Onorio IV
Giacomo Savelli, nato a Roma intorno al 1210, appartenne ad una delle più importanti famiglie romane del sec. XIII, la cui piena affermazione nell'ambito dell'aristocrazia cittadina sembra abbia avuto inizio intorno agli anni Venti-Trenta del Duecento proprio con il padre di Giacomo, Luca. Secondo alcune ipotesi genealogiche, la madre era Giovanna Aldobrandeschi, appartenente, invece, alla casata toscana dei Conti di Santa Fiora. L'ipotesi dell'appartenenza anche di Onorio III alla famiglia Savelli e la discendenza di questa famiglia da Aimerico, padre del cardinale Cencio (lo stesso Onorio III), è stata ormai definitivamente destituita di ogni fondamento e archiviata come un'invenzione erudita cinquecentesca, dovuta alle congetture ed alla fantasia di Onofrio Panvinio, autore del De gente Sabella, scritto tra il 1553 ed il 1555. Le origini del casato dei Savelli sono sostanzialmente ignote: Luca fa la sua comparsa nel 1233, allorché ricopre l'incarico di podestà del Comune di Todi. L'anno seguente è senatore di Roma e capo dell'insurrezione romana contro il pontefice Gregorio IX. La continua ascesa del casato è messa in evidenza dalle successive nomine a senatore del medesimo Luca (1266, anno della sua morte), e dei suoi figli Giovanni (1260) e Pandolfo (1279 e 1285), dall'alleanza matrimoniale con il potentissimo casato degli Orsini e, forse, con quello dei Normanni-Alberteschi (Marsilia e Mabilia, sorelle di Giacomo, sposano rispettivamente Napoleone di Matteo Rosso Orsini e, probabilmente, Giovanni di Alberto Normanni) e dalla promozione cardinalizia di Giacomo (1261). Della vita di Giacomo Savelli prima che ricevesse la porpora cardinalizia si conosce, tutto sommato, poco. In gioventù studiò per molti anni all'Università di Parigi, come egli stesso ricordava con molta nostalgia, quando era ormai divenuto pontefice (Les Registres, nr. 267, del 1° febbraio 1286). Dei benefici ecclesiastici si sa soltanto - anche questo lo rammenta lo stesso O. in due sue lettere - che aveva goduto di una prebenda e di un canonicato presso la chiesa di Châlon-sur-Marne (ibid., nr. 19, del 24 aprile 1285) e che aveva ottenuto il rettorato della chiesa di Berton, nella diocesi di Norwich (ibid., nr. 422, del 10 aprile 1286).
Nel 1249 appare come membro della "familia" del cardinale Giovanni da Toledo, in qualità di chierico e cappellano papale; con tali attribuzioni sottoscrisse una sentenza emanata a Lione dal cardinale Giovanni il 10 maggio di quell'anno. Per quanto sostanzialmente ignota, la sua carriera nell'ambito della Curia romana dovette essere piuttosto brillante, grazie anche - se non soprattutto - alla potenza ed all'influenza della sua famiglia e di quella degli Orsini, alla quale quella dei Savelli era legata da vincoli di parentela. Così nel dicembre 1261 Urbano IV lo creò cardinale diacono del titolo di S. Maria in Cosmedin. Un dispaccio inviato al re d'Inghilterra da Roger Lovel, suo procuratore presso la Corte papale, si esprime al riguardo in tal modo: "Giacomo Savelli, romano, parente del cardinale Giovanni (Giangaetano Orsini, futuro papa Niccolò III), è stato creato cardinale diacono del titolo di S. Maria in Cosmedin" (T. Rymer). Urbano IV lo doveva avere in grande considerazione, tant'è che nell'estate del 1264, in un momento delicatissimo del conflitto svevo-angioino, pensò di nominarlo rettore del Patrimonio di S. Pietro in Tuscia e capo dell'esercito pontificio: "siamo in trattative [affermava il papa in una lettera del 17 luglio] con i nostri fratelli cardinali circa la nomina del diletto figlio Giacomo cardinale diacono di S. Maria in Cosmedin a rettore e capitano del Patrimonio di S. Pietro in Tuscia" (E. Martène). Tuttavia in tale delicato incarico gli fu preferito il cardinale Matteo Rosso Orsini, nominato rettore il 9 agosto di tale anno. Nel 1265 fu mandato da Clemente IV a Roma per ricevere dal re di Sicilia il giuramento di fedeltà alla Chiesa romana, e Niccolò III, nel 1278, lo inviò, insieme al cardinale Matteo Rosso Orsini, presso Carlo d'Angiò, affinché questi addivenisse a una via di pacificazione con Ugo re di Cipro. Il suo lungo ed articolato testamento, dettato il 24 febbraio 1279 (sei anni prima di divenire papa), mostra l'ingente patrimonio ed i vasti domini territoriali che egli era riuscito ad accumulare fino ad allora. Tale elenco rivela altrettanto bene come le fortune patrimoniali e signorili di cui i Savelli godranno fino alla metà del Trecento coincidano in gran parte con quelle messe insieme proprio da Giacomo durante i suoi quasi venticinque anni di cardinalato; anche se non si può escludere che taluni possessi gli fossero stati ceduti dai suoi parenti per porli sotto la diretta protezione della Chiesa romana. In Roma il cardinale possedeva un gran numero di palazzi, torri, case ed edifici vari, le imponenti rovine del teatro di Marcello trasformate in un fortilizio e la "munitio" sul colle Aventino, dove da papa stabilirà la sua residenza. Nel territorio romano gli appartenevano (in tutto o in parte) una dozzina di castelli e villaggi fortificati, dislocati in tre nuclei, secondo quello che appare un disegno ambizioso e di ampia portata: a nord, lungo la via Flaminia, Rignano ed altri centri fra il monte Soratte e il Tevere; a sud lungo la via Appia, Albano, Castel Gandolfo e Castel Savello; a est Palombara Sabina e alcuni altri insediamenti limitrofi. Principali beneficiari del testamento del cardinale Giacomo erano il fratello Pandolfo ed il nipote Luca (figlio del defunto fratello Giovanni), ma anche le sorelle Mabilia, Marsilia e Finizia. La politica di arricchimento familiare condotta da Giacomo Savelli rappresenta un caso limite nella storia del nepotismo del Duecento. Egli determinò l'enorme accrescimento delle ricchezze e della potenza dei suoi congiunti molto più nei quasi cinque lustri del suo cardinalato che non nel biennio in cui sedette sul trono di Pietro, periodo in cui si limitò, sostanzialmente, a consolidare quanto aveva procurato alla sua famiglia in precedenza. Il cardinale Giacomo nel 1282 fondò un monastero dedicato alla Vergine e a s. Paolo nel territorio di Albano sui possedimenti che appartenevano alla sua famiglia, affidandolo ai Guglielmiti e dotandolo di molti beni immobili. Nei due anni successivi si occupò della riforma del cenobio benedettino di S. Giovanni in Argentella, situato a poca distanza da uno dei più importanti castelli di cui erano signori i Savelli, Palombara Sabina. Anche in questo caso affidò il monastero ai Guglielmiti. Soltanto quattro giorni dopo la morte di Martino IV, avvenuta a Perugia il 29 marzo del 1285, i cardinali, riuniti in conclave nella stessa città, elessero quale suo successore, per scrutinio ed all'unanimità, Giacomo Savelli.
Il neoeletto rimase a Perugia almeno fino al successivo 25 aprile, poi si trasferì a Roma, dove il 20 maggio, dopo essere stato ordinato sacerdote, fu consacrato e coronato pontefice nella basilica di S. Pietro in Vaticano. Dopo aver trascorso i mesi di maggio e giugno nella residenza papale del Vaticano - che proprio dall'ultimo quarto del Duecento andava progressivamente assumendo la connotazione di una dimora principesca - per il periodo estivo si trasferì a Tivoli (10 luglio-9 ottobre 1285). Al ritorno nell'Urbe stabilì la sua residenza romana nel palazzo che aveva fatto costruire per sé e la sua famiglia sull'Aventino, presso la chiesa ed il convento domenicano di S. Sabina, che lascerà soltanto nell'estate successiva per recarsi nuovamente a Tivoli (4 luglio-1° ottobre 1286). La scelta - insolita per un papa del Duecento - di trascorrere l'estate a Tivoli, piuttosto che, come allora più consueto, in una delle cittadine del Lazio meridionale, deve essere messa in relazione alla vicinanza di Tivoli con uno dei capisaldi dei domini territoriali dei Savelli, il castello di Palombara Sabina. Per i Romani l'elezione al sacro soglio di un loro concittadino dovette costituire motivo di ampia soddisfazione. Essi si affrettarono ad offrire al neoeletto pontefice la carica di senatore di Roma a vita; per quanto, molto probabilmente, la decisione fosse stata presa anche senza sapere chi sarebbe stato il successore di Martino IV, nella speranza di un rapido ritorno del papa a Roma. O. accettò immediatamente l'offerta, mostrandosi apertamente lusingato, e quali suoi vicari in tale ufficio confermò i due titolari in carica, suo fratello Pandolfo e Annibaldo Annibaldi, ai quali subentrarono alla metà del 1285 Orso Orsini e Nicola Conti. Nel giugno del 1286 fu nuovamente nominato senatore Pandolfo Savelli. Grazie soprattutto all'energia che quest'ultimo dovette dimostrare nell'espletare il suo alto ufficio, gli anni del breve pontificato di O. furono per la storia municipale di Roma un periodo di sostanziale tranquillità. Sul piano dei rapporti familiari O., come si è detto, beneficò i suoi congiunti operando soprattutto in funzione del consolidamento di quanto aveva per essi già accumulato nel quarto di secolo precedente. Il 5 luglio 1285, a poco più di tre mesi dalla sua elezione, si preoccupò di confermare il suo testamento, dettato sei anni prima quando era ancora cardinale ("in minori officio constitutus"), e fece inserire in questo nuovo atto notarile - che riassume le precedenti disposizioni testamentarie - una formula di accettazione da parte dei due eredi principali, il fratello Pandolfo e il nipote Luca, senza, però, più alcuna menzione degli esecutori testamentari. Come altri pontefici del Duecento, anche O. contò sull'appoggio di congiunti e parenti per il controllo ed il governo di Roma e dello Stato: così, come si è visto, il fratello Pandolfo fu nominato senatore di Roma, mentre il nipote Luca ricoprì la carica di rettore del Patrimonio di S. Pietro in Tuscia e un altro congiunto, Pietro Stefaneschi, fu nominato rettore della Romagna. Va notato, inoltre, come O., creando cardinale il romano Giovanni Boccamazza - arcivescovo di Monreale - con l'unica promozione cardinalizia da lui effettuata, abbia legato strettamente alla sua famiglia quella dei Boccamazza (è possibile, comunque, che sussistessero effettivi vincoli di parentela tra i due casati), che alla fine del Duecento assurse ad elevatissima potenza nell'ambito dell'aristocrazia romana, proprio grazie all'opera del cardinale Giovanni. I Boccamazza ancora quattro decenni dopo la morte del papa si mantenevano legati ai Savelli attraverso un forte vincolo di riconoscenza, che le fonti definiscono di "reverenza" e "amore". Per quanto riguarda il controllo delle province dello Stato pontificio, nei due anni di regno di O. si assistette ad una sempre maggiore perdita di potere e di controllo da parte del papa e ad una crescente anarchia tra le città dello Stato, molte delle quali continuavano ad affermare la loro indipendenza di fatto. La situazione fu abbastanza favorevole nelle province più prossime a Roma, Patrimonio di S. Pietro in Tuscia e Campagna e Marittima. Qui l'amministrazione ed il potere del papa erano più saldi e la situazione generale piuttosto tranquilla, grazie anche alla nomina di Luca Savelli, nipote del papa, a rettore della provincia del Patrimonio di S. Pietro (febbraio 1286). Le città del Ducato di Spoleto, prima fra tutte Perugia, sostenevano, invece, strenuamente la loro autonomia e nell'ottobre 1286 Gubbio, Assisi e Spoleto conclusero un significativo trattato di alleanza e di mutuo soccorso, imperniato soprattutto sulla comune solidarietà nei confronti delle pretese e delle possibili azioni di forza esercitate dal rettore papale del Ducato nei loro riguardi.
Nello stesso anno Perugia arrivò ad un accordo con Spoleto, Todi e Narni per muovere guerra contro Foligno, preannunciando in tal modo il ruolo egemone che avrebbe svolto nella regione di lì a pochi anni, sostituendo il suo controllo a quello del rettore pontificio. La situazione nella Marca Anconetana non era dissimile; il potere del rettore provinciale era estremamente debole; in quegli anni la sua attività giudiziaria, fiscale ed amministrativa fu incessante per tentare di risolvere la grande quantità di controversie di varia natura che lo opponevano alle città della provincia: il Comune di Macerata arrivò persino ad istituire un procuratore che risiedeva ed operava permanentemente presso la curia rettorale. A Iesi, nel 1285, fu organizzato un colpo di mano contro il podestà di nomina papale, che fu scacciato, e furono commessi numerosi atti di violenza. Fermo, Ascoli e Ripatransone erano in costante stato di belligeranza. I più evidenti segnali della crisi del governo papale nelle province si ebbero, tuttavia, in Romagna, dove si mantenne uno stato di forte anarchia e turbolenza, anche dopo la definitiva sottomissione di Guido da Montefeltro. Nel novembre del 1286, dopo una serie di scontri, le truppe del rettore Guglielmo Durando furono sconfitte da Mainardo di Susinana, potente feudatario capo dello schieramento antipapale faentino, che conquistò la stessa Faenza e, più tardi, Forlì. Neppure la nomina a rettore di Pietro Stefaneschi (esponente della nobiltà romana imparentato col papa) riuscì ad imprimere un segno diverso alla situazione. Dopo un primo fragile successo nei confronti di Mainardo, egli si trovò a fronteggiare una lega di città ribelli assai più forte, con Ravenna e Rimini. Dopo la morte di O. ottenne un successo militare nei confronti delle truppe di quest'ultima città (giugno 1287); tuttavia di lì a pochi mesi le principali città romagnole, ad eccezione di Bologna e Imola, erano tutte in rivolta. La situazione finanziaria della Sede apostolica durante il breve pontificato di O. sembra sia stata, invece, sostanzialmente tranquilla, se si considera come il pontefice non appaia in alcun modo pressato da richieste di creditori e di mercanti-banchieri a cui era ricorso per i pochi prestiti di cui aveva avuto necessità. O. ereditò dal suo predecessore la difficile posizione della Chiesa di Roma nei confronti del conflitto angioino-aragonese nell'Italia meridionale, iniziato con la guerra del Vespro del marzo 1282. Rispetto a questo problema il francese Martino IV aveva mantenuto una posizione decisamente filoangioina e con l'elezione di O. ci si aspettava forse, se non un cambiamento di rotta, almeno un maggior equilibrio. Tuttavia anch'egli si trovò ad affrontare una situazione ormai fin troppo segnata dal profondo ed irreversibile coinvolgimento pontificio nella questione del Regno, che la Chiesa stessa aveva infeudato agli Angiò, proseguendo con notevole impegno la politica di difesa dei diritti angioni in Sicilia. Più di ogni altra, la questione del Regno di Sicilia fu al centro degli interessi del vecchio papa e ad essa egli dedicò tutte le sue energie fino al giorno della morte. Nell'anno dell'elezione di O. erano scomparsi i principali protagonisti della vicenda: Carlo I d'Angiò, Pietro III d'Aragona, Filippo III di Francia, oltre, ovviamente, al pontefice Martino IV. Al momento della morte di Carlo I, il suo primogenito, Carlo principe di Salerno, era prigioniero degli Aragonesi e il papa, in virtù dei diritti feudali vantati dalla Chiesa sul Regno, provvide all'amministrazione della parte continentale del Reame, duramente sottoposta agli attacchi degli Aragonesi di Sicilia ed alle tensioni interne. O. non perdette mai di vista la possibilità di recuperare anche "manu militari" la Sicilia e confermò l'imposizione già disposta dal suo predecessore di una decima triennale agli enti ecclesiastici italiani per finanziare l'esercito angioino (aprile-maggio 1285). Per tentare di mantenere e rafforzare i diritti degli Angioini, mirò innanzitutto ad avviare un processo di riordino amministrativo del Regno. Per questo promulgò svariati provvedimenti, tra i quali, il 17 settembre 1285, la bolla Iustitia et pax, altrimenti nota come Constitutio super ordinatione Regni Sicilie (Les Registres, nr. 96) e la bolla Dilectus filius nobilis (ibid., nr. 97). Con la complessa ed articolata Constitutio imponeva un'ampia e profonda riforma amministrativa, governativa e fiscale del Regno, basandosi anche su analoghe misure adottate da Carlo I nel 1282 e da suo figlio l'anno seguente, nel tentativo di ricomporre la situazione che gli stava sfuggendo di mano. Il secondo provvedimento riguardò, invece, la risistemazione dei rapporti della monarchia angioina con le Chiese del Regno.
Il 2 febbraio 1286 il figlio secondogenito del defunto Pietro III d'Aragona, Giacomo, fu incoronato a Palermo re di Sicilia ed il pontefice l'11 aprile successivo ribadì contro di lui e sua madre Costanza la scomunica già comminata dal suo predecessore come perturbatori e istigatori della ribellione siciliana contro gli Angiò, rinnovando il gravissimo provvedimento poco più di un mese dopo (23 maggio). Per riottenere la libertà, Carlo II d'Angiò accettò le condizioni impostegli da Giacomo d'Aragona, ed in particolare il riconoscimento del dominio aragonese sulla Sicilia, sulle isole adiacenti fino a Malta e sul territorio continentale dell'arcidiocesi di Reggio. Carlo, inoltre, prometteva di impegnarsi affinché il papa ratificasse l'accordo, riconoscesse il fratello di Giacomo, Alfonso, come re d'Aragona, revocasse la crociata contro l'Aragona, bandita da Martino IV, e annullasse le censure ecclesiastiche comminate contro gli Aragonesi. O., invece, rifiutò, stigmatizzò decisamente l'accordo e proseguì la politica di difesa dei diritti angioini in Sicilia, continuò l'energica difesa del Regno dagli attacchi siculo-aragonesi, favorì tentativi di sollevazione dell'isola contro gli Aragonesi e riprese in pieno il progetto di una crociata contro Alfonso d'Aragona. Nonostante l'operato e gli sforzi del papa la posizione angioina nel Mezzogiorno si andava ancora aggravando e quando O. morì le questioni sul tappeto rimanevano numerose, complesse e tutte ancora aperte: il destino della Corona d'Aragona e di quella di Sicilia, la libertà di Carlo d'Angiò (che rimaneva prigioniero degli Aragonesi), la posizione del re di Francia e di quello d'Inghilterra, che aveva offerto la sua mediazione. L'organizzazione di una nuova spedizione di crociati in Terrasanta fu un altro dei problemi che si trovò ad affrontare Onorio IV. La crociata era stata bandita già nel 1274 da Gregorio X durante il II concilio di Lione, ma la partenza per l'Oltremare era stata rinviata di anno in anno ed anche la raccolta delle decime per finanziarla andava a rilento. Gli interventi del pontefice al riguardo furono svariati, soprattutto in relazione alla riscossione dei contributi economici, ma complessivamente i suoi sforzi non furono coronati da successo. Il papa mantenne una posizione sostanzialmente evasiva anche nei confronti delle insistenti richieste del re Edoardo I d'Inghilterra, il quale si candidava alla guida della spedizione e più di ogni altro sovrano premeva affinché la progettata spedizione prendesse rapidamente il via. O., comunque, si mostrò sempre attento al mantenimento di solidi e positivi rapporti con la Corona inglese, vedendo in Edoardo I un prezioso alleato per la Sede apostolica. I rapporti di O. con i sovrani europei e le città comunali italiane non spiccano per prese di posizione di particolare rilievo, se non quando ebbero una precisa attinenza con la questione della Corona siciliana e con la crociata. Anche sul piano religioso il suo breve pontificato non offre temi di grande interesse, ma solo note di carattere amministrativo all'interno del complesso mondo degli enti ecclesiastici del tempo. Egli mostrò attenzione particolare per gli Ordini mendicanti ed offrì loro il proprio sostegno; nel novembre 1285 provvide alla riconferma di tutti i privilegi che i suoi predecessori avevano concesso ai Francescani ed ai Domenicani. Esponenti dei due Ordini appaiono spesso come agenti della Sede apostolica e nel ruolo di inquisitori, segno evidente della fiducia che veniva loro accordata anche da Onorio IV.
Di rilievo anche la donazione, nel settembre 1285, del monastero benedettino romano di S. Silvestro "in Capite" ad Erminia, prima badessa della comunità religiosa cui aveva dato vita Margherita Colonna († 1280), ponendolo sotto la Regola delle Clarisse. In tal modo O. concretizzava il progetto già da tempo maturato dalla potente famiglia Colonna nei confronti di quell'antico ed importante cenobio benedettino, che di fatto entrava a far parte del patrimonio spirituale e materiale (con tutti i suoi possedimenti fondiari estesi nella regione romana) della famiglia. Il pontefice mostrò, pur se in misura più contenuta, il proprio favore e la propria attenzione a molti altri Ordini: in primo luogo ai Guglielmiti - ai quali tra l'altro affidò, come si è visto, l'unico monastero da lui fondato -, ma pure agli Eremiti, ai Carmelitani, ai Cluniacensi, ai Premostratensi e agli Umiliati. In base a quanto stabilito dai decreti del II concilio di Lione del 1274, O. soppresse gli Ordini mendicanti minori, che vivevano di elemosine senza possedere beni, come i Fratelli della Penitenza di Gesù Cristo, i cosiddetti Saccati, e i Fratelli di Notre-Dame du Val-Vert. Nel 1286 ribadì l'ordine di scioglimento già decretato dal concilio lionese nei confronti degli Apostolici, movimento religioso fondato a Parma dal laico Gherardo Segarelli e che ebbe grande seguito popolare nell'Italia settentrionale dal 1260. O., nel 1285, intervenne in relazione all'insegnamento del diritto civile nello "Studium Curiae", dispensando gli ecclesiastici che intendevano seguire le lezioni di tale materia dal divieto imposto al riguardo da Onorio III. Favorì anche lo studio delle lingue orientali presso l'Università di Parigi. O. viene descritto gravato dal peso degli anni, molto malato, artritico, affetto - al pari di suo fratello Pandolfo - da una grave forma di gotta, che lo ostacolava nella deambulazione e nei movimenti delle mani, tanto che non poteva celebrare la messa, se non con l'ausilio di "quedam instrumenta" (Ptolomaeus Lucensis). Un'antica tradizione erudita afferma che si prese cura della sua salute anche il celebre professore di medicina dello "Studium" di Bologna Taddeo Alderotti. L'immagine di un uomo vecchio e malato, tanto deformato dalla malattia che "ce estoit horreur à lui resgarder" (Guglielmo di Nangis), sembra contrastare con quella tranquilla e distesa che caratterizza la sua statua funebre giacente (ora non più universalmente attribuita ad Arnolfo di Cambio), collocata sul distrutto sacello del papa. Tuttavia si tratta di una contraddizione solo apparente, visto che a partire dalla metà del Duecento si era ormai imposta l'idea che l'immagine pubblica del corpo del sovrano dovesse esprimere serenità, equilibrio e compostezza. O. morì nel palazzo dell'Aventino il 3 aprile 1287. Stando a svariate testimonianze, il monumento funebre di O. - ricordato come un'"arca multum pulcra" (Memoriale potestatem Regiensium) - fu innalzato all'interno della basilica di S. Pietro in Vaticano, accanto a quello di Niccolò III. Durante il pontificato di Paolo III, la tomba fu smantellata: le spoglie ed il gisant del papa (unico resto del primitivo monumento funerario) furono trasferiti nella cappella Savelli nella chiesa di S. Maria in Aracoeli.
fonti e bibliografia
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