pace
Assenza di conflitti armati
La pace può riguardare i rapporti reciproci tra gli Stati, ed è una condizione che si determina quando ciascuno di essi si ritiene soddisfatto della propria situazione; oppure riguarda la dimensione spirituale di un individuo, e consiste in una raggiunta condizione d’animo nella quale non si nutre il desiderio di modificare alcunché. La pace – da quella politico-sociale a quella internazionale, sino a quella interiore – può giungere alla fine di un conflitto oppure essere il prodotto di un’evoluzione spontanea. Nel linguaggio corrente è prevalentemente definita come «assenza di guerra»
L’idea di pace può riferirsi a due ambiti molto diversi tra loro: essa può riguardare la conquista da parte di un essere umano di una condizione interiore di armonia, oppure può indicare una condizione esterna, che nella maggior parte dei casi segnala la conclusione di un conflitto (internazionale o interno), caratterizzato dall’uso della violenza fisica.
Dal primo punto di vista, la pace appartiene alla dimensione dello spirito, ma è anche una precondizione affinché tra le persone possa realizzarsi una situazione di comprensione reciproca, tolleranza, serenità, senza le quali nessuna relazione interpersonale o sociale è in grado di raggiungere il livello desiderato di armonia. Dal secondo punto di vista, invece, la pace è una condizione politico-sociale che si determina alla fine di un conflitto, che si esaurisce con la vittoria di una parte e la sconfitta dell’altra: ecco perché in questi casi raramente la pace conduce le parti alla sua accettazione. Anzi, tanto più una parte sarà soddisfatta, tanto meno lo sarà l’altra, che verosimilmente nutrirà un desiderio di rivalsa se non di vendetta. Nella prima forma la pace è un valore; nella seconda è un fatto.
Guardata nel suo sviluppo storico, la pace può addirittura essere considerata come un momento, specifico e preciso: quello in cui due Stati (o due coalizioni di Stati), al termine di una guerra, firmano un vero e proprio trattato che trasforma in diritto positivo l’esito della guerra. La prima vera e propria manifestazione di questo evento sembra sia stata la pace stipulata a Sardi, del 386-87 a.C., tra la Persia e Sparta, per opera dello spartano Antalcida. Ma poi ogni guerra ha avuto la sua pace, ed essendo state nei secoli le guerre addirittura migliaia, altrettante paci le hanno seguite.
Alla luce della sua funzione politico-internazionale, essenziale diventa l’analisi dei diversi tipi di pace che possono determinarsi.
Sulla base degli studi svolti su questo tema, specie nel 20° secolo, si distingue la pace di reciproca soddisfazione (la più rara, che si dà quando tutte le parti escono dal conflitto senza conseguenze negative) dalla pace di sopraffazione (quella in cui il vincitore impone al vinto condizioni durissime) e da quella di prepotenza (indotta da una superiorità tale di una delle parti che l’altra non si prova neppure a sfidarla). Potremmo dire che la prima è una pace come tregua (pura assenza di conflitto), la seconda una pace negativa (che determina soltanto la fine di un conflitto) e la terza una pace imposta (a chi non può più sfidare l’avversario più potente).
Ogni guerra – abbiamo detto – produce la sua pace; ma sappiamo anche che nella storia ogni periodo di pace è stato interrotto da nuove guerre: ne dobbiamo dedurre che all’interno della pace stessa sia nascosta una qualche condizione che automaticamente, per così dire, è destinata a produrne, prima o poi, la fine. Eppure, alcune grandi paci – si pensi a quella di Augusta (1555), siglata tra Carlo V e i principi protestanti, o a quella di Vestfalia (1648), firmata dagli Stati più importanti d’Europa, o ancora a quella di Versailles (1919), che avrebbe dovuto dare vita a un sistema internazionale democratico e pacifico – avevano come scopo proprio quello di ridisegnare la struttura dell’ordine internazionale, creando situazioni di equa e reciproca soddisfazione, attraverso bilanciamenti, indennizzi, scorporo di porzioni di territori dirette a impedire l’insorgere di nuove ragioni di conflitto.
Particolarmente importante è la pace che ha posto fine alla Seconda guerra mondiale, con i trattati siglati a Parigi nel 1947. Giungendo al termine della guerra più tremenda mai combattuta, essa diede vita, per la prima volta nella storia, a un sistema di bilanciamento tra le parti – il cosiddetto bipolarismo – che si fondava sulla minaccia reciproca di distruzione nucleare tra Stati Uniti e Unione Sovietica, da cui discese, paradossalmente, una pace solidissima perché fondata sulla reciproca paura di subire un catastrofico attacco di sorpresa.
In precedenza si erano viste forme di dominazione internazionale, come dimostra il caso del cosiddetto Concerto europeo che resse l’ordine europeo tra il 1815 (dopo il Congresso di Vienna, che sancì la fine dell’avventura napoleonica) e il 1848; ma esso era sostanzialmente informale. Basato su consultazioni tra alcuni Stati, che si riunivano in congressi, esso divenne lo strumento per intervenire con le armi nei paesi in cui si minacciava l’ordine politico stabilito a Vienna. Anche questo strumento finì comunque col dissolversi. Ben di rado, quindi, la pace è riuscita a essere durevole.
La pace è poi tanto desiderata come sembra? Non mancano, per esempio, interessanti concezioni della società che fondano la loro analisi della realtà sull’ipotesi che il conflitto (inteso come una grande categoria che comprende tanto la competizione sportiva quanto gli scontri più estremi) sia la spinta naturale che consente alle società umane di progredire ed evolvere. Il filosofo tedesco Hegel, per esempio, riteneva che la guerra servisse a impedire che le forze dei popoli, rimanendo inerti, si debilitassero, così come le acque di uno stagno, stando ferme, imputridiscono.
Il limite di tale motivazione sta però nel poter essere utilizzata come giustificazione di qualsiasi perturbazione della pace, indipendentemente dall’analisi del caso concreto, agevolando eventualmente quei regimi politici che intendessero svolgere politiche estere aggressive ed espansionistiche.
Si tratta a questo punto di chiarire se l’aspirazione alla pace sia propria per definizione di qualsiasi tipo di Stato oppure se essa possa essere davvero desiderata soltanto da quello democratico, secondo un’impostazione oggi molto diffusa negli studi.
L’ipotesi che si formula secondo questa impostazione è che la pace si dia essenzialmente tra Stati democratici, in quanto questi sono per propria natura meno propensi di altri tipi di Stato (autoritarismi, dittature) al ricorso alla guerra. In base a siffatta ipotesi, quanto maggiore è il numero degli Stati democratici, tanto aumentano le possibilità di mantenere la pace mondiale, fino al limite estremo che se tutti gli Stati diventassero democratici, essa diverrebbe perpetua come la sognava Kant, nel suo celebre progetto intitolato Per la pace perpetua (1795).
Ma l’esperienza storica ci induce alla prudenza, sia perché è possibile che anche uno Stato democratico dia avvio a una guerra, sia perché, paradossalmente, il desiderio di espandere la democrazia può indurre paesi democratici a provocare guerre per favorire un aumento della democrazia mondiale. Si può concludere che la pace per sua natura predilige la democrazia e che, se esse si rafforzeranno reciprocamente, non potrà che discenderne il bene dell’umanità.