello [+ umano]. Viene in questo modo a costituirsi una classe di verbi di enunciazione (➔ verba dicendi).
Di norma l’oggetto diretto è un argomento obbligatorio del verbo. Tuttavia molti verbi transitivi possono essere impiegati, secondo una denominazione diffusa nella grammatica tradizionale, anche in forma assoluta (per una critica al concetto di transitivo assoluto cfr. però Marello 1996). In tal caso non compare nessun oggetto diretto:
(26) a. Piero ha mangiato poco
b. Luisa non ama leggere
c. tuo padre beve troppo
Anche se la semantica del verbo implica automaticamente la presenza di un referente che partecipa o è sottoposto all’azione verbale (in 26 a., al termine del processo una pietanza è stata mangiata da Piero), tale referente non è esplicitato né può essere desunto dal contesto.
In italiano, come anche in altre lingue (Næss 2007: 122-151), l’omissione dell’oggetto diretto si verifica principalmente con verbi che modificano la condizione del soggetto (mangiare, bere, ascoltare). Nelle frasi costruite con verbi di questo tipo si tende a omettere l’oggetto diretto ogni qual volta si intende piuttosto porre l’accento sull’effetto che riguarda il soggetto.
Sono usati in forma assoluta anche i verbi che normalmente presentano un obiectum effectum (scrivere, cucinare, scolpire). A causa della sua scarsa referenzialità, l’obiectum effectum spesso non ha particolare prominenza nel contesto discorsivo; pertanto può essere omesso. In frasi come:
(27) Maria cucina
(28) Carlo beve
(29) quell’uomo non guida
ciò che interessa al parlante è dire che il soggetto compie una certa azione, senza riguardo all’oggetto, in ogni caso facilmente identificabile con le entità che possono scaturire dal processo verbale indicato dai verbi.
I verbi che normalmente reggono un obiectum affectum sono impiegati in modo assoluto quando s’intende sottolineare il carattere iterativo o generico dell’azione:
(30) il fumo uccide.
Come si è detto, in italiano l’oggetto tende a comparire, nelle frasi non marcate, in posizione postverbale (➔ ordine degli elementi). Tuttavia qualora si vogliano conseguire particolari effetti l’ordine può essere modificato. Nelle dislocazioni a sinistra l’oggetto compare all’inizio di frase ed è poi ripreso mediante un pronome:
(31) le cose intorno a lui le vedeva con un’amplificazione che le rendeva più rispondenti alla sua fantasia (Lalla Romano, Le parole tra noi leggere, p. 27)
In questo modo l’oggetto assume il ruolo di tema (➔ tematica, struttura): costituisce cioè la parte dell’enunciato su cui verte la successiva predicazione. Nelle frasi in cui appare in prima posizione, ma non è successivamente ripreso da un pronome, il costituente oggetto risulta invece focalizzato contrastivamente (➔ focalizzazioni):
(32) Laura dovevi chiamare [cioè non Lucia]
Nella frase (32) l’anteposizione dell’oggetto attiva una contrapposizione rispetto ad altre entità. In ➔ italiano antico l’anteposizione dell’oggetto non era necessariamente legata all’espressione di un focus contrastivo (Lombardi Vallauri 2004). L’oggetto preverbale poteva essere infatti sia tematico (33) sia rematico (34):
(33) – Questo corno sì vi manda l’Amoratto di Gaules per lo più maraviglioso corno che ssia nel mondo (Tristano riccardiano LXXVI, 19-21, p. 186)
(34) Et in quello giorno servirono iiij re co·lle corone in testa et altri baroni assai. Molto grande gioia fanno li baroni in quello giorno (La inchiesta del San Gradale I, 52, p. 101)
Nella frase (33) il complemento oggetto ha valore tematico; l’informazione nuova e rilevante è invece costituita dal soggetto (l’Amoratto). L’oggetto tematico anteposto non deve necessariamente essere ripreso mediante una copia pronominale (come avviene invece nell’italiano moderno); tuttavia l’inserzione di un pronome risulta frequente nei casi in cui fra l’oggetto e il verbo compaiono costituenti pesanti (Benincà & Poletto 2010: 48-49). In (34) l’oggetto in prima posizione è invece il rema: lo scopo della frase consiste nell’informare il lettore della gioia dei baroni e dei conseguenti festeggiamenti.
L’anteposizione dell’oggetto inoltre può attivare, come in italiano moderno, una focalizzazione contrastiva:
(35) sì si mise lo suo isbergo indosso et l’elmo in sua testa, et la sua bella spada si cinse, ma scudo non volle portare per prego che fatto li fosse (La inchiesta del San Gradale III, 1, p. 106)
Mediante l’ordine delle parole il referente scudo, oltre ad essere focalizzato, è contrapposto ad altri referenti (l’elmo e la spada). In italiano antico, dunque, l’oggetto preverbale ha varie funzioni informative, distinguibili soltanto in base al contesto.
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