Oro
di Alberto Quadrio Curzio
Oro
L'oro è un metallo prezioso, omogeneo, frazionabile e durevole, con funzioni e proprietà multiple. È stato storicamente accettato come riserva di valore, come mezzo di pagamento e, per lungo tempo, come fondamento dei sistemi monetari nazionali e di quello internazionale. È una materia prima per varie produzioni, ha un valore ornamentale e quindi è un bene di consumo a durabilità pressoché illimitata.
L'importanza dell'oro è stata determinata, oltre che dalle sue particolarissime proprietà chimico-fisiche, dalla sua scarsità storica, dalla sua limitata producibilità mineraria, dalla sedimentazione millenaria del suo uso nelle richiamate funzioni. In sintesi, l'oro ha una connotazione economico-finanziaria, sia di mercato che istituzionale, unica rispetto a qualsiasi altro metallo-riserva di valore.
Data l'ampiezza dell'argomento, l'analisi sull'oro può seguire almeno quattro impostazioni.
A. Quella di storia geoeconomica e geopolitica mondiale che richiama immediatamente le 'corse all'oro', i gold rushes, le connesse ondate migratorie, colonizzazioni e decolonizzazioni, guerre. Per tutti questi eventi il 1492, l'anno in cui Cristoforo Colombo scoprì il Nuovo Mondo, rappresenta uno spartiacque. Esistono interessanti analisi documentali sull'oro nei secoli precedenti, ma il 1492 apre per le vicende auree un'epoca la cui conclusione potrebbe coincidere con gli anni novanta del nostro secolo, ovvero con la fine dell'apartheid in Sudafrica. L'ultimo paradosso delle vicende geo-economico-politiche dell'oro è stata proprio la 'convivenza di mercato', se non l'esistenza di accordi occulti, tra il Sudafrica e l'ex URSS, per lungo tempo i due massimi produttori interessati alla rendita aurea.
B. Quella di teoria economica, monetaria e finanziaria che si può considerare in gran parte, anche se non esclusivamente, connessa ai regimi di gold standard nelle sue molte varianti. In merito a queste tematiche si può considerare come anno di riferimento iniziale il 1717, anno in cui sir Isaac Newton, direttore della zecca del Regno Unito, fissò il prezzo dell'oro a 3 sterline, 17 scellini e 10,5 pence per oncia troy di finezza 0,9 e de facto diede avvio, forse casualmente, al gold standard (v. Kindleberger, 1984). Di queste problematiche la teoria economica ha, da allora, continuato a interessarsi, sia pure con attenzione sempre minore, anche dopo la fine degli accordi di Bretton Woods nel 1971.
C. Quella della storia economica dell'oro moneta e valuta, cioè delle vicende economico-istituzionali connesse al gold standard e alle sue molteplici varianti nel periodo compreso tra il 1717, il 1931 (anno in cui la Gran Bretagna abbandona il gold standard), il 1944 (con gli accordi di Bretton Woods), e il 1971 (con la fine di quegli accordi e del gold-dollar standard). In questo ambito rientrano anche le analisi quantitative sulle riserve ufficiali di oro e sulle relazioni tra le diverse tipologie di gold standard, prezzi, bilancia dei pagamenti, cambi, nonché le teorie di vari economisti che hanno influenzato le scelte politico-istituzionali circa l'oro come moneta e valuta.
D. Quella dell'economia applicata e istituzionale dell'oro, in prevalenza merce e riserva non monetaria, dal momento in cui, finito de facto il sistema di Bretton Woods nel 1971, l'oro viene demonetizzato e il suo prezzo liberalizzato e regolato dalle sole leggi della domanda e dell'offerta, mentre il legame tra oro e valute cessa quasi del tutto sia de facto che de jure. In questo ambito si devono considerare i problemi degli stocks di oro, dei prezzi, della produzione, dell'offerta, della domanda, dei mercati. A ciò si aggiunge il nuovo ruolo delle riserve ufficiali delle banche centrali e degli organismi internazionali nonché quello dei prezzi quasi-ufficiali. In sostanza, l'oro diviene merce e riserva di valore con regole molto di mercato e poco istituzionali, pur non perdendo del tutto quest'ultima connotazione.
Nell'analisi successiva non tratteremo della storia geoeconomica e geopolitica dell'oro (quale forma di ricchezza mitica); tratteremo sinteticamente sia della teoria economica sia della storia economica (oro standard e numerario, moneta e valuta); tratteremo invece diffusamente dell'oro che da numerario-riserva di valore diventa merce-riserva di valore.
Con una radicale semplificazione nel datare le vicende auree, possiamo allora distinguere, anche se con fasi di sospensione, due periodi: quello che va dal 1717 al 1944 e al 1971, nel quale il gold standard, nelle sue molte varianti, è dominante o comunque, pur in misura variabile, operante; quello successivo al 1971, nel quale l'oro ricopre limitati ruoli valutari e ha invece grande rilevanza come merce-riserva di valore, bene d'investimento e mezzo di produzione.
Sul gold standard la teoria e la storia economica consentirebbero una trattazione amplissima. Noi ci limiteremo a una sintesi in quanto l'argomento rientra principalmente nell'analisi dei sistemi monetari e dei cambi, dove si collocano anche altri sistemi (tra i principali figurano quello bimetallico di oro e argento e quello della moneta fiduciaria).Il gold standard può essere definito come quel sistema monetario in cui la legge stabilisce, per l'unità monetaria di un paese (o numerario di una valuta), una corrispondenza o 'parità alla zecca' con una data quantità di oro. In base a tale condizione legale, la banca centrale ha l'obbligo di convertire le proprie banconote in oro. Inoltre la coniazione di monete auree deve essere fatta nella misura necessaria a far fronte alla richiesta conversione di banconote e dunque la massa monetaria deve essere correlata alle riserve auree. Infine deve essere garantita la libertà di importare ed esportare oro.
Al gold standard sono state attribuite molte proprietà, tra cui quella di stabilizzare il tasso di cambio dei paesi operanti in tale regime; quella di stabilizzare i prezzi nel lungo periodo; quella di generare movimenti commerciali e valutari capaci di riequilibrare i deficit delle bilance dei pagamenti. Questa delimitazione generale del gold standard può essere resa più precisa riferendosi a un periodo storico definito, in quanto tale sistema monetario ha avuto varie nature e intensità. Consideriamo il periodo 1879-1913 nel quale si è avuto un 'vero' gold standard internazionale in tutte le economie industrializzate (e non solo) anche se potrebbero essere considerati altri periodi, in particolare quello che inizia nel 1819 con il Resumption act del Parlamento inglese. Nel trattare dell'argomento seguiremo, pur con alcune differenze di valutazione, l'impostazione di McKinnon (v., 1993), al quale rinviamo come ottima sintesi (segnaliamo inoltre alcuni manuali, tra i quali Bresciani Turroni - v., 1960 - e Krugman-Obstfeld - v., 1988 - nonché altre voci di enciclopedie tra le quali De Cecco - v., 1987 - e grandi opere di sintesi quali Bordo e Schwartz - v., 1984) indicando sei 'regole del gioco' del gold standard.
Le prime tre regole del gioco (parità e convertibilità; crescita monetaria basata sulle riserve di oro; libertà di movimento internazionale di oro e di capitali) sono già state indicate nella definizione generale. Sono regole 'automatiche' che funzionavano alla fine del 1800 e che hanno contribuito a mantenere i tassi di cambio entro la banda dei 'punti dell'oro' di cui diremo.
A queste vanno aggiunte altre tre 'regole gestionali' (da applicarsi specialmente in condizioni di tensione del gold standard) relative alla banca centrale e al tesoro di un paese in quanto soggetti attivi nella 'gestione' del sistema aureo, ma anche come soggetti passivi che accettano i prezzi determinati dal mercato mondiale dell'oro numerario. Le regole sono: 1) in crisi di liquidità di breve periodo, dovute a fuoriuscite di oro, la banca centrale deve erogare ampi crediti alle banche del paese in questione a più alti tassi di interesse ('regola di Bagehot'); 2) se la regola che impone parità e convertibilità è temporaneamente sospesa, una banca centrale e un tesoro devono ristabilire al più presto la convertibilità alle parità alla zecca anche a costo di una recessione; 3) il livello comune dei prezzi deve essere determinato endogenamente dalla domanda e dall'offerta mondiali di oro.
Esaminiamo ora l'operatività delle precedenti regole sempre seguendo di massima McKinnon (v., 1993) per il periodo 1879-1913, illustrando tuttavia anche delle categorie generali.
1. I 'punti dell'oro', i flussi di oro e i tassi di cambio. - La convertibilità e la libertà di movimento dei capitali mantiene il tasso di cambio tra due valute entro una banda data dai punti dell'oro attraverso gli arbitraggi e i flussi di oro tra due paesi. Si indichi con:X, la parità alla zecca del Tesoro degli Stati Uniti per un'oncia d'oro. Nel periodo 1879-1913 essa era di 20,646 dollari;Y, la parità alla zecca della Banca d'Inghilterra per un'oncia d'oro. Nel citato periodo essa era di 4,252 sterline;Ct, il tasso di cambio cable (a pronti di dollari) per sterline al tempo t;St, il tasso di cambio cable a pronti di sterline per dollari al tempo t;Tub, i costi di transazione (interessi, assicurazioni, trasporti) per inviare un'oncia d'oro dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna;Tbu, i costi di transazione per inviare un'oncia d'oro dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti.Ne segue allora che: la parità alla zecca e il tasso di cambio in base ai contenuti di oro tra dollaro e sterlina è di X/Y cioè 4,856; il punto dell'oro superiore è X/(Y-Tub). Infatti è conveniente esportare oro dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna solo se Ct>X/(YTub). In tal caso, infatti, il cambio a pronti della sterlina sul dollaro è forte sicché trasferendo oro in Gran Bretagna, a un costo di transazione per oncia Tub, si possono acquistare alla zecca più sterline di quante se ne ottengano sul mercato valutario; il punto dell'oro inferiore è dato da (X-Tbu)/Y. Infatti è conve⟨CMPT2,6.4,18.6,52.10,J,J> niente importare negli Stati Uniti oro proveniente dalla Gran Bretagna solo se St⟨(X-Tbu)/Y. In tal caso infatti il cambio a pronti della sterlina sul dollaro è debole sicché trasferendo oro negli Stati Uniti si possono acquistare alla zecca più dollari di quanti se ne ottengano sul mercato valutario. Al punto superiore la domanda di sterline sul mercato valutario cala e la sterlina si indebolisce facendo scendere Ct; per converso l'offerta di sterline sul mercato valutario cala al punto dell'oro inferiore e questa valuta si rafforza facendo salire St.Nei fatti, per questa banda tra i punti dell'oro McKinnon (v., 1993), seguendo anche altri autori, stima l'1% tra Stati Uniti ed Europa e lo 0,5% tra paesi europei e ricorda che Keynes, in un momento successivo, auspicò una banda del 2% per lasciare un margine di intervento più ampio alle banche centrali che, governando abbastanza i punti dell'oro e mantenendo dei differenziali tra i tassi di interesse a breve termine (il che non sarebbe stato possibile con una banda troppo stretta), difesero i loro stocks di oro e approssimarono le parità alla zecca assicurando, almeno secondo tale linea di pensiero, tassi di cambio pressoché fissi dal 1879 al 1913.
2. La regola del ripristino delle parità auree e la stabilità dei prezzi dovuta al numerario aureo. - Il gold standard era basato su una presunzione di certezza: qualora un paese avesse sospeso (o indebolito) la convertibilità della parità alla zecca, avrebbe provveduto a ripristinarla al più presto. Per questo, in caso di necessità, un governo poteva ottenere l'oro su cui basare la propria valuta in due modi che gli consentivano di non contrarre l'offerta di moneta: a) aumentare il prezzo di acquisto dell'oro, così attraendo metallo senza che le aspettative dei mercati puntassero a ulteriori aumenti del prezzo; b) aumentare il tasso di interesse a breve termine attraendo capitali esteri, con la certezza che i punti dell'oro sarebbero stati rispettati e che quindi la valuta in oggetto non si sarebbe durevolmente deprezzata. I movimenti dei capitali a breve termine divennero perciò più efficaci dei flussi di oro come mezzi di stabilizzazione.Quanto al rapporto tra numerario aureo e livello comune dei prezzi, cioè quanto l'oro comperava in termini di paniere di altre merci e servizi, esso avrebbe dovuto essere autonomamente o automaticamente determinato dalla domanda e dall'offerta mondiali di oro.
L'offerta di oro variava con il livello dei prezzi. In una situazione di deflazione il potere di acquisto dell'oro aumentava e quindi aumentava la produzione di oro e con il passaggio da oro non monetario a oro monetario si autocorreggeva la tendenza alla deflazione. In una situazione di inflazione accadeva il contrario: l'offerta di oro e la quantità di moneta si riducevano frenando l'inflazione stessa. Questo meccanismo tendeva, secondo alcune correnti di pensiero, a stabilizzare i prezzi nel lungo periodo. Secondo altri, per esempio Cooper (v., 1982), la relazione (pm/om)=po (dove pm è il prezzo di un paniere di merci in termini di una data moneta; om è il prezzo in oro del citato paniere; po è la parità aurea della moneta) non garantisce, né per logica né per storia, che po fisso stabilizzi pm attraverso le variazioni di om e dell'offerta di oro e ciò in quanto l'offerta cambia con forti ritardi temporali e om cambia anche autonomamente.Per quanto riguarda la domanda negli anni in questione vi furono due tendenze. Da un lato, la domanda di oro monetario crebbe come conseguenza dell'estendersi del gold standard a livello internazionale e ciò causò pressioni deflazionistiche nell'economia mondiale. Dall'altro lato, la domanda di oro monetario continuò a ridursi a fronte di un continuo aumento della moneta cartacea su una base aurea sempre più piccola. Il livello dei prezzi comune registrò dunque forti oscillazioni nel breve-medio periodo anche perché, più in generale, nessuna autorità monetaria esercitò un controllo sulla crescita mondiale della moneta cartacea.
3. Riequilibrio delle bilance dei pagamenti e meccanismo internazionale flussi-prezzo-oro-numerario. - È questo un altro meccanismo centrale del gold standard anche se vari autori, tra i quali McKinnon (v. 1993), lo pongono in secondo piano per l'operatività.
La fuoriuscita di oro da un paese dovrebbe determinare una riduzione proporzionale dei prezzi (dei salari e dei costi) in quanto si riduce la circolazione monetaria. Il livello dei prezzi, secondo la teoria quantitativa della moneta, è infatti proporzionale all'offerta di moneta che dipende direttamente dall'oro. Viceversa, l'afflusso di oro aumenta la circolazione monetaria e fa aumentare in proporzione il livello dei prezzi.Quindi, se un paese A perde (esporta) oro, e i suoi prezzi e costi calano, diventa meno conveniente importare merci dal paese B, ancor più se questo ha ricevuto (importato) oro e di conseguenza i suoi prezzi e costi sono aumentati. Viceversa aumenta la convenienza del paese B a importare merci da A. La conseguenza è che migliora la bilancia commerciale e dei pagamenti del paese che esporta oro e peggiora quella del paese che lo importa. A ciò segue un nuovo equilibrio della bilancia dei pagamenti e di quella commerciale senza che vengano adottate misure di politica valutaria e commerciale per governare le importazioni e le esportazioni. I flussi internazionali di oro quindi si invertono e l'oro ricomincia a rifluire da B verso A.
In definitiva, in un sistema internazionale di gold standard, in ogni paese lo stock dell'oro numerario avrebbe dovuto essere regolato automaticamente dalla bilancia dei pagamenti. Le variazioni dei tassi di cambio entro i punti dell'oro sarebbero state a loro volta coerenti con il meccanismo di correzione degli squilibri della bilancia dei pagamenti (v. Bordo, 1984). Alcuni hanno evidenziato anche un aggiustamento attraverso le quantità per cui con il deflusso di oro cade, per un effetto ricchezza, la domanda aggregata e si riducono le importazioni.
4. Il comportamento delle banche centrali nel governo del gold standard. - Il funzionamento automatico del meccanismo (evidenziato nel punto 3) è stato da molti contestato (v. McKinnon, 1993) in quanto nella gestione del gold standard le banche centrali rivestivano un ruolo importante. Ne abbiamo già accennato, ma in sintesi si può dire, seguendo la 'regola di Bagehot' (si veda il § 3a), che le banche centrali, nel proseguire il loro scopo di prestatrici di ultima istanza, o mantenevano un eccesso di riserve di oro rispetto a quanto era legalmente necessario per sostenere l'emissione di moneta o, nella maggior parte dei casi, variavano il tasso ufficiale di sconto attraendo così flussi di capitali dall'estero per compensare la fuoriuscita di oro; pratica spesso seguita dalla Gran Bretagna e dalla sua Banca centrale, che deteneva una posizione di predominio a livello internazionale, senza scardinare il gold standard ma senza tuttavia affidarsi al suo automatismo.In sintesi il gold standard era un sistema manovrato dove le banche centrali e i ministeri del tesoro intervenivano per mantenere la convertibilità dell'oro nel lungo termine.Abbiamo fin qui illustrato una 'forma pura' di gold standard, se mai vi è stata. Una forma un po' più debole è il gold bullion standard, sistema in cui l'obbligo delle autorità monetarie di vendere oro si riferisce solo ai lingotti di oro.
Ben più distante è invece il gold exchange standard, che si realizza quando l'autorità monetaria si impegna a cambiare le banconote nazionali in quelle di un altro paese in condizioni di gold standard (o forme simili). In tale situazione un paese stabilisce una parità tra la sua valuta e quella di un altro paese 'centrale' che è in regime di gold standard (o forme simili). Il paese detiene tra le sue riserve la valuta del paese centrale utilizzata per la conversione in modo tale da mantenere le parità valutarie stabilite. La variante più recente di questa forma è stata il gold-dollar standard che ha funzionato dal 1944 al 1971. Dopodiché ogni forma di gold standard ha cessato di esistere.
Delle precedenti questioni la teoria economica e le istituzioni economiche si sono interessate sin dal 1717, generando di conseguenza una serie imponente di teorie, analisi, misure legali e istituzionali.Dato che la letteratura è sconfinata non resta che fare una scelta netta e, seguendo Bordo (v., 1984), individuare sei fra i grandi temi affrontati dall'analisi economica e istituzionale: 1) quello dell'oro come standard monetario ideale; 2) quello del meccanismo flussi-prezzo-metallo-numerario; 3) quello della legge del prezzo unico; 4) quello del flusso di capitale nell'aggiustamento della bilancia dei pagamenti; 5) quello del ruolo delle banche centrali, e in particolare della Banca d'Inghilterra, nel favorire o nell'ostacolare i precedenti meccanismi; 6) quello delle proposte di riforma. Si tratta, pur con qualche diversità di formulazione, dei temi relativi al funzionamento storico del gold standard prima descritti.
Sullo sfondo di tali questioni vi sono le varie proposte di riforma e le variazioni del gold standard attuate nel contesto di singoli paesi e in quello internazionale. Tali riforme rientrano nel campo di studio della storia monetaria e della storia della teoria economica, monetaria e valutaria, nel cui ambito si collocano anche le scuole di pensiero che, seguendo Bordo (v., 1984), si possono enumerare come segue: classica; neoclassica; di Harvard; interbellica; dei reinterpreti. A queste noi aggiungeremmo quella dei contemporanei.
La scuola classica è composta da Chantillon, Hume, Ricardo, Thornton, Mill, Cairnes, Goschen e Bagehot, e ha un punto di riferimento istituzionale importante nel Bullion report (1810) presentato da un comitato nominato dal governo inglese per indagare circa la sospensione della convertibilità decisa dalla Banca d'Inghilterra e l'aggio formatosi sull'oro.
La scuola neoclassica è composta da Marshall, Fisher e Wicksell mentre quella di Harvard è composta da Taussig, Viner, Graham, White, Williams, Beach e Angell.
La scuola del periodo interbellico vede molti studiosi schierarsi pro o contro un ritorno al gold standard vigente precedentemente alla prima guerra mondiale. I maggiori studiosi sono Cassel, Keynes, Viner, Hawtrey, Gregory, Brown e Smit. Il periodo ha un punto di riferimento istituzionale importante nel Cunliffe report (1918), dal nome della commissione istituita dal governo inglese per individuare le vie per un ritorno della sterlina alla convertibilità in oro.
La scuola dei reinterpreti del secondo dopoguerra, tra i quali spiccano i nomi di Ford, Friedman, Schwartz, Williamson, Triffin, McCloskey, Zecher, Morgenstern, Bloomfield, Sayers e Lindert, riesaminando il gold standard classico si concentra sui meccanismi di aggiustamento, sui flussi di capitale, sul gold standard 'gestito' e sulle regole del gioco.
La scuola contemporanea, che aggiungiamo noi, inizia negli anni sessanta e arriva fino ai giorni nostri, e vede schierarsi su fronti diversi studiosi come Triffin, Gilbert, Rueff, Harrod, Robbins e Bernstein (per una sintesi si vedano Hinshaw, 1967, e Quadrio Curzio, The gold..., 1982). A essa si aggiungono un recente riferimento istituzionale costituito dal rapporto della Gold Commission (v., 1982) del Congresso degli Stati Uniti e i contributi della World Conference on Gold (1982), di cui diremo poi.
Abbiamo richiamato questi nomi solo per rilevare come, a partire dal 1717 (e anche in precedenza), molti tra i più grandi economisti si siano interessati all'oro, anche se non rientra nei nostri scopi considerare qui il loro contributo.
Ci sia consentito un solo richiamo più specifico: quello a John Maynard Keynes, al quale si debbono probabilmente le valutazioni più complete sull'oro e sulle sue funzioni monetarie, valutazioni che segnano un passaggio epocale. Keynes scrisse, guardando alle esperienze di gold standard nel XIX secolo: "Il metallo oro non presentava forse tutti i vantaggi di una base monetaria regolata artificialmente, ma esso non poteva essere manipolato e in pratica si era dimostrato degno di fiducia" (v. Keynes, 1923).
Ciò non gli impedì di definire il gold standard una 'barbara reliquia', sottolineando che tutti dovevano essere interessati alla stabilità economica dei prezzi e all'occupazione e non al rispetto del dogma della parità aurea, e affermando recisamente che "è possibile assicurarci i vantaggi dell'oro senza condannare irrevocabilmente la nostra moneta legale a seguire ciecamente tutte le capricciose fluttuazioni dell'oro e le future imprevedibili variazioni del suo potere d'acquisto". In definitiva Keynes fu considerato come il principale artefice del superamento del gold standard (v. Harrod, 1951). Egli tuttavia riconobbe all'oro la funzione di "estrema difesa e riserva per necessità improvvise" e un ruolo nel contesto internazionale, specie come base per emissioni obbligazionarie. In tutto ciò troviamo prefigurato molto di quanto stabilirà Bretton Woods nel 1944 e di quanto accadrà dopo il 1971, ovvero i periodi dei quali ci interesseremo nel seguito.
La storia contemporanea dell'oro moneta e numerario (v. Quadrio Curzio, 1981, i contributi del 1982 e Dal rifiuto..., 1985; v. Gold, 1971 e 1977) inizia nel 1944 con gli accordi di Bretton Woods, che fissano i criteri e le equivalenze con cui l'oro viene scelto quale numerario del sistema monetario internazionale in base a un gold exchange standard o gold-dollar standard. Attraverso tali accordi vengono definiti due elementi: la parità e la convertibilità dell'oro.
La parità è stabilita tra il numerario oro e il dollaro USA: 0,888671 grammi di oro vengono posti eguali a un dollaro, il che equivale a un prezzo ufficiale dell'oro di 35 dollari l'oncia. Su tale base deve essere dichiarata al Fondo Monetario Internazionale (FMI), per ogni valuta dei paesi firmatari l'accordo, la parità con l'oro o con il dollaro. Le parità così definite dovranno essere difese sul mercato dei cambi entro limiti di oscillazione prefissati.
La convertibilità è stabilita tra l'oro e il dollaro e quindi, tramite il dollaro, tra l'oro e ogni singola valuta nelle transazioni tra banche centrali in un regime di cambi fissi. In tal modo gli Stati Uniti si fanno garanti della convertibilità dell'oro in un sistema monetario internazionale dove la massima funzione regolatoria, in un regime di parità e cambi fissi, spetta al FMI.
Da ciò discendono varie conseguenze circa i rapporti tra valute nazionali, oro e FMI. Grande rilevanza al proposito ha l'articolo VI, clausola 8, dello statuto del FMI relativo alla "conservazione del valore aureo delle attività del Fondo". In base a questa 'clausola aurea' i paesi si impegnano a mantenere presso il FMI il controvalore aureo di una certa entità di valuta nazionale, aumentando (o diminuendo) l'entità di valuta quando il suo corrispondente in termini di oro diminuisce (o aumenta).
Il periodo dal 1944 al 1971 può essere suddiviso in tre fasi. Nella prima fase, fino al 1960, il sistema opera bene anche se le riserve ufficiali auree degli Stati Uniti si riducono; dal settembre 1960 il prezzo libero dell'oro comincia a crescere sul mercato di Londra. Nella seconda fase, che inizia nel marzo 1961, si crea un 'pool dell'oro', cioè un consorzio di otto paesi industrializzati, grandi detentori di riserve auree ufficiali, che opera per mantenere il prezzo libero eguale a quello ufficiale di 35 dollari l'oncia. Il pool, abbandonato dalla Francia nel 1967 e già prima contrastato da questo paese che converte dollari in oro al cambio ufficiale, opera faticosamente fino al marzo 1968. Nella terza fase, tra il 1968 e il 1971, si ha il doppio mercato dell'oro (ufficiale e libero), che costituisce la premessa alla fine della parità aurea. Molte sono le ragioni di questa scelta, e tra queste evidenziamo quelle relative all'oro.Il prezzo dell'oro a 35 dollari l'oncia era ormai troppo basso in relazione ai costi di produzione e alle riserve di oro. Si presentavano allora due possibili opzioni: a) aumentare il prezzo ufficiale dell'oro, e più precisamente raddoppiarlo per incentivare la produzione e stroncare le aspettative di rialzo che un piccolo incremento di prezzo avrebbe invece determinato; b) demonetizzare l'oro, abolendo il gold-dollar standard.
La scelta non fu semplice né in teoria, né in pratica, né tantomeno dal punto di vista istituzionale. Alcuni autorevoli economisti si espressero a favore del 'raddoppio del prezzo', altri per la 'demonetizzazione' (v. Hinshaw, 1967; v. Quadrio Curzio, 1981). Nel 1969 gli accordi di Bretton Woods subirono un'importante innovazione con l'introduzione dei Diritti Speciali di Prelievo (DSP) previsti dal primo emendamento degli accordi del FMI. Il valore di un DSP venne fissato a 0,888671 grammi di oro fino, ovvero 35 DSP per oncia. Con questa innovazione una nuova moneta internazionale, i DSP, creati dal FMI per integrare le riserve delle banche centrali e costituire i loro mezzi di pagamento, assume come numerario l'oro pur senza prevedere la convertibilità diretta. Si cerca dunque di promuovere un nuovo mezzo di riserva, proprio mentre appare chiaro che la convertibilità dollaro-oro è in crisi. Comunque, nel 1971 cessa de facto, ma non de jure, il sistema di gold-dollar standard stabilito da Bretton Woods.
Nella fase che va dall'agosto 1971 all'aprile 1978, data del secondo emendamento degli accordi del FMI, si sviluppa un complesso processo che porta poi ad abolire formalmente l'oro come numerario, un evento storico sofferto che conclude 250 anni di dominio aureo sul sistema monetario internazionale.I principali eventi di questa fase (v. Gold, 1977, 1979 e 1980) sono così sintetizzabili: a) nel dicembre 1971 con lo Smithsonian agreement il prezzo ufficiale dell'oro viene portato a 38 dollari l'oncia. L'oro rimane de jure il numerario dei DSP e del dollaro e viene messo a punto un meccanismo per mantenere le parità valutarie con il dollaro e i DSP; b) nel febbraio-marzo 1973 il dollaro viene svalutato sull'oro e la parità viene portata a 42,22 dollari l'oncia, mentre ha corso la fluttuazione generalizzata delle valute; c) nel giugno 1974 il FMI, in collaborazione con il Gruppo dei 20, definisce i DSP in base a un paniere di 16 valute; d) nell'aprile 1978 viene approvato, dopo una faticosa gestazione, il secondo emendamento dello Statuto del FMI con il quale l'oro cessa de jure di essere numerario dei DSP e denominatore comune di un sistema di parità ormai eliminato dalla fluttuazione delle valute. Di conseguenza, il prezzo ufficiale dell'oro cessa di esistere. Dopo questi eventi, quello che a noi pare il solo momento significativo e non temporaneo di 'riufficializzazione' o 'semi-ufficializzazione' dell'oro è rappresentato dall'introduzione del meccanismo del Sistema Monetario Europeo, che dall'aprile 1979 ha posto alla base della creazione degli Ecu ufficiali - utilizzati per regolamenti tra le banche centrali dei paesi aderenti al Fondo Europeo di Cooperazione Monetaria (FECOM) - un sistema di conferimenti mediante swaps, rinnovabili trimestralmente, di oro e di dollari, nella misura del 20% delle riserve delle banche centrali. Con tale meccanismo si è a nostro avviso ristabilita nei confronti dell'oro una convertibilità spuria in quanto, depositando oro, si crea liquidità contabile in Ecu secondo regole quantitative. A questo proposito pare a noi che la Comunità Europea si sia mossa in una direzione diversa da quella degli Stati Uniti e del FMI, riconoscendo ancora all'oro un qualche ruolo istituzionale (v. Boyer De La Giroday, 1982; v. Quadrio Curzio, Dal rifiuto..., 1985), fors'anche per la forte posizione delle riserve ufficiali auree europee di cui diremo.
Dunque, a partire dal 1971, l'oro è diventato prevalentemente merce e riserva di valore liberamente trattata sui mercati, e come tale soggetta ai prezzi di mercato.Di questi aspetti ci interesseremo di qui innanzi pur non trascurando fenomeni fattuali e istituzionali nonché analisi che continuano a riconoscere all'oro, a nostro avviso con fondamento, una natura specifica in cui gli aspetti valutario-istituzionali e la natura di numerario storico mantengono una certa rilevanza.Spesso ci si è chiesti, e anche di recente, se l'oro avrebbe potuto ritornare ad avere un ruolo nel sistema monetario internazionale. Tra le molte analisi dedicate a questi temi dopo il 1971, due appaiono ancora oggi di particolare importanza: una è stata elaborata dalla World Conference on Gold (Roma, 1982), l'altra dalla Gold Commission del Congresso degli Stati Uniti (1982).
Nella World Conference on Gold (v. Quadrio Curzio, i contributi del 1982 e del 1989) sono state espresse cinque tesi particolarmente interessanti: a) l'indesiderabilità politica e tecnica di ogni tentativo volto a riattivare l'oro nelle relazioni economiche e monetarie interne e internazionali, mantenendo tuttavia lo stesso come riserva di ultima istanza, da non toccare, delle banche centrali (v. Boyer De La Giroday, 1982; v. Wallich, 1982); b) la desiderabilità di un ritorno ai cambi fissi ma l'impossibilità di farlo attraverso un ritorno all'oro come mezzo per regolare l'offerta di moneta e per ridurre l'inflazione (v. Oppenheimer, 1982); c) la probabilità che negli Stati Uniti, se non fosse stata posta sotto controllo l'inflazione, sarebbe cresciuta la richiesta di ritornare a forme di gold standard, dato il suo successo in tal senso in passato (v. Jastram, 1982; v. Schwartz, 1982); d) la desiderabilità e la possibilità di operazioni sull'oro da parte delle banche centrali per mobilitare le loro riserve di oro come strumenti addizionali di politica monetaria in regime di cambi flessibili (v. Niehans, 1982); e) la proposta, che non implica un ritorno a forme di gold standard, di introdurre un legame aureo ammodernato come mezzo per ridurre i movimenti speculativi e l'inflazione attraverso un sistema di tassi di cambio stabili e mediante particolari regole di convertibilità (per le sole banche centrali, a periodi fissi, con gradualità di attuazione: v. Sylos Labini, 1982).
Dal canto suo la Gold Commission (v., 1982) ha raggiunto due diverse conclusioni: quella della maggioranza, secondo la quale un nuovo e superiore ruolo dell'oro avrebbe potuto delinearsi per il futuro negli Stati Uniti solo se l'inflazione non fosse ritornata sotto controllo e la fiducia nel dollaro ristabilita; quella della minoranza, per la quale l'oro è la sola moneta reale che il mondo abbia mai avuto e, pertanto, solo il suo ristabilimento come numerario in cui convertire il dollaro e le altre monete avrebbe potuto ridurre l'inflazione, i deficit di bilancio e i tassi di interesse.Questo rimane lo sfondo più recente della riflessione teorico-istituzionale sull'oro, dal quale ci staccheremo adesso per concentrare la nostra analisi su quattro punti: a) gli stocks; b) i prezzi; c) le riserve ufficiali; d) la produzione, l'offerta, la domanda, i mercati.
Prendiamo come punto di partenza quello degli stocks estratti e della loro destinazione: a) stock monetario in senso lato; b) impieghi per fabbricazione; c) investimenti privati. Questa ripartizione degli stocks individua, oltre ai produttori, tre altre categorie di operatori dell'oro: le banche centrali, i trasformatori, i risparmiatori.Considerando una serie storica dal 1900 (v. tab. I) e pur con tutta la cautela sulle statistiche, specie per la difficoltà di stimare la produzione nei paesi comunisti, si rileva che, nell'arco degli ultimi 90 anni, lo stock è cresciuto di quasi 7 volte, mentre era aumentato di poco più di 4 volte dal 1800 al 1900. Dunque, il vero 'secolo dell'oro' è stato il XX e non il XIX, come comunemente si pensa.Dall'analisi della dinamica degli stocks emergono le seguenti caratteristiche principali.
1. Su un piano quantitativo, i più forti incrementi di produzione, in termini assoluti, si sono avuti a partire dal 1960: si sono infatti registrati degli incrementi decennali superiori alle 13.000 tonnellate. Ciò equivale a incrementi decennali pari al 22,74% (sull'intero stock) negli anni sessanta, al 17,5% negli anni settanta e al 17,6% negli anni ottanta.
2. Considerando le quote, si nota una progressiva accumulazione dell'oro sotto forma di riserve ufficiali fino al 1950, e una progressiva riduzione in seguito, a tutto vantaggio della fabbricazione. Nel 1900 l'oro estratto veniva destinato per il 24,6% alle riserve ufficiali, per il 23,3% alle riserve private e per il 52% alla fabbricazione. Nel 1960 le riserve ufficiali rappresentavano il 64,8% dell'oro estratto, le riserve private il 3,4%, la fabbricazione il 31,8%. Nel 1990 le riserve ufficiali erano scese al 34%, le riserve private rappresentavano il 9,6%, la fabbricazione il 56,3%. Dunque, considerando l'intero periodo 1900-1990, la quota della fabbricazione è rimasta pressoché invariata, la quota delle riserve ufficiali è aumentata di circa 10 punti percentuali e la quota delle riserve private si è più che dimezzata.
3. Il progressivo calo delle riserve ufficiali a partire dal 1970 è da imputare soprattutto alla demonetizzazione dell'oro. Infatti, nel corso degli anni settanta, lo stock di riserve ufficiali è diminuito di circa 840 tonnellate, mentre nel corso degli anni ottanta si è registrata una diminuzione più consistente, pari a circa 1.900 tonnellate (quasi interamente assorbite dalla fabbricazione).
4. Nel corso degli anni settanta la quantità di oro destinata alla fabbricazione ha sorpassato, in termini assoluti, quella destinata alle riserve ufficiali, come ovvia conseguenza della liberalizzazione dei prezzi, anche se gli impieghi d'oro per la fabbricazione avevano mostrato una crescita progressiva molto forte già a partire dagli anni cinquanta. Si sono infatti avuti degli incrementi decennali pari al 30% (sull'intero stock) negli anni cinquanta, al 49,5% negli anni sessanta, al 29,4% negli anni settanta e, infine, al 42% negli anni ottanta.
5. Le riserve private (costituite da monete e lingotti) hanno subito delle considerevoli oscillazioni dal 1900 al 1940 (con variazioni di segno negativo nel trentennio 1910-1940). Poi sono continuamente aumentate, toccando i massimi tassi di crescita nel corso degli anni sessanta e settanta dell'ordine, rispettivamente, del 137,4% e 89,2% dell'intero stock. Nel corso degli anni ottanta si sono, invece, sostanzialmente stabilizzate.
L'ultima caratteristica da considerare è l'enorme divario tra lo stock estratto e il flusso che, come vedremo, si aggira adesso sulle 2000 tonnellate di produzione annuale. Questo squilibrio e la forte liquidità dello stock di oro hanno fatto pensare a molti che nella formazione dei prezzi il flusso annuo e i costi di produzione abbiano una rilevanza modesta. L'affermazione non è in generale valida, in quanto gli stocks distribuiti nelle diverse forme sono molto stabili e solo in casi di turbolenze monetarie o politiche si sono mossi significativamente in passato determinando in questo modo considerevoli sbalzi di prezzo.
Quanto il gold standard, in tutte le sue varianti, abbia avuto successo è ancora oggi oggetto di dibattito. Ci limitiamo a rilevare che, secondo alcuni studiosi (v. Jastram, 1977 e 1982; v. Schwartz, 1982; v. Gold Commission, 1982), le esperienze di gold standard in Gran Bretagna (1717-1914) e negli Stati Uniti (1834-1914) avrebbero assicurato una stabilità tendenziale dei prezzi delle merci e del potere d'acquisto dell'oro nel lungo periodo.
Il prezzo, per l'oro, presenta una peculiarità unica tra le merci e i metalli. Esistono tuttora (anche se in forme diverse dai regimi di gold standard del passato) due categorie di prezzi: a) quelli di mercato, dovuti alle condizioni di domanda e offerta; b) quelli quasi-ufficiali legati alle riserve delle banche centrali e degli organismi monetari internazionali. Questo dualismo di prezzi è speculare alla ripartizione degli stocks ufficiali e privati sopra indicata. Ci interesseremo di questo aspetto prevalentemente con riferimento al periodo successivo al 1971, pur con qualche riferimento a periodi più lunghi.
Prendendo come anno di riferimento il 1900, dobbiamo ricordare che il prezzo ufficiale dell'oro, pur con periodi di interruzione e con diversa forza istituzionale, fu di 20,67 dollari l'oncia fino al 1932 e di 35 dollari l'oncia dal 1935 al 1971.Dal 1971 non si può più parlare di prezzi ufficiali perché cessa ogni convertibilità, ma si può parlare, a nostro avviso, di prezzi quasi-ufficiali (v. Quadrio Curzio, 1981, Dal rifiuto..., 1985 e Attualità..., 1989) che hanno una caratteristica comune: quella di essere utilizzati dalle banche centrali in relazione alle loro riserve auree ufficiali. Vi sono almeno tre tipi di prezzi quasi-ufficiali: quelli di collateralità-pegno; quelli di contabilizzazione; quelli di Ecu. Si tratta di prezzi che risentono anche dell'eredità storica dei periodi del gold standard e che vengono determinati con vari criteri, più o meno connessi ai prezzi di mercato, ma con l'esigenza di non sottostare all'instabilità di questi ultimi. La presenza di prezzi quasi-ufficiali è anche spiegata sia dalla quota delle riserve ufficiali sullo stock totale di oro estratto, che nel 1990 rappresentava ancora il 34%, sia dalla quota aurea sulle riserve totali delle banche centrali, pari al 28,5% nel 1993.I prezzi di collateralità-pegno appaiono per la prima volta nel 1974 in occasione del prestito fatto dalla Germania Ovest all'Italia contro un pegno d'oro (v. Banca d'Italia, 1974). Tale operazione rispondeva all'esigenza più generale di mobilitare l'oro delle riserve ufficiali al di fuori di ogni convertibilità. Nel 1974 era vietato, sulla base dello statuto del FMI, dare corso a vendite di oro tra banche centrali a prezzi diversi da quelli ufficiali, pari a 42,22 dollari l'oncia o 35 DSP. La soluzione adottata fu quella di un prestito su pegno di oro valutato con uno sconto del 20% sui prezzi di mercato (v. Banca d'Italia, 1974; v. Hellmann, 1976). L'operazione fu estinta nel 1978 ma diede avvio a una lunga serie di prestiti su pegno aureo da parte di altri paesi con criteri simili (v. Quadrio Curzio, Dal rifiuto..., 1985).
I prezzi di contabilizzazione riguardano la valutazione dell'oro ufficiale da parte delle banche centrali. Il problema si pose de facto già nell'agosto 1971 anche se de jure, fino al secondo emendamento dello statuto del FMI nel 1978, l'oro delle banche centrali avrebbe dovuto essere valutato al prezzo ufficiale. Ma già nel 1975 la Francia iniziò a valutare il suo oro ufficiale alla media dei prezzi di mercato dei tre mesi precedenti con revisione semestrale. Da quel momento in poi, con un'accelerazione dal 1978, i paesi hanno adottato i più vari criteri per contabilizzare il loro oro ufficiale.
Tra questi ricordiamo: a) la valutazione basata sui prezzi di mercato con vari criteri di sconto, con diverse basi di riferimento; b) la valutazione ai prezzi di acquisto; c) la valutazione ai prezzi ufficiali storici a 42,22 dollari l'oncia da parte di alcuni, a 35 DSP l'oncia per altri, ai corrispondenti in valute nazionali per altri ancora.In sintesi, nel 1982, su 107 paesi censiti, 63 si riferivano al prezzo ufficiale storico, 10 al costo di acquisto del metallo, 34 a prezzi correlati a quelli di mercato (v. Hodjera, 1980; v. Intergold, 1983; v. Quadrio Curzio, Dal rifiuto..., 1985 e Attualità..., 1989). I prezzi di Ecu sono una delle basi del Sistema Monetario Europeo e del Fondo Europeo di Cooperazione Monetaria (FECOM) di cui abbiamo già detto, e a nostro avviso sono, tra i prezzi semi-ufficiali dell'oro, quelli di maggiore rilevanza perché sulla loro base si crea della liquidità in Ecu. Questi prezzi dell'oro sono calcolati in base a due criteri alternativi: o in base alla media dei prezzi di mercato dei sei mesi antecedenti al momento in cui avviene il rinnovo del conferimento, che, a sua volta, avviene ogni tre mesi, oppure in base al prezzo di mercato del penultimo giorno lavorativo antecedente all'operazione di conferimento, se tale prezzo risulta inferiore a quello calcolato con il primo metodo.
I prezzi di mercato rappresentano l'altra grande categoria, ovviamente sempre esistita, anche quando buona parte del regime monetario internazionale era basato sull'oro numerario.Mantenendo come riferimento temporale iniziale il 1900, come abbiamo fatto per gli stocks, consideriamo innanzitutto un profilo dei prezzi reali nel lungo periodo, rappresentati dalla fig. 1 (esso tuttavia rimane controvertibile, dipendendo dai criteri di valutazione e dall'arco temporale di riferimento).
I prezzi reali sono espressi in tre valute (dollari USA, sterline, yen) e sono stati deflazionati con l'indice dei prezzi al consumo. Si può vedere che, dal 1900 al 1930, e dal 1970 in poi, i prezzi reali, denominati nelle tre differenti valute, hanno seguito un andamento molto simile. Nel periodo compreso tra il 1930 e il 1970, invece, il prezzo reale in yen risulta essere molto più alto di quello in sterline e di quello in dollari, con una forte caduta nel corso della seconda metà degli anni quaranta. È chiaro che i fattori istituzionali, sia per il regime dei gold standards e per le loro sospensioni, sia per le restrizioni legali specifiche in taluni periodi, così come per le vicende belliche, rendono l'interpretazione dell'andamento dei prezzi reali della fig. 1, prima del 1968, in alcuni momenti impossibile senza uno specifico riferimento al contesto storico giapponese.
Venendo al periodo recente, rileviamo due caratteristiche principali: a) nel 1991 il prezzo reale è più alto di quello del 1971 e più alto del trend storico; b) negli anni settanta il prezzo reale ha avuto degli incrementi abnormi, ben superiori a quelli spiegabili come recupero del prezzo nominale bloccato a 35 dollari l'oncia per anni. È tuttora diffusa la convinzione che il prezzo reale dell'oro, in seguito agli incrementi degli anni settanta e nonostante la rapida discesa negli anni ottanta, si mantenga ancora, in termini reali, a livelli alti.
In rapporto alla fig. 1 rimane aperta la questione se nel lungo periodo l'oro mantenga il suo potere d'acquisto. Non v'è al proposito un'opinione uniforme, pur prevalendo una risposta positiva (v. Schwartz, 1982; v. Jastram, 1977 e 1982). Con riferimento al periodo successivo al 1971 reputiamo tuttavia che esso sia troppo breve per poter valutare le capacità di mantenimento del potere d'acquisto dell'oro in condizioni sganciate da regimi monetari aurei o quasi aurei.In queste condizioni, piuttosto che rispondere a quesiti sulla stabilità dei prezzi reali dell'oro nel lungo periodo appare più interessante esaminare le modalità con cui tali prezzi si sono formati dopo il 1971, tenendo presente sia che l'oro è il risultato di un processo di produzione, sia che la sua scarsità, quiescente per lunghi periodi, può sempre emergere in modo radicale a fronte di spostamenti verso l'oro di piccole quote della gigantesca ricchezza cartacea che sta sommergendo i mercati finanziari. Consideriamo quindi e innanzitutto i prezzi di produzione (v. Quadrio Curzio, Sulla produzione..., 1985) basati sui costi di produzione. Si è spesso detto che questi hanno rappresentato negli anni successivi al 1971 un pavimento per i prezzi di mercato. È discutibile che così sia stato, mentre si possono osservare due fatti certi: a) quando i prezzi di mercato aumentano, si cominciano a sfruttare miniere più povere che hanno costi di produzione più alti. Quindi, i costi seguono i prezzi, pur con qualche ritardo temporale; b) i costi di produzione, sulla base di confronti di attività minerarie omogenee, non hanno manifestato una tendenza significativa ad aumentare nel tempo. Anzi, dal 1991 al 1993 hanno continuato a diminuire, raggiungendo livelli diversi a seconda delle aree. Così, nel 1993 i costi per oncia sono stati: in Sudafrica di 297 dollari, negli Stati Uniti di 283 dollari, in Australia di 177, in Brasile di 263, in Canada di 282, in Papua Nuova Guinea di 251 dollari (v. Gold Fields Mineral Services Ltd, 1994). Non si hanno notizie attendibili sui costi di produzione nell'ex URSS e in Cina. Dunque, a fronte di un prezzo medio annuo di mercato pari a 359,82 dollari nel 1993, i costi di produzione sono stati molto più bassi, dando spazio in quell'anno a considerevoli profitti per i produttori. Naturalmente la situazione del 1993 è stata molto favorevole. Comunque, ciò che importa rilevare è che i costi di produzione, correlati ai prezzi di mercato, hanno notevole rilevanza nella determinazione della produzione d'oro e che dal 1971 a oggi ne hanno sempre determinato un incremento.
E veniamo ai prezzi di mercato che si formano con un'operatività di 24 ore su 24, in applicazione di tutte le più sofisticate tecniche finanziarie. Queste ultime sono ben lontane dalla trattazione del metallo fisico, anche se rimane in vita, altamente rispettata, la cerimonia del fixing londinese, quando ogni giorno negli uffici della N.M. Rothschild si incontrano i rappresentanti di questa grande casa di transazioni auree con quelli della Johnson Matthey, Mocatta e Goldsmith, Samuel Montagu, Sharps Pixley per determinare il prezzo di riferimento del giorno.Il prezzo di mercato dell'oro ha avuto, dal 1971, tre grandi fasi. La prima fase va dal 1971 al 1980 ed è caratterizzata da un rialzo molto forte; la seconda va dal 1981 al 1985; la terza è quella dal 1985 a oggi e si caratterizza per una notevole stabilità del prezzo nominale intorno ai 350 dollari l'oncia. Il prezzo nominale è passato dal massimo di 612,38 dollari l'oncia del 1980 al minimo dei 317,32 del 1985, per risalire ai 359,82 del 1993. Sicché, con l'abbattimento dell'inflazione degli anni ottanta, l'oro ha subito un ridimensionamento di prezzo, perdendo così, per alcuni, molta della sua credibilità. Tale conclusione è troppo radicale se non sbagliata, poiché sono stati abnormi gli aumenti di prezzo degli anni settanta piuttosto che i ridimensionamenti degli anni ottanta, quando i poteri di acquisto di lungo periodo sono stati mantenuti e i margini di profitto dei produttori hanno incentivato una crescita continua della produzione.
Gli stocks di riserve ufficiali e i prezzi quasi-ufficiali ci riportano a trattare di due grandi 'attori' dell'oro: le banche centrali e gli organismi monetari internazionali, che tuttora possiedono circa il 35% degli stocks estratti.Molti si chiedono perché tali istituzioni continuino a detenere oro nel sofisticato mondo della telefinanza globale. La ragione è una e semplice: l'oro rimane l'unico mezzo di riserva a sovranità non limitata, la riserva di ultima istanza, da tutti accettato e privo di connotazioni fiduciarie, diversamente dalle valute che sono basate su un rapporto debito-credito.Esaminando la dinamica delle riserve auree a partire dal 1971, bisogna distinguere l'andamento delle riserve fisiche da quelle in valore, queste ultime rapportate alle riserve monetarie.
Per quanto riguarda le riserve fisiche dal 1971 al 1993 (v. tab. II), si rilevano i seguenti elementi: a) le riserve totali sono diminuite molto moderatamente, e cioè del 5%; b) le riserve dei paesi sono diminuite dell'11,37% e ciò è da imputare in parte alle vendite e in parte al conferimento al FECOM, istituito nel 1979; c) guardando ai singoli paesi e alle aree, nel 1993 il maggior detentore di riserve auree era l'Europa con una quota pari al 55% (in particolare, la Germania deteneva il 10% delle riserve auree mondiali, la Svizzera il 9%, la Francia il 9%, l'Italia il 7%), gli Stati Uniti il 28%, il Giappone il 3,3%; d) le riserve del FMI sono calate del 23,4%. La loro quota sul totale è infatti scesa dall'11,50% nel 1971 al 9,28% nel 1993; e) le riserve del FECOM, che ha preso avvio nel 1979, mediante il conferimento di una quota delle riserve dei paesi membri, hanno oscillato dal 7,4% all'8% e al presente sono simili a quelle del FMI. Sommando le riserve del FECOM (89,58 milioni di once) a quelle dei paesi dell'Unione Europea (386,34 milioni di once) si arriva a una quantità complessiva pari, nel 1993, a 475,9 milioni di once, che è di gran lunga superiore a quella degli Stati Uniti (261,79 milioni di once) e che configura oggi l'Unione Europea come potenzialmente interessata a un qualche ruolo dell'oro nel sistema monetario internazionale e nel sistema monetario europeo, anche per la realizzazione della moneta unica. In sintesi, mentre gli Stati Uniti e il FMI si sono dal 1971 sempre più allontanati dalle riserve auree, l'Unione Europea e i suoi paesi non se ne sono staccati in modo così radicale (v. Quadrio Curzio, i contributi del 1989).
Il ruolo delle riserve auree deve essere ovviamente rilevato anche sulla base del loro peso rispetto alle riserve monetarie delle banche centrali. A questo proposito appare chiara la dinamica delle due quote in due fasi: a) dal 1971 al 1980 la quota in valore delle riserve auree, espressa in DSP, aumenta dal 32,23% al 57,89% e, corrispondentemente, quella delle riserve monetarie cala dal 67,77% al 42,11%. Questa fase di recupero delle riserve auree è dovuta al formidabile incremento nel prezzo dell'oro; b) dal 1981 inizia un calo, pur con oscillazioni, della quota aurea, che dal 49,73% scende al 25,55% del 1993. Per contro, le riserve monetarie passano dal 50,27% del 1981 al 74,45% del 1993. Certamente le riserve auree sono considerevolmente diminuite, ma la loro diminuzione non è tale da indurre a considerare insignificante la loro quota. Dal 1971 al 1993 le riserve totali delle banche centrali sono progressivamente aumentate, passando dai 128,5 miliardi di DSP nel 1971 ai 1.016,5 nel 1993. In particolare, le riserve auree hanno avuto, nell'arco dell'intero periodo considerato, un incremento di circa 6,3 volte, mentre le riserve monetarie hanno registrato un aumento pari a circa 8,7 volte.
Abbiamo già accennato a questi problemi. La principale fonte di documentazione sugli stessi è il rapporto annuale Gold, attualmente curato della Gold Fields Mineral Service Ltd, al quale faremo ampio riferimento.
La produzione mineraria di oro (escludendo quindi il riciclo) ha avuto da 1971 al 1993 un incremento dell'85%, pur con qualche oscillazione, raggiungendo le 2.281 tonnellate nel 1993 (v. tab. III).
L'aumento di prezzo degli anni settanta si è associato a una produzione stazionaria-calante, mentre il calo del prezzo negli anni ottanta ha determinato un aumento di produzione pressoché costante. Gli elementi che spiegano questo andamento sono a nostro avviso quattro. Il primo elemento è rappresentato dalla lentezza con cui la produzione reagisce agli aumenti di prezzo. Così, nel periodo 1971-1981 si ha solo un forte aumento della quota mondiale dell'America Latina che passa dal 2,8% al 10,2% e una corrispondente diminuzione della quota dell'Africa che passa dall'82,6% al 71,4% mentre le altre quote di area variano poco. Dunque, in seguito ai forti aumenti di prezzo sono andate in produzione miniere ad alta intensità di lavoro e rapida operatività. Al contrario, nel decennio 1982-1993 si hanno invece grandi cambiamenti nelle quote di produzione mondiale con un formidabile incremento del Nordamerica e dell'Oceania e un declino relativo nella quota dell'Africa. È il periodo dell'industrializzazione della produzione, dei grossi investimenti ad alta produttività.Il secondo elemento caratterizzante è la produzione del Nordamerica con un incremento di 5,13 volte in 13 anni. La sua quota sulla produzione mondiale, pari al 9,3% nel 1971 e al 9,7% del 1981, passa al 21,3% nel 1993. Un incremento ancora più marcato si ha nella produzione dell'Oceania (8,8 volte dal 1981) con una quota del 2% nel 1971, del 3,8% nel 1981 e del 14,2% nel 1993. Risulta così che nel 1993 gli Stati Uniti e l'Australia diventano rispettivamente il secondo e il terzo produttore. Il fatto che il maggior incremento della produzione si sia verificato in aree industrializzate indica sia la natura avanzata dell'industria estrattiva, sia la presenza di buoni margini di profitto realizzati negli anni ottanta e attesi nel lungo termine.
Il terzo elemento caratterizzante è il calo assoluto e relativo nella produzione dell'Africa, che passa dalle 1.020 tonnellate prodotte nel 1971 alle 728,2 del 1993. Ciò equivale a una caduta della sua quota della produzione mineraria mondiale dall'82,6% del 1971 al 31,9% del 1993. Si è quindi avuto un forte indebolimento nella posizione del Sudafrica che ha sempre generato più dell'85% della produzione del continente africano. Infatti, la sua produzione è passata dalle 976,3 tonnellate del 1971 alle 619,5 del 1993. Molte sono state le ragioni economico-politiche del calo, i cui effetti sono stati però diversi da quelli preventivati da chi prefigurava un'esplosione dei prezzi dell'oro in seguito al calo produttivo del Sudafrica.Il quarto e ultimo elemento caratterizzante è l'incremento contenuto della produzione dei paesi comunisti. Data l'insufficiente attendibilità dei dati disponibili, concentriamo l'attenzione sul periodo 19841993. La produzione nei paesi comunisti passa dalle 328 tonnellate del 1984 alle 390 tonnellate del 1993. In questo ambito si verifica inoltre una compensazione tra l'ex URSS, che cala significativamente dalle 269 tonnellate del 1984 alle 244 tonnellate del 1993, e la Cina, che al contrario passa dalle 59 tonnellate del 1984 alle 127 tonnellate del 1993. Rimangono tuttavia notevoli incertezze sulle stime relative alla produzione di oro di questi paesi.
L'offerta (v. tab. IV) è principalmente dipendente dalla produzione mineraria, anche se in tempi più recenti hanno assunto notevole rilevanza le vendite ufficiali nette, il riciclo e i disinvestimenti netti. Basti a dimostrarlo il fatto che nel 1993 il 36,5% dell'offerta totale proveniva da queste tre fonti.In particolare, l'offerta sui mercati dell'oro ufficiali è aumentata negli ultimi 5 anni dopo un'interruzione quasi completa dal 1979. È inoltre cambiata la natura dell'offerta di oro da parte delle banche centrali, in quanto negli anni settanta erano le necessità valutarie di alcuni paesi a determinare vendite di oro, mentre negli anni novanta è una gestione più attiva e tesa al rendimento delle riserve auree. Varie banche centrali, con l'intermediazione di banche commerciali specializzate, hanno cominciato a mobilitare le loro riserve anche con operazioni di leasing e di swaps. Nel 1993 le vendite di oro sono state attuate da 22 tra banche centrali e istituzioni monetarie governative.
Anche l'offerta da riciclo ha continuato a crescere, raggiungendo nel 1993 il record storico di 516 tonnellate (ovvero il 15,8% dell'offerta totale). La gran parte del riciclo proviene da vecchia gioielleria e dipende da vari fattori. Quanto alle aree di provenienza di questo oro, il Medio Oriente è la più importante, seguito dal subcontinente indiano.La conclusione è che l'offerta ha continuato ad aumentare nel tempo, dando al mercato dell'oro una dimensione che in tonnellate risulta essere nel 1993 di 2,2 volte maggiore di quella del 1971.
Quattro sono le principali componenti della domanda di oro: la lavorazione, gli acquisti ufficiali netti, gli investimenti fisici privati, gli investimenti netti (ovvero prestiti in oro, copertura con opzioni, investimento implicito) (v. tab. IV).
L'analisi del mercato dell'oro rende difficile valutare se esso sia dominato dalla domanda o dall'offerta. Ovviamente la situazione può cambiare, ma la nostra valutazione è che quanto meno negli ultimi cinque anni è stato raggiunto un notevole equilibrio tra offerta e domanda su prezzi oscillanti intorno ai 350 dollari l'oncia. La domanda per la lavorazione dimostra inoltre una crescita costante capace di assorbire ampiamente la produzione mineraria, mentre gli aggiustamenti al margine tra domanda e offerta avvengono con il riciclo e con gli stocks già estratti.La componente principale della domanda è quella per la lavorazione, che a sua volta comprende la gioielleria, l'elettronica, l'odontoiatria, gli altri usi industriali e decorativi, le monete e le medaglie, le monete ufficiali (v. tab. V).
La domanda di oro per la produzione di gioielli è di gran lunga la principale, con una quota che ha oscillato tra il 76,6% del 1971, il 55,7% del 1981 e l'81,7% del 1991.
La dinamica presenta tre fasi: una di calo dal 1971 al 1974; una di crescita e poi di calo tra il 1974 e il 1980; una di crescita pressoché ininterrotta dal 1980. Ciò significa che il ripiegamento dei prezzi ha dato un grande impulso a questa domanda. L'area con la produzione maggiore è l'Europa seguita dall'Estremo Oriente, dal Medio Oriente, dal Subcontinente indiano, dal Nordamerica, dall'America Latina.
Tra i paesi, il principale produttore è storicamente l'Italia (v. Stella e Torboli, 1982), che nel 1992 ha raggiunto un massimo di 461 tonnellate lavorate, pari al 17% della lavorazione mondiale, con un lieve calo solo nel 1993, attestandosi comunque sulle 441 tonnellate. La produzione italiana è cresciuta a ritmi sostenuti, a partire dalla seconda metà degli anni settanta a oggi, registrando solo nel 1980 una forte contrazione. L'Italia viene seguita, a grande distanza, dall'India che ha realizzato, nel 1993, il 10% della lavorazione mondiale, dagli Stati Uniti (5,6%), da Taiwan (5,1%).Quanto al consumo domestico, che non coincide con la lavorazione, gli Stati Uniti figurano tra i primi, nettamente superiori, per esempio, all'Italia che risulta per converso essere un grandissimo esportatore di gioielleria.
Tra le altre domande, quella per l'elettronica ha una discreta rilevanza; essa ha infatti sempre oscillato intorno al 6-8% dal 1971 al 1993. I paesi che maggiormente impiegano oro nell'elettronica sono gli Stati Uniti e il Giappone: insieme hanno infatti assorbito, nel 1993, più del 70% della domanda di quel comparto.Importante, anche se in declino, la fabbricazione di monete ufficiali, che nel 1971 aveva una quota del 3,9%, nel 1981 aveva raggiunto una quota del 21,1% scendendo poi nel 1991 al 5,3% e al 4% nel 1993 (cioè a una quota pari a quella del 1971). In termini assoluti si è raggiunto un massimo di 344 tonnellate nel 1986. I principali coniatori di monete ufficiali in oro sono Giappone e Stati Uniti, mentre il Krugerrand del Sudafrica è stato distrutto dal boicottaggio degli anni ottanta. Dunque, la caduta del prezzo dell'oro e la sua stabilizzazione negli anni ottanta hanno inciso negativamente (fatto salvo il 1986) sulla produzione di monete ufficiali, mentre la crescita dei prezzi negli anni settanta l'aveva molto incentivata.
La seconda grande componente della domanda è quella per investimenti (v. Coyne, 1982; v. Van Tassel, 1982) che risponde a due grandi motivi: quello della sicurezza e quello antinflazionistico. Il primo motivo è particolarmente rilevante nelle aree del globo ad alto rischio, dove l'oro rappresenta una riserva di valore e un mezzo di pagamento privo dei rischi delle monete fiduciarie; il secondo dipende prevalentemente dall'andamento dei prezzi dell'oro.
Abbiamo suddiviso la domanda per investimenti in due gruppi: quelli fisici privati e quelli netti. Gli investimenti fisici privati (in gergo bar hoarding) hanno avuto un andamento sostenuto in tutti gli anni ottanta, con un massimo di 514 tonnellate nel 1989. La maggior parte di questi investimenti si concentra nell'Estremo Oriente, nel Medio Oriente e nel Subcontinente indiano ed è motivata da fattori di sicurezza piuttosto che di investimento a fini di reddito. In alternativa a questi investimenti si sono sviluppati nel mercato dell'oro tutti quegli strumenti derivati e di 'oro cartaceo' (opzioni, certificati, warrants, ecc.) che hanno ben poco a che fare con il metallo fisico e che puntano, a seconda delle tipologie, a guadagni sui differenziali di prezzo, non disgiunti tuttavia da elementi di diversificazione nella gestione dei portafogli finanziari.
È tuttavia interessante notare che, malgrado questi sviluppi, l'oro fisico continua a mantenere una sua forte rilevanza in parte anche rappresentata dalla componente degli investimenti impliciti contabilizzata tra gli investimenti netti.
Il punto di raccordo tra produzione, domanda e offerta è individuabile nei mercati (v. Dini e Hanselmann, 1982; v. Hanselmann, 1982; v. Jeantry, 1982; v. Nessim, 1982; v. Plass, 1982; v. Green, 1982; v. Gazmararian, 1982; v. Guy, 1982) che nel caso dell'oro sono notevolmente strutturati e si distinguono in primari e secondari.
Sono primari i mercati in cui affluisce la gran parte dell'oro fisico prodotto per la vendita successiva ad altri mercati e agli utilizzatori. Tra di essi mantengono una fortissima tradizione storica i mercati di Londra e Zurigo. A questi si sono aggiunti nel tempo molti altri mercati, taluni specializzati in forme di trattazione di 'oro cartaceo' che tuttavia viene trattato anche a Londra e Zurigo. I nuovi mercati si trovano a Francoforte, Parigi, New York, Chicago, Los Angeles, Winnipeg (Canada), Singapore, Hong Kong, Dubai, Kuwait, Tokyo, Panama, Buenos Aires.
Su tutti i mercati sono oggi presenti, pur con operazioni limitate e attraverso operatori specializzati, anche le banche centrali.Rimane tuttora aperta la questione se, nel mercato dell'oro, la componente 'fisica' sia dominata da quella 'cartacea' o viceversa, oppure ci sia una situazione di equilibrio. Se la risposta tiene innanzitutto conto dei volumi di attività, allora i mercati cartacei prevalgono nettamente; se invece fa riferimento ai prezzi nel medio-lungo periodo, i mercati fisici rimangono di gran lunga i più importanti.
Molte sono le possibili conclusioni di quest'analisi. Tra queste ne privilegiamo tre: a) l'oro rimane una componente importante delle riserve ufficiali delle banche centrali e degli organismi monetari internazionali, con l'Unione Europea e i suoi paesi quali massimi detentori. È una scelta dovuta alla natura dell'oro quale riserva di valore di tipo non fiduciario; b) la produzione di oro ha continuato ad aumentare, in particolare negli anni ottanta, portando gli Stati Uniti, la massima potenza industriale, al secondo posto dopo il Sudafrica nella produzione di oro. Nella lavorazione, Stati Uniti e Giappone sono oggi i principali coniatori di monete ufficiali, mentre l'Italia è il massimo produttore mondiale di gioielleria; c) la dinamica dei prezzi di mercato e dei costi di produzione ha incentivato l'aumento costante della produzione dimostrando che per l'oro c'è ancora un futuro di mercato. A loro volta i principali mercati dell'oro fisico, localizzati a Londra e Zurigo, hanno continuato a svilupparsi, pur se affiancati dai nuovi mercati dell'oro cartaceo, tra i quali New York.In definitiva: pur non essendo più il numerario del sistema monetario internazionale, l'oro rimane una merce-riserva di valore di grande rilevanza. (V. anche Banca e sistema bancario; Economia; Economia internazionale; Materie prime; Moneta; Prezzi).
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