Palermo
La Palermo conosciuta da Federico nella sua infanzia era la città descritta, alla fine dell'età normanna, dall'ignoto cronista antisvevo indicato come il cosiddetto Falcando. In quello stesso scorcio del sec. XII, negli anni fra il 1195 e il 1197, Palermo era rappresentata in una celebre miniatura (la quarta) del codice che contiene il De rebus Siculis carmen o Liber ad honorem Augusti di Pietro da Eboli, apologeta degli Svevi, i cui versi fanno da didascalia alle miniature che descrivono la vittoriosa conquista del Regno da parte di Enrico VI.
Il cosiddetto Falcando, il quale era certamente un personaggio addentro nelle cose del palazzo regio, disperato per l'avanzata delle truppe di Enrico VI nel Regno meridionale, invocava in un'accorata epistola (cf. La Historia, 1897) un'alleanza fra i latini e i musulmani di Sicilia e una loro comune azione contro l'"innato furore" delle "tumultuose orde dei barbari" teutonici che stava per abbattersi sulle "città opulente e luoghi fiorenti" dell'isola, da Messina a Catania a Siracusa ad Agrigento a Palermo.
Proprio descrivendo quest'ultima città diceva di non avere parole adeguate alla sua gloria: Palermo, "diversificata in tre settori, ha in sé, per così dire, tre città distinte. Di esse quella collocata in mezzo fra le due estreme, preminente per la grandiosità degli edifici, è da entrambe separata, a destra e a sinistra, dalla smisurata altezza delle mura. Non essendo abbastanza larga si estende però maggiormente in lunghezza, come se qualcuno congiungesse a una sola corda due eguali minori porzioni di cerchi uguali.
La intersecano inoltre tre vie principali che percorrono tutta la sua lunghezza; di esse quella di mezzo, che è detta via Marmorea ed è riservata alle mercanzie, si estende in linea retta dalla parte più elevata della via Coperta fino al Palazzo Arabo, e di là alla Porta Inferiore, accanto all'emporio dei Saraceni. L'altra si allunga dalla Torre Pisana e attraverso la via Coperta fino al Palazzo arcivescovile, accanto alla Cattedrale, subito dopo la Porta S. Agata, e successivamente costeggia le case dell'Ammiraglio Maione e si allunga fino al foro dei Saraceni, per congiungersi qui con la via Marmorea. La terza infine [incomincia] dall'Aula regia che sta sotto il Palazzo, e passando accanto alla casa del Siddik saraceno, si estende fino alla residenza del conte Silvestro [di Marsico] e alla Cappella dell'Ammiraglio Giorgio [d'Antiochia], e quindi si volge obliquamente in basso verso la vicina Porta della città.
La parte destra della città, che ha inizio dal monastero di San Giovanni [degli Eremiti], costruito in Kemonia, presso il Palazzo, è difesa da mura che la recingono fino al mare. Parimenti la parte sinistra, estendendosi poi dal confine dello stesso Palazzo fino al Castello a Mare, si conclude in quell'identico luogo completamente protetta da una possente cerchia di mura. Anche lo spazio che si distende tra la città di mezzo e il porto, dove convergono le rimanenti due sezioni della città, contiene il quartiere degli Amalfitani, senza dubbio rigoglioso per l'abbondanza delle mercanzie forestiere, nel quale sono offerti ai compratori abiti di diverso prezzo e colore, sia di seta che di lana francese".
La celebre miniatura del Liber di Pietro da Eboli rappresenta Palermo in lutto per la morte del re Guglielmo II (1189). Essa raffigura la popolazione mista di latini, greci, musulmani, ebrei, disposta entro il Cassarum, racchiuso a oriente dal fiume Kemonia (o del Maltempo), che lo divide dal Daynsin o appunto Kemonia (poi quartiere dell'Albergaria); a occidente dal fiume Papireto, che lo divide dall'avvallato sobborgo del Seralcadi. A settentrione, verso il mare, è rappresentata l'Alcia (la Kalsa, la Halisah, l'"eletta"), la città fortificata voluta quale residenza più sicura e munita dagli emiri musulmani a metà del sec. X, quando abbandonarono l'insicura antica città aggregata intorno al Palazzo Vecchio, al-Qaṣr, com'era detto dai musulmani, per cui il quartiere cresciutogli intorno era chiamato Cassaro. La miniatura rileva la Cappella Palatina all'interno del vecchio palazzo, e inoltre il Castello a Mare e il Genoardo ("viridarium Genoardi"), nel cui "piano", va ricordato, "extra moenia palatii Panormi iuxta jardinum Cubbae versus Ainisindi", in quello stesso torno di tempo il vittorioso Enrico VI fece bruciare sul rogo i vescovi che avevano partecipato all'incoronazione di Tancredi.
Dal lato opposto, il fiume Oreto, il Wadi Abbas dei musulmani, segnava quasi il limite orientale della città, alla quale lo incorporavano i molti mulini di cui muoveva le ruote con il suo corso regolare dalla fonte al mare, come segnalava ammirato al-Idrīsī. Inoltre, a risalire verso la fonte, verso il villaggio di Baida e verso Altofonte, l'Oreto ospitava sulle sue sponde numerosi "mahall", i gruppi di case che prolungavano l'insediamento abitativo oltre le mura urbane.
Presso l'Oreto era la Favara, uno dei solatia dei sovrani normanni. La Favara (che significa "la sorgen-te") era il nome del castello di Giafar (il Qaṣr Ǧa'far), dal nome dell'emiro (997-1019) che lo aveva fatto costruire quale luogo di riposo, ed era circondato su tre lati dal lago artificiale ove confluiva l'acqua di due vicine sorgenti. Proprio nel castello della Favara, alla fine di novembre del 1194, Enrico VI aveva accolto i rappresentanti della città, i quali andavano incontro al trionfatore a rendergli omaggio. Allora, essi avevano rappresentato la popolazione palermitana "a ceto a ceto" e, notava Michele Amari, i delegati musulmani suscitavano molta meraviglia "prostrandosi con la fronte al suolo" innanzi all'imperatore (Amari, 1933-1939, III, p. 564). Altri luoghi di riposo e di svago dei sovrani normanni erano il Parco, la vicina riserva di caccia di re Ruggero, e la boscosa Baharia, a oriente e non lontana dalla città. Il palazzo della Favara, notavano i cronisti, era la residenza invernale preferita da Ruggero, il quale in estate si difendeva dal caldo soggiornando nel Parco.
Federico giunse a Palermo all'età di tre anni e aveva già perso il padre, morto a Messina nel settembre 1197. Arrivava da Foligno, dove l'imperatrice, pochi mesi dopo averlo partorito a Iesi (26 dicembre 1194), lo aveva affidato alla duchessa di Spoleto per poter rientrare in Sicilia.
La Palermo celebrata dagli scrittori filonormanni o filosvevi era la Urbs felix dell'età normanna (Genuardi, 1921, p. 55), esaltata dal geografo al-Idrīsī quale nuova Medina eletta dai conquistatori musulmani, al posto della cristiana (e bizantina) Siracusa, a capitale della Sicilia e resa prospera dagli avi di al-Idrīsī, i quali le avevano dato ruolo politico e ricchezza commerciale. Palermo era la città caput Regni dall'incoronazione di Ruggero II e dal Natale del 1130. Era l'"Urbs Regia […] in qua Thronus et Solium nostrae residet Majestatis", come la definiva Guglielmo II (De Vio, 1706, p. 7). Era la "sedes et caput Regni nostri Siciliae et in qua ipsius Regni coronam primum portavimus", come l'aveva indicata Enrico VI (ibid., p. 8). Anche le miniature del Liber ad Honorem Augusti di Pietro da Eboli rappresentano Palermo ancora come capitale, residenza regia e sede della corte affollata dai numerosi grandi ufficiali, dotata di monumenti che ne rispecchiavano la preminenza, come la Cappella Palatina, di possenti strutture edilizie (come il Castello a Mare) e di mirabili giardini, animata dalla popolazione multietnica dei suoi quartieri.
E tuttavia quell'immagine apparteneva a un tempo ormai lontano dopo i guasti registrati nel Regno dalla fine dell'età normanna, a partire proprio dalla capitale. La città che si presentò al fanciullo Federico appariva segnata dalle violenze che la sconvolgevano da molti anni e ne bloccavano la vita, dalla perdita del ruolo e delle funzioni di capitale, dall'assenza della corte, dei nobili e degli ufficiali della Curia che ne rilevavano la distinta posizione nel Regno, impoverita di abitanti per il forte regresso della popolazione musulmana che era stata perseguitata, smembrata e divisa nel suo corpo sociale.
Appena prima che si definisse il passaggio dalla città normanna a quella sveva, negli ultimi decenni del sec. XII Palermo era composta principalmente dalle due partes urbis, quella vecchia del Cassaro e quella nuova della Kalsa. Al-Idrīsī contrapponeva la Kalsa, l'antica Halisah, il "vecchio centro urbano, residenza del sultano e della sua corte" dalla metà del sec. X quale area fortificata al posto dell'antico ma insicuro castello (al-Qaṣr), al Cassaro e al palazzo, armonioso e imponente, che gli Altavilla avevano recuperato come centro e sede del loro potere.
Scriveva il cosiddetto Falcando: "Questa città adunque, collocata in pianura, è da un lato battuta da continue mareggiate ai cui flutti, tuttavia, Palazzo Vecchio, che è detto Castello a Mare, oppone le mura munite da gran numero di torri. La parte opposta, invece, dall'altro lato [della città], è occupata dal Palazzo Nuovo, costruito, con sorprendente accuratezza ed eccellente lavoro, in pietre squadrate. Circondato all'esterno da ampia cerchia di mura e sfarzoso all'interno per l'intenso splendore di gemme e di oro, ha da un lato la Torre Pisana riservata alla custodia dei tesori, dall'altro la Torre Greca che sovrasta quella parte della città che è detta Kemonia […]. Si trovano ancora nello stesso luogo altri appartamenti veramente sfarzosi per i molti addobbi e nei quali il re o discute in gran segreto dello stato della monarchia coi suoi 'familiares', o riceve i nobili per parlare dei pubblici e più importanti affari del regno […]. Inoltre, a chi entra nel Palazzo da quella parte che guarda la città, si offre per prima la Cappella regia che, rivestita di un pavimento di splendida fattura, ha anche le pareti decorate in basso con lastre di prezioso marmo, in alto invece con tasselli musivi, alcuni dorati, altri di vari colori, che mostrano dipinta la storia del Vecchio e del Nuovo Testamento. Adornano poi il soffitto ligneo di notevole ampiezza la sorprendente leggiadria dell'intaglio, la splendida molteplicità di pitture e il fasto dell'oro che brilla da ogni parte. Così dunque allestito, così ornato, così colmo di ogni sorta di incanto, il Palazzo sovrasta, allo stesso modo che la testa il resto del corpo, tutta la città" (Tramontana, 1988, p. 135).
Di fatto, dei cambiamenti segnalati dalla città nel secondo millennio il più radicale e duraturo rimaneva quello segnato dai conquistatori normanni, quando, entrando vittoriosi a Palermo (1072), preferirono alla Kalsa, la cittadella fortificata eletta a metà del sec. X dagli emiri musulmani a centro politico cittadino, il fortilizio situato nell'acropoli.
Dagli ultimi decenni del sec. XII, fra il Cassaro e la Kalsa si allargava fino al porto nell'area mediana il borgo detto di Porta Patitelli, secondo il cosiddetto Falcando "senza dubbio rigoglioso per l'abbondanza di mercanzie forestiere, nel quale sono offerti ai compratori abiti di diverso prezzo e colore, sia di seta che di lana francese" (ibid., p. 139). Qui vivevano e lavoravano gli artigiani che confezionavano gli zoccoli (i 'patitelli', appunto), ma la zona si avviava a diventare il quartiere commerciale della città preferito da mercanti, negozianti, notai. Qui si trovavano gli amalfitani, i quali si erano stabiliti dapprima nel Cassaro e poi si spostarono nell'area più vicina al porto. I veneziani avevano qui la chiesa di S. Marco, costruita per concessione di Ruggero II. E v'erano poi i genovesi, presenti anche alla Kalsa. Inoltre, a Porta Patitelli dovevano stabilirsi alcune famiglie (come i de Caltagirone, poi signori di S. Stefano Quisquina, o i de Mayda) i cui nomi si distingueranno nella vita sociale e pubblica non solo palermitana.
In quello stesso periodo la Galka, che inglobava l'antico quartiere del Cassaro, si apriva alla Neapoli, al Seralcadi, a settentrione oltre il corso del Papireto (per cui era anche detto Transpapireto), e all'Albergaria, a meridione oltre il corso del Kemonia. Seralcadi e Albergaria si stendevano verso il mare crescendo a ellisse intorno all'antica cerchia muraria della Galka. L'Albergaria si sviluppava lungo l'asse viario principale del borgo, dal palazzo e dalla Galka verso il mare, parallelamente al corso del Kemonia. L'avvallato borgo del Seralcadi (detto anche degli Schiavoni per qualche tempo) prendeva nome dalla strada, la Shera'al qadi, la strada del qāḍī, ossia del gaito, del capo (l'odierna via S. Agostino), orientata a settentrione, verso il mare, attraversando il borgo di Porta Patitelli. Alla fine del sec. XII, come notava il cosiddetto Falcando, sia il Transpapireto, cioè il Seralcadi, sia il borgo Kemonia, cioè l'Albergaria, erano difesi da mura che li recingevano (ibid.).
Al tempo della rivolta capitanata da Matteo Bonello (1161) il Seralcadi accolse i musulmani che si rinserravano nelle anguste stradine del borgo dopo aver abbandonato il Cassaro e il centro urbano per scampare alla violenza della componente latina della popolazione cittadina, che allora consumò un eccidio (La Historia, 1897, p. 57). Altrettanto sanguinosa fu la caccia ai musulmani nel 1168, in occasione della cacciata da Palermo del cancelliere Stefano di Perche. Ancora, nel 1190 i 'latini' e i cristiani riattizzarono la caccia ai musulmani, molti dei quali allora fuggirono da Palermo per andare a rifugiarsi nei luoghi più interni e meno accessibili dell'entroterra palermitano.
Il calo e l'emarginazione della componente musulmana si ripercossero gravemente, a Palermo e nell'isola, in generale nel campo del lavoro e in particolare nel settore dell'artigianato, che ne risultò impoverito. Come accadeva a Palermo, ove il lavoro degli artigiani musulmani (fabbri, calderai, armaioli, sarti, figulinai) era sempre apprezzato. I laboratori e le botteghe di manufatti, di suppellettili di pregio erano addossati alla città antica, al Cassaro, in parte anche concentrati in strade e piazze distinte, come nel mercato dei droghieri (il Suk-el'-Attarin, l'odierna via dei Lattarini), o nel mercato di Ballarò (il Suk-el'-Balharà), o in quello dei tessitori delle "gassine" o "assine", come si dicevano le stuoie di fibre vegetali (la "contrata Hasserinorum iuxta portam Thermarum"). Di lì a poco si indicava una via dei Balestrieri (degli Schioppettieri in età moderna) a Porta Patitelli, e una via dei Bottai alla Kalsa, la quale da città murata dei governanti musulmani si apriva a borgo contiguo al porto (la Cala), ove il Kemonia e il Papireto convergevano e pure scaricavano i rifiuti urbani accumulati nell'attraversamento della città. Nella Kalsa era ubicato l'arsenale, che sarà spostato sul lato settentrionale del porto, quando la "marittima civitatis" (l'odierna piazza Marina) sarà sgombrata.
Nell'occidentale Seralcadi Federico stanziò dal 1233 gli abitanti di Capizzi e di Centorbi (Centuripe) che si erano ribellati ed erano stati espulsi dalle loro terre (Riccardo di San Germano, 1936-1938, a. 1233; Historia diplomatica, V, p. 595). L'arrivo degli uomini da Capizzi e Centuripe promosse in città l'apertura della "ruga magna Capicii et Centorbi" (1236).
La nuova importante arteria serviva a razionalizzare il tracciato viario cittadino, rendendo più rapido e funzionale il collegamento fra il quartiere dell'Albergaria ‒ di cui prolungava la strada principale dalla piazza della Fiera vecchia (l'odierna piazza Rivoluzione) ‒ e il quartiere di Porta Patitelli, avanzando fino all'area del mercato della Vucciria (la boucherie, il macello, cresciuto a partire dall'età angioina) e delle logge dei mercanti. La nuova arteria (corrispondente alle odierne vie Alessandro Paternostro e della Loggia) scorreva a ellisse a settentrione del Cassaro e al limite dell'aperta Kalsa.
Nel Duecento Palermo visse una crisi demografica che solo in parte era bilanciata dagli immigrati che continuavano a passare dalla penisola, dagli ebrei provenienti dall'Africa settentrionale, o dagli uomini che venivano dalle aree interne della regione (Trasselli, 1964). Si calcola che nell'età angioina, negli anni Settanta del Duecento, la città avrebbe sommato circa undicimila "fuochi" (circa trentatremila abitanti; Bresc, 1986, p. 61), o perfino intorno a cinquantamila abitanti (Epstein, 1996, p. 50).
La persecuzione dei musulmani impoverì di abitanti la città, a cominciare dall'antico Cassaro, da dove furono quindi allontanati anche gli ebrei. Beniamino da Tudela, che visitò la città nel 1172, calcolò che gli ebrei residenti fossero millecinquecento. Dal 1233 Federico stanziò d'imperio nel Seralcadi gli ebrei che giungevano dalle isole nordafricane delle Gerbe e che gli ebrei del Cassaro osteggiavano. Alla fine del 1239 agevolò lo stanziamento a Palermo di un gruppo di ebrei immigrati dall'Africa settentrionale, dalle Gerbe, in Sicilia. Dispose che fossero loro locati dei "casalini" "pro domibus construendis", ma non dentro il "vecchio Cassaro" bensì in altri luoghi della città, affinché vivessero separati dai "Iudei Panormi", i quali non volevano accogliere ("non concordant") i "Iudei extranei". Concesse pure di potere riattivare una vecchia sinagoga (Historia diplomatica, V, p. 571; Amari, 1933-1939, III, p. 629). Nel 1211 Federico aveva sottoposto gli ebrei di Palermo, con le imposte da loro dovute alla Curia e alla dogana regia, alla Chiesa palermitana. Ma nel 1215 la donazione fu limitata a sei anni (Historia diplomatica, I, pp. 182, 191, 372). Ora i nuovi immigrati palermitani dovevano alla Curia un'imposta annuale di 400 tarì per la "gezia", la tassa dovuta dagli ebrei in quanto soggetti all'autorità diretta della Corona, oltre a un'imposta sul vino di 150 tarì e una per la macellazione di 50 tarì ("pro cultellis", ibid., V, p. 571). Federico acconsentì alla richiesta di alcuni ebrei, giunti nel 1239 dalle Gerbe, di coltivare palme da datteri nella "contrata Favarie", nell'area del solacium regio della Favara, dalle parti del fiume Oreto e del Ponte dell'Ammiraglio, e dispose che fosse loro locato il "palmeretum sive dactiletum" della Curia per non più di dieci anni. Inoltre, volle che essi introducessero la coltivazione, ignota nell'isola, dello henné e dell'indaco, necessari per la tintura dei tessuti. In effetti, gli ebrei, abili artigiani, erano considerati nei paesi mediterranei specialisti nel lavoro di tintura e di rifinitura (l'apprettatura, la cosiddetta "celandra") delle stoffe.
L'imperatore offriva agevolazioni e più favorevoli condizioni di lavoro ai musulmani che si fossero trasferiti dai casali rurali in città a rinnovarvi la viticoltura, nella quale erano esperti. Propose loro di stabilirsi nel Seralcadi, che progettava di ampliare, anche per arricchire l'immagine della città, realizzando nuove abitazioni nelle aree edificabili o espropriando le abitazioni più modeste e in rovina (ibid., p. 427). I suoi progetti saranno attuati poi da suo figlio Manfredi. Nello stesso tempo Federico approvò l'operato del maestro giustiziere Ruggero Calvelli, il quale aveva concesso ai nuovi abitatori di Palermo "molte terre" da impiantare a vigna nell'area del palazzo della Zisa, escludendo tuttavia i lotti di terra più vicini alla residenza. Alla fine del 1239 l'imperatore si preoccupò di riattivare nel Palermitano la coltivazione della canna da zucchero attirando gli esperti coltivatori che erano scomparsi col dileguarsi dei musulmani e ordinando di cercarli e reclutarli nelle terre del Levante (ibid., p. 536).
Ma usciamo nel territorio agrario urbano. Ancora il cosiddetto Falcando descriveva ammirato, oltre alla "gloria" e alle "doti" della città, la ricchezza e la bellezza della "singolare pianura che si adagiava per quasi quattro miglia tra le mura della città e i monti", ricca di "vigneti lussureggianti", di orti, difesi da torri e dotati di efficienti sistemi di irrigazione: "Negli orti potrai pure vedere i pozzi svuotarsi e le cisterne attigue riempirsi per mezzo di orciuoli che scendono e poi risalgono seguendo al girar di una ruota, e indi l'acqua venir condotta attraverso canaletti in vari luoghi affinché, irrigate le aiuole, germoglino e crescano i cetrioli che sono piccoli e corti, e i cocomeri che sono più oblunghi, e i melloni di forma piuttosto sferica, e le zucche che si arrampicano sui graticci di canne intrecciate".
E già a metà del sec. XII il geografo al-Idrīsī aveva descritto con ammirazione l'area del fiume Oreto (il Wadi Abbas dei musulmani), che "scorre all'esterno del borgo, sul lato meridionale ed ha corso perenne ed è cosparso di mulini [alcuni dei quali mantenuti fino a oggi]" (cf. Al-Idrīsī, [1966]). La serie dei mulini segnalati sulle sponde dell'Oreto, e quelli impiantati in città sul Kemonia e sul Papireto, rispondeva naturalmente alla domanda interna. L'Oreto, il Kemonia e il Papireto costituivano la forza motrice anche dei mulini per la spremitura delle canne da zucchero, dei cosiddetti "masara" ("molendinum ad molendas cannas mellis, quod saracenice dicitur masara").
Il mercato cittadino continuava a offrire i prodotti delle campagne del territorio urbano e degli orti impiantati all'interno della cinta muraria. Per irrigarli si utilizzava l'acqua del Kemonia e del Papireto, venduta dai proprietari (innanzitutto chiese e monasteri) per una o più "vicende" (una o più volte), e misurata a "zappe" di portata (ancora oggi quei termini sono usati nel lessico agricolo del Palermitano per indicare il numero e il volume delle irrigazioni agrarie). Il cosiddetto Falcando, alla fine del sec. XII, descriveva ammirato gli orti di Palermo, i giardini di melograni, agrumi, mandorle, fichi, irrigati con l'acqua pescata dalle cisterne dalle ruote della noria (La Historia, 1897, p. 184). Naturalmente, quei frutti potevano valere ad arricchire la tavola, piuttosto che a imbandirla. Invece, al tempo di Federico, quelle contrade erano solo in parte coltivate e bisognava riportarvi uomini e lavoro. Come Federico faceva, stanziando in città quanti nuovi abitatori poteva reclutare fra cristiani, ebrei e musulmani.
Ma più duratura, anche a Palermo, doveva risultare l'opera di chiese e monasteri, che riuscirono a esercitare una maggiore ed efficace attrazione su nuovi conduttori e abitatori grazie a più favorevoli rapporti economico-giuridici, quali le concessioni in enfiteusi anche con la facoltà di alienazione del fondo, salvo il censo che passava a carico del nuovo enfiteuta; grazie alla società di impresa (la "parzami") concordata dai proprietari con privati per la conduzione agraria o per l'allevamento; grazie, ancora, al negozio "ad partem fructuum" da ripartire fra proprietario e conduttore. A Palermo, in particolare, importante risultava il ruolo svolto dalla chiesa della SS. Trinità, detta la Magione, che Enrico VI aveva tolto (1197) agli ostili Cistercensi e aveva ulteriormente accresciuto per concederla ai Cavalieri teutonici quale residenza, Magione appunto, del precettore generale dell'Ordine. I Teutonici seppero attrarre lavoro e accrescere a Palermo il numero dei nuovi abitatori. L'azione dei priori teutonici pareva procedere sulla linea programmatica dell'occupazione, del popolamento e della valorizzazione del territorio agrario che la Magione possedeva nell'area meridionale della città, contigua alla stessa chiesa. Gli enfiteuti e nuovi abitatori erano isolani provenienti dall'interno della regione, o erano immigrati toscani o "lombardi".
Dal 1231 e per molti anni successivi i Teutonici della Magione di Palermo lottizzarono e concessero a censo il "magnum viridarium" che tenevano entro la cinta muraria urbana, nell'area fra l'odierna Fiera vecchia e la Kalsa, e molti lotti dei terreni che possedevano nelle contrade del territorio agrario urbano. Più nutrita risulta la serie delle concessioni di appezzamenti delle campagne situate nell'area della chiesa di S. Giovanni dei Lebbrosi, alla quale dapprima appartenevano, fra il Ponte dell'Ammiraglio, l'Oreto e la contrada di Gibilrossa, oltre Porta di Termini. Altrettanto continua e fitta risulta la serie delle concessioni di terre "vacue", di fondi da impiantare, a orto, a frutteto, anche di "casalini" da recuperare ad abitazioni, all'interno dell'antico circuito delle mura urbane.
La concessione dei lotti di terra, generalmente da impiantare a vigna, prevedeva il versamento di una parte del frutto dopo tre o quattro anni dal nuovo impianto. Altra condizione favorevole per l'enfiteuta era quella che prevedeva la possibilità di vendere la vigna impiantata a un altro privato e nuovo enfiteuta della Magione. I contratti "ad medietatem" della terra coltivata prevedevano un periodo di tempo nel quale il conduttore, a proprie spese, doveva trasformare, più spesso a vigna, il fondo. Alla fine del periodo stabilito, in genere di quattro o cinque anni, oppure (per citare un contratto della Magione del 1236) a giudizio di "probi uomini" eletti dalle parti "secundum usum et consuetudinem civitatis Panormi", il conduttore acquisiva "in dominio, proprietate et possessione sua" una parte della "planta" per scelta concordata o per sorteggio. Anche per questa via aumentarono i liberi proprietari di beni "burgensatici", come nell'isola erano detti i beni privati degli uomini liberi (i "burgenses").
Il recupero e la valorizzazione del territorio agrario urbano comportarono una ulteriore avanzata dei vigneti nelle contrade agrarie palermitane. Dagli ultimi decenni del sec. XII la vite si segnala in tutto il territorio agrario della città, dalle contrade di levante a quelle di ponente. Queste, per molta parte, avevano già il nome che avrebbero mantenuto: da Ciaculli e da Gibilrossa a Falsomiele, da un lato, al Piano Gallo (poi Mondello) e fino a Carini dall'altro lato; dalla zona del fiume Oreto, dalla Favara e Maredolce ai Colli di S. Lorenzo; e nelle campagne prossime alla città, nell'area della Zisa e della Cuba, fra Palermo e Monreale.
Di fatto il consumo di vino (di bassa gradazione alcolica oppure annacquato) doveva mantenersi largo in un tempo in cui l'acqua da bere era quella raccolta nei "pozzi comuni", di cattivo sapore quando non era pure infetta. Un privilegio del 1200 concesso da Federico ai palermitani (e confermato nel 1221) prevedeva un'imposta del 5 per cento sul vino introdotto "soltanto nel porto di Palermo" (La Mantia, 1900, p. 232). Al tempo di Federico le taverne attive in città (al Cassaro, a Porta Patitelli) risultano di proprietà di chiese e monasteri, che smerciavano parte del vino che producevano, affidandone la vendita al minuto, per botti, a privati imprenditori. In alcune taverne si preparava e si serviva anche il cosiddetto "malcucinato", il "malcoquinatum", le interiora lesse.
E già le Costituzioni di Melfi prevedevano misure restrittive nei confronti dei giocatori d'azzardo e contro coloro che eleggevano le taverne a proprio ambiente naturale (Die Konstitutionen, 1973, III, p. 90). Ma è pure vero che, anche a Palermo, la presenza di taverne, in ogni quartiere e agglomerato, pare un indice positivo del lavoro e degli scambi interni, e pure del ruolo di piazza commerciale della città. Qui, secondo il viaggiatore Ibn Giobayr che visitò Palermo nel 1185, gli operatori musulmani detenevano un ruolo da protagonisti, ma, pare, più in ambito cittadino e territoriale piuttosto che nel mercato internazionale, nel quale operavano toscani e liguri, presenti e attivi nella piazza palermitana, ove contrattavano i prodotti da esportare (cereali, formaggi, lana, pelli di ovini e di conigli, carni salate, tonno salato delle vicine tonnare di S. Giorgio e di Solanto) e dove sbarcavano i manufatti (pannilani, merci pregiate) che da Palermo erano immessi nelle aree interne da altri operatori. Non a caso, nel 1222, quando iniziò la repressione dei ribelli musulmani, collegati con i musulmani d'Africa, Federico costituì Palermo porto franco, unico fra i porti dell'isola, così da poter garantire sicurezza e continuità ai commerci e assicurarsi i rifornimenti per l'esercito.
Entro il circuito urbano aumentavano gli appezzamenti coltivati, i nuovi orti o arboreti, e parallelamente aumentava la domanda d'acqua per irrigare, che si prendeva dal Papireto e dal Kemonia e che i proprietari, principalmente chiese e monasteri, vendevano ai conduttori calcolando la durata e la portata (la "zappa") dell'erogazione. Infatti, i due corsi d'acqua cittadini, il Papireto e il Kemonia, assolvevano le diverse funzioni di confine fra l'antico quartiere e i nuovi che intanto avanzavano; costituivano la forza motrice dei mulini impiantati (da presuli soprattutto) all'interno o rasenti al circuito urbano (oltre quelli dislocati sull'Oreto) per la molitura dei cereali e di quelli per la spremitura delle canne da zucchero, i cosiddetti "masara". Ancora, il Papireto e il Kemonia assolvevano alla funzione di discariche dei rifiuti prodotti da artigiani quali, per esempio, i conciatori.
Dal quartiere-città si procedeva verso la città dei quartieri che promuoveranno dagli ultimi decenni del Duecento un nuovo assetto amministrativo cittadino. Fino ad allora l'Urbs rimaneva il Cassaro, retta da un baiulo regio, il quale aveva la responsabilità di controllo dell'annona, dei pesi e delle misure. Era nominato dal maestro camerario del Regno, il quale sceglieva anche un giudice che, insieme al baiulo, amministrava la giustizia civile. Altri giudici, nominati dal re, assistevano alla stesura dei contratti, degli atti notarili, ai quali conferivano fede pubblica con la loro presenza.
Si può dire che fino ad allora rimase immutato anche il profilo urbano della città, dal quale emergevano solo i campanili e qualche casa-torre sulle abitazioni a piano terra, "terranee", sul livello della "platea", della "ruga", della "vanella" o del cortile (il "darbo"), di un unico ambiente, a volte fornite di un "ricettacolo" per la paglia, a volte dotate di un soppalco interno (domus solerata); ma non erano rare le case con annessa bottega (domus cum apotheca), o la taverna. Frequenti e presenti in ogni parte della città erano i "casalini" da ricostruire per recuperare ad abitazioni (come chiese e monasteri promuovevano).
Fra l'antico Qaṣr abbandonato e la cittadella della Kalsa, che si trasformava in borgo e si apriva verso l'Albergaria e il Seralcadi, erano piuttosto gli edifici religiosi a segnare dalla piena età normanna i tratti distintivi del paesaggio urbano, e pure di quello in prossimità della città. Il riferimento va alla chiesa di S. Giovanni dei Lebbrosi, del tempo di Ruggero II, e a quella di S. Spirito (la chiesa del Vespro del 1282), eretta dall'arcivescovo Gualtiero (avanti il 1178), entrambe vicine al corso dell'Oreto.
All'interno del circuito urbano, nel piano sottostante all'antico palazzo e nell'area dell'Albergaria, era S. Giovanni degli Eremiti (voluta da Ruggero II), mentre si distinguevano S. Maria dell'Ammiraglio (Giorgio di Antiochia), la cosiddetta Martorana eretta nel 1143, e la contigua chiesa di S. Cataldo costruita prima del 1160 sulle antiche mura della città. Probabilmente dal 1184, a un anno dalla consacrazione della nuova chiesa di Monreale ad arcivescovado, l'arcivescovo Gualtiero (m. 1190) aveva iniziato la costruzione della cattedrale di Palermo, consacrata nel 1185 (Bellafiore, 1999).
Ancora, nell'Albergaria, vicina al mercato di Ballarò, dal 1149 v'era la chiesa dei SS. Crispino e Crispiniano, già dedicata a S. Leonardo. Nel Seralcadi era la chiesa dedicata prima a S. Nicolò poi a S. Agostino, voluta dalla famiglia de Mayda. Inoltre, nel 1165, vi sorgeva la chiesa di S. Giovanni Battista alla Guilla. Nell'area di Porta Patitelli, dai primi decenni del Duecento, si segnalava la chiesa di S. Antonio abate, che nel secolo successivo i Chiaromonte avrebbero dotato di una torre campanaria che avrebbe assolto la funzione di torre civica. "Intus Cassarum" v'era una chiesa dedicata a S. Agata, una delle sante più venerate a Palermo. Nel Seralcadi, vicino alla cattedrale sul lato settentrionale, era sorta nel 1171 la chiesa dedicata a S. Cristina detta la Vetere. Un'antica tradizione vuole che la sua costruzione nascesse per volontà dell'arcivescovo Gualtiero, il quale voleva dare adeguata sistemazione alle reliquie della santa giunte a Palermo intorno al 1160. La santa sarà venerata quale patrona della città fino al 1625.
Nel 1191 la costruzione della chiesa della SS. Trinità aveva chiuso a Palermo la stagione della grande edilizia religiosa promossa dalla committenza dei sovrani e dei maggiori nobili dell'età normanna. La chiesa era stata dapprima assegnata ai Cistercensi e poi, nel 1197, ai Teutonici che ne fecero, come si è detto, la residenza, la "Mansio" (la Magione) del precettore dell'Ordine.
Gli anni Trenta del Duecento segnarono l'arrivo in Sicilia e a Palermo dei nuovi Ordini mendicanti, dei Minori, dei Predicatori, dei Carmelitani, i quali si insediarono strategicamente nel cuore dei centri urbani. A Palermo si stabilirono all'incrocio fra i tre maggiori quartieri del Cassaro, della Kalsa, di Porta Patitelli.
Intorno al 1235 i Francescani cominciarono a edificare a Palermo, in un'area offerta da benefattori locali, il convento abbattuto in quello stesso anno per volontà dell'avverso clero secolare cittadino che profittò dell'avversione di Federico nei confronti dei frati, sostenitori di papa Gregorio IX. I frati si posero alla ricostruzione, ma nel 1239 quanto era stato edificato venne di nuovo distrutto per ordine dell'imperatore, il quale era stato scomunicato dal pontefice (marzo 1239). Poi, dopo Federico, dal 1255, iniziò la costruzione della basilica di S. Francesco, che diventò la più grande chiesa di Palermo dopo la cattedrale. La basilica francescana sorgeva al confine fra l'Albergaria e la Kalsa, che avrebbe presto costituito il nuovo quartiere, il quinto, della città, nella "contrada ruga Miney".
I Domenicani sarebbero arrivati a Palermo già negli anni Venti del Duecento e si sarebbero fermati dapprima nella chiesa di S. Matteo, nell'area di Porta Patitelli, dove dal 1300 inizierà la costruzione della chiesa di S. Domenico. Dalla fine degli anni Trenta giunsero i Carmelitani, i quali promossero all'Albergaria la chiesa del Carmine sulla piazza omonima e nell'area del mercato di Ballarò. Gli Agostiniani giungeranno successivamente, negli anni Sessanta del secolo.
E veniamo ai privilegi di cui godette la città. Come già re Guglielmo I aveva fatto per ricompensare la città della fedeltà dimostrata al sovrano durante i sommovimenti del 1161 (La Historia, 1897, p. 63), nel settembre del 1200 il giovanissimo Federico II ripeté a favore della comunità dei palermitani, che voleva ricompensare della loro fedeltà alla Corona nei sommovimenti della fine del sec. XII e nei più recenti tumulti provocati da Marcovaldo di Annweiler, "quando prae turbatione Siciliae rara fides erat in aliis et fere singuli titubabant", piena esenzione fiscale in città per l'immissione o l'esportazione per terra o per mare di qualunque merce o bene proprio, fatta eccezione per le vettovaglie importate o esportate dietro speciale mandato regio. Ridusse le imposte da pagare per l'introduzione nella città, ma solo dal porto, di vino (il 5 per cento) e di olio (il 10 per cento), salva la quantità di vino e di olio "quod ad opus familiae vestrae […] potest sufficere". Inoltre, concesse ai palermitani libertà di pascolo per i loro animali e di "incidere ligna tam viva quam morta ad usum vestrum" nel demanio (La Mantia, 1900, p. 231). Nel settembre 1221 l'imperatore confermava quel privilegio rilasciato "a Majestate nostra Regia […] tempore pueritiae Nostrae" (ibid., p. 233).
Nel 1233 Federico imperatore approvò e confermò alla "felix civitas nostra Panormi, prima regni nostri sedes […] et a progenitoribus nostris priscis regibus multis approbatis consuetudinibus […] honorata", l'"antica consuetudine" del diritto di foro, per cui nessun cittadino palermitano poteva essere citato e costretto a uscire dalla città per cause civili o penali (ibid., p. 234). Nel 1258 Manfredi confermerà specificamente "illam consuetudinem" insieme a "tutte le libertà, i buoni usi, e le consuetudini" vigenti a Palermo dal tempo dell'imperatore Federico al tempo di Corrado (ibid., p. 243). Nell'agosto 1243 un altro privilegio aveva confermato ai palermitani la libertà, evidentemente ostacolata dai "forestarii" regi, di raccogliere legna "pro suis usibus" presso Godrano (escluso il piano) e presso il parco vecchio oppure ancora in altri luoghi del territorio cittadino, sempre evitando di danneggiare i luoghi di caccia e dei "solacia" regi. Inoltre, concedeva di poter tagliare e prendere le canne dai canneti del Cassaro per le loro vigne, "siccome è da antico tempo consueto" (ibid., p. 237).
Nell'agosto 1253 Corrado IV, in ricompensa della fedeltà e dei servizi resi, concesse l'esenzione da ogni imposta regia per gli animali delle masserie dei palermitani in entrata o in uscita per le porte e per il porto della città. Ugualmente, esentò dall'imposta spettante alla Curia regia le operazioni di compravendita dei "mercatores" palermitani (ibid., p. 238). Tali concessioni riflettono le richieste e gli interessi dei produttori locali e degli operatori di un mercato circoscritto al commercio interno cittadino.
Federico fu incoronato nella cattedrale di Palermo nel maggio 1198, la domenica di Pentecoste, con il solenne e fastoso rito bizantino. Come egli stesso ricorderà, "in ipsa Ecclesia Panormitana sacram unctionem et regium suscepimus diadema". L'incoronazione era stata voluta e affrettata dalla madre Costanza mentre divampava la rivolta antitedesca. Nel novembre di quello stesso 1198 Costanza morì. Così, non avendo ancora compiuto quattro anni, il fanciullo Federico si ritrovò sovrano inerme ed estromesso dal gioco delle lotte di potere che gravavano sul Regno.
Alla fine del 1208, maturato il quattordicesimo anno di età, Federico uscì dalla tutela di papa Innocenzo III e assunse i pieni poteri regi. In quello stesso anno 1208, dichiarato maggiorenne, per volontà del pontefice aveva contratto matrimonio per procura con la più anziana Costanza d'Aragona, la quale giunse a Palermo nell'agosto del successivo 1209. E già nel 1212 Federico si trasferì in Germania, dopo l'assassinio del re, lo zio Filippo di Svevia. A Palermo rimase reggente la regina Costanza, la quale nel 1211 diede alla luce Enrico, incoronato re di Sicilia (per desiderio e calcolo di papa Innocenzo III) già nella primavera dell'anno successivo.
Federico ritornò a Palermo da imperatore (incoronato a Roma da papa Onorio III nel novembre 1220) nel 1221, dopo avere legiferato nella grande dieta di Capua riunita nel dicembre 1220. Passato in Sicilia, convocò una Curia generale a Messina: impose agli ebrei di farsi riconoscere indossando un segno distintivo; legiferò contro i giocatori e i blasfemi; contro le meretrici, le quali entravano nei bagni pubblici insieme alle "donne oneste" o avevano residenza entro le mura urbane; contro i giullari (Riccardo di San Germano, 1936-1938, a. 1221). Nell'anno successivo, il 1222 (quando, a Catania, morì l'imperatrice Costanza), Federico si recò a Veroli (Frosinone), per incontrarvi il pontefice che lo aveva invitato. Quindi rientrò nell'isola per una nuova azione contro i ribelli musulmani (ibid., a. 1222). Da qui ripartì per la Puglia, ove festeggiò il Natale di quell'anno.
Nell'inverno del successivo 1223 era di nuovo in Sicilia. Nel novembre di quell'anno era a Catania, ove aveva convocato una Curia generale per deliberare il sostegno finanziario che le comunità urbane dovevano dare alla lotta contro i musulmani (ibid., a. 1223). Nel 1224 era ancora impegnato contro i ribelli musulmani in Sicilia. A Palermo festeggiò il Natale 1224 e ancora la Pasqua del successivo 1225, per spostarsi quindi nel meridione peninsulare. A Brindisi, nel novembre di quell'anno, sposò Isabella, figlia di Giovanni re di Gerusalemme. Probabilmente era di nuovo in Sicilia, a Palermo, nel 1227. Nell'estate di quell'anno lo si ritrova in Puglia, in vista della crociata, che annullò attirandosi pertanto la scomunica nel settembre successivo. Ancora, nel 1233 fu impegnato a reprimere la sedizione scoppiata a Messina e a Centorbi (Centuripe) che distrusse, trasferendone gli abitanti di forza (ibid., a. 1233). Alla fine di quell'anno 1233 presiedette una Curia generale a Siracusa, nella quale legiferò sui matrimoni fra isolani ed "exteri". Nel gennaio del successivo 1234 tenne una Curia generale a Messina, ove concesse a sette città della parte peninsulare del Regno la facoltà di indire delle fiere annuali (ibid., a. 1234; v. Fiere e mercati). Nell'aprile del 1235 era nuovamente sulla via verso la Germania. Prima di partire affidò il governo del Regno a un collegio di vicari. Ma lo sciolse nel 1239, quando decise di riunire il Regno all'Impero per contrastare i progetti della coalizione antimperiale aggregata da papa Gregorio IX. E questi, in risposta, lo scomunicò. In Sicilia Federico tornò cinque anni dopo, nel 1240, soltanto per alcune settimane, per non più tornarvi in seguito. Le sue assenze, sempre più prolungate, rivelavano l'urgenza dei problemi che continuavano a impegnarlo in Germania e in Italia settentrionale, dove da tempo si era spostato il baricentro del governo dell'Impero e del Regno di Sicilia, che ne era parte, seppure formalmente diviso.
Il 25 febbraio 1251 la salma di Federico, che Manfredi trasferì da Ferentino a Palermo, fu tumulata nella cattedrale, accanto all'avo Ruggero II, al padre Enrico VI, alla madre Costanza, nel sarcofago di porfido rosso (il marmo dei sovrani) che egli stesso si era riservato da quando lo aveva fatto trasportare da Cefalù a Palermo (v. Tombe). La città che lo accolse era diversa da quella che egli aveva conosciuto nell'infanzia. Dagli anni Trenta del Duecento, lontana dai fasti e dai trambusti della vita politica, Palermo viveva una fase di profondo ricambio etnico, di evoluzione sociale, di trasformazione dell'identità culturale, e anche giuridica, se è vero che dall'inizio del secolo Federico diceva "cives" gli abitanti, che caricava, come quelli di ogni comunità demaniale, di oneri collettivi (gli "adiutoria", le collette), ma anche di responsabilità politico-amministrative e di rappresentanza innanzi alla Corona. Così il sovrano dava attuazione al suo programma di ordinamento delle strutture locali di governo.
Quel processo di ricambio sociale seguì al regresso e alla retrocessione della componente musulmana e all'inserimento dei nuovi inurbati che provenivano da vari luoghi dell'isola, e degli immigrati che continuavano a giungere dalla penisola. Tutti contribuirono alla crescita dei borghi contigui al Cassaro, i cui abitanti continuarono a rifiutare ospitalità ai nuovi venuti. E questi si stabilirono nel Seralcadi, nell'Albergaria, nella Kalsa, dove si impegnarono innanzitutto a ricominciare la propria esistenza, a raffrontare antiche e nuove esperienze, a comporre differenti modelli, a individuare gli interessi preminenti da assumere a nuova identità collettiva della comunità. Tutti insieme accelerarono il ricambio etnico e sociale della comunità, la quale già segnalava i tratti prevalenti della latinizzazione che avanzava nella vita civile, in campo sociale e politico-culturale: dalla toponomastica delle contrade rurali (Favara/Maredolce, Faxumeri/Falsomiele) alla denominazione dei borghi (Daynsin/Albergaria, Sheralcadi/Seralcadi, Khalesa/Calcia), degli spazi (da "bahr" a porta, da "shera" a ruga, da "ghirba" a casalino) e delle vie urbane (la "ruga Miney et Capici"). Sulla stessa via procedevano l'affermazione e la valorizzazione del corpo delle consuetudini, la cui tradizione normativa, fondata nell'età normanna, appare quale indice della crescita civile della comunità urbana, della maturazione di un'identità collettiva, riflessa appunto nelle consuetudini, riconosciute e condivise a regola e a tutela degli interessi comuni e reciproci, dei rapporti sociali, dei costumi della vita civile.
Quando finì il tempo di Federico alcuni nomi di famiglie di inurbati passati a Palermo da centri interni della regione, o di "exteri" immigrati dalla penisola, cominciarono a ricorrere con crescente frequenza fra quelli distinti dei professionisti del diritto, notai e giurisperiti, dei "magistri" artigiani, degli uomini d'affari, dei giudici cittadini, cioè dei pubblici ufficiali che componevano la curia baiulare, la giunta del governo cittadino presieduta dal baiulo. Emersero i nomi di alcune famiglie segnalate poi nelle cronache politiche del secolo. Ad esempio, il nome degli Afflitto, originari di Scala nella penisola sorrentina, si segnala a partire dal 1262-1263, quando un esponente della famiglia, Rainaldo, compare fra i giudici cittadini. Un'altra famiglia di immigrati, dalla "Lombardia" o forse ancora dalla Campania, i Tagliavia, compare dall'età di Manfredi, con Pietro, uno dei giudici cittadini nel 1256-1257, nel 1259-1260, nel 1261-1262. Un Costanzo Tagliavia compare nel 1265-1266, e poi, in età angioina, nel 1270-1271. Alla fine del secolo la dinastia dei sovrani aragonesi di Sicilia sosterrà l'ascesa sociale e pubblica dei Tagliavia, chiamati a ricoprire cariche di governo statale, nobilitati e beneficiati con la signoria di Castelvetrano.
Dagli immigrati dalla penisola passiamo alla mobilità sociale interna, che rileva l'arrivo a Palermo di "habitatores" di centri abitati costieri e interni dell'area occidentale dell'isola. È il caso del "prudens vir magister" Martino da Calatafimi (nel territorio di Trapani), che appare nel 1247 a Palermo quale giudice della curia del baiulo addetto ai contratti, vale a dire quale giudice cittadino la cui presenza e sottoscrizione legittimavano la stesura degli atti notarili. Quale giudice della curia baiulare si incontra ininterrottamente negli anni dal 1251 al 1254 e, ancora, nel 1257-1258. Nel 1253 è citato come "Advocatus Sacre Regie Aule". Ancora nel 1266 appare quale giudice ai contratti. Risulta titolare di un consistente patrimonio di beni immobili urbani, nel Cassaro, e fondiari, nelle contrade agrarie palermitane. Fra l'altro teneva un casale concessogli nel 1259 dall'arcivescovo Benvenuto di Monreale, in ricompensa dei servizi da lui resi al presule difendendolo da Manfredi di Svevia e da Enrico Abbate. Nel 1270, dopo avere superato il prescritto esame innanzi ai giudici della regia gran corte, fu abilitato quale giurisperito a esercitare in tutta l'isola la funzione di "advocatus", probabilmente di patrocinatore nelle aule di tribunale oppure di rappresentante giuridico di chiese e monasteri. Un figlio di Martino, il chierico Aldemaro, aveva in concessione dal vescovato di Mazara la chiesa di S. Nicolò di Carini, in territorio di Palermo, con le terre e le entrate pertinenti (Trasselli, 1965).
Ancora: un Giovanni Coppola era uno dei giudici nella curia baiulare cittadina nel 1255-1256; nel tempo del Vespro un Nicola Coppola apparirà come uno dei protagonisti della vita politica a Palermo, ove sarà eletto membro del governo della città come capitano accanto a personaggi quali Nicolò de Ebdemonia, Ruggero Mastrangelo, Enrico Baverio. Un Filippo Symonide si incontra quale giudice nella curia baiulare nel 1258-1259, nel 1259-1260 e ancora, nell'età angioina, nel 1279-1280. Nell'aprile 1282, all'indomani del Vespro, Iacopo Symonide ricoprirà la carica di primo cittadino, quale baiulo per il 1281-1282. Altrettanto distinta risulta la posizione dei Pipitono, dei quali conosciamo la storia a partire dal "civis Panormi" Matteo (I), "vallectus et fidelis" di re Manfredi, il quale, nel 1263, in ricompensa dei servizi, gli donò il "tenimentum terrarum" di Cinisi, in territorio di Palermo, e una casa nel quartiere del Cassaro. Alla fine del secolo la famiglia del "miles" Matteo (I) appartiene alla nobiltà cavalleresca e al ceto dirigente della città (D'Alessandro, 1994). Il nome dei de Mayda ricorre a partire da un Nicola morto nel 1115, come segnala l'iscrizione sul sarcofago nella chiesa di S. Nicolò (poi di S. Agostino) al Seralcadi, fondata dalla famiglia. Il nome dei de Mayda riapparirà dalla fine del Duecento e, con maggiore rilievo, nel secolo successivo, quando (1320) un senatore de Mayda, "miles" e "iuris civilis professor", terrà la carica di primo cittadino con il titolo di pretore, come a partire proprio da quell'anno sarà appellato l'antico baiulo. Dal 1263 compaiono i de Ebdemonia, i quali cresceranno nell'età angioina, quando, raggiunta la nobilitazione, collegheranno alcune famiglie della più antica nobiltà con alcune famiglie della nuova nobiltà dell'isola, per il matrimonio di Costanza, figlia del miles Nicolò de Ebdemonia, con il potente e influente Matteo da Termini (1279), i cui beni passeranno al congiunto conte Matteo Sclafani (Peri, 1982). Quelle unioni, in numero crescente, valsero a rafforzare, o a fare emergere, famiglie diverse per provenienza e percorsi sociali, in forza degli interessi economici e commerciali, prevalenti nella società urbana, che esse sapevano partecipare e radicare nella comunità attivando le forze sociali animate da aspirazioni comuni da promuovere. Il tempo di Federico si chiuse quando la componente 'latina' aveva già assunto la preminenza e la comunità urbana completò la transizione etnica e sociale che ne determinò i nuovi tratti culturali avanzati e rappresentati dall'emergente ceto politico e dirigente cittadino.
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